Non possiamo, non dobbiamo rassegnarci alla logica dei tagli lineari e a rigidi formalismi. Il compito della politica è proprio quello di operare delle scelte e la colpevole assenza, la clamorosa e persistente sottovalutazione dell’enorme potenziale che la cultura può offrire allo sviluppo del Paese non può essere sottaciuta. Un settore «trascurato per un lungo arco di tempo» dalle istituzioni, un problema che non nasce certo con questo Governo ed è la conseguenza di perduranti «incrostazioni burocratiche», della foresta di norme e autorizzazioni che frenano le scelte governative.
Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, prende la parola al termine dell’animata sessione mattutina agli Stati Generali della cultura. Ad ascoltarlo in platea, in prima fila il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi e i ministri della Giustizia, Paola Severino, e dell’Interno, Anna Maria Cancellieri. Napolitano prova anche in qualche modo a farsi interprete dei malumori che aleggiano in sala, sfociati anche nelle contestazioni ai ministri presenti al dibattito. Le proteste sono legittime, ma serve razionalità. Prima di tutto vanno chiariti i veri confini della questione. Non è corretto parlare di «emergenza cultura». Siamo in presenza di una ben più grave ed evidente trascuratezza che si protrae da un lungo arco di tempo.
I margini di intervento sono strettissimi. Napolitano richiama con decisione la necessità di finanziamento del nostro debito pubblico, che impone di impegnare ben 80 miliardi l’anno solo per interessi passivi («non possiamo giocare con il rischio fallimento»). E tuttavia pur nelle ristrettezze di bilancio, non tutte le spese possono essere collocate sullo stesso piano. Occorrono investimenti pubblici e privati. La cultura è la nostra risorsa naturale.
Ed è qui che Napolitano coglie i limiti e l’inadeguatezza delle scelte operate negli ultimi anni. Occorre sapere dire molti no, «ma di certo alla cultura bisogna dire molti sì». Il presidente della Repubblica fa suo il contenuto del «Manifesto per la cultura» lanciato dal Sole 24 Ore e ribadisce che l’investimento in questo settore strategico resta «il motore moltiplicatore dello sviluppo». Napolitano parla di vero assillo, di preoccupazione costante: come rilanciare la crescita e l’occupazione. Le responsabilità vanno individuate a tutti i livelli, dal governo nazionale e locale ai diversi soggetti della società civile. Spicca «la scarsa consapevolezza del nostro patrimonio». Basta rileggere quel che c’è scritto all’articolo 9 della Costituzione, uno dei principi fondamentali della Carta. «Una scelta meditata, lungimirante che abbraccia in due righe tutti gli aspetti che affrontiamo. Dobbiamo rendere omaggio a questi signori».
E come valutare quell’«oscuro estensore di norme» che in uno degli ultimi provvedimenti anticrisi aveva soppresso d’un colpo ben dodici istituti di ricerca? Tentativo poi finito in un cassetto, ma che rappresenta la spia «di cosa possa essere la peggiore mentalità burocratica nelle scelte del governo, che devono essere libere da queste incrostazioni». L’appello è forte, appassionato. «Dobbiamo salvaguardare una quota consistente di risorse per la cultura, la ricerca e la tutela del patrimonio e del paesaggio». È anche, certo non solo, questione di risorse: abbiamo una tradizione ed un prestigio nella ricerca che molti ci invidiano. Occorrono capacità progettuali e operative. Certo non tutto è difendibile: nelle nostre istituzioni, in tutti i settori occorrono scelte non conservative per le strutture e le realtà che sono venute incrostandosi. Guai se dovessero prevalere «atteggiamenti difensivi in termini di categorie».
In un quadro assai poco incoraggiante, Napolitano coglie comunque «segni di evoluzione nuova: diminuiscono le spese per consumi diretti ma non diminuisce la spesa culturale». Al governo Monti va il riconoscimento per aver contribuito a ripristinare la perduta credibilità internazionale del nostro Paese. Ma troppo poco è stato fatto per questo fondamentale settore in funzione dell’indispensabile sostegno alla crescita.
Il Sole 24 Ore 16.11.12
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«Ricerca, 120 milioni per fare rete» , di Carmine Fotina
Si è fatto troppo poco e un cambio di passo diventa ora la priorità. Dal Governo, attraverso gli interventi di quattro ministri agli Stati generali della cultura, giunge l’ammissione di una politica per la cultura poco coraggiosa, in un clima che a tratti si fa teso per le numerosi interruzioni che arrivano dalla platea, con le proteste e la richiesta di interventi concreti da parte di lavoratori della cultura e ricercatori.
I ministri difendono le ragioni delle scelte fin qui operate alla luce delle difficoltà delle finanze pubbliche, poi provano a fornire almeno primi segnali incoraggianti. Francesco Profumo, titolare dell’Università, istruzione e ricerca, e Corrado Passera (Sviluppo economico), in modi diversi aprono all’idea proposta dal Sole 24 Ore di creare un’Agenzia privata per l’esportazione della produzione creativa italiana, da finanziare con i proventi delle licenze sui nostri maggiori marchi culturali. Profumo annuncia un bando di gara del valore di 120 milioni per progetti di eccellenza nel campo della ricerca, con l’obiettivo di creare una rete tra università e mondo privato e facilitare la nascita di imprese innovative. Il bando, spiega, si colloca proprio «dentro l’idea proposta anche dal Sole-24 Ore di una Agenzia per la creazione e l’innovazione. In attesa di una struttura di questo tipo, intanto, si può partire con questo bando». Per altre iniziative, secondo Profumo, bisogna ragionare per elaborare un piano quinquennale e, nell’immediato, puntare sulla legge di stabilità: «Chiederò che al Senato sia data un’attenzione particolare al tema della formazione così come accaduto finora per le famiglie».
«Lavoriamoci» esordisce il ministro Passera in riferimento all’idea dell’Agenzia. «Si può fare, in un’ottica di sistema». Quanto al ruolo del pubblico, «possiamo attivarci per allargare al tema specifico della cultura le responsabilità dell’Ice, anche con persone dedicate». Ma ancora molto altro, riconosce, si può fare. Cita la leva fiscale, da usare con più intelligenza, «con meccanismi come il tax shelter che ha permesso di attivare nel cinema investimenti che altrimenti non sarebbero arrivati», e la Rai, da sollecitare attraverso il contratto di servizio, perché conceda più spazio ai temi culturali. Di strada da recuperare ce n’è tanta. «Riconosco che è una vergogna l’attuale situazione delle risorse alla cultura» dice Passera. Poi il pensiero si allarga e precisa le ragioni «insuperabili» di questa impasse. «In un certo senso mi trovo a giustificare una cosa che è sbagliata, perché in questi nove mesi ci siamo trovati a gestire un’emergenza clamorosa, fino al rischio di vederci commissariati. Non abbiamo dato la necessaria importanza alla cultura ma, passata l’emergenza, bisogna fare molto di più». Nel ruolo più delicato il titolare della materia, il ministro dei Beni e le attività culturali, Lorenzo Ornaghi, accusato da alcuni giovani in platea di esporre il tema come un mero economista, ma anche incalzato dalle domande del direttore del Sole-24 Ore, Roberto Napoletano, e dagli interventi dell’archeologo Andrea Carandini, di Ilaria Borletti Buitoni (Fai), Lamberto Maffei (Accademia Lincei) e Carlo Maria Ossola (Collège de France). «In questo momento difficile per il Paese, il ventaglio delle scelte ragionevoli si riduce, per la cultura dobbiamo fare le scelte migliori» ragiona Ornaghi, ammettendo che le risorse del suo ministero «dopo una lieve crescita quest’anno torneranno a diminuire leggermente nel prossimo anno». È inutile però il rivendicazionismo fine a se stesso: «La soluzione – per il ministro – è uscire dalle lamentele, fare un’operazione di buon uso delle risorse e puntare sulle cooperazioni con gli altri ministeri, con gli enti territoriali, con il privato sociale e le associazioni».
Ma non basta. Vanno spese, e bene, le risorse che, anche per la cultura, arrivano dalla Ue. Il ministro responsabile è Fabrizio Barca (Coesione territoriale) che rivendica la riprogrammazione di risorse che in passato sono state gestite male, malissimo, dalle Regioni. Le risorse sprecate per Pompei, in questi anni, sono diventate la metafora della nostra perdita di credibilità all’estero. «Ma siamo finalmente riusciti a cambiare passo – dice Barca –. Abbiamo stanziato 150 milioni e siamo sicuri che stavolta funzionerà, anche perché un prefetto vigilerà sull’andamento dei progetti così da preservarli dalla criminalità». «Sono stati aggiudicati sei bandi – aggiunge il ministro – e posso annunciare che entro dicembre avremo i cantieri aperti, in tempo per tornare a Pompei a gennaio con il commissario Ue Hahn per dare una nuova immagine del Paese».
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“Dalla platea critiche ai ministri: servono più fondi”, di Nicoletta Cottone
Applausi per Amato quando ha criticato il degrado romano e platea in piedi per il Capo dello Stato.
Una platea gremita di operatori del settore, artisti, studenti, rappresentanti delle istituzioni, quella del teatro Eliseo di Roma, che ha ospitato ieri gli Stati generali della cultura, evento organizzato dal Sole-24 Ore, dall’Accademia dei Lincei e dall’Istituto dell’Enciclopedia italiana. Accorsi tanto numerosi che è stato necessario aprire anche la sala del teatro Piccolo Eliseo per accoglierli. Ottomila persone hanno seguito l’evento, 7mila in diretta web e mille nelle platee dei due teatri. È emersa un’Italia che vive sulle spalle di un grande passato, che deve riscoprire la centralità della cultura come motore dello sviluppo economico-sociale del Paese.
Un evento aperto al mondo della cultura dal quale è emerso evidente il malumore del settore verso le scelte in campo culturale del Governo. Tanto che i discorsi dei ministri Lorenzo Ornaghi, Francesco Profumo e Fabrizio Barca sono stati più volte interrotti dalla platea con richieste di concretezza e manifestazioni di ansia sul futuro.
«Ministro perché non ci dice cosa sta succedendo? Siamo stanchi di sentire solo parole», ha detto uno spettatore dalla terza galleria del teatro Eliseo al ministro della Cultura Ornaghi. Per il ministro il nodo è il «buon uso delle risorse».
Anche il ministro Profumo è stato interrotto più volte: da una studentessa che chiedeva certezze per il suo futuro, da una signora che criticava i soldi dati alla scuola privata, da un uomo sulla riforma Fornero.
Più tardi è la volta del ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. «Una platea che sembra il Sulcis», ha detto il ministro, interrotto dalle domande del pubblico, presenti anche gli occupanti del Teatro Valle. Barca ha detto che ciò che «unisce il Sulcis al mondo della cultura sono i tanti progetti fatti in passato. Progetti cattivi e inesistenti». Ha sottolineato che quella del pubblico è «una vivacità che segnala il ritorno di domanda e di voce». Ha detto che «il confronto informato è il sale della democrazia, aiuto per noi e per il prossimo governo». Applausi hanno invece accompagnato l’intervento di Giuliano Amato, presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani. Scroscianti quando ha detto che non è giusto far degradare i beni storici e artistici, esporli all’abbandono, al turismo di massa, alla devastazione.
Nel mirino «i pullman che sconvolgono il traffico romano, che sconnettono i sampietrini, che impediscono la vista». Cose che non accadono «in nessuna città d’arte che abbia il rispetto di sé».
Standing ovation per il capo dello Stato Giorgio Napolitano. Applausi continui, fin dal suo arrivo in sala e poi nel corso del suo intervento, quando ha preso la parola per nulla intimidito dai battibecchi del pubblico con i ministri. Applausi quando ha detto «basta tagli lineari», «la politica deve scegliere»: «Devono essere detti più sì per cultura, ricerca e tutela del patrimonio». Che si ripetono mentre il presidente parla a braccio su appunti presi dopo aver ascoltato tutti, e va diretto al punto: in Italia, dice, «esiste da decenni, una sottovalutazione clamorosa della cultura, della formazione, della ricerca da parte delle istituzioni rappresentative della politica, del Governo, dei governi locali, ma anche della società civile».
Ricorda la necessità per il Paese di «fare i conti con un indebitamento pubblico tremendo», dice che «non possiamo giocare con il rischio di fallimento», ma invita a salvaguardare dai tagli i settori già troppo provati della cultura. Conquista il pubblico parlando di innovazione, sburocratizzazione e anche di un miglior uso delle scarse risorse disponibili. Dice che esiste «una questione di soldi, ma anche di capacità progettuale, organizzativa, gestionale».
Le sue parole, hanno commentato alcuni spettatori, rappresentano una speranza di riscossa per la cultura italiana.
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“Impresa e ricerca insieme: meno burocrazia e fisco”, di Carmine Fotina
Non è solo questione di risorse. Le leve per passare dalla cultura a una vera industria culturali sono molteplici, non sempre onerose. C’è il fisco, ovviamente, ma c’è anche tanta semplificazione nelle idee che arrivano dagli operatori economici e della ricerca.
Alessandro Laterza, presidente della commissione Cultura di Confindustria, presenta un pacchetto di proposte molto precise. «Parto dal sistema delle detrazioni per le erogazioni liberali, che oggi, numeri alla mano, non risulta invitante. In base agli ultimi dati disponibili, del 2010, dalle imprese sono arrivati solo 26 milioni, soprattutto di banche, assicurazioni, grandi compagnie pubbliche o parapubbliche. Dai privati cittadini ed enti non commerciali solo 29 milioni, quasi tutti dalle Fondazioni. Cifre non irrilevanti ma inadeguate a una realtà come quella italiana che, solo per fare un esempio, conta 11mila mostre all’anno».
E non è difficile capire i motivi di una performance così contenuta. «Le procedure – aggiunge Laterza – sono scoraggianti, la prima proposta riguarda il modo in cui possiamo semplificare al massimo, e democratizzare anche, la partecipazione a quanto può risultare un investimento, non una spesa, in beni e in attività culturali». Del resto, aggiunge Laterza, non si può pensare di ricorrere sempre e comunque alle sponsorizzazioni, «che sono integralmente deducibili ma alla fine si rivolgono quasi esclusivamente ai grandi musei».
Il tema fiscale occupa un posto centrale. «Le agevolazioni per ristrutturazioni edilizie, così come concepite – prosegue Laterza – non valorizzano edifici di interesse culturale o vincolato. E che dire dell’Imu? Mi sembra insensato farla pagare per strutture di rilevanza storica. Si tratta di un tema che va considerato al pari del fatto che tutto ciò che riguarda sia i manufatti sia i beni archeologici oggi non è oggetto di alcuna forma di agevolazione anche dal punto di vista degli sconti sull’Iva. Eppure è sufficiente un repertorio, di quanto può essere oggetto di incentivi o agevolazioni».
Quello di Ilaria Capua, biologa e veterinaria dell’Izs delle Venezie, è invece un vero appello a salvare i ricercatori – quelli che chiama «veri eroi della patria» – dalle sabbie mobili della burocrazia e, talvolta, dell’indifferenza. «Di solito mi occupo di virus e di emergenze – esordisce –. Oggi però voglio raccontarvi che c’è un’altra emergenza in Italia che riguarda la cultura scientifica». «Ho un gruppo di 70 persone e mantengo 45 precari della ricerca – racconta –. Lo faccio con moltissimo orgoglio, con fondi che arrivano da tutto il mondo: dal l’Unione europea, dalla Fao, da aziende che ci finanziano per fare ricerca».
È un’esperienza sul campo, da ricercatrice premiata a livello internazionale, quella di Ilaria Capua. «Quello che vi chiedo – dice appellandosi al presidente Napolitano e ai ministri – è di aiutarci. Aiutateci a lavorare bene. Noi siamo impigliati nelle lunghezze e nella colla della burocrazia.
Molto spesso non riusciamo neanche a spendere i soldi disponibili». A lei, a Ilaria Capua, si rivolgerà nel suo intervento il presidente Napolitano, per esaltare «le energie vive dell’Italia, talenti e prestigio di cui molti, ad ogni livello nella sfera istituzionale e nel l’opinione diffusa, non si rendono conto».
Il Sole 24 Ore 16.11.12
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Sisma, deputati “Con decreto del Cdm primo obiettivo raggiunto”
I liberi professionisti sono stati inseriti tra le categorie che accedono ai finanziamenti. C’è l’impegno del Governo a inserire i liberi professionisti nel novero delle categorie che accedono ai finanziamenti per le popolazioni colpite dal sisma del maggio scorso. Uno dei tre obiettivi che i parlamentari Pd Manuela Ghizzoni, Ivano Miglioli e Giulio Santagata si erano prefissi con il loro ordine del giorno è stato quindi raggiunto. Gli altri nodi dovranno ora essere sciolti al Senato.
“Uno dei tre obiettivi posti dal nostro ordine del giorno, che impegnava il governo a introdurre normative atte a risolvere i principali problemi ancora aperti sul versante fiscale, è stato raggiunto. – lo dichiarano i deputati modenesi del Pd Manuela Ghizzoni, Giulio Santagata e Ivano Miglioli, dopo il varo da parte del Consiglio dei Ministri di un decreto di completamento della disciplina di accesso ai finanziamenti per le popolazioni colpite dal sisma del maggio scorso. – A quanto si apprende il Governo, con il decreto che estende l’accesso ai finanziamenti anche ai liberi professionisti fino ad ora rimasti esclusi da ogni intervento di sostegno, rimedia al vuoto normativo. Restano in campo ancora gli altri nodi da sciogliere.
Al Senato, durante i lavori di conversione in legge del decreto 174, si potrà provvedere – spiegano i deputati – all’estensione delle misure di agevolazione per le aziende e gli esercenti di attività commerciali o agricole che hanno avuto un danno al reddito della propria impresa, oltre che all’introduzione per i lavoratori del meccanismo della cessione del quinto dello stipendio per i contributi previdenziali e assistenziali e dei premi per l’assicurazione, al fine – concludono Ghizzoni, Miglioli e Santagata – di favorire la ripresa economica dell’area.”
“I troppi buchi della legge 40”, di Luca Landò
Pezzo dopo pezzo, comma dopo comma. A otto anni di distanza la legge sulla fecondazione assistita si è trasformata in un lenzuolo bucato, un groviera normativo ben diverso dall’impianto legislativo che nel 2004 divise il Paese a metà. L’ultimo colpo è arrivato ieri. Si tratta della sentenza con cui il Tribunale di Cagliari ha riconosciuto il diritto di una coppia (lei talassemica, lui portatore sano) di ricorrere alla diagnosi preimpianto dell’embrione. Un diritto che la legge non nega ma nemmeno difende, lasciandolo così facile preda delle interpretazioni di comodo e dei governi di turno.
È quello che successe con le linee guida del ministro Sirchia che durante il governo Berlusconi di fatto bloccò l’applicazione delle analisi preimpianto parlando di un loro utilizzo a solo scopo «osservazionale». Espressione contorta per dire che le analisi, anche se eseguite, non avrebbero mai potuto impedire l’inserimento dell’embrione, nemmeno di fronte alla certezza di una grave patologia.
Il risultato è che oggi dei 76 centri pubblici che effettuano la «procreazione medicalmente assistita» nessuno (nessuno) offre quella diagnosi preimpianto che pure era stata autorizzata nel 2008 dalle linee guida di Livia Turco, ministro della Salute dopo Sirchia, e dalle numerose sentenze che si sono succedute in otto anni.
La sentenza di ieri non è dunque una bocciatura della legge 40 ma un intervento che toglie la diagnosi dell’embrione da un pericoloso e ambiguo limbo normativo che la legge conteneva e permetteva. E stabilisce, una volta per tutte, che quelle tecniche sono utili, dunque preziose per la vita della donna e di chi nascerà. La vicenda della coppia di Cagliari è indicativa: lei affetta da talassemia, lui portatore sano. In base alla legge 40 potrebbero accedere alla procreazione medicalmente assistita perché infertili ed eseguire una diagnosi preimpianto per verificare, prima dell’inserimento in utero, se l’embrione è affetto dalla patologia dei genitori. Ma il laboratorio si rifiuta, lasciando la coppia di fronte a due possibilità: rinunciare alla diagnosi e correre il rischio, oppure rivolgersi ad una struttura privata dove i costi si aggirano però intorno ai 9.000 euro a ciclo. Seguono invece un’altra strada. E si rivolgono a un tribunale.
Contando i ricorsi per correggere le singole parti della legge (come la possibilità di congelare gli embrioni, di fare analisi preimpianto, di abolire il limite dei tre embrioni per ciclo di fecondazione) sono già venti le volte in cui i giudici sono intervenuti per affermare i diritti delle coppie secondo lo spirito della Costituzione anziché gli articoli della legge 40. E sono ben cinque le pronunce con le quali la Corte costituzionale ha di fatto «riscritto» il testo normativo: non male per una legge che l’allora maggioranza berlusconiana volle con forza, anche a costo di creare fra i cittadini un improbabile confronto tra Guelfi e Ghibellini della bioetica su una materia tanto delicata quanto complessa.
Il risultato è una normativa fuori dal tempo e dalla realtà che non tiene conto né delle conoscenze scientifiche raggiunte né del calvario cui vengono in questo modo poste le coppie che ricorrono alla fecondazione assistita. Non solo quelle affette da infertilità, ma anche uomini e donne portatori di patologie serie e che vorrebbero evitare di mettere al mondo un figlio malato gravemente o ricorrere all’aborto terapeutico. Perché questo, non altro, è l’esito di una legge sulla fecondazione assistita che vuole ostacolare, anziché favorire, l’uso delle analisi preimpianto dell’embrione.
Un ultimo punto. La scorsa estate il governo ha annunciato di voler ricorrere contro la sentenza emessa il 28 agosto dalla Corte di Strasburgo proprio sul tema delle diagnosi preimpianto. Viene da chiedersi se, alla luce di questo nuovo pronunciamento e di quelli collezionati finora, sia davvero il caso di portare a livello europeo la difesa di una legge, non solo sbagliata ma anche malfatta; o non sia più opportuno ragionare sul lungo elenco di bocciature e correzioni che arrivano dai tribunali e dai cittadini. Non vorremmo sbagliare ma anziché sostenere a oltranza la legge 40 forse è arrivato il momento di prendere una decisione. Anzi due: ammettere l’errore. E ricominciare da capo.
L’Unità 16.11.12
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Diagnosi preimpianto. La legge 40 è a pezzi
Il tribunale di Cagliari ordina all’ospedale di eseguire l’esame Affossato l’emendamento per il disconoscimento dei bambini «in provetta»
di Jolanda Bufalini
Nuovi fuochi si accendono attorno al totem ideologico della legge 40 sulla procreazione assistita, come avviene, con regolarità, quando si avvicina lo scontro elettorale. Le soluzioni di buon senso per risolvere i problemi che affliggono le coppie sterili e le donne con il loro desiderio di maternità si allontanano e si riattizza la contrapposizione ideologica che lascia irrisolte le questioni.
Ieri gli episodi sono stati due: l’affossamento, in commissione Affari sociali, di un emendamento alla legge 40 presentato dall’onorevole Antonio Palagiano (Idv) su cui erano d’accordo tutti i gruppi. Si prevedeva che le donne che hanno concepito un figlio con la procreazione assistita possano disconoscere, alla nascita, il bambino. L’altro episodio è avvenuto a Cagliari dove un giudice ha deciso in favore di una coppia (la donna è talassemica) che si era vista negare dalla struttura pubblica l’indagine prenatale.
Quello del disconoscimento è un diritto di tutte le donne: nella ratio c’è soprattutto il proposito di scoraggiare l’aborto. Un figlio indesiderato può vedere la luce in ospedale, con la garanzia per la madre dell’anonimato. Estendere la norma a chi ha fatto ricorso alla provetta risponde a un principio di uguaglianza. Ma, quando sembrava che l’emendamento potesse passare in commissione, con i tempi veloci che la discussione d’Aula preclude, pare ci sia stata una riunione informale della commissione Affari costituzionali, alla presenza del sottosegretario Cecilia Guerra. «Questa norma si è sostenuto apre la porta all’utero in affitto, in questo modo una coppia gay può, in accordo con la donna che disconosce, avere il figlio».
Chi dice queste cose, reagisce il professor Carlo Flamigni, «è malvagio», «è qualcuno che pensa male delle donne, le guarda con sospetto, le considera sciocche e facilmente portate a sbagliare». Fa un esempio concreto: «Può darsi il caso che una donna che ha fatto ricorso alla procreazione assistita venga abbandonata dal marito e, al momento di partorire, non sia in condizione di mantenere il bambino che nascerà». È un problema di eguaglianza, «per il resto sono sufficienti le leggi che vietano in Italia l’utero in affitto. Prima siamo tutti eguali poi, il legislatore, se teme delle scappatoie, provvederà con le eccezioni».
A guidare le file dei sospettosi Eugenia Roccella, “madrina” della legge 40: «Bisogna garantire che non vi siano forme surrettizie di commercio intorno alla procreazione assistita, e non si possa aggirare il divieto di fecondazione eterologa». «La norma della legge 40 aggiunge Roccella è un concreto ostacolo a forme più o meno mascherate di mercato del corpo, come per esempio l’utero in affitto». Con lei Paola Binetti (Udc), Carlo Casini del Movimento per la vita, Barbara Saltamartini (Pdl).
Risponde Margherita Miotto, capogruppo Pd agli Affari sociali: «Non sono a conoscenza di contesti informali. Il Pd ha sostenuto l’emendamento Palagiano con forte convinzione. Le ipotesi su utero in affitto o affidamenti alle coppie gay sono frutto di inutili dietrologie. Quella è una norma riconosce l’uguaglianza tra la maternità naturale e quella assistita, non apre nuovi scenari, peraltro vietati dalla legge». Maria Antonietta Farina Coscioni: «Mettere in discussione la legge 40 sembra essere qualcosa di scandaloso».
Invece la legge sulla procreazione assistita esce ancora una volta malconcia dalla sentenza di Cagliari. In origine la legge 40 proibiva non le indagini preimpianto ma il congelamento degli embrioni, norma caduta per effetto di una sentenza della Corte costituzionale del 2009. Livia Turco: «La legge 40 è pasticciata perché è ideologica. Dobbiamo modificarla nel cuore, cioè nel concetto di infertilità. Il testo attuale esclude quella derivante da gravi malattie, circostanza che rende una maternità rischiosa per la salute della donna e del bambino». La sentenza di Cagliari è la «numero 19 contro una legge ideologica», commenta Emma Bonino.
L’Unità 16.11.12
Zagrebelsky: “I valori della Costituzione per battere i nichilisti e il vuoto della politica”, di Carmelo Lopapa
«Intorno a noi, vuoto politico. Ci voleva tanto a capire che la tecnica non basta a governare un Paese? Il governo tecnico poteva essere una medicina, ma la parola avrebbe dovuto riprendersela al più presto la politica. Ci voleva tanto a immaginare il logoramento che si sarebbe determinato: astensionismo, violenza, rifugio in forme di protesta elementari, prepolitiche? Siamo ancora in tempo per riprendere in mano politicamente la situazione, o non siamo più in tempo? Questa è la domanda». C’è preoccupazione nella riflessione di Gustavo Zagrebelsky. Nel “Manifesto di Libertà e Giustizia”, da lui appena elaborato, viene indicata una possibilità, singolarmente consonante con quanto scrive Salvatore Settis nel suo ultimo libro che porta il sottotitolo “ritornare alla politica, riprendersi la Costituzione”.
Come affrontare l’emergenza, professore, ora che le piazze italiane somigliano a quelle di Atene e Madrid?
«Innanzitutto, invito a distinguere. Come sempre nei momenti di crisi, una parte della società sta a guardare, cercando di difendere posizioni e privilegi, per poi, eventualmente, schierarsi col vincitore. All’opposto, par di vedere atteggiamenti — alimentati da parte della stampa — schiettamente nichilistici: distruggiamo tutto, poi si vedrà. Infine ci sono coloro che comprendono e vivono le difficoltà del momento e non aspettano altro che potersi identificare in qualcosa di nuovo, per muovere in una direzione costruttiva. Tra questi, ci sono, oggi, molti passivi, solo perché non si mostra loro come e perché possano rendersi attivi».
Per la verità il Movimento 5 Stelle Grillo sembra, eccome, svolgere una funzione mobilitante.
«Sì. Ma bisogna onestamente dire che non sappiamo come e verso che cosa questa mobilitazione s’incanalerà. Non sappiamo se c’è un rapporto causa-effetto nella circostanza che, in Italia, dove esiste il M5S, non abbiamo avuto (finora?) l’esplosione di movimenti d’ultra destra, razzisti, nazionalisti. Se il rapporto c’è, dovremmo essere grati. Ma non conosciamo quale sarà l’esito: potrà costruire
qualcosa o sarà votato alla distruzione? Su questo punto, sarebbe bene che i suoi sostenitori si ponessero domande fondamentali».
Si riferisce all’assenza di programma?
«No. Il programma c’è e non si può dire che sia più vuoto di quello di tanti partiti. Ma io penso ad altro, alla concezione della democrazia ».
Che vuol dire?
«La democrazia del M5S vuole essere, attraverso l’uso della rete, una forma di democrazia diretta. Ma si dovrebbe sapere che la democrazia diretta come regola è solo la via per il plebiscito. L’idea della sovranità del singolo, il quale versa la sua voce nel calderone informatico, è un’ingenuità, un inganno. Su questo punto, il movimento di Grillo dovrebbe essere incalzato. Invece di scagliare vuote parole come “antipolitico”, si dovrebbe spiegare che cosa è una forza politica basata sulla rete: democrazia diretta, sì; ma diretta da chi? La rete informatica può facilmente essere una rete nelle mani di uno o di pochissimi. Il leaderismo del periodo di Berlusconi si nutriva almeno di pulsioni populiste. Qui, il controllo dall’alto, a onta dei bagni di folla puramente spettacolari, si prospetta come un algido collegamento – nemmeno definibile rapporto – telematico».
Vuol dire che diventerebbe una democrazia eterodiretta?
«La logica parlamentare consiste nel dialogo e nel compromesso. Quando una spina di — si dice — centocinquanta deputati diretti dal web sarà piantata in Parlamento, che ne sarà di questa logica? La nostra democrazia rappresentativa già fatica, anche a causa dei tanti “vincoli di mandato” che legano i deputati
a lobbies e corporazioni. Che cosa succederà in presenza d’un gruppo consistente che, per statuto, deve operare irrigidito dalla posizione che è in rete: o sarà ridotto all’impotenza, o ridurrà all’impotenza l’istituzione parlamentare».
Quale alternativa offrite col “Manifesto di Libertà e Giustizia”?
«Può sembrare un ritorno all’antico. È la Costituzione. Non è una parola vuota, ma svuotata. Sono decenni che la si vuole cambiare
e, con ciò, s’è dato da intendere che è superata. Invece non è affatto superata. La Costituzione non contiene la soluzione dei nostri problemi, ma la direzione da seguire per affrontarli. E questa traccia è contenuta nel più elevato, nel più pensato, nel più denso di consapevolezza storica tra i documenti politici che il popolo italiano abbia prodotto».
Può fare qualche esempio?
«Basta scorrerne gli articoli, a partire dall’articolo 1, dove si parla del lavoro — non della rendita, non della speculazione, nemmeno della proprietà (che pure è riconosciuta e tutelata) — come fondamento della Repubblica. Non mi faccia fare un elenco. Ma voglio solo ricordare l’importanza che la Costituzione attribuisce alla cultura (non alla “tre i”) e alla scuola (pubblica), come premesse, o promesse, di cittadinanza».
Nel confronto tv per le primarie, nessun candidato del centrosinistra ha inserito nel suo Pantheon personaggi della fase costituente.
Che dire?
«Sciocca la domanda (non la sua, ma quella del conduttore), e sciocchissime le risposte. Invece di qualcuno che abbia a che fare con la loro formazione politica, con la propria identità, hanno evocato dal nulla nomi di degnissime persone, Papa Giovanni, Mandela, Martini… Io, avrei potuto, allo stesso titolo, dire Giovanna d’Arco. Si è speculato sull’alta dignità di uomini assenti che avrebbero potuto dirti: ma come ti permetti d’utilizzarmi per farti bello, anzi per farmi fare da specchietto per allodole? Vuote e piuttosto ridicole parole».
Nel vostro Manifesto, c’è, appunto, un atto d’accusa contro le «parole vuote» della politica.
«Sì. Il Pantheon suddetto appartiene alle parole vuote. Ma poi riforme, innovazione, giovani, condivisione, merito, e tante altre. Qualcuno è contro i giovani? Qualcuno e per il de-merito? Bisognerebbe, per non inzupparci di parole inutili, seguire questo criterio: ciò che è ovvio, non deve essere detto».
Vi obietteranno che rischia di esserlo anche la fase costituente.
«No, No! Non “fase costituente”, ma “fase costituzionale”!».
Ci spieghi.
«Vuol dire riportare la Costituzione al centro. Vorremmo un partito che dicesse: il mio programma è la Costituzione, il ripristino della Costituzione, nella vita politica, nella coscienza degli italiani: uguaglianza, libertà, diritti civili senza veti confessionali o ideologici, partiti organizzati democraticamente. Qualcuno dei nostri politici sa quale entusiasmo si suscita quando si parla di queste cose con la passione che meritano? E quale senso di ripulsa, invece, quando si parla dei partiti? ».
In questi tempi, in effetti, pare che tutto ciò che i partiti toccano si trasformi in rifiuto.
«Non bisogna generalizzare. Anzi, occorre aiutare a distinguere. Per questo, se un partito “toccasse” la Costituzione in modo corretto, per farsene il manifesto, ne uscirebbe nobilitato. Aggiungo: se lo facesse in modo credibile, otterrebbe una valanga di voti. Nel referendum del 2006, quasi 16 milioni di cittadini hanno votato per la difesa di questa Costituzione, contro le improvvisazioni costituzionali, magari coltivate per anni, ma sempre improvvisazioni».
La Repubblica 16.11.12
L’Italia e Ue si adoperino per fermare le violenze
“Ci appelliamo accoratamente affinché si interrompa la spirale delle violenze che è ripresa nella striscia di Gaza e in Israele”, ha dichiarato Lapo Pistelli, responsabile Esteri del PD. Abbiamo la consapevolezza che le tensioni di queste ore e la crisi siriana con l’allargamento degli scontri in Libano rischiano di incendiare l’intero Mashreq. Chiediamo perciò al governo italiano e all’Unione Europea di adoperarsi con energia per disinnescare questo clima, poiché nessun incendio può essere spento versando altra benzina”.
“La comunità internazionale non può restare ferma a guardare quella che si annuncia come una nuova incombente tragedia”, ha esortato il senatore del PD Pietro Marcenaro, Presidente della Commissione Diritti Umani del Senato.
“Già in troppi si affrettano ad attribuire ragioni e torti: il nostro compito, nei limiti del nostro ruolo e delle nostre possibilità, è che le tante ragioni e i tanti torti trovino una via di confronto e di composizione diversa dalla violenza e dalla guerra”.
Marcenaro è stato nominato nella giornata di ieri nuovo relatore del Consiglio d’Europa per il Medio Oriente, in seguito agli sviluppi a Gaza, in sostituzione del greco Costantino Vrettos. Un altro italiano – l’attuale sindaco di Torino,Piero Fassino – aveva ricoperto in precedenza lo stesso incarico.
www.partitodemocratico.it
“Il Garante batte un colpo, addio privilegi Mediaset”, di Giovanni Cocconi
Un piccolo passo per la concorrenza, un grande passo per il paese. Erano molti anni che non ricordavamo una decisione di Agcom che scontentasse i duopolisti Rai e Mediaset, soprattutto Mediaset. E invece questa volta il Garante delle comunicazioni ci ha stupito e, con il voto decisivo del presidente, il bocconiano e montiano Marcello Cardani, ha di fatto escluso dalla prossima asta per le frequenze il Biscione, che come la Rai possiede già cinque potenziali multiplex.
Il fatto che si sia trattato di una decisione sofferta (i due consiglieri in quota Pdl si sono astenuti), arrivata grazie all’intervento fondamentale dell’Unione europea, la dice lunga sulla resistenza del conflitto d’interessi nel nostro paese, che in tutti questi anni ha di fatto paralizzato l’Agcom gestione Calabrò, tra veti incrociati, rinvii, decisioni pilatesche, ambiguità.
È presto per dire se per Mediaset la lunga stagione della rendita politica si sia chiusa per sempre. Ma un anno fa, alla nascita del governo dei tecnici, l’asta delle frequenze non era nemmeno prevista e il beauty contest prevedeva venissero regalate a Rai e Mediaset. Qualcosa è cambiato.
da Europa Quotidiano 16.11.12
“Se la rete familiare non regge più”, di Elisabetta Gualmini
Questa volta non si tratta dell’annosa e arcinota questione giovanile. Dietro alle proteste e alle violente manifestazioni di piazza di ieri l’altro, in tante città italiane, c’è un’altra storia. Un cambiamento che colpisce tutta la società italiana, senza andare per il sottile, e che crea faglie sismiche tra generazioni, classi professionali, categorie con diversi tipi e livelli di istruzione. Il modello familistico è definitivamente finito. Le reti familiari di protezione sociale, rifugio di ultima istanza per intere generazioni di figli e di anziani non ancora o non più attivi, non sono più sufficienti per tappare i buchi di un welfare pubblico prosciugato, di un mercato del lavoro asfittico e di imprese in ginocchio. Basta guardare alle differenze tra la prima fase recessiva della crisi in corso (2007-2009) e la seconda. Dal 2010 in poi, non abbiamo solo perso di posti di lavoro (non solo tra i giovani); c’è stato anche un aumento imponente dell’offerta di lavoro, cioè del numero di persone disponibili a cercare un impiego. Lo spiega bene Stefania Tomasini nell’ultimo numero della rivista «Il Mulino» (5/2012). Sono per lo più le donne e le fasce di lavoratori più anziani (55-64 anni) che dopo essere rimasti ai margini del mondo produttivo, perché scoraggiati, si vedono «costretti» ad entrarci di nuovo per compensare la fragilità finanziaria della propria famiglia. A fronte della perdita o della riduzione del reddito di un familiare, donne, giovani e lavoratori anziani si (ri)mettono in gioco, per spirito di sopravvivenza, accentuando la competizione al ribasso con i propri figli e i figli degli altri, con i propri coniugi e i coniugi degli altri.
L’esplosione numerica di questi «lavoratori addizionali» è sorprendente: dall’estate 2011 all’estate 2012 quasi 800 mila persone in più si sono riversate nel mercato produttivo, disposte a tutto pur di acchiappare prima degli altri un brandello di lavoro.
Cosicché, i ragazzi scesi in piazza ieri, gli adolescenti e i ventenni che urlavano contro la globalizzazione dei mercati e delle banche, contro l’austerità e i tagli alla scuola, se guardano avanti vedono ben poca luce (semmai uno slalom sfinente tra lavori e lavoretti con un punto di approdo su cui cala una nebbia sempre più fitta).
Ma, se guardano indietro, vedono madri e padri spesso già entrati, essi stessi, nella medesima sindrome falcidiante del precariato, dell’intermittenza del reddito e del deterioramento delle condizioni di vita.
I dati Istat più recenti (2012) ci dicono che le aree del non lavoro e della precarietà non sono più dei tabù per gli adulti. Il tasso di disoccupazione della classe di età 45-54 è salito dal 4,5 nel 2010 al 6,7% nel 2012; stessa dinamica per i lavoratori più anziani (55-64), con un salto dal 3,5 al 5% nello stesso periodo. Considerando infine i lavoratori atipici sopra i 34 anni, si scopre come la quota dei 45-54enni e degli over 55 stia crescendo ininterrottamente negli ultimi due anni.
Se si ricompone il puzzle, la scena è quella di una guerra tra poveri, all’interno delle stesse famiglie. Con relazioni sociali scassate che sarà difficile ricucire. Un contrappasso che brucia come la febbre in un Paese in cui il familismo ovattato, nel bene e nel male, è stato il più grande strumento di ammortizzazione e coesione sociale. E da qualunque punto di vista si guardi al problema non esistono soluzioni facili. Né tantomeno immediate.
Ed è stato ingeneroso il no a correnti unificate da parte dei candidati alle primarie alla riforma Fornero, certamente perfettibile (sull’applicazione dell’articolo 18 in primis), ma che ha osato laddove nessuno sinora lo aveva fatto (ad esempio riordinando gli ammortizzatori sociali ed estendendone la copertura).
Piuttosto, per essere onesti, chi si candida a governare il Paese dovrebbe dire a quali facili promesse rinuncia e quali invece pensa di poter concretamente onorare. In un clima di disagio asfissiante e generalizzato.
Dicendo la verità e indicando una direzione nuova non solo, necessariamente, lastricata di sacrifici. Sia ben chiaro che l’invasione delle piazze di ieri l’altro non era una domanda di meno politica, ma era una domanda di più politica. A questa domanda qualcuno deve saper rispondere.
La Stampa 16.11.12
