La volta scorsa abbiamo parlato del “giacimento” del lavoro femminile, una fonte dormiente di crescita economica, una risorsa da sfruttare se si vuole continuare nella corsa al benessere – almeno a quello materiale. Ma qui è in gioco qualcosa di più del benessere materiale. Qual è lo scopo ultimo del sistema economico: produrre sempre di più, o dare a tutti quelli che vogliono lavorare un’occupazione?
Il mio parere personale è che la cosa più importante sia il lavoro. Lavoro non vuol dire solo guadagno e quindi acquisto di beni e servizi. Avere un lavoro è primariamente una questione di dignità, di indipendenza, di autonomia, di realizzazione di se stessi. Dare quindi a tutti, uomini e donne, la possibilità di lavorare vuol dire migliorare sia l’economia che la società. E, dato che la donna, storicamente, si è trovata in una situazione di minorità (vedi la conquista solo recente del voto alle donne, vedi le disparità nei tassi di occupazione e nel reddito medio di lavoratori e lavoratrici…) è di tanto più importante perseguire una politica di promozione dell’occupazione femminile.
Come abbiamo osservato la volta scorsa, l’occupazione femminile va avanti, e da molto tempo, per conto suo. Molti non sanno che in Italia, nell’ultimo terzo di secolo – dal 1980 a oggi – gli occupati uomini sono diminuiti, mentre gli occupati donne sono aumentati di tre milioni. Ma molto resta ancora da fare: il tasso di occupazione femminile (occupati in percentuale delle donne in età di lavoro) in Italia è ancora uno dei più bassi del mondo.
Per capire se e quanto l’occupazione femminile continuerà ad aumentare guardiamo al mondo giovanile: i giovani sono i lavoratori di domani, e nel mondo di oggi, dove domina “l’economia della conoscenza”, è importante valutare la scolarizzazione: il numero di anni di scuola e i risultati sono i principali fattori che spiegano la possibilità di trovare lavoro.
Qui ci attende una sorpresa. Una sorpresa che emerge da molti studi recenti; vedi, per tutti, i dati dell’Ocse (un organismo internazionale con sede a Parigi). “Il sesso debole” è un’espressione che tradizionalmente dipinge il mondo femminile. E per molti versi il sesso forte rimane quello maschile: il miglior tennista al mondo e il miglior pilota di Formula 1 saranno sempre uomini. La maggior massa muscolare del corpo maschile ha portato a una specializzazione per cui, nelle savane primitive, la caccia era riservata agli uomini che hanno così sviluppato riflessi più pronti e velocità più elevate. Ma, se si passa dai muscoli ad altri fattori dell’umana performance, le cose stanno cambiando con una rapidità che è perfino imbarazzante.
La presenza femminile nelle iscrizioni universitarie è superiore a quella maschile. Non solo: nelle medie superiori i voti delle ragazze sono in media superiori a quelli dei ragazzi. Come si vede dal grafico, questo è vero in tutti i Paesi, non solo in Italia. Il grafico mostra la percentuale di studenti che hanno cattivi voti – inferiori a una certa soglia – nelle materie sia umanistiche che scientifiche. E mostra che dappertutto la percentuale di studenti impreparati è maggiore fra i ragazzi rispetto alle ragazze. La prevalenza di questo fenomeno in Paesi tanto diversi – dal Perù all’Indonesia alla Svezia, dall’America al Giappone alla Turchia – è impressionante.
Questi dati sono ricavati dal PISA (niente a che fare con la torre pendente – è il “Program for International Student Assessment”, un’indagine triennale condotta dall’Ocse in 65 Paesi) e l’ultimo studio si riferisce al 2012. Certamente, il sesso maschile mantiene qualche vantaggio nella scuola. Se ci si limita alla matematica, in 37 Paesi su 65 i ragazzi sono più bravi, anche se il divario con le ragazze va diminuendo. E, guardando all’estremo opposto – i “bravissimi” – sono di più i ragazzi (eccetto nelle materie umanistiche). Ma nella lettura e e analisi dei testi, dove le ragazze stravincono, il divario con i “boys” aumenta nel tempo. Le ragioni sono anche psicologiche. Come riporta un bell’articolo dell’«Economist» del 7 marzo, il preside di una scuola di un quartiere malfamato di New York – il Bronx – dice: «C’è una mentalità per cui non è cool per i ragazzi far bene, non è cool essere bravi».
Le ragioni del cool non bastano però a spiegare un divario che, come detto, attraversa latitudini e longitudini. Ci devono essere anche altre ragioni. I dati del PISA mostrano che le ragazze studiano di più a casa: è maggiore il numero di ore dedicate ai compiti. Ma questo è ancora l’effetto di una causa più profonda. E forse la determinante principale è culturale: proprio perché le donne hanno cominciato ad acquistare più indipendenza, sono più motivate nella ricerca di un’autonomia, di un’affermazione, dopo secoli e millenni di minorità.
Quali sono le implicazioni per l’economia? Sono positive, in Italia come in altri Paesi. In giro per il mondo ci sono molti giacimenti, e il loro utilizzo dipende dai costi di estrazione e di lavorazione. Se c’è un “giacimento” di lavoro femminile potenziale che può essere utilizzato per sostenere crescita e occupazione, tutto quello che può facilitare la “estrazione” di questo lavoro rende più facile sfruttare il giacimento. E un maggiore grado di istruzione, così come un più alto grado di sana ambizione, rendono più facile il passaggio delle donne nella forza-lavoro.
Non ci sono controindicazioni a questa tendenza. Se non quella che forse, un giorno, quando il “sesso debole” diventerà il “sesso bravo”, ci dovremo preoccupare, dopo aver introdotto le “quote rosa”, di fare marcia indietro e lottare per l’adozione di “quote celesti”!
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“Sentenze all’italiana l’inesauribile paradosso” di Goffredo Buccini – Corriere della Sera 11.04.15
L’ inesausta miniera di paradossi della giustizia italiana offre talvolta pepite troppo grosse per passare inosservate. Per il clamore del caso, com’è accaduto nel giallo di Perugia. O per il rilievo dei personaggi, come capita adesso con Vasco Errani.
Presidente dell’Emilia-Romagna dal 1999, stimato trasversalmente dai compagni di partito del Pd e dagli avversari, Errani si dimette dopo quindici anni di governo regionale, a luglio del 2014, quando la seconda sezione della Corte d’appello di Bologna gli infligge un anno di reclusione (con pena sospesa) per falso. La vicenda è complessa. Il fratello maggiore, Giovanni, è presidente della cooperativa vinicola «Terremerse» che ottiene dalla Regione un finanziamento di un milione per la costruzione di una cantina. Secondo la Procura, dietro quel finanziamento ci sarebbe una truffa e Giovanni viene condannato in primo grado a due anni e mezzo.
Mancano pochi mesi alle elezioni regionali del 2010 quando il caso esplode a Bologna sui giornali dell’opposizione. Vasco Errani commissiona una relazione tecnica per dimostrare la regolarità dell’operazione «Terremerse» e la spedisce in Procura accompagnandola con una propria missiva. Secondo i pm bolognesi, la relazione è «addomesticata» e, assieme alla missiva, costituisce un falso con cui il presidente della Regione vuole reagire alla campagna di stampa prima del voto. Il giudice di primo grado assolve Errani. La Corte d’appello riforma la sentenza e lo condanna. Il giorno stesso, l’8 luglio, dichiarandosi innocente, lui si dimette e si consegna al silenzio sino alla sentenza di Cassazione prevista il prossimo giugno: senza alimentare polemiche, per un falso, dopo tre lustri di governo senza neppure un avviso di garanzia, in un Paese dove mafiosi e corrotti restano incollati alla poltrona gridando alla persecuzione giudiziaria fino all’ultimo fiato.
Capita però che, l’altro giorno, la Corte d’appello bolognese (stavolta terza sezione) assolva Giovanni, il fratello, perché «il fatto non sussiste» (un’altra tranche dell’operazione «Terremerse» era caduta in prescrizione). Dunque, in soldoni, la situazione è la seguente: Vasco si ritrova condannato per l’accusa di avere falsificato carte con cui dimostrare la liceità di un’operazione che, secondo i nuovi giudici di Giovanni, non è illecita. Più che un processo, pare una sciarada. Ferme restando tutte le riserve sull’opportunità politica di concedere finanziamenti alla coop del proprio fratello, è difficile spiegare a un osservatore straniero simili contorcimenti giuridici.
Il rito italiano è sempre più «creativo»: lo dimostra, in tutt’altro contesto, la tragedia di Meredith Kercher, la studentessa inglese massacrata a Perugia nel 2007 per il cui assassinio è in carcere Rudy Guede, condannato in concorso con complici che complici non possono essere, vista l’assoluzione definitiva di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. La malattia sta nella rincorsa alla sentenza perfetta: nell’inesauribile produzione di appelli e controappelli che sfociano in verdetti contraddittori e, nell’insieme, incomprensibili.
Michele Ainis, su queste colonne, ha osservato come l’appello in molti Paesi europei sia una regola assai circoscritta e come, negli Usa, la Corte suprema dirima 80 casi l’anno, mentre qui la nostra Cassazione ne fronteggia 80 mila (ed è a volte tentata di entrare nel merito, come su Perugia, tramite la porticina dei difetti di motivazione nelle sentenze esaminate in punto di legittimità). Eliminare l’appello in caso di assoluzione e limitarlo fortemente in caso di condanna potrebbero essere vie d’uscita plausibili. Non si tratta di dare addosso ai giudici ma di modificare le procedure, non di dare la caccia all’errore ma di smontare qualche muro del labirinto.
Sisma, parlamentari Pd a M5s “Creare alleanze su emendamenti” – comunicato stampa 11.04.15
I parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari rispondono al deputato del M5s Ferraresi che si lamenta perché gli emendamenti alla Legge di stabilità, presentati con il collega Dell’Orco, non sono passati. “Occorre lavorare in sintonia con Enti locali e Governo – ricordano i parlamentari Pd – per ottenere risultati”. Ecco la loro dichiarazione:
“Ci fa piacere che anche il collega modenese Ferraresi si preoccupi di presentare emendamenti che riguardano l’area del colpita dal sisma del 2012. Solo che non dovrebbe limitarsi a dire che li ha presentati, dovrebbe preoccuparsi di far sì che vengano approvati, cercando e creando alleanze attorno a quei temi e confrontandosi con il Governo. E’ anche questo il lavoro dei parlamentari, in quanto rappresentanti a Roma di un territorio. Noi come parlamentari modenesi del Pd stiamo lavorando insieme alla Regione e ai Comuni per raggiungere risultati concreti. Se vuole unirsi a noi, è il benvenuto”.
Concordia, lunedì sera si parla di riforme con Manuela Ghizzoni – comunicato stampa 11.04.15
Si parlerà di riforme, lunedì sera, a Concordia nel corso di un incontro pubblico organizzato dai Circoli Pd di Concordia e di San Possidonio. Sarà presente la parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni.
Nell’ambito del ciclo di incontri dal titolo “La primavera delle riforme: lavoro e istituzioni – Il contributo del Pd al cambiamento”, organizzato dai Circoli Pd di Concordia e San Possidonio è programmato un altro incontro pubblico per la sera di lunedì 13 aprile. Interverrà la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Cultura, Scienza ed Istruzione della Camera, che parlerà di Riforme costituzionale ed elettorale. L’appuntamento è presso la sede del Pd di Concordia, in via per Mirandola 15, dalle ore 21.00.
“Il dovere di rompere il silenzio”, di Toni Morrison – La Repubblica 11.04.15
È IL giorno dopo Natale del 2004, dopo la rielezione alla Casa Bianca di George W. Bush. Guardo fuori dalla finestra: sono di umore estremamente cupo, mi sento impotente. Poi un amico, anche lui un artista, mi chiama per farmi gli auguri. Mi chiede come va e invece di rispondergli il classico «Tutto bene, e tu?», non riesco a trattenermi dal dirgli la verità: «Non bene. Oltre a essere depressa non riesco a lavorare, a scrivere: è come se fossi paralizzata, non riesco a proseguire il romanzo che ho cominciato. Non mi sono mai sentita così, ma le elezioni…». Prima di potergli dare altri dettagli, lui mi interrompe gridando: «No! No, no, no! È proprio questo il momento in cui un artista deve darsi da fare: non quando tutto va bene, ma nei tempi di paura. È questo il nostro compito!».
MI SENTII stupida per tutto il resto della mattinata, specialmente quando ripensavo agli artisti che facevano il loro lavoro dentro gulag, celle di prigione, letti di ospedale; che fecero il loro lavoro mentre erano perseguitati, esiliati, ingiuriati, messi alla berlina. E a quelli che erano stati giustiziati. L’elenco – che abbraccia secoli interi, non solo l’ultimo – è lungo. Per proporre un breve campione posso citare Paul Robeson, Primo Levi, Ai Weiwei, Oscar Wilde, Pablo Picasso, Dashiell Hammett, Wole Soyinka, Fëdor Dostoevskij, Aleksandr Solgenitsyn, Lillian Hellman, Salman Rushdie, Herta Müller, Walter Benjamin. Se volessi fare una lista accurata, dovrei citare centinaia di nomi.
Dittatori e tiranni inaugurano sempre il loro regno e alimentano il loro potere con la distruzione deliberata e calcolata dell’arte: la censura e i roghi di libri non conformi, le vessazioni e le incarcerazioni di pittori, giornalisti, poeti, commediografi, romanzieri, saggisti. È il primo passo di un despota, che nei suoi istintivi atti malevoli non mostra semplicemente sconsideratezza o malvagità, ma anche capacità di percezione. Questi tiranni sanno benissimo che la loro strategia di depressione consentirà ai veri strumenti del potere oppressivo di prosperare. Il loro piano è semplice: 1. Selezionare un nemico utile – un “Altro” – per convertire la rabbia in conflitto o addirittura in guerra.
2. Limitare o cancellare l’immaginazione che offre l’arte, e anche il pensiero critico di studiosi e giornalisti.
3. Distrarre con giochi, sogni di bottino e temi di superiorità religiosa o sprezzante orgoglio nazionale che nascondono al loro interno passati dolori e umiliazioni.
In questo mondo contemporaneo di proteste violente, guerre intestine, richieste accorate di cibo e di pace, dove intere città vengono tirate su in fretta e furia nel deserto per dare riparo a popolazioni espropriate, abbandonate, terrorizzate, che fuggono per la loro vita e la vita dei loro figli, che cosa dobbiamo fare noi, i cosiddetti civilizzati?
Le soluzioni gravitano verso l’intervento militare e/o l’internamento: uccidere o imprigionare. Qualsiasi altra azione, in questo clima politico degradato, è vista come un segnale di debolezza. Viene da chiedersi perché essere “deboli” sia diventato un peccato estremo, imperdonabile. Forse perché siamo diventati una nazione tanto spaventata dagli altri, da se stessa e dai suoi cittadini da non riuscire a riconoscere la debolezza autentica, la vigliaccheria dell’insistere sulle armi ovunque, sulla guerra dovunque? Quanto è adulto, quanto è virile sparare contro medici che praticano aborti, bambini che vanno a scuola, passanti, adolescenti neri che scappano? Quanto è forte, quanto è potente la sensazione di avere un’arma omicida in tasca, alla cintola, nello scomparto portaguanti della propria macchina? Quanto è autorevole minacciare la guerra in politica estera semplicemente per abitudine, paura artefatta o ego nazionale? E quanto è patetico? Patetico perché non possiamo non sapere, in qualche recesso della nostra coscienza, che la fonte e la ragione della nostra aggressività inculcata non è soltanto la paura. È anche il denaro: lo stimolo del profitto dell’industria degli armamenti, il sostegno finanziario del complesso militar- industriale contro cui ci metteva in guardia Eisenhower.
Costringere una nazione a usare la forza è facile quando i cittadini sono largamente scontenti, quando provano sensazioni di impotenza che la violenza può facilmente alleviare. E quando il dibattito politico è straziato da un’irragionevolezza e un odio così profondi che le offese volgari appaiono normali, la disaffezione impera. I nostri dibattiti, nella maggioranza dei casi, sfigurerebbero anche nel cortile di un asilo nido: insulti, schiaffi verbali, pettegolezzi, risatine, il tutto mentre le altalene e gli scivoli del buongoverno rimangono vuoti.
Per gran parte degli ultimi cinque secoli, l’Africa è stata vista come un posto povero, disperatamente povero, nonostante sia scandalosamente ricca di petrolio, oro, diamanti, metalli preziosi e così via. Ma poiché quelle ricchezze non appartengono, in larga parte, alle persone che vivono lì da sempre, il continente è rimasto nella mente dell’Occidente meritevole di disprezzo, cordoglio e naturalmente saccheggio. A volte ci dimentichiamo che il colonialismo è stato ed è guerra, una guerra per controllare e possedere le risorse di un altro Paese, che significano denaro. Possiamo anche illuderci e pensare che i nostri sforzi per “civilizzare” o “pacificare” altri Paesi non abbiano a che fare con i soldi. Lo schiavismo è sempre stato una questione di soldi: manodopera gratuita che produce denaro per possidenti e industrie. I lavoratori poveri e i disoccupati poveri dei nostri giorni sono come le ricchezze dormienti dell’“Africa coloniale più scura”, esposti al furto di salario e di proprietà, posseduti da grandi corporation cancerogene che soffocano le voci dissidenti.
Nulla di tutto questo lascia presagire un futuro incoraggiante. Eppure mi ricordo quel grido del mio amico in quel giorno dopo Natale: no! È proprio questo il momento in cui un artista deve darsi da fare. Non c’è tempo per la disperazione, non c’è posto per l’autocommiserazione, non c’è spazio per la paura. Noi parliamo, noi scriviamo, noi facciamo lingua. È così che la civiltà guarisce.
So che il mondo è ferito e sanguinante, e se è importante non ignorare il suo dolore è anche fondamentale non soccombere alla sua cattiveria. Come l’insuccesso, il caos contiene informazioni che possono condurre alla conoscenza, perfino alla saggezza. Come l’arte.
© 2-015, The Nation Traduzione di Fabio Galimberti
Toni Morrison, premio Nobel per la letteratura 1993, nata in Ohio, Stati Uniti, nel 1931, sta per pubblicare in America il suo nuovo romanzoGod Help the Child , in uscita il prossimo 21 aprile. Il libro è dedicato al mondo dell’infanzia e alle sofferenze dei bambini, spesso sottovalutate dalla società
“Primo sì alla riforma del Terzo settore. Le novità del registro unico e i criteri per ottenere l’8 per mille”, di Alessandra Arachi – Corriere della Sera 10.04.15
Primo sì alla riforma del Terzo settore. Lo ha pronunciato ieri la Camera dei deputati (297 voti a favore, 121 contrari, 50 astensioni), approvando la delega al governo per, appunto, la riforma del volontariato ma anche dell’impresa sociale e la nuova disciplina del servizio civile. Il testo deve ora andare al Senato.
Undici articoli, quasi un anno di discussione in commissione: con questo provvedimento si fornisce per la prima volta la definizione giuridica di Terzo settore. Così come spiega Donata Lenzi, deputata del Pd, e relatrice a Montecitorio.
Dice infatti Lenzi: «Grazie a questa riforma abbiamo organizzato un settore che era frammentato in tante legislazioni diverse e le abbiamo riunite in un codice unico. Abbiamo istituito anche un registro unico: oggi esistevano più di quindici registri per gli enti del Terzo settore (i soggetti sono 300 mila circa di cui un terzo soltanto costituito dalle associazioni sportive dilettantistiche)».
Con la legge uscita dalla Camera dei deputati la prima volta si definisce anche un ambito ben preciso di ente del Terzo settore. Lasciando inalterata la massima libertà di associazione, infatti, si mettono nero su bianco i criteri attraverso i quali gli enti hanno diritto agli sgravi fiscali oppure a ricevere le donazioni del 8 per mille.
Importante in questa riforma è anche il riordino del servizio civile che, non a caso, viene definito universale. Rivolto ai ragazzi fra i 18 e i 28 anni, è infatti aperto anche ai cittadini stranieri da lungo tempo residenti in Italia (la Lega aveva presentato un emendamento per bocciare questa apertura, ma è stato respinto). C’è una novità interessante: con questa legge delega si prevede anche la possibilità di poter esercitare all’estero il servizio civile.
Prosegue Donata Lenzi: «Il nostro obiettivo è arrivare a 100 mila ragazzi “arruolati” nel 2017, quest’anno sono già 50 mila. Possono rimanere nel servizio civile da un minimo di otto mesi ad un massimo di 12. Ognuno avrà diritto a poco più di 400 euro al mese».
Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, illustra quali sono le risorse economiche che potranno permettere di avviare nel 2015 al servizio civile circa 50 mila giovani. Ovvero: «Nella legge di Stabilità sono già stati stanziati 115 milioni che si sommano ai 10 milioni ottenuti dai risparmi sulle spese generali della Presidenza del Consiglio. E non bisogna dimenticare i 500 milioni destinati alla stabilizzazione del 5 per mille che consentiranno alle organizzazioni del Terzo settore di progettare e programmare i loro interventi».
Non mancano le polemiche attorno ad alcuni dettagli della legge delega. Tra queste quelli che riguardano la definizione di impresa sociale. Nel testo vengono aggiunti altri settori di competenza, oltre a quelli già esistenti (come l’assistenza sanitaria, sociale, la tutela ambientale, il turismo). Ovvero: il microcredito, l’housing sociale, il commercio equo e solidale. «Il punto critico è che in questa legge vengono specificati i settori nei quali l’impresa sociale può operare» dice Letizia Moratti, ex sindaco di Milano e cofondatrice della comunità di San Patrignano. E poi spiega: «Sarebbe opportuno non citare affatto i singoli settori ma indicare che l’impresa sociale può operare in tutti gli ambiti, purché ci sia controllo sull’impatto sociale. Nel testo approvato non vengono citati settori importanti, come ad esempio le energie rinnovabili e la green economy».
San Felice sul Panaro – I giovani e la Resistenza
Non una lezione ma una serata “fatta” dai ragazzi. Le terze medie racconteranno il progetto svolto in classe sulla Resistenza, la deportazione e la Costituzione. I ragazzi di 18 anni spiegheranno in un video la loro idea di Costituzione. A me il compito di parlare a ragazzi e famiglie del collegamento fra Resistenza e Costituzione. Lo faccio con piacere, anche sulla scorta delle recente risoluzione sulla Resistenza approvata dalla Commissione Cultura della Camera. Al termine consegna di un bellissimo libro, quello della Costituzione, ai ragazzi del 96 e 97. Una serata curata da Educamente che si svolgerà presso l’Auditorium della biblioteca (in viale Campi) e che fa parte delle iniziative rivolte ai giovani ed alle scuole che il Comune di S.Felice organizza per il 25 aprile.