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Coop Muratori, Baruffi e Ghizzoni “Vicini ai lavoratori, non sono soli”

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I deputati modenesi del Pd Davide Baruffi e Manuela Ghizzoni, in questi giorni, stanno seguendo con attenzione e preoccupazione la vicenda della Coop Muratori di San Possidonio. Ecco la loro dichiarazione:

«Esprimiamo innanzitutto solidarietà e vicinanza ai 34 lavoratori della Coop Muratori che vedono messo a rischio il loro posto di lavoro. In questi giorni, cruciali per il futuro della cooperativa, come parlamentari Pd stiamo seguendo con attenzione l’evolversi della situazione. Siamo in costante contatto con la presidenza provinciale della Lega delle cooperative e siamo a conoscenza dello sforzo che il movimento cooperativo, in questo momento, sta compiendo per cercare di attivare la rete di solidarietà e sostegno tesa a non lasciare sola nessuna azienda in difficoltà. Proprio in questi giorni di accese polemiche attorno al caso Cpl, ribadiamo che il movimento cooperativo, con i suoi valori di mutualità e solidarietà, è una grande risorsa per la tenuta occupazionale del nostro tessuto sociale ed economico: per questo continueremo a opporci ad ogni logica liquidatoria che vorrebbe colpire, per la responsabilità di pochi, un patrimonio di tanti. Anche per il prosieguo, garantiremo massima attenzione sulla vicenda Coop Muratori: la cooperativa, i lavoratori e le istituzioni locali non verranno lasciati soli».

Firenze – Il Ruolo Unico: una rivoluzione necessaria

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Il 20 aprile, all’Università di Firenze, parteciperò come relatore al convegno nazionale dal titolo “Il Ruolo Unico: una rivoluzione necessaria?” Discussione nazionale nella prospettiva di una riforma dello stato giuridico della docenza universitaria”. Il convegno, organizzato dalla Rete 29Aprile dei ricercatori italiani, si pone come obiettivo di promuovere il confronto tra vari attori della società civile e della politica per alimentare la discussione a livello nazionale su un tema veicola aspetti di certo interessanti, anche in vista di identificare nuove prospettive per la valorizzazione del personale docente universitario.

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“Il Mit premia le 10 aziende che «spaccano» il mercato”, di Dario De Vico – Corriere della Sera 07.04.15

Anche noi abbiamo aziende «dirompenti», capaci di rivoluzionare un mercato grazie a un’idea originale. L’edizione italiana della Mit Technology Review, fondata da Alessandro Ovi e Romano Prodi, sta per pubblicare l’elenco delle 10 aziende disruptive italiane in grado per innovazione, salto tecnologico o nuovo modello di business, di spazzare via i concorrenti. La lista è frutto di un monitoraggio che ha coinvolto associazioni, università e specialisti e che ha prodotto questi nomi: Almawave, Bio-On, Brembo, Coelux, Finceramica, Greenrail, Holostem, Horus, Sun4People e Texa. Un mix nel quale troviamo aziende medio-grandi, spin off universitari, piccole start up e persino una Onlus siciliana. Quanto alle specializzazioni la fanno da padrone le biotecnologie e l’automotive. «La differenza tra le aziende dirompenti italiane e quelle americane sta però nella dimensione. Da noi si tratta per lo più di piccole imprese, le grandi sono un’eccezione» sottolinea Ovi. L’eccezione si chiama Brembo più ST Microelectronics: dopo l’introduzione delle vetture ibride ed elettriche hanno immaginato un nuovo tipo di freno che viene gestito da un sistema di controllo elettronico e dà insieme sicurezza e recupero energetico.
L’esperienza che funge da paradigma è quella della Holostem, lo spin off dell’Università di Modena e Reggio Emilia diventato partner della Chiesi di Parma, una big della farmaceutica. La Holostem è la prima azienda biotech dedicata a creare prodotti di terapie avanzate basati su colture di cellule staminali epiteliali ed è stata capace di commercializzare il primo farmaco a base di staminali autorizzato nel mondo occidentale. Commenta Ovi: «Dovrebbe accadere sempre così, il piccolo che incontra il grande e pone le premesse per crescere rapidamente sfruttando il potenziale dirompente dell’innovazione che ha messo a punto. Da noi però la mancanza di un fitto tessuto di grandi imprese si fa sentire e quell’incontro spesso non avviene». Nella lista della Mit Technology Review ci sono almeno altre quattro aziende che avrebbero bisogno di accoppiarsi. Sono la bolognese Bio-On estremamente avanzata nella produzione di plastica biodegradabile, la comasca Coelux che ha messo a punto una tecnologia innovativa capace di trasformare il modo di pensare la luce artificiale, lo spin off emiliano Finceramica che opera nel campo delle soluzioni biomediche per la rigenerazione dei tessuti connettivi e, infine, la genovese Horus che ha messo a punto un dispositivo innovativo in grado di riconoscere testi, oggetti, persone per supplire alla mancanza della vista di ipovedenti o ciechi.
«Nella maggioranza di questi casi servirebbero forze finanziarie ingenti per pensare di spaccare davvero il mercato e imporsi a livello globale» sottolinea Ovi. La possibilità di crescere velocemente può essere data da un partner industriale ma può essere anche frutto di una collaborazione duratura con un grande utilizzatore: è il caso della veneta Texa (diagnostica auto) alla quale potrebbero guardare i grandi player delle quattroruote ma anche della Greenrail che produce traversine ricavate dalla plastica, dotate di generatori di elettricità piezoelettrici. Quale sia la formula il grande passo è necessario, «altrimenti la disruption resta potenziale e non nascono quelle aziende globali e innovative di cui abbiamo bisogno».

“Quando Modena si mobilitò per aiutare L’Aquila terremotata”, di Brunetto Righi – Gazzetta di Modena 07.04.15

Erano passate solo poche ore dalla terribile scossa che sei anni fa aveva devastato la città dell’ Aquila, che dalla Consulta Provinciale dei Volontari di protezione civile modenese era già pronta una lista di volontari pronti a partire. «Non era importante avere un gran numero di volontari – afferma Roberto Ferrari, neo eletto presidente della consulta, in quei giorni tra i responsabili della segreteria – occorrevano specialisti nel rispetto della regola d’ oro del “chi fa checcosa”, infatti il coordinamento modenese, di concerto con gli altri della Regione, fornì una rosa di nominativi pronti a partire immediatamente con la Colonna Mobile della nostra Regione. E fu così che appena dopo 18 ore dall’ evento – continua il presidente – alla colonna mobile regionale veniva affidato dal Dipartimento Nazionale della Protezione Civile, il paese di Villa Sant’ Angelo, poco meno di un migliaio di abitanti, ma dove già nelle prime ore si contavano 14 morti, e fu così che i volontari modenesi di concerto con gli altri, approntarono immediatamente il campo d’ accoglienza per il ricovero dei residenti».
Nel corso di tutta la giornata del 6 aprile, alla segreteria della consulta continuavano ad arrivare le adesioni dei volontari da parte di tutte le organizzazioni di volontariato rappresentate dalla consulta, più di trenta Dopo il paese di Villa Sant’ Angelo ai volontari dell’ Emilia Romagna venne affidato anche Sant’ Eusanio Forconese, fino al massimo sforzo operativo di Piazza d’ Armi a l’ Aquila. «Sotto l’ allora presidente della consulta, Claudio Gatti, i volontari modenesi furono oltre 200 per circa 4mila giornate/uomo, dall’ indomani dell’ evento fino a metà ottbre dello stesso anno con lo smantellamento del campo. E’ certamente grande motivo d’ orgoglio – conclude il neo presidente – rappresentare uomini e associazioni che hanno dato grande prova di competenza e solidarietà»

“Così mia mamma diede soldi ai fascisti e mi salvò dal lager dove venne uccisa”, di Gian Guido Vecchi – Corriere della Sera 07.04.15

«I l 2 ottobre ci fu la cattura. Era il primo giorno di scuola, un lunedì. Una volta le scuole ricominciavano in ottobre. Dalle persiane chiuse vedevo alcuni bambini con le cartelle». Rav Giuseppe Laras ha compiuto ieri ottant’anni, è un’autorità tra i rabbini europei, da allora ha dedicato buona parte della sua vita allo studio. La filosofia medievale e rinascimentale, il pensiero di Maimonide, i venticinque anni da rabbino capo di Milano e la cattedra alla Statale, fino a quella summa plurimillenaria del pensiero ebraico, dalla Bibbia a Hannah Arendt, appena completata con il secondo volume di «Ricordati dei giorni del mondo» (EDB). Ricordati.
Laras aveva nove anni quel giorno del 1944 in cui non poteva andare a scuola per le leggi razziali e i fascisti bussarono alla porta della nonna, a Torino, dove si era rifugiato con la madre. «Papà era partigiano in montagna e si salvò. Noi eravamo fuggiti a luglio dai rastrellamenti della Val Grande, mia sorella coi nonni paterni vicino a Chivasso, la mamma e io dalla nonna. La nonna diceva che non aveva nessuna paura a rimanere a Torino perché non aveva mai fatto male a nessuno. Non aveva capito, come tanti, che era un tempo di lupi, di malvagi. Era stata la portinaia a fare la spia, pagavano cinquemila lire a ebreo». La voce si arrochisce, di rado il rabbino Laras parla di quel giorno, «quando ci ripenso rivivo quell’atmosfera, è come se fossi sempre stato li. Mi si chiude la gola, mi viene da piangere».
Eppure da lì bisogna partire. Gli amici che da tempo fanno finta di non conoscerti, la delazione, la madre che con ventimila lire e trenta pacchetti di sigarette convince i due fascisti a lasciare andare il bambino, il percorso lungo via Madama Cristina verso l’hotel Nazionale dove ha sede la Gestapo, l’incrocio con Corso Vittorio Emanuele, l’aguzzino che sembra non volergli lasciare la mano; «guardai mia mamma, mi liberai con uno strattone, e corsi via: fu l’ultima volta che le vidi, lei e la nonna».
Bisogna partire da quello che Laras ha scritto ne «Il comandamento della memoria» (a cura di Francesca Nodari, Massetti Rodella editori), la necessità di «ricordare per ricostruire»: «L’obiettivo fondamentale non dovrà essere unicamente quello di consegnare ai posteri questa memoria, bensì di trasmettere un atteggiamento di netto rifiuto della violenza e dell’intolleranza talché esso possa diventare parte integrante del patrimonio etico-culturale delle donne e degli uomini di domani».
Gli anni da rabbino capo e l’amicizia con un altro torinese adottato da Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, hanno segnato forse il punto più avanzato del dialogo tra ebrei e cristiani. Due uomini di fede e di studio, un po’ timidi, accomunati dall’ironia delle persone molto colte. Rav Laras sorride nel ricordare uno dei suoi maestri, Leon Ashkenazi: «Ci faceva giocare grandi partite di calcio e poi si studiava. L’ultima volta andai a trovarlo a Gerusalemme, era molto malato, mi richiamò quand’ero ormai sulla porta: “Ti devo dire una cosa, ma non offenderti”, mormorò. “Sei diventato un grande sapiente, però come centravanti sei sempre stato una schiappa”».
Con Martini, invece, si saluta rono il 3 maggio 2012, all’Aloisianum di Gallarate, entrambi sapevano che era un addio. «Muoveva appena le labbra e c’era quel sacerdote meraviglioso, don Damiano Modena, che capiva e ripeteva. Parlammo un po’ di filosofia. Quando ho visto che era stanco, mi sono alzato. Ci siamo abbracciati e mi è venuto d’istinto di posargli la mano sulla testa e benedirlo secondo la formula tradizionale. A sua volta lui mi ha messo la mano sul capo e ha mormorato una benedizione». Pochi mesi più tardi, quando Martini morì, Laras fece venire da Israele un sacchetto di terra e lo mise nella tomba del cardinale, «Avrebbe voluto essere sepolto a Gerusalemme, la malattia lo aveva impedito, così mi è venuto spontaneo di fare come si usa tra gli ebrei della diaspora. Nella vita le cose più belle vengono così, senza troppa riflessione».
Laras sa quanto sia «accidentato e difficile» il dialogo. «Dopo duemila anni di persecuzioni e contrapposizioni non è stato facile riprendere come niente fosse». Esiste anche un dialogo con l’Islam «ma è ancora più difficile ed episodico: quando si chiede ai musulmani che vivono tra noi di prender le distanze dalle violenze, c’è difficoltà, imbarazzo, sempre più silenzio che parola». Anche l’età di Maimonide, nella Spagna del XII secolo, «viene indicata come un’epoca di grande apertura e dialogo, una stagione che ci aiuta a sperare nel domani, ma non è durata granché». Bisogna andare avanti, nonostante tutto. Il dialogo non è materia da illusi, richiede il coraggio di guardare in faccia la realtà. «Qualche anno fa sono andato a vedere il lager dove uccisero la nonna e la mamma. Per tanto tempo non mi era riuscito. Mia figlia mi ha detto: papà, ti accompagno io. Lì ho scoperto che la mamma è morta il 29 dicembre del ‘44. Di Ravensbrück non è rimasto quasi niente. Lo hanno smantellato. Accanto c’era questo laghetto, carino, con le barche. Un contrasto che faceva male. Ma sono contento di esserci andato».

“Ma un tempo si scappava dalla Sicilia nel Maghreb”, di Amedeo Feniello – La lettura Corriere della Sera 05.04.15

Una storia poco raccontata e mal conosciuta parla di un tempo a parti invertite, quando, a differenza di oggi, i barconi, col loro carico di profughi, di morte e di dolore, non andavano dall’Africa verso la Sicilia, in cerca di salvezza. Bensì, tutto al contrario, dall’isola verso la costa opposta. Il tempo è quello dell’invasione normanna della Sicilia. Comincia nel 1061 con lo sbarco a Calcara, a sud di Messina. E da lì si espande fino al 1072, quando gli Altavilla e i loro uomini prendono Palermo che, dopo 240 anni, cessa di essere una città musulmana. Ma non termina ancora. Per completarla, ci vorrà un altro ventennio. Finisce tutto il 23 febbraio 1091, appena pochi anni prima dell’inizio della Prima crociata: una data luttuosa per i musulmani, così ricordata dal cronista arabo Ibn al-Atir: «Quest’anno i franchi, che Dio li maledica, occuparono completamente l’isola di Sicilia. Che il sommo Dio la renda un giorno all’islam».
Il cambiamento provocato è epocale. E non riguarda solo la Sicilia, ma l’intera Europa. Perché l’isola e le sue città, da che erano parte dell’enorme ecumene musulmano che andava dall’Indo a Grenada, vengono ora risucchiate nell’universo occidentale latino-cristiano e diventano giocoforza parte di questo mondo. Con un processo che scardina qualunque equilibrio pregresso, con un’élite di importazione che si insinua in profondità e impone le sue regole e i suoi costumi a tutto l’ambiente islamico, in un contesto dove la diseguaglianza politica e sociale tra dominanti e dominati diventa contrapposizione etnica e religiosa tra cristiani e musulmani. Fase cui segue immediatamente la cristianizzazione e latinizzazione dell’intero territorio, grazie anche all’immigrazione di gente proveniente dall’Italia padana, dal Nord Europa e dalle aree peninsulari del Sud Italia, che cerca, e spesso trova, nella Sicilia un nuovo Eldorado.
Diverso è il destino per i musulmani. Emarginati e isolati a ovest e a sud est dell’isola, sottomessi a un’opera di oppressione culturale e di acculturazione forzata e via via indeboliti dalla nuova presenza normanna. Però, tra essi, non tutti reagiscono nello stesso modo. C’è la massa, che si adatta e, finché può, convive. E c’è chi invece non ce la fa. E va via. Scappa. Sui barconi, verso l’Egitto, l’Africa. Verso una terra che avrebbe potuto garantire, se non migliori condizioni di vita, almeno comunione di lingua e di religione. Sembra che già nei primi anni dopo la conquista sia partito circa un ottavo della popolazione musulmana, 50 mila persone. Immaginiamo: vecchi, donne, bambini, uomini. Una moltitudine che spesso trova, nei luoghi di accoglienza, a al-Mahdia, a Monastir, a Susa, al Cairo oppure in Spagna, in Andalusia, assistenza materiale e morale, con aiuti generosi, senza distinzione di ceto, di età e di sesso, come quella che fornisce ad al-Mahdia l’imam al-Mazari. Un bell’esempio, per allora come per oggi.
Soprattutto scappa la gente che il viaggio può pagarselo. I migliori agricoltori. I commercianti che potevano contare su diffuse reti di relazioni. Uomini di scienza, di legge e di fede. Artigiani. Di loro non ci resta più niente. Parafrasando il Corano, non c’è nessuna terra che racconti la loro storia. Tranne che per uno. Un poeta. Il più grande poeta della Sicilia musulmana, Ibn Hamdis, che lascia l’isola a poco più di vent’anni intorno al 1075, e vive una lunga vita raminga tra il Nord Africa e la Spagna, dove muore nel 1133. I 6 mila versi del suo Diwan sono tipici della tradizione araba. Poesie d’amore. D’encomio. Di descrizione. Ma attraverso i suoi versi scorre anche la tristezza di un uomo costretto a lasciare la sua Sicilia, l’isola splendente e bella, una «costellazione di asteroidi», rimpianta e ora abbandonata nelle mani dei demoni, diventata «landa sterile, dove non puoi visitare altro che tombe». Resta a lui, come a tanti altri suoi conterranei che scelsero la fuga, una sola cosa: la hasra , la nostalgia verso la madrepatria. E quando muore, lascia una preghiera: di essere seppellito col corpo rivolto verso l’isola creata nel cuore del mare da Allah. La Sicilia.

“La battaglia del lavoro si vince anche con l’istruzione” di Romano Prodi – Il Messaggero 05.04.15

Negli scorsi giorni abbiamo ricevuto notizie apparentemente contrastanti sulla situazione e sulle prospettive dell’economia italiana. Il crollo del prezzo del petrolio, la svalutazione dell’euro, la massiccia iniezione di moneta da parte della Banca Centrale Europea e l’attesa per gli effetti delle nuove leggi sul lavoro hanno prodotto un provvidenziale miglioramento del livello di fiducia delle famiglie e delle imprese.
Le previsioni di crescita dell’Italia sono state perciò riviste al rialzo, passando dallo 0,3% dell’inizio dell’anno a livelli che stanno oggi fra lo 0,5 e l’1%. Si tratta sempre di previsioni inferiori a quelle della zona Euro (che si stima crescere dell’1,4%) ma si è finalmente usciti dal segno meno in cui eravamo stati confinati nei lunghi anni della crisi. L’aumento dei contratti a tempo indeterminato, anche se molta parte di questi deriva da una trasformazione di contratti a tempo determinato e co.co.co, trasmetteva il messaggio di un parallelo miglioramento del mercato del lavoro. Pochi giorni dopo queste buone notizie è arrivato, come una doccia gelata, il dato sull’aumento della disoccupazione, salita in febbraio al 12,7%, con una riduzione di 44 mila occupati ed una disoccupazione giovanile che tocca l’incredibile livello del 42,6%. A questo si aggiunge una crescita del tasso di inattività, come segnale del fatto che, tra i 14 milioni di inattivi, aumentano le persone scoraggiate o deluse che non cercano più un posto di lavoro.

Tutto questo mentre, nella media europea, la disoccupazione scende al di sotto del 10%. Un’analisi più accurata della nostra economia ci offre tuttavia una credibile spiegazione di queste apparenti contraddizioni. In primo luogo bisogna osservare che la ripresa dell’economia non solo è ancora molto timida ma che arriva dopo anni di calo della produzione, in una situazione nella quale le imprese non utilizzano in pieno la mano d’opera esistente. Esse quindi, nella maggioranza dei casi, possono aumentare anche di molto la produzione senza assumere nuovi addetti. In secondo luogo la richiesta di nuova mano d’opera si concentra nelle imprese con un’elevata propensione all’esportazione che, in molti casi, hanno difficoltà a trovare nel mercato del lavoro le specializzazioni di cui hanno bisogno. Anche in presenza dei dati terrificanti sulla disoccupazione è oggi difficile trovare gli addetti capaci di fare funzionare le moderne macchine utensili e gli specialisti nel controllo della qualità, nella manutenzione, nella digitalizzazione e anche personale preparato per affrontare i nuovi mercati, spesso lontani e con caratteristiche diverse da quelli tradizionali.
Emerge cioè evidente la disfunzione tra il nostro sistema scolastico e le necessità del sistema produttivo. Quando si era prospettata la riforma dell’Università si era pensato che il diploma triennale dovesse, almeno in parte, venire incontro alle necessità di specializzazione del nuovo mercato del lavoro ma questo progetto è stato poi distorto da improvvide misure legislative e dalle resistenze accademiche. I corsi triennali, esclusa la parziale eccezione del settore sanitario, sono quindi diventati semplicemente preparatori alla laurea magistrale. Il risultato è che manca la mano d’opera qualificata per le imprese e i nostri laureati sono obbligati ad emigrare.
Come ultimo punto bisogna osservare che la rivoluzione digitale, mentre apre le porte ad una limitata quantità di specialisti, le chiude ad un enorme numero di lavoratori non specializzati. Questo processo di trasformazione non opera soltanto nei settori direttamente produttivi ma anche nel terziario, dove non solo stanno scomparendo a decine di migliaia le segretarie ma dove, anche compiti che in precedenza erano ritenuti impossibili da essere automatizzati, sono ora eseguiti da modelli standardizzati che non richiedono manodopera. Entrano in questa trasformazione radicale non solo gli studi legali, i commercialisti, gli addetti alla contabilità ma anche un crescente numero di operatori del settore bancario e finanziario. Persino le analisi finanziarie più raffinate sono oggi preparate dai computer.
L’espulsione di manodopera causata dall’automazione dell’industria non viene quindi compensata, come in passato, dall’espansione dei servizi che, anzi, hanno cominciato un parallelo processo di diminuzione del personale. Solo i servizi alla persona contribuiscono in modo diretto e positivo all’occupazione ma, molti di questi servizi, a partire dalla sanità e dall’insegnamento, trovano limiti invalicabili nella ristrettezza dei bilanci pubblici e privati. Anche questi due settori cominciano inoltre a fare i conti con tecnologie che rallentano l’assunzione di nuovi addetti: si pensi all’informatizzazione in sanità e al progresso dell’insegnamento a distanza.
Una rapida possibilità di assunzione di manodopera è certamente legata all’espansione dell’edilizia, ma il numero di abitazioni costruite nel passato e ancora invendute è tale per cui, anche in questo caso, deve passare un lungo periodo di tempo fra la ripresa della domanda e l’impiego di nuovi addetti. La lotta contro la disoccupazione esige quindi prima di tutto una robusta ripresa dell’economia, in secondo luogo una preparazione scolastica mirata e, in terzo luogo, un incessante processo di aggiornamento della mano d’opera, includendovi una migliore conoscenza delle tecniche digitali.
Solo a queste condizioni la necessaria trasformazione in corso nel mercato del lavoro potrà dare i frutti che tutti noi ci attendiamo dalla faticosa uscita da una crisi che ancora sembra senza fine.