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“Il vero valore di un museo”. di Pier Luigi Sacco – Il Sole 24 Ore 05.04.15

Non ho ancora letto il saggio di Alessandro Monti, pertanto ne rilancio i commenti di Pier Luigi Sacco perché innescano una riflessione sulle istituzioni culturali, utile al legislatore e ai cittadini-fruitori. Manuela

ecco l’articolo:

Il vero valore di un museo
Pier Luigi Sacco

Un pamphlet analizza il MAXXI come se fosse un esercizio commerciale. Ne esce un’analisi fuorviante
Il sistema italiano dell’arte contemporanea non è stato certamente risparmiato dalla crisi economica che ha investito il nostro Paese. Un po’ tutte le principali istituzioni si sono trovate a fare i conti con bilanci in cura dimagrante, e soprattutto con una crescente difficoltà a mantenere la legittimazione sociale necessaria a richiedere con successo risorse pubbliche in una fase di forte contrazione delle politiche di bilancio a tutti i livelli dell’amministrazione statale e territoriale. In Italia, a fronte di un livello molto basso di partecipazione dei cittadini alle attività culturali, si tende facilmente a pensare che le spese in cultura siano più sacrificabili di altre, e che in ultima analisi i beneficiari di tale spesa siano, in omaggio ai cliché delle vacanze intelligenti di Sordi o dell’urlo liberatorio di Fantozzi contro la Corrazzata Cotionkin, soprattutto ricchi borghesi annoiati e ferocemente snob, il cui interesse per la cultura consiste unicamente nella sua valenza di strumento classista di distinzione sociale. Serve a poco ricordare invece la miriade di esperienze, anche italiane, nelle quali la cultura si rivela al contrario una straordinaria piattaforma di inclusione sociale, creazione di capacità e finanche di sviluppo di nuove forme di benessere. In questo momento, l’unico argomento che sembra in grado di attirare l’attenzione dei media e di scaldare i cuori è la capacità della cultura di attirare pubblico pagante, sulla base di un totale fraintendimento dei processi attraverso i quali le progettualità culturali sono in grado di generare in modo sostenibile valore economico e sociale. La valutazione degli impatti della cultura è un tema necessario, ma allo stesso tempo molto difficile, che richiede prima di tutto una profonda conoscenza non soltanto delle tecniche di valutazione appunto, ma anche del contesto che si intende valutare. Un minimo di esperienza nel campo mostra in modo fin troppo eloquente come tanti di questi esercizi di valutazione partano in realtà da premesse concettuali non appropriate per mancanza di una reale conoscenza sul campo, diretta ed approfondita, del fenomeno che si intende valutare.
In un breve quanto fortemente polemico pamphlet, Alessandro Monti pone l’attenzione su quello che considera un caso esemplare della mala amministrazione italiana in ambito culturale, il Museo MAXXI di Roma. La sua analisi solleva vari punti di interesse, ma allo stesso tempo rappresenta una illustrazione altrettanto esemplare della difficoltà di condurre un ragionamento su questi temi che non nasca da una lunga ed approfondita conoscenza sul campo del sistema dell’arte non soltanto italiano, ma europeo ed internazionale. In primo luogo, è piuttosto fuorviante valutare la struttura e il funzionamento di un sistema dell’arte contemporanea in termini di analisi della capacità dell’offerta per un dato livello di domanda come si potrebbe fare per un qualunque tipo di servizio commerciale. La domanda di arte contemporanea, così come quella di qualunque altro tipo di cultura, dipende fortemente dalla progressiva costruzione delle competenze che servono ad accedere con soddisfazione alle esperienze artistiche: in questo ambito, è tipicamente l’offerta a creare la propria domanda. Per cui, argomentare come fa Monti che il MAXXI è in realtà inutile all’interno del sistema dell’arte contemporanea italiana perché ci sono già troppi altri musei distribuiti sul territorio (ed elencati come in una specie di verbale dei Carabinieri con tanto di elenco degli artisti e titoli delle ultime mostre tenutesi) vuol dire non comprendere come l’articolazione territoriale di questo sistema sia la premessa per poter creare progressivamente un pubblico aperto e sensibile al contemporaneo, come dimostra ad esempio l’esperienza dei paesi di lingua tedesca e dei paesi nordici, le cui reti del contemporaneo sono distribuite molto più capillarmente che da noi, e nei quali l’interesse e la partecipazione delle comunità locali al contemporaneo è cresciuta nel tempo fino ad arrivare ai più alti livelli d’Europa.
Allo stesso modo, dispiace la semplificazione un po’ grossolana con cui Monti definisce l’attuale direttore artistico del MAXXI, Hou Hanru, ’critico d’arte cinese cinquantenne’, lamentandosi del provincialismo (sic) con cui si è scelto un professionista straniero a fronte di tante valide competenze italiane. A parte la confusione tra critico e curatore (come sarebbe più corretto definire Hanru), basterebbe passare in rassegna le posizioni omologhe a quella di Hanru nei maggiori musei del contemporaneo mondiali per rendersi conto che, a quanto pare, queste forme di provincialismo allignano ovunque (portando a volte anche alla nomina di direttori italiani), e che, anche qui attirando il biasimo dell’autore, tanti direttori di museo vengono da una solida esperienza di curatela di Biennali internazionali (la cui natura ’effimera’ suggerirebbe secondo Monti che non si tratti di esperienze adeguate alla direzione artistica di un museo). Allo stesso modo, pensare che il MAXXI faccia concorrenza alla Biennale di Venezia, come argomenta sempre Monti, invece che esserle complementare, o che il MAXXI sia pleonastico rispetto alla missione e alle funzioni della GNAMC significa ancora una volta non avere una chiara idea del ruolo di queste istituzioni nel sistema italiano (ed internazionale) del contemporaneo.
Questo non vuol dire, naturalmente, che una rete estesa del contemporaneo sia ipso facto garanzia di una crescente partecipazione dei cittadini, o che, nel caso del MAXXI e più in generale del sistema italiano, non ci siano problematiche anche serie di visione strategica e di sviluppo di adeguati modelli organizzativo-gestionali, nonché di uso efficace e trasparente delle risorse, tutti temi che Monti tocca nel suo pamphlet. E da questo punto di vista sarebbe importante un segnale di maggiore attenzione da parte del nostro Ministero, anche per ridare compattezza e resilienza ad una rete che per anni ha provato ad operare con una logica di sistema attraverso la funzione di coordinamento dell’AMACI, ma che in un momento come questo ha bisogno di un profondo ripensamento per affrontare sfide nuove. E soprattutto, per sciogliere il nodo decisivo: far capire e soprattutto sentire alla società civile italiana che, senza una solida cultura del contemporaneo, anche la nostra tanto decantata eredità culturale ci diventa estranea e acquista una valenza puramente e velleitariamente strumentale, tristemente riassunta dalla misera quanto oggi popolare metafora del «petrolio d’Italia».

Alessandro Monti, Il MAXXI ai raggi X. Indagine sulla gestione privata di un museo pubblico , Johan & Levi, Monza, pagg. 96, € 12,00

“Strumenti per ricordare il valore dei beni culturali”, di Michele Weiss – La Repubblica 05.04.15

Cultura e tecnologia mondi troppo lontani? Occorre ricredersi. Alcuni recenti progetti fanno capire che i contenuti e i network relativi a design, urbanistica, lettura e patrimonio archivistico ottengono i superpoteri grazie alle nuove frontiere del digitale. Al Cooper Hewitt di New York, museo leader nel design in America, è capitata una rivoluzione: approfittando del rinnovo dei locali l’istituzione ha ribaltato l’experience della visita. Merito di un’avveniristica penna “magica” digitale, che consente al museo di lanciare il claim della nuova era: «Anche tu puoi essere un designer!». Trovata di marketing ma non solo, perché il device permette un livello di approfondimento e interattività finora impensabili, spiega a Nòva Seb Chan, leader del team Digital and emerging Media del museo, incontrato all’Ifbookthen 2015: «All’ingresso, ogni visitatore riceve la penna e grazie alle potenti Api digitali comunica con tutti gli oggetti esposti». Lo strumento aiuta a sfruttare al meglio la digitalizzazione delle collezioni, continua: «Con le nuove tecnologie e la penna, lo spazio espositivo è aumentato del 60%, rendendo la visita un evento interattivo, creativo e multiplayer».
Le sale del museo sono disseminate di touchscreen 4K in cui inserire il nuovo device: se avete taggato un oggetto e volete saperne di più, lo scaricate al volo su uno schermo e via con l’esplorazione. Il plus? Visto che la penna è anche un supporto per disegnare, sui touchscreen si può rielaborare ogni progetto, giocando a fare i designer.
Alla fine della visita si riceve un codice con cui fare il backup sul pc di casa dell’experience fatta, chiude Chan: «I visitatori si divertono e spendono più tempo nel nuovo museo. Inoltre, sapendo cosa hanno salvato sulla penna, possiamo intervenire in tempo reale con innovative campagne di marketing super profilate». Tecnologia made in Usa ma zampino europeo per far decollare ovunque il nuovo modello di “museo partecipativo 2.0” grazie ai social: in collaborazione con Twitter è appena andato in scena #MuseumWeek2015, evento globale durato una settimana e sponsorizzato dal ministero per la Cultura francese con l’obiettivo di avviare una comunicazione coordinata e condivisa tra le istituzioni culturali mondiali, celebrandole presso il pubblico, chiamato a partecipare con la creazione di contenuti propri. A questa vera social media week della cultura hanno aderito oltre un migliaio di musei ed enti, che hanno accolto le direttive per usare ogni giorno un hashtag speciale, pensato anche per sensibilizzare i musei sull’importanza di sviluppare un’accurata strategia social. Su Museumweek2015.org ci sono le analytics dell’evento, con il traffico di tweet e retweet prodotto da tutti gli hashtag usati (180mila tweet e 420mila retweet): la scoperta è che i più attivi sono stati due enti italiani, l’area archeologica di Massaciuccoli Romana e il Museo Archeologico Nazionale Turritano di Porto Torres, dimostrazione che i social possono aiutare a comunicare e a promuoversi anche le istituzioni più piccole. Altro valido supporto tecnologico per il patrimonio archivistico, bibliografico e museale è «CollectiveAccess», un software open source sviluppato da una heritage agency piemontese, Promemoria. La piattaforma, che aiuta a gestire digitalmente una collezione valorizzandola sotto molteplici aspetti, è già in dote a molti enti e istituzioni del mondo, apprezzata anche per la community internazionale originata che ne garantisce sviluppo e implementazione.
Sempre nella Grande Mela ha fatto scalpore il nuovo progetto della New York Public Library, illustrato a Nòva da Peter Brantley, direttore del team Digital Library Applications – Nypl: «La “Nyc Space/Time Directory” è la prima piattaforma del mondo che contiene le mappe storiche della città digitalizzate e disponibili in open source per gli utenti. In pratica, è un’infografica storico urbanistica di New York in crowdsourcing, uno strumento in arricchimento continuo». L’interfaccia di navigazione è simile a quella di Google Maps, con tutti gli strumenti e le info trasformati in Tag attivi. «Per funzionare – continua –, c’è bisogno della partecipazione della cittadinanza: l’obiettivo è che siano gli utenti a inserire i loro contenuti, è un progetto che deve legare le persone alla città in modo diverso e per noi rappresenta una nuova era nella Crm con il pubblico». È possibile, ad esempio, inserire il proprio certificato di nascita geotaggandolo nell’ospedale dell’epoca, aggiungendoci delle foto. Interessa la Central Station nella Grande Depressione? Ecco che navigando nella mappa del 1930 la stazione rivive nelle foto e nei contenuti caricati dagli utenti e finora conservati nel cassetto. Prima o poi nel progetto entrerà anche la realtà aumentata, con la galassia delle mappe storiche digitali di New York supportata da Gate fisici tipo Totem, da cui attingere onsite una massa enorme di contenuti in crowdsourcing sulla città.

“Quel piccolo film che ci insegna ad amare i down”, di Michela Marzano – La Repubblica 05-04.15

È un video pieno di complicità e di amore quello che Giacomo realizza con il fratello Giovanni, un bimbo di 12 anni con sindrome di down. È un video che commuove e fa ridere. Ma è, soprattutto, un video estremamente coraggioso che fa a pezzi i pregiudizi.
ECHE , in pochi minuti, è capace di ribaltare i ruoli e stravolgere le aspettative. Al punto che, dopo un po’, nessuno spettatore sa più quale dei due fratelli sia quello “normale” e quello “anormale”, quello “sano” e quello “malato”. Certo, all’inizio ci sono ben poche sorprese. Il “diverso” è senz’altro Giovanni. È lui che si inceppa. Lui che risponde a casaccio. Lui che perde il filo e sembra proprio non potercela farcela a superare il colloquio di lavoro messo in scena dal fratello. Non sarà mai assunto, pensiamo tutti. Poi però, pian piano, i ruoli si invertono. Ed è proprio Giovanni ad incantarci, con quell’autenticità e con quella gioia di vivere di cui forse i “normali” non sono più capaci.
Allora perché all’inizio, guardando Giovanni, non possiamo evitare di pensare “poverino” — perché lo pensiamo, lo pensiamo tutti, magari anche solo per pochi istanti? Perché abbiamo spontaneamente la tendenza a valutare la qualità della vita di un bimbo con sindrome di down sulla base di standard che consideriamo oggettivi ma che poi, di oggettivo, hanno ben poco?
Forse perché i pregiudizi e i preconcetti con cui ci permettiamo di valutare l’esistenza altrui sono gli stessi che ci avvelenano la vita. Forse perché siamo i primi a passare troppo tempo a preoccuparci di corrispondere alle aspettative altrui. Forse perché ci siamo talmente tanto abituati a sforzarci di apparire come immaginiamo di dover essere che, dopo un po’, non sappiamo nemmeno più chi siamo e cosa vogliamo. A forza di conformarci, ci illudiamo che esista un unico modo per avere successo, riuscire nella vita, non essere dei falliti. A forza di rincorrere la normalità, pensiamo che la felicità la si possa meritare. E invece falliamo. Inevitabilmente e inesorabilmente. Perché rischiamo di passare accanto all’essenziale, ossia a tutto quello che, “anormale”, fa di noi ciò che siamo, ossia degli esseri unici e speciali proprio perché diversi.
Che il concetto di normalità sia solo il frutto di una costruzione, d’altronde, lo si sa ormai da molto tempo. Esattamente come da tempo si sa che non esiste alcun legame necessario tra l’essere esattamente come si immagina di dover essere e la felicità. Anzi. Come spiegava il filosofo e medico francese Georges Canguilhem, ogni persona ha una propria normalità e nessuno, ma proprio nessuno, è uguale agli altri. La diversità non è solo quella di alcune persone, ma è il tratto distintivo dell’umanità. Ognuno con le proprie differenze e con le proprie anormalità. Ognuno con l’equilibrio che riesce o meno a raggiungere facendo i conti non solo con quello che è e con quello che ha, ma anche e soprattutto con tutto ciò che non è e ciò che, molto probabilmente, non avrà mai. Certo, ci sono delle “differenze” con cui è più difficile convivere. Talvolta perché implicano una sofferenza particolare che sarebbe falso e ingiusto negare. Talvolta perché le regole della società non permettono a chi non è “adatto” — ai “quasi adatti” come scriveva Peter Hoeg — di realizzarsi e di vivere degnamente. Soprattutto in un momento in cui, come accade oggi, si ha tendenza a valorizzare sempre e solo il “più”. Correre di “più”. Lavorare di “più”. Essere “più” attenti, “più” precisi, più “conformi”. Immaginando che il “meno” sia sinonimo solo di infelicità e di dolore. Ma una società che non permette alle differenze di convivere è una società indegna, come direbbe il filosofo israeliano Avishai Margalit, che preferisce umiliare invece che accogliere e includere. Dimenticando che talvolta è proprio il “meno” che ci permette di capire che, nella vita, niente è come sembra. E che dietro le maschere e le apparenze si nasconde spesso un mondo sconosciuto che, in genere, contraddice le “norme” e la “normalità”. Come il sorriso e l’autenticità di Giovanni in questo video. Un bimbo di 12 anni con sindrome di down. Che forse è più capace di tanti a cogliere quegli istanti di gioia che appaiono solo quando la si smette di volere e di controllare sempre tutto.

“Manuela Ghizzoni: la conoscenza ti rende libera di scegliere”, di Jessica Bianchi – Tempo 02.04.15

Questa storia inizia nel 2001 con una diagnosi di tumore al seno. A raccontarcela è l’onorevole Manuela Ghizzoni. Una donna che, come tante, ha lottato contro la malattia e, con coraggio e consapevolezza, ha poi deciso di intervenire radicalmente, sottoponendosi dapprima a un intervento di asportazione dell’utero e delle ovaie e, successivamente, a una mastectomia.
“Avevo solo 39 anni quando, durante un’autopalpazione mi sono resa conto che qualcosa non andava. Solo quattro mesi prima, l’esame al quale mi ero sottoposta non aveva rilevato nulla di anomalo… Nel maggio del 2001 ho intrapreso la consueta procedura: intervento chirurgico, chemioterapia, radioterapia. Dal momento che mia madre e mia zia erano entrambe ammalate di cancro al seno, il dottor Fabrizio Artioli mi disse che una volta terminato il ciclo di cura avrei dovuto eseguire un test genetico. Risultai positiva al gene Brca1 e Brca2. La dottoressa Cortesi dell’Ambulatorio onco – genetico mi mise di fronte a un ventaglio di possibilità: un’intensificazione dei controlli al seno e alle ovaie oppure tra le opzioni (che peraltro rappresentano la prassi nei paesi scandinavi) mi paventò gli interventi di profilassi, mastectomia e asportazione di tube e ovaie”. Di fronte a questo scenario Manuela si prende del tempo. Per riflettere. A lungo.
“L’effettuazione costante di controlli peggiorava sensibilmente la qualità della mia vita: entravo in un perenne stato di ansia e, di conseguenza, ho pensato di rimuovere direttamente la causa. Non sono una donna che prende decisioni affrettate e, solo un anno dopo, nel 2003, ho deciso di procedere col primo intervento, quello che mi spaventava maggiormente, di asportazione di utero, tube e ovaie. Ormai avevo 42 anni: non ero diventata madre prima, non lo sarei diventata nemmeno dopo”. Manuela è lucida e serena: “la riduzione dell’insorgenza del cancro non è garantita al cento per cento nemmeno attraverso questi interventi drastici ma, di certo, si abbatte moltissimo la possibilità di ammalarsi nuovamente. Sono consapevole che le statistiche siano alquanto aleatorie ma, la mia, è stata una decisione presa con serenità. Condivisa col compagno che, in seguito, divenne anche mio marito. Questo intervento mi ha tranquillizzata ma non mi stancherò mai di ripetere che queste sono scelte radicali che non devono essere compiute sulla spinta emotiva”.
Sono poche le donne che decidono di uscire allo scoperto, di raccontare storie dolorose come queste, “anche se il numero cresce, probabilmente perché oggi è mutato l’atteggiamento dei medici, dapprima molto cauti nel consigliare questo tipo di opzione. Da Cortesi e Artioli io ho avuto tutte le informazioni di cui avevo bisogno, ho sciolto tutti i miei dubbi e mi sono sentita libera di scegliere. Grazie a loro ho acquisito quella libertà che solo la consapevolezza e la conoscenza ti possono dare. Ma sono stati numerosi i dottori incontrati nel mio percorso che hanno tentato di ricoprire il ruolo di padre o madre nel tentativo di dissuadermi”. Nel 2007, la madre di Manuela muore di tumore all’utero: “fu allora che decisi di intervenire sul seno in via definitiva. Io avevo già subito una quadrantectomia e, a differenza di Angelina Jolie che non si è mai ammalata e, di conseguenza, non ha mai fatto una terapia radiante, nel mio caso il chirurgo doveva operare un seno che aveva subito radiazioni. Esisteva un 50% di possibilità che il seno necrotizzasse. Dopo varie visite e consulti mi sono affidata alla dottoressa Lazzaretti di Carpi. L’esito finale è molto buono nel seno non trattato mentre nell’altro… beh, insomma, non è il massimo ma, almeno, non ho avuto necrosi”. Manuela ha incontrato altre donne. Ha raccontato loro cosa le è accaduto, mostrando come il suo corpo sia cambiato. Senza remore.
“Io ho imboccato una strada con coscienza e consapevolezza. So cosa potrebbe accadere ma non ci posso pensare ogni minuto, altrimenti la mia vita sarebbe finita nel 2001 e io sarei morta allora. Ora sto bene e mi auguro che queste scelte mi possano ripagare in termini di durata della vita. Ricordiamoci però che questa profilassi è adatta a un piccolissimo gruppo di donne e non è adatta a chi ha una familiarità o la possibilità, come tutti, di ammalarsi. Non vorrei che dopo l’outing di Angelina Jolie partisse una spinta alla mutilazione inconsapevole: i medici sono un punto di snodo fondamentale, devono essere rassicuranti, spiegare ogni alternativa praticabile, lasciando così alle donne la possibilità di imboccare la strada migliore per il loro benessere psicologico e fisico”.
“Io sono stata molto fortunata: mi sono sposata, ho fatto scelte di vita importanti… ci sono donne che, al contrario, di fronte a una diagnosi di cancro, vedono dissolvere la propria famiglia. Per loro nutro davvero grande pietà perché penso non vi sia nulla di peggio che ammalarsi e, al contempo, essere abbandonate dal compagno. Io sono stata certamente fortunata”.

Nomine, parlamentari Pd “Grazie a Gabrielli per il lavoro svolto” – comunicato stampa 02.03.15

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I parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari ringraziano il responsabile della Protezione civile Franco Gabrielli, nuovo prefetto di Roma, per l’importante lavoro svolto in occasione delle calamità naturali che, purtroppo, a più riprese, hanno colpito le nostre terre. Ecco la loro dichiarazione:

“Desideriamo ringraziare Franco Gabrielli per l’importante lavoro svolto come responsabile della Protezione civile nazionale, negli ultimi anni, nelle nostre terre a più riprese colpite da calamità naturali. Terremoto ed alluvione, in particolare, hanno visto la presenza rapida, fattiva ed efficace di Gabrielli. In quelle occasioni abbiamo potuto apprezzarne la solida preparazione tecnica, le capacità di guidare una struttura complessa e la genuina preoccupazione per le vittime delle calamità. Tutte qualità che ne fanno un uomo di Stato preparato ad affrontare la complessa organizzazione del prossimo Giubileo. Se la Capitale, quindi, guadagna una figura di “straordinaria preparazione” come ha già commentato il sindaco Marino, l’auspicio è che si scelga una successione alla Protezione civile in grado di garantire continuità al lavoro da lui svolto, premiando magari figure interne al Dipartimento che abbiamo queste caratteristiche. A Franco Gabrielli, quindi, i nostri migliori auguri di buon lavoro!”

“L’astrofisico italiano in copertina su Nature “Per fare scienza è bello avere 30 anni””, di Silvia Bencivelli – La Repubblica 01.04.15

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Ha risolto uno dei misteri dell’Universo: dove sono le stelle che mancano al conto? E si è guadagnato la copertina di Nature . Francesco Tombesi ha trentatré anni, è marchigiano ma ha studiato a Bologna e adesso è astrofisico alla Nasa, assistant research scientist all’università del Maryland, e associato Inaf. Abita in America da cinque anni e ha appena richiesto la carta verde per restarci. Ma lo ha fatto solo per necessità («mi stava scadendo il visto!»).
Esiste secondo lei un’età migliore per fare scienza?
«Penso che si possa fare buona scienza a tutte le età. Ma tra i trenta e i quaranta in effetti è più facile, perché si hanno più forze, più capacità di mettersi in gioco e di viaggiare per il mondo. Poi in genere gli impegni familiari a questa età sono minori.
E tecnologie e social network non favoriscono i giovani rispetto agli anziani?
«In media gli scienziati se la cavano bene con le tecnologie. Non dimentichiamo che il World wide web è nato al Cern per facilitare le comunicazioni tra scienziati! Poi forse è vero che i giovani sono più ben disposti verso i social network, perché li usano per la propria vita privata. E questo può essere un vantaggio».
Lei è considerato giovane nel mondo della ricerca?
«Sì, anche qui negli Stati Uniti. Ma non nel senso di “inesperto” o di “incapace di assumersi responsabilità”. Qui passano circa quattro anni tra il dottorato e l’assunzione in un’università o in un centro di ricerca. Invece in Italia e in altre parti del mondo passano anche più di dieci anni: significa che a lungo si è un “giovane incapace di assumersi responsabilità”. E questo, oltre a non essere giusto perché ritarda la carriera, ti impedisce di dare alla scienza quello che potresti dare».
Che cos’è la ricerca con cui si è guadagnato la copertina di Nature ?

«Abbiamo dimostrato che il buco nero supermassiccio all’interno delle galassie distrugge i gas che formerebbero nuove stel- le. Cioè: finora le simulazioni al computer con cui studiavamo la formazione delle galassie ci davano un numero di stelle sempre più alto di quello reale. Le ipotesi erano due: che le stelle grandi, esplodendo in supernove, emettessero venti capaci di rimuovere i materiali intorno a loro. O che a farlo fosse il buco nero. Ecco: abbiamo dimostrato che è il buco nero. Che poi, per questo, è stato chiamato Attila».

Come lo avete dimostrato?
«Abbiamo osservato la galassia IRAS F11119 con due telescopi: Suzaku, un satellite a 400 km di altezza intorno alla Terra, che osserva l’Universo nei raggi X. E Herschel, un satellite Esa che osservava l’Universo nell’infrarosso»

Il suo studio è firmato oltre a lei da tre ricercatori con affiliazione americana ma di origine venezuelana, canadese e inglese, e due europei. Come nasce una collaborazione così?

«Abbiamo scritto il progetto per la Nasa. Quando il progetto è stato accettato abbiamo proposto ai due massimi esperti di modelli di studio per i venti nei raggi X e nell’infrarosso di collaborare, cioè lo spagnolo e l’inglese. Ed è nato un team piccolo ma completo. Poi con gli europei abbiamo lavorato a distanza, senza nemmeno incontrarci mai di persona, perché la scienza ormai funziona così: non c’è bisogno di risiedere in un posto in particolare. Infatti collaboro anche con italiani, giapponesi, indiani e così via».

E il suo futuro come lo immagina?

«Beh, se potessi scegliere tornerei in Italia. È per questo che la carta verde la sto facendo solo ora… Attenzione: io non sono “fuggito” in America. Sono venuto qui per la mia crescita scientifica, per poi tornare. Si vedrà se ci riuscirò. Oggi l’Italia ha tutto quello che serve per fare ricerca, ma è un periodo di scarsi investimenti. Mentre qui ho iniziato presto a scrivere progetti per la Nasa: ne ho avuto uno da 250mila dollari e un altro da 170mila. Non solo: partecipo ad altri progetti tra cui quello per la costruzione di Astro-H, il successore di Suzaku».

Dagli enti di ricerca una task force per il restauro dei beni culturali – Il Sole 24 Ore 31.03.15

Il restauro e la conservazione delle opere d’arte in Italia si fanno sempre più scientifici. Il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), il Consorzio interuniversitario nazionale per la scienza e tecnologia dei materiali (Instm) e l’Opificio delle pietre dure (Opd) si sono uniti per creare una rete mobile e integrata di esperti, «Iperion_Ch.it», in grado di fare le diagnosi più sofisticate possibili sull’opera d’arte per organizzarne il restauro e la conservazione.

Gli interventi per i beni culturali
Questo progetto è il nodo italiano di una rete europea per i beni culturali nell’ambito del programma europeo di ricerca Horizon 2020. «A Iperion partecipano – spiega Francesco Taccetti, coordinatore della rete beni culturali dell’Infn – 25 soggetti da diversi Paesi. In Italia abbiamo voluto costituire un blocco italiano che si allargherà a varie università», finanziato dal ministero dell’Istruzione. «Usiamo tecniche sofisticate sviluppate in laboratorio – continua Taccetti – e gli strumenti degli enti di ricerca. Finora queste tecniche non sono mai state usate in modo così massiccio da enti di ricerca tutti insieme». Per fare le loro diagnosi, i ricercatori si servono di tecniche come la Fluorescenza X, che permette di vedere quali elementi sono presenti nel materiale, l’analisi Raman, con cui si vedono le molecole, e la Spettroscopia di assorbimento infrarosso, che analizza gli strati molecolari. Attualmente sono impegnati a valutare lo stato di conservazione del Mosaico di Alessandro della casa del fauno di Pompei presso il museo archeologico nazionale di Napoli. Gli altri interventi per il 2014-2015 riguardano alcuni dipinti di Pollock del Museo Guggenheim di Venezia, la pala di San Bernardino di Piero della Francesca della Pinacoteca di Brera a Milano, il Trittico del Maestro dei Fogliami Ricamati nella chiesa di Polizzi Generosa, opere del Divisionismo italiano alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, l’Incontro dei pellegrini con Papa Ciriaco di Vittore Carpaccio nella Galleria dell’Accademia di Venezia, le pitture murali della chiesa rupestre di Sant’Angelo di Casalrotto.

Il progetto europeo
Il progetto, Hiperion-Ch.eu conta su finanziamento Horizon 2020 per la rete europea pari a circa 8 milioni di euro in 4 anni, mentre per la parte italiana, cui partecipano ricercatori di Cnr, Infn, Instm e Opd, il Miur ha stanziato 500mila euro nel 2014 e conta di investire altri 425mila euro nel 2015. La rete italiana, insieme a quelle di altri paesi europei è parte di un più ampio progetto per la costruzione di una infrastruttura cross-disciplinare europea per le scienze e le tecnologie della conservazione (E-Rihs). Fra le altre attività, la rete offre accesso gratuito ai laboratori, agli strumenti portatili di diagnosi e alle competenze tecnico-scientifiche per mezzo di team interdisciplinari di ricercatori che supportano progetti proposti da soggetti pubblici e privati selezionati attraverso uno specifico bando.