Niente da fare per Benevento, che invocava la «storia del territorio sannita», e nemmeno per Rovigo, che sul piatto metteva la «peculiarità del Polesine». Giorni contati per Treviso, troppo piccola di appena 23 chilometri quadrati, e per Terni, che pur di sopravvivere aveva suggerito il trasloco a qualche Comune dalla vicina Perugia. La nuova cartina delle Province italiane è agli ultimi ritocchi: arriverà con un decreto legge all’esame del primo Consiglio dei ministri di novembre.
Una mappa che mette insieme le proposte che stanno arrivando in queste ore dalle Regioni. E che respinge le tante richieste di deroga, applicando senza sconti le regole fissate con la legge sulla spending review : le Province che hanno meno di 350 mila abitanti o un’estensione inferiore ai 2.500 chilometri quadrati dovranno essere accorpate con quelle vicine. Considerando solo le Regioni a Statuto ordinario, le Province scenderanno da 86 a 50, comprese le dieci Città metropolitane. Quelle tagliate saranno trentasei, alle quali bisogna aggiungere un’altra decina di cancellazioni nelle Regioni a statuto speciale, che però hanno sei mesi di tempo per adeguarsi e decideranno loro come farlo. Le uniche che potrebbero essere recuperate sono Sondrio e Belluno. Per il resto palla avanti e pedalare.
«Non possiamo pensare che una riforma importante come questa — dice il ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi — possa venir meno solo per delle resistenza localistiche». Anzi. Per mettere al sicuro il risultato ed evitare la tentazione del dietrofront, vedi campagna elettorale e nuovo governo, il decreto prevede un processo a tappe forzate. Dalla fine di giugno del 2013 tutte le Province, anche quelle che non si vedranno toccare i confini, saranno guidate da un commissario. Toccherà a lui curare la transizione verso il nuovo regime. Un’accelerazione non da poco perché la legge sulla spending review lasciava intendere che sarebbero andate a scadenza naturale, mentre nelle Città metropolitane il processo sarebbe dovuto partire all’inizio del 2014. Resta da decidere solo se il commissario sarà esterno, nominato dal prefetto, o se il ruolo verrà affidato al presidente uscente della Provincia.
Più probabile la seconda ipotesi perché, nei limiti del possibile, si andrà incontro alle richieste del territorio. È il caso della Basilicata. La Regione avrà una sola Provincia ma vorrebbe spostarne la sede a Matera, lasciando invece a Potenza gli uffici regionali. Si può fare. Pronti al confronto anche sugli uffici periferici dello Stato, come le questure o le prefetture. Il decreto dice che ci sarà una «consultazione del governo con il territorio» in modo da spalmare la presenza dello Stato. Per capire: se la nuova Provincia di Modena e Reggio Emilia avrà la sede politica a Modena, la questura o la motorizzazione potrebbero andare invece a Reggio. Cosa succederà ai dipendenti? «Nell’immediato — dice il ministro — non ci sarà una contrazione del personale ma ci potrebbe essere uno spostamento fisico. Naturalmente i criteri di quest’operazione andranno studiati con un esame congiunto insieme ai sindacati».
Una modifica riguarderà anche il nuovo sistema elettorale, quel meccanismo di secondo livello con i consiglieri eletti non più dai cittadini ma dai consiglieri comunali sul quale a giorni si pronuncerà la Corte costituzionale. La sostanza non cambierà ma i voti saranno ponderati per evitare che, all’interno dei nuovi consigli provinciali, i Comuni piccoli pesino come quelli grandi. Ci siamo, insomma. «Qualche intoppo può sempre arrivare — dice Patroni Griffi — ma faremo di tutto per superarlo». E non finisce qui. «Bisognerà andare avanti riflettendo sia sulle dimensioni delle Regioni sia sul numero dei Comuni: sono 8 mila, troppi, e la metà ha meno di 5 mila abitanti». Un altro decreto, sulle macro Regioni e le fusioni dei Comuni? «Per carità, tocca a chi ci sarà nella prossima legislatura».
Il Corriere della Sera 22.10.12
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Le Province si difendono con una guerra di cavilli. Entro domani le proposte di riordino, di Antonello Cherchi, Giuseppe Latour, Francesco Nariello
Riordino con deroga per le province. La voglia di cancellare le amministrazioni che non rientrano nei parametri fissati dal Governo (2.500 chilometri quadrati e almeno 300mila abitanti) è poca e quasi tutte le regioni sono a caccia di scorciatoie. I giochi sono praticamente fatti. Entro domani le quindici amministrazioni regionali a statuto ordinario devono inviare a Palazzo Chigi le proposte di riorganizzazione del loro territorio. Dopodiché la palla passerà nelle mani dell’Esecutivo, che deve disegnare la nuova geografia.
Compito che si prospetta assai complicato, perché le ipotesi di riordino che stanno per arrivare sul tavolo di Palazzo Chigi hanno, in gran parte dei casi, cercato di aggirare i paletti fissati dal Governo. Solo l’Emilia Romagna e la Liguria hanno, infatti, definito una proposta che rispetta le indicazioni dell’Esecutivo. È pur vero che diverse amministrazioni decideranno all’ultimo momento, tra oggi e domani, ma la prospettiva appare ormai delineata: salvare il salvabile attraverso la richiesta di deroghe. La lista delle eccezioni da Nord a Sud è lunghissima. A conti fatti, più della metà delle regioni manderà – a meno di aggiustamenti dell’ultimo minuto – una proposta che non si attiene alle regole.
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Il record delle deroghe richieste appartiene alla Lombardia. Qui, l’ipotesi presentata dal Cal già prevedeva tre eccezioni (Monza-Brianza, Sondrio e Mantova). Ma la giunta, con una delibera che sarà formalizzata oggi, chiederà di lasciare invariato l’attuale assetto, invocando, di fatto, otto deroghe per mantenere in vita le province fuori parametri. In attesa dell’esito del ricorso che la Lombardia ha presentato alla Corte costituzionale. Il fronte giuridico, però, finora non ha arriso alle amministrazioni, che si sono ritrovate sconfitte davanti al Tar. Nei giorni scorsi, infatti, il tribunale amministrativo del Lazio ha respinto la richiesta di sospensiva, avanzata da alcune province, della delibera con cui il Governo a fissato i criteri del riordino.
Insomma, le si tenta tutte perché niente cambi. Come in Veneto, che avrebbe dovuto cancellare quattro province – Rovigo, Belluno, Padova e Treviso – e invece alla fine si è deciso di mantenere gli attuali confini. Lasciando così la “patata bollente” al Governo. Una situazione che assomiglia a quella del Lazio. Dove anche la presidente Polverini ha deciso di impugnare davanti alla Consulta la norma che impone la riorganizzazione. E, per coerenza con questa scelta, non presenterà alcun piano di riassetto. La strada, d’altra parte, risulta obbligata: due grandi province – con l’accorpamento di Viterbo a Rieti e Latina a Frosinone – e la città metropolitana di Roma.
Magmatica la situazione pure in Toscana, dove le amministrazioni da tagliare erano addirittura nove, con il Cal che è faticosamente arrivato ad avanzare due ipotesi, le quali prevedono rispettivamente, quattro o cinque province più Firenze. Tutto però è rimandato alla decisione che il Consiglio prenderà oggi.
Per completare il quadro delle eccezioni restano altri cinque casi, dove le soluzioni individuate sono spesso fantasiose. La Basilicata chiede, in prima istanza, di lasciare tutto com’è oppure, in subordine, di formare la “provincia unica di Lucania”, con Matera capoluogo di provincia e Potenza capoluogo di regione. L’Umbria propone di trasferire alcuni comuni da Perugia a Terni. La Campania di salvare Benevento per ragioni storico-culturali. Il Molise di barattare la sopravvivenza di Isernia con una riforma degli enti sub-regionali. E le Marche sperano di mantenere Macerata, a cui mancano poche migliaia di abitanti rispetto a quanto chiesto dal Governo.
Il Sole 24 Ore 22.10.12
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Scuola, lunedì si parla della scomparsa dei Provveditorati
Incontro pubblico organizzato dal Forum Scuola del Pd modenese a Palazzo Europa Si terrà nel pomeriggio di lunedì 22 ottobre a Modena l’incontro pubblico dal titolo “La scomparsa dei Provveditorati. Tra riforma degli organi collegiali e nuove competenze delle Regioni” organizzato dal Forum Scuola del Pd modenese. Interverranno le parlamentari Pd Manuela Ghizzoni e Mariangela Bastico, il consigliere regionale Luciano Vecchi e il dirigente scolastico Omer Bonezzi. L’appuntamento è a Palazzo Europa dalle ore 17.00.
La scuola italiana e le difficoltà, sempre più stringenti, in cui si trova a interpretare il suo ruolo di formazione dei giovani saranno al centro di un incontro pubblico organizzato per il pomeriggio di lunedì prossimo dal Forum Scuola del Pd modenese. Titolo dell’iniziativa: “La scomparsa dei Provveditorati. Tra riforma degli organi collegiali e nuove competenze delle Regioni”. La presidente della Commissione Istruzione della Camera dei deputati Manuela Ghizzoni parlerà della Riforma degli organi collegiali, il consigliere regionale Pd Luciano Vecchi farà il punto sulle nuove competenze delle Regioni, mentre il dirigente scolastico della Direzione didattica di Vignola Omer Bonezzi parlerà di Invalsi e nuove forme di valutazione. Dopo il dibattito, concluderà i lavori la senatrice Mariangela Bastico, ex vice-ministro all’Istruzione nel Governo Prodi. Presiederà i lavori dell’incontro Cinzia Cornia, responsabile del Forum Scuola del Pd modenese: “Il Governo Monti sta varando norme che modificheranno radicalmente la governance della scuola – spiega Cinzia Cornia – come la riforma degli organi collegiali, la cancellazione dei Provveditorati con la conseguente assunzione di competenze del Prefetto e della Regione. In questo momento poi l’ultima manovra finanziaria ha riaperto un forte dibattito in merito all’aumento dell’orario frontale dei docenti: sarebbe un ulteriore atto contro la scuola e l’organizzazione della didattica”. L’incontro è fissato per lunedì 22 ottobre alla Sala C di Palazzo Europa, a Modena, a partire dalle ore 17.00. “L’appuntamento di lunedì – conclude Cinzia Cornia -vuole essere un’occasione per rimettere al centro la scuola, le condizioni in cui versa e le proposte da avanzare per salvaguardarla e garantire a tutti i ragazzi un ciclo d’istruzione (0 – 18 anni) di qualità”.
"Scuola, il colpo è inaccettabile", di Mario Castagna
Davanti al ministero a correggere i compiti. È la protesta che centinaia di insegnanti, dopo essersi convocati via sms, hanno inscenato ieri a Roma per contestare la norma contenuta nella legge di Stabilità che porta da 18 a 24 le ore settimanali di insegnamento: perché il lavoro di un insegnante – questo il senso della protesta – non finisce a scuola ma continua a casa, nel tempo libero o per strada come ieri. E Bersani lancia un duro messaggio al governo: o cambiano le norme sulla scuola contenute nella legge di Stabilità o il Pd non le voterà. La dichiarazione di Bersani sulla necessità di una retromarcia per le misure sulla scuola contenute nella legge di stabilità, sono l’ultima dura presa di posizione del Partito democratico a difesa della scuola pubblica. Non è la prima volta che il Pd , negli ultimi anni sempre sulle barricate contro l’ipotesi di tagli all’istruzione, alza la voce anche contro il governo che gode della sua fiducia. Lo aveva già fatto contro il provvedimento sulla meritocrazia del ministro Profumo, riuscendo ad ottenerne il ritiro senza alzare polveroni. Questa volta però Bersani ha usato parole piuttosto forti, minacciando, per la prima volta, di non votare a favore del governo. Non è solo il clima delle primarie a suggerire al segretario dem di alzare i toni. Giungono infatti pressioni da molti deputati, dai responsabili scuola del partito ma anche dagli esponenti del governo, come il sottosegretario Rossi Doria, per fermare alcune misure che sembrano francamente ingiustificate. In questi ultimi anni, questo il succo del pensiero di molti esponenti democratici, il mondo della scuola ha già dato molto e ci si aspettava un’inversione di tendenza. Il governo Monti aveva promesso di rimettere al centro dei processi di crescita il sapere e l’istruzione ed invece nell’ultima – l’ennesima – manovra economica il governo chiede al Miur di tagliare di 183 milioni di euro il proprio bilancio. Per ottenere questo risparmio di spesa si chiede ai docenti di incrementare del 30% l’orario di lavoro a parità di salario. Le ore lavorate in più serviranno ad evitare di chiamare i supplenti. Ma il risparmio così ottenuto sarà però largamente superiore ai 183 milioni richiesti dal ministero dell’Economia, arrivando addirittura, secondo le stime dei sindacati e del Pd, ad 1 miliardo di euro l’anno. Un eccesso di zelo del ministro Profumo che vuole fare più e meglio di quanto richiesto dal governo. Una dieta strettissima che però rischia di rendere indigeste le carote destinate ai docenti e agli studenti italiani.
Il pressing sul governo ha già ottenuto i suoi frutti. Due norme che il Pd con- testava, una sui docenti inidonei obbligati a diventare personale tecnico o amministrativo e l’altra sulle nuove certificazioni richieste per gli studenti disabili, sono sparite dalla bozza di decreto. Una parziale vittoria ma ora il Pd si appresta, sul piede di guerra, a contrastare con ogni mezzo l’aumento di orario per i docenti.
Solo questa settimana si saprà se nella commissione Bilancio della Camera si riuscirà a trovare una nuova copertura ai tagli proposti dal governo. Bersani ha dichiarato più volte che i saldi dovranno rimanere invariati e la prima proposta del Pd è di spostare quel taglio dal capitolo di bilancio destinato all’istruzione a quello destinato alla difesa. In alternativa si possono trovare fonti di risparmio anche all’interno del bilancio della scuola ma questo lavoro deve essere fatto in maniera mirata. Una delle proposte del Pd è l’adozione del software open source (gratuito e senza costi di licenza) nei computer delle scuole. Questa misura potrebbe portare ad un risparmio di un centinaio di milioni di euro.
Ma è la situazione generale dei docenti italiani, sempre più a rischio impoverimento, a preoccupare il Pd. Se il titolo di Professore era prima un vanto, oggi sembra quasi uno stigma. I docenti italiani già lavorano più ore dei loro colleghi europei sia nella scuola primaria (22 ore settimanali contro 19,6 di media) che nella secondaria superiore (18 contro 16,3). Gli stipendi invece rimangono al palo. Il loro potere d’acquisto, secondo Eurydice, la banca dati europea sulla scuola, è calato leggermente a partire dal 2010 ma il rischio grosso è che, a seguito delle misure di austerity, siano loro i più toccati dai tagli. Sedici Paesi Ue hanno già congelato o addirittura ridotto gli stipendi per i docenti. Gli insegnanti di Irlanda, Grecia, Spagna, Portogallo sono stati i più colpiti. Il rischio è che i prossimi siano proprio gli italiani. Con ieri il Pd ha forse voluto lanciare il segnale d’allarme prima che sia troppo tardi.
L’Unità 22.10.12
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“Bersani: non votiamo”, di Bianca Di Giovanni
Sulla scuola è rivolta. Anche parlamentare. «Voglio dirlo con chiarezza: noi non saremo in grado di votare così come sono le norme sulla scuola, sono norme al di fuori di ogni contesto di riflessione sull’organizzazione scolastica e finirebbero per dare un colpo ulteriore alla qualità dell’offerta formativa». Lo dice a chiare lettere il segretario Pd Pier Luigi Bersani. I Democratici annunciano il voto negativo, se il governo dovesse insistere nel mantenere quel testo. In particolare la disposizione che porta a 24 ore settimanali l’orario dei professori: sei ore in più per coprire «spezzoni» e supplenze giornaliere. Tagliando fuori, così, circa 30mila precari, secondo la Cgil, circa 10mila secondo il ministero. Da cui fanno sape- re di star già lavorando per soluzioni alternative. Il sottosegretario Marco Rossi Doria assicura: nessun taglio ai posti di lavoro.
«Sono contento che Bersani alla fine la pensi come noi sulla scuola e sugli effetti disastrosi delle scelte del governo – ha commentato subito Nichi Vendola – Ora però aspettiamo di vedere coerenza e comportamento dei parlamentari Pd. Il segretario Pd alza il livello del confronto. «In questi giorni continueremo nell’approfondimento della legge di Stabilità e discuteremo con altri gruppi di maggioranza cercando il massimo di convergenza», assicura. Nel rispetto dei saldi, «chiediamo al governo di rendersi disponibile a modifiche significative – continua – Noi metteremo attenzione alla questione fiscale cercando una soluzione più equa e più adatta ad incoraggiare la domanda interna». E non solo. Tra i punti sotto «osservazione» anche gli esodati, per cui gli ulteriori 100 milioni stanziati non bastano ancora. Ma le norme sulla scuola, per il segretario Pd, «così come sono non saremo in grado di votarle –
insiste il segretario – Voglio credere che ciò sarà ben compreso dal governo. Diversamente saremmo di fronte ad un problema davvero serio».
Il «problema serio» significa che il governo uscirebbe battuto in Parlamento, e allora sarebbero guai. Il ministro Francesco Profumo, tuttavia, ha già fatto sapere di essere pronto a modifiche. La norma sull’aumento dell’orario avrebbe prodotto 720 milioni di risparmi nel settore, rispetto ai 183 richiesti da esigenze di bilancio. L’eccedenza sarebbe stata reinvestita nell’edilizia scolastica e in programmi di formazione. Ma per gli insegnanti quello schema è ingestibile, tanto che ogni giorno spuntano manifestazioni di protesta. Formazione e edilizia dovranno trovare risorse da altre parti e non nelle tasche degli insegnanti. Gli uffici di Viale Trastevere stanno già studiando misure alternative, con limature di spesa fondate sull’efficientamento degli uffici. Per ora non si supereranno i 183 milioni richiesti.
«Siamo in piena sintonia con il Presi- dente Napolitano: anche per noi la scuola è parte fondamentale della nostra società, ed è in questo senso che i parlamentari del Pd si stanno impegnando», aggiunge l’europarlamentare Debora Serracchiani. La quale attacca le «vacue» uscite della Lega sull’abolizione dei compiti a casa. «Quelli del Carroccio – aggiunge – parlano senza pensare ai danni che provocano crean- do false aspettative in migliaia di precari del Nord in attesa di stabilizzazione».
IL FISCO E I MENO ABBIENTI
Ma da modificare per il Pd c’è molto di più che la scuola. Sul fisco il relatore Pier Paolo Baretta chiede un «serio confronto tra la maggioranza ed il governo». Nella composizione della legge di Stabilità «i redditi più bassi risultano in assoluto i più penalizzati – aggiunge Ba- retta – converrà rimodulare la distribuzione» tra la riduzione dell’Irpef e l’aumento dell’Iva. Ormai sono sempre più numerosi gli istituti che valutano peggiorativo l’intervento fiscale soprattutto per le fasce più deboli. Ma il ministro Vittorio Grilli continua a difendere la «sua» legge. Intervistato ieri dall’Avvenire ha annunciato che ci sono 900 milioni disponibili per le modifiche, ma che non accetterà «controriforme». «Grilli deve finirla di fare propaganda», commenta Stefano Fassina.
Su un punto il ministro annuncia novità in arrivo: il nuovo Isee (indicatore di situazione economica equivalente), cioè quello strumento in base al quale si erogano trasferimenti o sconti su servizi sociali. Il nuovo testo è già stato preparato dal ministero del Welfare, e già la prossima settimana andrà al vaglio dell’Economia. Per essere varato servono almeno altri due passaggi (Consiglio di Stato e commissioni parlamentari), per questo non vedrà la luce prima della fine dell’anno. Per arrivare poi all’applicazione servirà che i Comuni lo adottino, con il relativo regolamento. Il nuovo testo presenta molte novità: si prevede ad esempio anche l’indicazione delle spese per la badante, o dei costi per la casa sia degli affittuari che dei proprietari. Inoltre, proprio a causa della crisi, si offre la possibilità di fare riferimento alle condizioni correnti, e non a quelle dell’anno prima, per poter «registrare» anche i casi di disoccupazione o di perdita di reddito di altro tipo. Inoltre è previsto che tutti i dati che l’amministrazione già possiede (per esempio la dichiarazione dei redditi Irpef) vengano acquisiti automaticamente. Un occhio di riguardo viene dato alle famiglie con minori.
L’Unità 22.10.12
Ma sull’idea del ministro di «incro- ciare» i dati Isee con quelli Irpef per aiutare i cosiddetti incapienti (quelli tanto poveri che non pagano le tasse) i tempi sono ancora lunghissimi. Di fat- to, basare gli sconti fiscali o i trasferi- menti non più sulle dichiarazioni, signi- ficherebbe rivoluzionare tutte le detra- zioni e deduzioni (non solo tagliarle co- me è stato fatto oggi). Insomma, è un lavoro ancora da fare. Per ora resta l’aggravio per le famiglie.
"Scuola, il colpo è inaccettabile", di Mario Castagna
Davanti al ministero a correggere i compiti. È la protesta che centinaia di insegnanti, dopo essersi convocati via sms, hanno inscenato ieri a Roma per contestare la norma contenuta nella legge di Stabilità che porta da 18 a 24 le ore settimanali di insegnamento: perché il lavoro di un insegnante – questo il senso della protesta – non finisce a scuola ma continua a casa, nel tempo libero o per strada come ieri. E Bersani lancia un duro messaggio al governo: o cambiano le norme sulla scuola contenute nella legge di Stabilità o il Pd non le voterà. La dichiarazione di Bersani sulla necessità di una retromarcia per le misure sulla scuola contenute nella legge di stabilità, sono l’ultima dura presa di posizione del Partito democratico a difesa della scuola pubblica. Non è la prima volta che il Pd , negli ultimi anni sempre sulle barricate contro l’ipotesi di tagli all’istruzione, alza la voce anche contro il governo che gode della sua fiducia. Lo aveva già fatto contro il provvedimento sulla meritocrazia del ministro Profumo, riuscendo ad ottenerne il ritiro senza alzare polveroni. Questa volta però Bersani ha usato parole piuttosto forti, minacciando, per la prima volta, di non votare a favore del governo. Non è solo il clima delle primarie a suggerire al segretario dem di alzare i toni. Giungono infatti pressioni da molti deputati, dai responsabili scuola del partito ma anche dagli esponenti del governo, come il sottosegretario Rossi Doria, per fermare alcune misure che sembrano francamente ingiustificate. In questi ultimi anni, questo il succo del pensiero di molti esponenti democratici, il mondo della scuola ha già dato molto e ci si aspettava un’inversione di tendenza. Il governo Monti aveva promesso di rimettere al centro dei processi di crescita il sapere e l’istruzione ed invece nell’ultima – l’ennesima – manovra economica il governo chiede al Miur di tagliare di 183 milioni di euro il proprio bilancio. Per ottenere questo risparmio di spesa si chiede ai docenti di incrementare del 30% l’orario di lavoro a parità di salario. Le ore lavorate in più serviranno ad evitare di chiamare i supplenti. Ma il risparmio così ottenuto sarà però largamente superiore ai 183 milioni richiesti dal ministero dell’Economia, arrivando addirittura, secondo le stime dei sindacati e del Pd, ad 1 miliardo di euro l’anno. Un eccesso di zelo del ministro Profumo che vuole fare più e meglio di quanto richiesto dal governo. Una dieta strettissima che però rischia di rendere indigeste le carote destinate ai docenti e agli studenti italiani.
Il pressing sul governo ha già ottenuto i suoi frutti. Due norme che il Pd con- testava, una sui docenti inidonei obbligati a diventare personale tecnico o amministrativo e l’altra sulle nuove certificazioni richieste per gli studenti disabili, sono sparite dalla bozza di decreto. Una parziale vittoria ma ora il Pd si appresta, sul piede di guerra, a contrastare con ogni mezzo l’aumento di orario per i docenti.
Solo questa settimana si saprà se nella commissione Bilancio della Camera si riuscirà a trovare una nuova copertura ai tagli proposti dal governo. Bersani ha dichiarato più volte che i saldi dovranno rimanere invariati e la prima proposta del Pd è di spostare quel taglio dal capitolo di bilancio destinato all’istruzione a quello destinato alla difesa. In alternativa si possono trovare fonti di risparmio anche all’interno del bilancio della scuola ma questo lavoro deve essere fatto in maniera mirata. Una delle proposte del Pd è l’adozione del software open source (gratuito e senza costi di licenza) nei computer delle scuole. Questa misura potrebbe portare ad un risparmio di un centinaio di milioni di euro.
Ma è la situazione generale dei docenti italiani, sempre più a rischio impoverimento, a preoccupare il Pd. Se il titolo di Professore era prima un vanto, oggi sembra quasi uno stigma. I docenti italiani già lavorano più ore dei loro colleghi europei sia nella scuola primaria (22 ore settimanali contro 19,6 di media) che nella secondaria superiore (18 contro 16,3). Gli stipendi invece rimangono al palo. Il loro potere d’acquisto, secondo Eurydice, la banca dati europea sulla scuola, è calato leggermente a partire dal 2010 ma il rischio grosso è che, a seguito delle misure di austerity, siano loro i più toccati dai tagli. Sedici Paesi Ue hanno già congelato o addirittura ridotto gli stipendi per i docenti. Gli insegnanti di Irlanda, Grecia, Spagna, Portogallo sono stati i più colpiti. Il rischio è che i prossimi siano proprio gli italiani. Con ieri il Pd ha forse voluto lanciare il segnale d’allarme prima che sia troppo tardi.
L’Unità 22.10.12
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“Bersani: non votiamo”, di Bianca Di Giovanni
Sulla scuola è rivolta. Anche parlamentare. «Voglio dirlo con chiarezza: noi non saremo in grado di votare così come sono le norme sulla scuola, sono norme al di fuori di ogni contesto di riflessione sull’organizzazione scolastica e finirebbero per dare un colpo ulteriore alla qualità dell’offerta formativa». Lo dice a chiare lettere il segretario Pd Pier Luigi Bersani. I Democratici annunciano il voto negativo, se il governo dovesse insistere nel mantenere quel testo. In particolare la disposizione che porta a 24 ore settimanali l’orario dei professori: sei ore in più per coprire «spezzoni» e supplenze giornaliere. Tagliando fuori, così, circa 30mila precari, secondo la Cgil, circa 10mila secondo il ministero. Da cui fanno sape- re di star già lavorando per soluzioni alternative. Il sottosegretario Marco Rossi Doria assicura: nessun taglio ai posti di lavoro.
«Sono contento che Bersani alla fine la pensi come noi sulla scuola e sugli effetti disastrosi delle scelte del governo – ha commentato subito Nichi Vendola – Ora però aspettiamo di vedere coerenza e comportamento dei parlamentari Pd. Il segretario Pd alza il livello del confronto. «In questi giorni continueremo nell’approfondimento della legge di Stabilità e discuteremo con altri gruppi di maggioranza cercando il massimo di convergenza», assicura. Nel rispetto dei saldi, «chiediamo al governo di rendersi disponibile a modifiche significative – continua – Noi metteremo attenzione alla questione fiscale cercando una soluzione più equa e più adatta ad incoraggiare la domanda interna». E non solo. Tra i punti sotto «osservazione» anche gli esodati, per cui gli ulteriori 100 milioni stanziati non bastano ancora. Ma le norme sulla scuola, per il segretario Pd, «così come sono non saremo in grado di votarle –
insiste il segretario – Voglio credere che ciò sarà ben compreso dal governo. Diversamente saremmo di fronte ad un problema davvero serio».
Il «problema serio» significa che il governo uscirebbe battuto in Parlamento, e allora sarebbero guai. Il ministro Francesco Profumo, tuttavia, ha già fatto sapere di essere pronto a modifiche. La norma sull’aumento dell’orario avrebbe prodotto 720 milioni di risparmi nel settore, rispetto ai 183 richiesti da esigenze di bilancio. L’eccedenza sarebbe stata reinvestita nell’edilizia scolastica e in programmi di formazione. Ma per gli insegnanti quello schema è ingestibile, tanto che ogni giorno spuntano manifestazioni di protesta. Formazione e edilizia dovranno trovare risorse da altre parti e non nelle tasche degli insegnanti. Gli uffici di Viale Trastevere stanno già studiando misure alternative, con limature di spesa fondate sull’efficientamento degli uffici. Per ora non si supereranno i 183 milioni richiesti.
«Siamo in piena sintonia con il Presi- dente Napolitano: anche per noi la scuola è parte fondamentale della nostra società, ed è in questo senso che i parlamentari del Pd si stanno impegnando», aggiunge l’europarlamentare Debora Serracchiani. La quale attacca le «vacue» uscite della Lega sull’abolizione dei compiti a casa. «Quelli del Carroccio – aggiunge – parlano senza pensare ai danni che provocano crean- do false aspettative in migliaia di precari del Nord in attesa di stabilizzazione».
IL FISCO E I MENO ABBIENTI
Ma da modificare per il Pd c’è molto di più che la scuola. Sul fisco il relatore Pier Paolo Baretta chiede un «serio confronto tra la maggioranza ed il governo». Nella composizione della legge di Stabilità «i redditi più bassi risultano in assoluto i più penalizzati – aggiunge Ba- retta – converrà rimodulare la distribuzione» tra la riduzione dell’Irpef e l’aumento dell’Iva. Ormai sono sempre più numerosi gli istituti che valutano peggiorativo l’intervento fiscale soprattutto per le fasce più deboli. Ma il ministro Vittorio Grilli continua a difendere la «sua» legge. Intervistato ieri dall’Avvenire ha annunciato che ci sono 900 milioni disponibili per le modifiche, ma che non accetterà «controriforme». «Grilli deve finirla di fare propaganda», commenta Stefano Fassina.
Su un punto il ministro annuncia novità in arrivo: il nuovo Isee (indicatore di situazione economica equivalente), cioè quello strumento in base al quale si erogano trasferimenti o sconti su servizi sociali. Il nuovo testo è già stato preparato dal ministero del Welfare, e già la prossima settimana andrà al vaglio dell’Economia. Per essere varato servono almeno altri due passaggi (Consiglio di Stato e commissioni parlamentari), per questo non vedrà la luce prima della fine dell’anno. Per arrivare poi all’applicazione servirà che i Comuni lo adottino, con il relativo regolamento. Il nuovo testo presenta molte novità: si prevede ad esempio anche l’indicazione delle spese per la badante, o dei costi per la casa sia degli affittuari che dei proprietari. Inoltre, proprio a causa della crisi, si offre la possibilità di fare riferimento alle condizioni correnti, e non a quelle dell’anno prima, per poter «registrare» anche i casi di disoccupazione o di perdita di reddito di altro tipo. Inoltre è previsto che tutti i dati che l’amministrazione già possiede (per esempio la dichiarazione dei redditi Irpef) vengano acquisiti automaticamente. Un occhio di riguardo viene dato alle famiglie con minori.
L’Unità 22.10.12
Ma sull’idea del ministro di «incro- ciare» i dati Isee con quelli Irpef per aiutare i cosiddetti incapienti (quelli tanto poveri che non pagano le tasse) i tempi sono ancora lunghissimi. Di fat- to, basare gli sconti fiscali o i trasferi- menti non più sulle dichiarazioni, signi- ficherebbe rivoluzionare tutte le detra- zioni e deduzioni (non solo tagliarle co- me è stato fatto oggi). Insomma, è un lavoro ancora da fare. Per ora resta l’aggravio per le famiglie.
Zagrebelsky “Perché è in pericolo la libertà d’informazione”, di Carmelo Lopapa
“Sbagliata la pena del carcere per il direttore del Giornale”. «Neppure il fascismo aveva previsto una disciplina del genere. Il codice penale prevede lo schermo del direttore responsabile e tutto, da allora, è riconducibile a quella figura. Nel momento in cui però si estende la responsabilità all’editore, allora il sistema di garanzie e di diritti, il delicato equilibrio che è alla base del diritto di informare e di essere informati rischia di essere compromesso». Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nutre più di una perplessità sul testo che corre spedito in commissione al Senato e che rischia di trasformarsi in una nuova edizione della legge-bavaglio. E sono tanti i nodi da passare al setaccio.
Tutto parte dal caso Sallusti, Professore. Dal direttore del «Giornale» che rischia la galera per un articolo diffamatorio.
«Lasciamo da parte per un momento la libertà di stampa con la «L» maiuscola. Parliamo del caso specifico. La pena detentiva è prevista dalla legge penale e il problema dell’adeguatezza della pena è annoso, non nuovo. Va detto, però, che nel caso dell’articolo in questione non si tratta di opinioni, ma dell’attribuzione di fatti determinati risultati palesemente falsi. Il reato consiste nell’omessa vigilanza circa un fatto che non riguarda la libertà di opinione. Si può discutere se il carcere sia la misura più appropriata».
Ecco appunto, lo è?
«Siamo di fronte a una valutazione politica, di opportunità: stabilire se il carcere è adeguato, proporzionato o utile. La mia risposta è no. Il carcere non è adeguato. In questo, come in tanti altri casi, non è la misura opportuna. Sulla qualità delle pene adeguate a un paese civile si discute da tempo e poco o nulla è stato fatto. Il carcere, come misura normale, è un fatto d’inciviltà. Discutiamo di questo».
Quali sarebbero le sanzioni adeguate, secondo lei?
«Innanzitutto, quella pecuniaria, come risarcimento del danno morale derivante dalla lesione dell’onorabilità delle persone: un bene importantissimo, quasi un bene sommo. Poi, l’intervento degli ordini professionali, cui spetta la tutela della deontologia, a tutela dell’onorabilità della professione. A me pare che le misure interdittive dell’esercizio della professione siano coerenti con questa esigenza. Poi, occorrerebbe prevedere forme processuali particolarmente celeri, processi immediati. Il diffamato che cosa se ne fa d’una sentenza che interviene dopo anni? Ciò che occorre è il ripristino dell’onore della persona offesa».
Il problema, nella legge in questione, è che l’alternativa al carcere è una sanzione pecuniaria talmente pesante da trasformarsi in un bavaglio per la stampa.
«La questione vera e grande, al di là del folclore di molti emendamenti, è la chiamata in causa dell’editore. Nel momento in cui si estende la responsabilità al proprietario dell’impresa editoriale, è chiaro che questi farebbe di tutto per prevenirla e ciò gli darebbe il diritto d’intervenire nella gestione dell’impresa giornalistica, un’impresa molto particolare, nella quale la libertà della redazione deve essere preservata dall’intervento diretto della proprietà, cioè del potere economico. L’autonomia dell’informazione, come libera funzione, è messa in pericolo da una norma di questo genere».
Se è per questo, l’editore rischia di perdere anche i contributi pubblici, in caso di condanna.
«È una previsione che, colpendo l’editore, mette a repentaglio, oltre all’azienda, anche il patto che per consuetudine viene stipulato, almeno tacitamente, tra impresa, direttore e giornalisti: la copertura finanziaria da parte dell’editore delle eventuali condanne pecuniarie dei giornalisti che operano nella sua impresa».
Diventa un’aggravante la circostanza che a firmare un articolo, ritenuto diffamatorio, siano ad esempio tre giornalisti. Siamo all’associazione a delinquere informativa?
«Quanto emerge da proposte di questo tenore è l’insofferenza che parti del mondo politico, indipendentemente dal colore, nutrono nei confronti del giornalismo di inchiesta che è un’attività che non si può svolgere da soli».
Le sue critiche si riferiscono anche all’ipotesi di sospensione del giornalista fino a tre anni, in casi estremi di recidiva nella diffamazione?
«No. Su questo sarei favorevole. Se la diffamazione è provata come fatto doloso, allora è giusta la sanzione proporzionata alla gravità dell’offesa. Per un cittadino, essere colpito nella propria onorabilità è un fatto grave, che può segnare pesantemente una vita, soprattutto delle persone per bene. Agli altri, per definizione, non importa nulla. Oggi, sembra che l’onore delle persone non conti più quasi nulla. Si tratta di ripristinare, innanzitutto nella coscienza civile, l’idea che l’onore, il rispetto, la dignità sono beni primari e la legge deve operare a questo fine. Certo, ci deve essere la prova del dolo, della macchinazione voluta per distruggere moralmente una persona. Stiamo parlando di ciò che voi giornalisti avete chiamato la “macchina del fango”. E non può essere tollerata, lasciata operare senza freni. È cosa deplorata ma, di fatto, tollerata come arma da usare nella polemica politica, nella lotta per il potere. Va contrastata con ogni mezzo, anche con sanzioni molto pesanti».
La nuova disciplina rende più grave la sanzione se l’offeso è «un corpo politico, amministrativo o giudiziario », per stare ai termini della legge. La “casta” da tutelare più degli altri?
«Esistono dei reati che riguardano la tutela dell’onorabilità delle istituzioni. E questa è una cosa. Un’altra cosa sono gli uomini e le donne che operano nelle istituzioni. Questi non sono essi stessi istituzioni. Sono normali cittadini che, pro tempore, svolgono funzioni pubbliche. Bisogna distinguere. In passato, erano previste forme di tutela speciale contro l’oltraggio al pubblico ufficiale, punito in misura più severa di quanto lo fosse l’offesa arrecata al cittadino comune, ma la Corte costituzionale in tempi lontani ha fatto venire meno questa differenza. Il principio di uguaglianza deve valere per tutti e coloro che occupano posti nelle istituzioni non devono essere considerati più uguali degli altri».
La Repubblica 22.10.12
"Il grido d'aiuto inascoltato delle vittime degli stalker", di Chiara Saraceno
Spaventata dall’insistente persecuzione da parte dell’ex fidanzato, dalle sue minacce ricorrenti per telefono, via messaggi, via Facebook, Lucia aveva chiesto aiuto alla polizia. Come era già successo a tante altre, aveva solo ricevuto qualche consiglio su come evitare che lui le telefonasse o mandasse messaggi. Ancora una volta, di fronte ad un aggressore, il consiglio era stato di cercare di evitare di farsi trovare. Nulla è stato fatto per fermare l’aggressore, per spaventarlo a sufficienza perché si fermasse e ci ripensasse. Ancora una volta, le minacce non sono state prese sul serio, derubricate a pure molestie, spiacevoli ma non pericolose. Sappiamo come è andata. Lucia si è salvata dalla morte, ma non da ferite gravi, solo perché la coraggiosa sorella Carmela la ha difesa con il suo corpo, facendosi ammazzare.
Il reato di stalking è stato riconosciuto nel codice penale italiano nel 2009. Ma la giurisprudenza è molto cauta nel riconoscerlo. Soprattutto, nelle more tra la denuncia e l’eventuale pronuncia del tribunale, il tempo gioca a sfavore della vittima. Nessuno pensa che ogni vittima di stalking debba entrare in un sistema di protezione simile a quello cui sono sottoposti i giudici di mafia, i testimoni contro i mafiosi, i ministri, e chiunque corra pericolo per la funzione pubblica che ricopre o le idee che manifesta. Ma bisognerà ben incominciare a riflettere sul fatto che essere una vittima di stalking per una donna comporta un effettivo rischio di vita, che non può mai essere sottovalutato, neppure quando la vittima non è (ancora)
pronta a sporgere querela. Non basta neppure un’ingiunzione a stare lontani, come testimoniano, ahimé, molti, troppi casi. Occorre che l’ingiunzione sia accompagnata da altre sanzioni in caso di non ottemperanza. Penso anche che sarebbe necessario integrarla con la richiesta di entrare in un percorso di rieducazione riflessiva.
L’assenza di aiuto da parte delle forze dell’ordine in questi casi appare tanto più grave e sorprendente alla luce degli eccessi di disponibilità ad intervenire quando sono in gioco conflitti tra adulti e bambini. È il caso dell’intervento delle forze dell’ordine a Cittadella, per eseguire un ordine del Tribunale dei minori in merito all’affidamento di un bambino conteso tra i due genitori separati. La polizia si è presentata per far valere il diritto del padre, negato sistematicamente dalla madre. Di fatto, l’intervento delle forze dell’ordine ha avuto come oggetto e vittima il bambino, portato via a forza nonostante le sue proteste. A differenza di quanto avviene spesso nei casi di stalking e di violenze famigliari, nessun poliziotto ha consigliato al padre di portare pazienza, di cercare un’altra via. Tanto meno lo ha fermato quando trascinava il figlio. Anzi, qualcuno lo ha aiutato. Proprio dove era meno opportuno, la capacità di intervenire delle forze dell’ordine si è dispiegata appieno.
La polizia è stata chiamata ed è intervenuta, pochi giorni dopo, anche in un altro caso, meno noto, che ha visto in una scuola elementare di un Comune veneto una maestra alle prese con l’aggressività di un
bambino affetto da disturbi psicologici e in situazione di disagio familiare. Incapace di contenerlo, la maestra e la direttrice scolastica hanno pensato bene di chiamare la polizia, invece che i servizi sociali da cui pure il bambino è seguito. Non è chiaro che cosa si aspettassero da un intervento della polizia in funzione di lupo cattivo. In effetti, le forze dell’ordine se ne sono andate senza far nulla, dopo aver preso atto della situazione. Ma il “bambino difficile” e i suoi compagni avranno capito che la polizia potrebbe essere usata contro di loro, se “non si comportano bene”.
In troppi casi ci si rivolge alle forze dell’ordine per risolvere conflitti nei rapporti interpersonali ed educativi, che avrebbero bisogno, non di una esibizione di muscoli, e neppure del ricorso alla forza della legge, ma di ascolto reciproco, tempo per sciogliere nodi difficili, appoggio esterno competente e accessibile. È quindi opportuno che le forze dell’ordine imparino a valutare caso per caso ed eventualmente dirottino sulle agenzie competenti le richieste improprie che ricevono, senza tentazioni di supplenza.
Proprio per questo, la sproporzione tra gli interventi (a favore dei diritti degli adulti) nei casi di conflitto tra adulti e bambini e i mancati interventi nei casi di stalking appare non solo inaccettabile, ma incomprensibile. Viene richiesta pazienza e capacità di autogestione del rischio proprio quando ne mancano le condizioni minime ed è in gioco la sopravvivenza stessa della vittima designata.
La Repubblica 22.10.12
"Il grido d'aiuto inascoltato delle vittime degli stalker", di Chiara Saraceno
Spaventata dall’insistente persecuzione da parte dell’ex fidanzato, dalle sue minacce ricorrenti per telefono, via messaggi, via Facebook, Lucia aveva chiesto aiuto alla polizia. Come era già successo a tante altre, aveva solo ricevuto qualche consiglio su come evitare che lui le telefonasse o mandasse messaggi. Ancora una volta, di fronte ad un aggressore, il consiglio era stato di cercare di evitare di farsi trovare. Nulla è stato fatto per fermare l’aggressore, per spaventarlo a sufficienza perché si fermasse e ci ripensasse. Ancora una volta, le minacce non sono state prese sul serio, derubricate a pure molestie, spiacevoli ma non pericolose. Sappiamo come è andata. Lucia si è salvata dalla morte, ma non da ferite gravi, solo perché la coraggiosa sorella Carmela la ha difesa con il suo corpo, facendosi ammazzare.
Il reato di stalking è stato riconosciuto nel codice penale italiano nel 2009. Ma la giurisprudenza è molto cauta nel riconoscerlo. Soprattutto, nelle more tra la denuncia e l’eventuale pronuncia del tribunale, il tempo gioca a sfavore della vittima. Nessuno pensa che ogni vittima di stalking debba entrare in un sistema di protezione simile a quello cui sono sottoposti i giudici di mafia, i testimoni contro i mafiosi, i ministri, e chiunque corra pericolo per la funzione pubblica che ricopre o le idee che manifesta. Ma bisognerà ben incominciare a riflettere sul fatto che essere una vittima di stalking per una donna comporta un effettivo rischio di vita, che non può mai essere sottovalutato, neppure quando la vittima non è (ancora)
pronta a sporgere querela. Non basta neppure un’ingiunzione a stare lontani, come testimoniano, ahimé, molti, troppi casi. Occorre che l’ingiunzione sia accompagnata da altre sanzioni in caso di non ottemperanza. Penso anche che sarebbe necessario integrarla con la richiesta di entrare in un percorso di rieducazione riflessiva.
L’assenza di aiuto da parte delle forze dell’ordine in questi casi appare tanto più grave e sorprendente alla luce degli eccessi di disponibilità ad intervenire quando sono in gioco conflitti tra adulti e bambini. È il caso dell’intervento delle forze dell’ordine a Cittadella, per eseguire un ordine del Tribunale dei minori in merito all’affidamento di un bambino conteso tra i due genitori separati. La polizia si è presentata per far valere il diritto del padre, negato sistematicamente dalla madre. Di fatto, l’intervento delle forze dell’ordine ha avuto come oggetto e vittima il bambino, portato via a forza nonostante le sue proteste. A differenza di quanto avviene spesso nei casi di stalking e di violenze famigliari, nessun poliziotto ha consigliato al padre di portare pazienza, di cercare un’altra via. Tanto meno lo ha fermato quando trascinava il figlio. Anzi, qualcuno lo ha aiutato. Proprio dove era meno opportuno, la capacità di intervenire delle forze dell’ordine si è dispiegata appieno.
La polizia è stata chiamata ed è intervenuta, pochi giorni dopo, anche in un altro caso, meno noto, che ha visto in una scuola elementare di un Comune veneto una maestra alle prese con l’aggressività di un
bambino affetto da disturbi psicologici e in situazione di disagio familiare. Incapace di contenerlo, la maestra e la direttrice scolastica hanno pensato bene di chiamare la polizia, invece che i servizi sociali da cui pure il bambino è seguito. Non è chiaro che cosa si aspettassero da un intervento della polizia in funzione di lupo cattivo. In effetti, le forze dell’ordine se ne sono andate senza far nulla, dopo aver preso atto della situazione. Ma il “bambino difficile” e i suoi compagni avranno capito che la polizia potrebbe essere usata contro di loro, se “non si comportano bene”.
In troppi casi ci si rivolge alle forze dell’ordine per risolvere conflitti nei rapporti interpersonali ed educativi, che avrebbero bisogno, non di una esibizione di muscoli, e neppure del ricorso alla forza della legge, ma di ascolto reciproco, tempo per sciogliere nodi difficili, appoggio esterno competente e accessibile. È quindi opportuno che le forze dell’ordine imparino a valutare caso per caso ed eventualmente dirottino sulle agenzie competenti le richieste improprie che ricevono, senza tentazioni di supplenza.
Proprio per questo, la sproporzione tra gli interventi (a favore dei diritti degli adulti) nei casi di conflitto tra adulti e bambini e i mancati interventi nei casi di stalking appare non solo inaccettabile, ma incomprensibile. Viene richiesta pazienza e capacità di autogestione del rischio proprio quando ne mancano le condizioni minime ed è in gioco la sopravvivenza stessa della vittima designata.
La Repubblica 22.10.12