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"Dagli Usa all'Italia una cosa di sinistra: Investire in ricerca", di Pietro Greco

Occorre ripartire dalla ricerca e dall’innovazione. Lo ha detto ieri Pier Luigi Bersani, inaugurando la sua campagna per le primarie ma anche la campagna elettorale della prossima primavera dal Cern di Ginevra, il centro europeo che è il tempio della fisica mondiale. Ma lo hanno anche ribadito 68 premi Nobel americani che ieri hanno pubblicato una lettera di sostegno alla rielezione del Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Ci sono almeno due punti di contatto tra i due pronunciamenti avvenuti ai due lati opposti della’Atlantico. Il primo è squisitamente politico: a pronunciarli sono persone che non solo sono di area progressista e che riconoscono il valore strategico a ogni livello della scienza. Ma anche di persone che ravvisano nella destra attuale, in Italia come negli Stati Uniti, un’incapacità strutturale, a comprendere che gli investimenti pubblici nella ricerca hanno un valore strategico per l’intero Occidente. Il secondo elemento, strettamente collegato al primo, è di politica economica, oltre che culturale. Viviamo nell’era della conoscenza. E i Paesi occidentali non hanno altra opzione che investire nella produzione di conoscenza e nella innovazione tecnologica per risolvere i problemi interni ed essere competitivi a livello globale. I 68 premi Nobel che hanno sottoscritto l’appello a favore di Obama sanno che da almeno sessant’anni a questa parte l’85% della ricchezza prodotta negli Stati Uniti è il frutto della capacità di innovazione fondata sulla ricerca scientifica. In particolare sulla ricerca scientifica, di base e applicata, finanziata con fondi pubblici. Questo è il grande motore dell’economia americana. Il democratico Obama lo sa e per questo punta le sue carte sulla conoscenza. Il repubblicano Romney e tutta la destra americana a partire dagli anni di George W. Bush sembrano averlo dimenticato e per questo, sostengono i 68 premi Nobel, faranno la rovina degli Stati Uniti. Il discorso vale anche per l’Italia, sia pure con le dovute differenze. La destra italiana è infatti in perfetta sintonia con Willard Mitt Romney: basti ricordare quel significativo «con la conoscenza non si mangia» pronunciato da ministro che ha dettato la politica economica nel nostro Paese per quasi tutto il ventennio berlusconiano. Che il segretario del maggior partito del centrosinistra, che probabilmente (ce lo auguriamo) avrà in carico la guida del Paese dopo le prossime elezioni, indichi nella ricerca e nell’innovazione la leva per ripartire fa ben sperare. D’altra parte l’Italia, ma a ben vedere anche il resto dell’Europa, il Nord America e il Giappone, non hanno alternative se non «credere nella conoscenza» se vogliono evitare il declino economico e il processo di progressivo dumping sociale che è il risultato (non inatteso) delle politiche neoliberiste. Per alcuni motivi ben noti. I beni ad alto contenuto di conoscenza aggiunto (i beni hi-tech) sono quelli che negli ultimi decenni hanno avuto la crescita maggiore nel mondo. Le imprese che li producono sono quelle che remunerano meglio i loro addetti (e meglio rispettano i diritti del lavoro). Queste produzioni si realizzano nei paesi che investono di più in educazione e ricerca scientifica. Queste produzioni sono quelle che, sia pure in maniera non scontata, meglio consentono di sviluppare il welfare state. Non a caso i paesi del Nord Europa, dove massimi sono gli investimenti in educazione e ricerca, sono quelli che, da un lato, hanno affrontato meglio la crisi e la nuova globalizzazione dei mercati, e dall’altro hanno una migliore distribuzione della ricchezza e uno stato sociale più avanzato. Inoltre caratteristica niente affatto secondaria sono quelli in cui l’impatto ambientale delle attività industriali è minore. Per dare corpo alle parole di Bersani, il programma di governo del centro-sinistra dovrà contenere, dunque, maggiori investimenti in ricerca scientifica e maggiori investimenti nella scuola di ogni ordine e grado. Proponiamo qualche numero: passare dallo 0,6% all’1% del Pil nella spesa pubblica per la ricerca e dallo 0,9 ad almeno il 2% nella spesa pubblica per le università. Tenendo presente che oggi in Corea del Sud i giovani nella fascia d’età compresa tra 25 e 34 anni sono il 63% del totale; quelli dei Paesi Ocse il 40%, l’Italia non arriva al 20% e il trend è addirittura in diminuzione. L’ignoranza è una condizione che non possiamo più permetterci. Ma tutto questo deve essere accompagnato da un lucido e rapido programma di «nuova industrializzazione», ovvero di cambiamento della specializzazione produttiva del sistema Paese, passando dalla dominante produzione di beni a basso o media tecnologia a bene a una produzione dominante di beni e servizi ad alta tecnologia. Solo in questo modo potremo passare da una ventennale condizione di stagnazione /recessione a una nuova crescita. E solo così un governo di centrosinistra potrà qualificare la crescita, trasformandola in sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile.
L’Unità 20.10.12

"Insegnanti non fannulloni", di Francesca Puglisi

Berlusconi era bravo a raccontare barzellette e a lanciare insulti. Uno di essi era che gli insegnanti sono una categoria di fannulloni. Ebbene, a forza di ripeterlo, forse qualcuno ci ha creduto. Perfino qualche grande quotidiano nazionale ha pubblicato numeri e tabelle che, male interpretati e con dati parziali, farebbero credere che l’Italia scolastica è la patria degli scansafatiche e che i docenti italiani lavorino meno dei loro colleghi europei.
È una bugia: l’orario degli insegnanti italiani è assolutamente in media con quello di altri paesi. Se togliamo le eccezioni, come i maestri diplomati spagnoli o gli insegnanti tecnico-pratici d’Oltralpe, scopriamo che differenze eclatanti non ce ne sono. Nella scuola media c’è chi lavora qualche ora in più (i danesi: 2 ore), chi lavora esattamente come gli italiani (gli spagnoli, ad esempio) e chi lavora un po’ meno (i francesi). Nella scuola superiore le 18 ore sono le stesse in Francia, in Spagna e in Italia.
È vero piuttosto che gli insegnanti italiani ricevono il più basso stipendio d’Europa: da 4 a 10mila euro in meno. È questo il divario, rispetto alla media europea, tra lo stipendio di un insegnante italiano, a inizio e a fine carriera, rispetto ai suoi colleghi degli altri paesi dell’Unione.
Inoltre le ore di lezione frontale (quelle in cattedra) sono soltanto una parte dell’attività di un docente, perché poi ci sono i compiti da correggere a casa, la preparazione delle lezioni, lo studio indispensabile per essere aggiornati, la programmazione delle attività collegiali, le riunioni coi genitori ecc. A fronte del contratto di 18 ore settimanali, possiamo allora dire senza esagerazioni che le ore di lavoro effettive sono circa il doppio. E che sarebbe ora che il contratto dei docenti fosse sì rivisto, ma per conteggiare in busta paga tutto quel lavoro “oscuro” – poiché fatto a casa – ma indispensabile, offrendo agli insegnanti la possibilità di farlo in scuole aperte tutto il giorno.
La spending review chiede al Miur un taglio di 182,9 milioni di euro. Il ministro Profumo portando l’orario a 24 ore, pratica un taglio di quasi un miliardo di euro per andare a costituire con i risparmi aggiuntivi ottenuti sulla pelle di decine di migliaia di insegnanti, un Fondo per la valorizzazione dell’istruzione, con la promessa di ridistribuirli tra i “superstiti”. Anche la Gelmini promise di restituire agli insegnanti il 30 per cento del “cosiddetto risparmio” ottenuto tagliando 132.000 posti di lavoro. Sappiamo che furono promesse da mercante.
La verità è che grazie alla quotidiana generosità degli insegnanti, la scuola pubblica sta ancora in piedi.
È dalla scuola che è stato pagato l’86 per cento del risparmio della spesa statale di questi anni. La “reingegnerizzazione” stavolta deve essere fatta altrove.
Accogliamo con fiducia le parole di apertura del ministro Profumo per correggere le misure sulla scuola contenute nella legge di stabilità.
Anche noi vogliamo una scuola europea e di qualità per studenti e insegnanti. Ma le riforme si fanno investendo, non tagliando. Il ministro troverà sempre nel Pd il sostegno per invertire il segno e rimettere la scuola al centro dell’agenda delle politiche di sviluppo del paese. Dopo anni di tagli e di denigrazione, nella Carta di intenti Pier Luigi Bersani scrive che “«nei prossimi anni se c’è un settore della spesa statale per il quale è giusto che altri ambiti rinuncino a qualcosa è quello della formazione. Dalla scuola dell’infanzia e dell’obbligo all’università. Oggi gli insegnanti vanno in pensione vedendo con rammarico distrutti dalla destra i gioielli di famiglia del sistema scolastico italiano per i quali hanno combattuto – scuola dell’infanzia, modulo e tempo pieno nella primaria – e i nuovi insegnanti entrano sfibrati dopo anni di precariato. Ecco, vorremmo che quando saremo chiamati al governo del paese, il passaggio del testimone tra le generazioni di educatori avvenga con un nuovo entusiasmo e slancio, per ricostruire la scuola pubblica di qualità di cui l’Italia ha urgente bisogno».

da Europa Quotidiano 20.10.12

"Insegnanti non fannulloni", di Francesca Puglisi

Berlusconi era bravo a raccontare barzellette e a lanciare insulti. Uno di essi era che gli insegnanti sono una categoria di fannulloni. Ebbene, a forza di ripeterlo, forse qualcuno ci ha creduto. Perfino qualche grande quotidiano nazionale ha pubblicato numeri e tabelle che, male interpretati e con dati parziali, farebbero credere che l’Italia scolastica è la patria degli scansafatiche e che i docenti italiani lavorino meno dei loro colleghi europei.
È una bugia: l’orario degli insegnanti italiani è assolutamente in media con quello di altri paesi. Se togliamo le eccezioni, come i maestri diplomati spagnoli o gli insegnanti tecnico-pratici d’Oltralpe, scopriamo che differenze eclatanti non ce ne sono. Nella scuola media c’è chi lavora qualche ora in più (i danesi: 2 ore), chi lavora esattamente come gli italiani (gli spagnoli, ad esempio) e chi lavora un po’ meno (i francesi). Nella scuola superiore le 18 ore sono le stesse in Francia, in Spagna e in Italia.
È vero piuttosto che gli insegnanti italiani ricevono il più basso stipendio d’Europa: da 4 a 10mila euro in meno. È questo il divario, rispetto alla media europea, tra lo stipendio di un insegnante italiano, a inizio e a fine carriera, rispetto ai suoi colleghi degli altri paesi dell’Unione.
Inoltre le ore di lezione frontale (quelle in cattedra) sono soltanto una parte dell’attività di un docente, perché poi ci sono i compiti da correggere a casa, la preparazione delle lezioni, lo studio indispensabile per essere aggiornati, la programmazione delle attività collegiali, le riunioni coi genitori ecc. A fronte del contratto di 18 ore settimanali, possiamo allora dire senza esagerazioni che le ore di lavoro effettive sono circa il doppio. E che sarebbe ora che il contratto dei docenti fosse sì rivisto, ma per conteggiare in busta paga tutto quel lavoro “oscuro” – poiché fatto a casa – ma indispensabile, offrendo agli insegnanti la possibilità di farlo in scuole aperte tutto il giorno.
La spending review chiede al Miur un taglio di 182,9 milioni di euro. Il ministro Profumo portando l’orario a 24 ore, pratica un taglio di quasi un miliardo di euro per andare a costituire con i risparmi aggiuntivi ottenuti sulla pelle di decine di migliaia di insegnanti, un Fondo per la valorizzazione dell’istruzione, con la promessa di ridistribuirli tra i “superstiti”. Anche la Gelmini promise di restituire agli insegnanti il 30 per cento del “cosiddetto risparmio” ottenuto tagliando 132.000 posti di lavoro. Sappiamo che furono promesse da mercante.
La verità è che grazie alla quotidiana generosità degli insegnanti, la scuola pubblica sta ancora in piedi.
È dalla scuola che è stato pagato l’86 per cento del risparmio della spesa statale di questi anni. La “reingegnerizzazione” stavolta deve essere fatta altrove.
Accogliamo con fiducia le parole di apertura del ministro Profumo per correggere le misure sulla scuola contenute nella legge di stabilità.
Anche noi vogliamo una scuola europea e di qualità per studenti e insegnanti. Ma le riforme si fanno investendo, non tagliando. Il ministro troverà sempre nel Pd il sostegno per invertire il segno e rimettere la scuola al centro dell’agenda delle politiche di sviluppo del paese. Dopo anni di tagli e di denigrazione, nella Carta di intenti Pier Luigi Bersani scrive che “«nei prossimi anni se c’è un settore della spesa statale per il quale è giusto che altri ambiti rinuncino a qualcosa è quello della formazione. Dalla scuola dell’infanzia e dell’obbligo all’università. Oggi gli insegnanti vanno in pensione vedendo con rammarico distrutti dalla destra i gioielli di famiglia del sistema scolastico italiano per i quali hanno combattuto – scuola dell’infanzia, modulo e tempo pieno nella primaria – e i nuovi insegnanti entrano sfibrati dopo anni di precariato. Ecco, vorremmo che quando saremo chiamati al governo del paese, il passaggio del testimone tra le generazioni di educatori avvenga con un nuovo entusiasmo e slancio, per ricostruire la scuola pubblica di qualità di cui l’Italia ha urgente bisogno».
da Europa Quotidiano 20.10.12

"Incandidabili solo sei parlamentari", di Claudia Fusani

Gli incandidabili sarebbero appena sei. Sei sui ventuno condannati. A tanto ammonta il numero dei parlamentari che rischiano se il governo riuscisse ad approvare le norme sulla incandidabilità previste dalla delega contenuta
nella legge anticorruzione. La norma che il ministro dell’Interno sta scrivendo, anzi ha già praticamente scritto, prevede infatti che non sarà più possibile candidare chi ha una condanna dai tre anni in su per reati gravi e dai due anni in su per i reati contro la pubblica amministrazione. Da più parti si è espressa soddisfazione per il probabile arrivo di questo provvedimento che impedisce di vedere condannati sui banchi delle Camere. E però le cose non stanno così perché la soglia è così alta che toccherà solo alcuni.

Quattro. Se va bene sei. Forse sette, perchè non è facile radiografare il certificato penale di ognuno. A tanto ammonta il numero dei parlamentari non più candidabili quand’anche il governo facesse in tempo ad esercitare la delega sulla non candidabilità di deputati e senatori condannati.
I quattro espulsi dal Parlamento sono il senatore pdl Giuseppe Ciarrapico; il deputato pdl Marcello De Angelis; il senatore pdl Antonio Tomassini e il senatore pdl Salvatore Sciascia: hanno tutti pene definitive superiori ai due anni. Incerti, dipende da come sarà scritta la delega, sono Aldo Brancher, deputato pdl, sottosegretario per una settimana; Marcello Dell’Utri, senatore pdl; Antonio Del Pennino, subentrato nel 2010 nelle file del pdl al Senato al posto del fu Comincioli e ora senatore unico del partito Repubblicano.
Ci deve essere qualcosa che non torna: o il nostro è un Parlamento pulito e la carica dei 101 con pendenze, indagini e condanne è un solo brutto e sbagliato luogo comune. Oppure la tanta sventolata norma sulla incandidabilità come segno della svolta è un miraggio.
La norma che il ministro dell’Interno sta scrivendo, anzi ha già praticamente scritto, su delega del Parlamento nell’ambito della legge contro la corruzione prevede infatti che non saranno più candidabili coloro i quali hanno una condanna dai tre anni in su per reati gravi e dai due anni in su per i reati contro la pubblica amministrazione. Da più parti si è gridato osanna perchè finalmente arriva una norma che permette di non vergognarsi più di un Parlamento ad alta intensità di persone con lunghi curricula di reati e ipotesi di reato.
Pura illusione. Il centinaio circa, contati secondi parametri che comprendono le categorie degli indagati, a giudizio, condannati in primo e secondo grado e condannati definitivi, prescritti e indultati, si riduce infatti alle dita di una mano. Per vari motivi.
I condannti definitivi in effetti sono più di venti. Ma i più hanno condanne di pochi mesi come Massimo Berruti (8 mesi per favoreggiamento in corruzione, processo per le tangenti alla Guardia di Finanza), Umberto Bossi (8 mesi per finanziamento illecito), Enzo Carra (Udc, 16 mesi), Antonino Papania (Pd, due mesi e 20 gg). Senza voler dire di Rita Bernardini, la battagliera radicale, condannata a quattro mesi per cessione gratuita di marijuana: serve per la media ma di certo non qualifica.
Poi c’è il piccolo drappello degli incerti. Quelli per cui non è chiaro se la norma sull’incandidabilità scatterà oppure no. Non è chiaro infatti come ci si regolerà quando la pena inflitta in via definitiva è pari a due anni. E quando la condanna è stata decisa sulla base di un patteggiamento. In questa categoria rientrano alcuni casi veramente speciali. Marcello Dell’Utri, ad esempio: il senatore fondatore di Publitalia, pur al centro di non si sa più quanti processi (concorso esterno, P3, corruzione), ha una condanna definitiva solo per frode fiscale pari a due anni patteggiati. Aldo Brancher è stato condannato definitivo nel 2011 a due anni (rito abbreviato, ha poi beneficiato dell’indulto) per appropriazione indebita e ricettazione nell’ambito della scalata Antonveneta. Il senatore Del Pennino, attuale membro unico del partito Repubblicano, ha patteggiato nel 1994 due anni per le tangenti Enimont. Rispetto ad altri curricula, resta un galantuomo. Vincenzo Fasano è condannato definitivo a due anni per concussione. Che succede poi a chi è stato condannato al risarcimento per danno erariale? Ci sono tre o quattro casi.
Tra certi e incerti, i numeri restano comunque piccoli. Perchè assai vasta è la variegata platea degli indagati e condannati in primo e secondo grado ma ancora in attesa di sentenza definitiva.
Sono più di ottanta. Tra questi il cavalier Berlusconi, Cosentino e Cesaro, indagati per associazione camorrista; Milanese indagato per la P4; Papa, Fitto, Sergio De Gregorio, il responsabile Grassano, Giuseppe Firrarello; la deputata del pd Maria Grazia Laganà, condannata in primo grado per truffa; il generale Speciale, quello delle spigole inviate in montagna con gli aerei della Finanza, anche lui ancora non si sa se è colpevole oppure no.
Un lungo elenco interamente esentato dal divieto della candidabilità. Certo, la norma impone la decadenza dal seggio e dall’incarico appena la sentenza diventa definitiva. Ma in Italia l’85 per cento delle condanne per reati contro la pubblica amministrazione è inferiore ai due anni. Anche in futuro, quindi, potrà cambiare poco.

l’Unità 20.10.12

"Incandidabili solo sei parlamentari", di Claudia Fusani

Gli incandidabili sarebbero appena sei. Sei sui ventuno condannati. A tanto ammonta il numero dei parlamentari che rischiano se il governo riuscisse ad approvare le norme sulla incandidabilità previste dalla delega contenuta
nella legge anticorruzione. La norma che il ministro dell’Interno sta scrivendo, anzi ha già praticamente scritto, prevede infatti che non sarà più possibile candidare chi ha una condanna dai tre anni in su per reati gravi e dai due anni in su per i reati contro la pubblica amministrazione. Da più parti si è espressa soddisfazione per il probabile arrivo di questo provvedimento che impedisce di vedere condannati sui banchi delle Camere. E però le cose non stanno così perché la soglia è così alta che toccherà solo alcuni.
Quattro. Se va bene sei. Forse sette, perchè non è facile radiografare il certificato penale di ognuno. A tanto ammonta il numero dei parlamentari non più candidabili quand’anche il governo facesse in tempo ad esercitare la delega sulla non candidabilità di deputati e senatori condannati.
I quattro espulsi dal Parlamento sono il senatore pdl Giuseppe Ciarrapico; il deputato pdl Marcello De Angelis; il senatore pdl Antonio Tomassini e il senatore pdl Salvatore Sciascia: hanno tutti pene definitive superiori ai due anni. Incerti, dipende da come sarà scritta la delega, sono Aldo Brancher, deputato pdl, sottosegretario per una settimana; Marcello Dell’Utri, senatore pdl; Antonio Del Pennino, subentrato nel 2010 nelle file del pdl al Senato al posto del fu Comincioli e ora senatore unico del partito Repubblicano.
Ci deve essere qualcosa che non torna: o il nostro è un Parlamento pulito e la carica dei 101 con pendenze, indagini e condanne è un solo brutto e sbagliato luogo comune. Oppure la tanta sventolata norma sulla incandidabilità come segno della svolta è un miraggio.
La norma che il ministro dell’Interno sta scrivendo, anzi ha già praticamente scritto, su delega del Parlamento nell’ambito della legge contro la corruzione prevede infatti che non saranno più candidabili coloro i quali hanno una condanna dai tre anni in su per reati gravi e dai due anni in su per i reati contro la pubblica amministrazione. Da più parti si è gridato osanna perchè finalmente arriva una norma che permette di non vergognarsi più di un Parlamento ad alta intensità di persone con lunghi curricula di reati e ipotesi di reato.
Pura illusione. Il centinaio circa, contati secondi parametri che comprendono le categorie degli indagati, a giudizio, condannati in primo e secondo grado e condannati definitivi, prescritti e indultati, si riduce infatti alle dita di una mano. Per vari motivi.
I condannti definitivi in effetti sono più di venti. Ma i più hanno condanne di pochi mesi come Massimo Berruti (8 mesi per favoreggiamento in corruzione, processo per le tangenti alla Guardia di Finanza), Umberto Bossi (8 mesi per finanziamento illecito), Enzo Carra (Udc, 16 mesi), Antonino Papania (Pd, due mesi e 20 gg). Senza voler dire di Rita Bernardini, la battagliera radicale, condannata a quattro mesi per cessione gratuita di marijuana: serve per la media ma di certo non qualifica.
Poi c’è il piccolo drappello degli incerti. Quelli per cui non è chiaro se la norma sull’incandidabilità scatterà oppure no. Non è chiaro infatti come ci si regolerà quando la pena inflitta in via definitiva è pari a due anni. E quando la condanna è stata decisa sulla base di un patteggiamento. In questa categoria rientrano alcuni casi veramente speciali. Marcello Dell’Utri, ad esempio: il senatore fondatore di Publitalia, pur al centro di non si sa più quanti processi (concorso esterno, P3, corruzione), ha una condanna definitiva solo per frode fiscale pari a due anni patteggiati. Aldo Brancher è stato condannato definitivo nel 2011 a due anni (rito abbreviato, ha poi beneficiato dell’indulto) per appropriazione indebita e ricettazione nell’ambito della scalata Antonveneta. Il senatore Del Pennino, attuale membro unico del partito Repubblicano, ha patteggiato nel 1994 due anni per le tangenti Enimont. Rispetto ad altri curricula, resta un galantuomo. Vincenzo Fasano è condannato definitivo a due anni per concussione. Che succede poi a chi è stato condannato al risarcimento per danno erariale? Ci sono tre o quattro casi.
Tra certi e incerti, i numeri restano comunque piccoli. Perchè assai vasta è la variegata platea degli indagati e condannati in primo e secondo grado ma ancora in attesa di sentenza definitiva.
Sono più di ottanta. Tra questi il cavalier Berlusconi, Cosentino e Cesaro, indagati per associazione camorrista; Milanese indagato per la P4; Papa, Fitto, Sergio De Gregorio, il responsabile Grassano, Giuseppe Firrarello; la deputata del pd Maria Grazia Laganà, condannata in primo grado per truffa; il generale Speciale, quello delle spigole inviate in montagna con gli aerei della Finanza, anche lui ancora non si sa se è colpevole oppure no.
Un lungo elenco interamente esentato dal divieto della candidabilità. Certo, la norma impone la decadenza dal seggio e dall’incarico appena la sentenza diventa definitiva. Ma in Italia l’85 per cento delle condanne per reati contro la pubblica amministrazione è inferiore ai due anni. Anche in futuro, quindi, potrà cambiare poco.
l’Unità 20.10.12

"Tengono a bada terremoti e vulcani. Lo Stato li scarica", di Mariagrazia Gerina

Dovevano essere assunti, l’Istituto di vulcanologia si rimangia anche la proroga. A spasso dal 1° gennaio. La notte del terremoto dell’Aquila, mi sono svegliato per la scossa e subito dopo ero già in viaggio per l’Abruzzo, eravamo in quattro, abbiamo lavorato per due giorni di fila, quando c’è un evento del genere si registrano centinaia di terremoti, abbiamo ottenuto la più importante raccolta di dati su una sequenza sismica al mondo… ah, tre su quattro eravamo precari». Ecco basterebbe questo racconto per far vergognare l’Italia e chi la governa. Anche perché tre anni dopo, Raffaele Di Stefano, 41 anni, una laurea in geologia, un dottorato a Zurigo, insieme agli altri due che erano con lui quella notte tragica del 6 aprile e a tutti gli altri precari che per 1700 euro al mese da dieci anni tengono in piedi l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologica con la rete di monitoraggio sismico e vulcanico, l’attività di ricerca, i progetti finanziati dall’Europa non solo sono ancora precari, ma stanno per andarsene a casa. Tralasciando gli “ultimi arrivati”(si fa per dire) che sono circa 150, ci sono 196 precari “s to ri ci ” che secondo quanto previsto nelle due finanziarie del governo Prodi avrebbero dovuto essere già stabilizzati da un pezzo e che invece da cinque anni continuano ad essere etichettati come “s t ab i l i zz a n di ”. E ci sono altri 56 ricercatori che si avviano verso la fine del loro quinto anno di precariato nell’ente. Ecco, alla maggior parte di loro il 31 dicembre 2012 finisce il contratto (agli altri poco dopo). E non solo per loro non ci sarà la stabilizzazione promessa cinque anni fa e mai tradotta in pratica perché la pianta organica (nonostante 4 interrogazioni parlamentari) non è mai stata adeguata, ma non ci sarà neppure la proroga pattuita la scorsa estate, in extremis. Una mediazione, che, in tempi di spending review, prevedeva per chi avrebbe avuto pieno diritto all’assunzione, un rinnovo del contratto fino al 31 dicembre 2016. In deroga a quanto previsto per i contratti a termine nella pubblica amministrazione (come prevede la legge 386 del 2001). A“l o rs i g n o ri ”è sembrato troppo anche quello. E tra un parere arrivato dal ministero della Funzione pubblica (che paventa futuri tavoli di lavoro per discutere dei contratti a termine nel pubblico) e uno richiesto al Ministero dell’Eco nomia e della Finanza (che non è ancora arrivato) l’ente si è rimangiato l’accordo siglato il 18 luglio 2012 e sottoscritto da tutti i sindacati, Cgil, Cisl, Uil, Anpri, Rdb. Una decisione «incomprensibile, infondata sul piano giuridico e inaccettabile», protesta la Flc-Cgil. Una follia, anche secondo quanto gli stessi vertici dell’en te hanno messo nero su bianco tre mesi fa, quando sottolineavano che: «Pressanti esigenze operative richiedono il mantenimento in servizio di questo personale, perfettamente inserito in tutte le attività istituzionali dopo essere stato adeguatamente formato a svolgerle, prima di tutto quelle connesse al servizio di sorveglianza sismica e vulcanica». Insomma, lo scrivevano loro che l’Ingv non può fare a meno di quei precari cresciuti e formati. Cos’è c a m b i a to ? Un cambiamento a dire il vero c’è stato. Dopo la sostituzione del presidente al posto di Enzo Boschi, il meno titolato Stefano Gresta che già aveva suscitato polemiche, anche il vecchio direttore generale è stato “ro t t a m a to ”. Al suo posto è arrivato Massimo Ghilardi, 149mila euro all’anno, una vecchia conoscenza dell’ex ministro Gelmini, che lo aveva strappato al suo lavoro di promotore finanziario a Brescia per chiamarlo a viale Trastevere. Anche se a nominarlo, è stato l’attuale ministro Profumo, con un certo trasversale fair play e a dispetto del curriculum bizzarro che abbina la laurea in sociologia a quella in scienze motorie. Chissà se il nuovo arrivato prima di bloccare la proroga del contratto per oltre 200 ricercatori ha avuto tempo di riguardare i numeri su cui poggia il futuro dell’Ingv. Un ente di ricerca retto dai precari: la rete mobile, soprattutto, quella che come nella notte raccontata da Raffaele corre quando c’è un sisma a rafforzare la sorveglianza, è composta per il 70-80% da precari. Adesso i vertici dell’Ingv dicono che vogliono bandire un concorso. Per assumere i ricercatori di cui avrà bisogno. A tempo determinato, ovviamente. Una beffa. Che, tra una procedura burocratica e l’altra, lascerà l’Ingv scoperto chissà per quanti mesi. E farà fuggire all’estero altri cervelli. «Sai quanto è costato all’Italia formare uno come me? Almeno 500mila euro, gli altri paesi sono ben contenti di prenderci, già formati, con dieci anni di esperienza alle spalle», si permette di far notare Stefano Corradini, 41 anni. Fisico d el l ’atomosfera, all’Ingv si occupa di sorvegliare attraverso il satellite le emissioni vulcaniche dell’Etna, ma anche degli altri vulcani sparsi nel mondo. A lui come a tanti altri ricercatori Ingv, a dirla tutta, lo stipendio lo paga l’Unione europea. «Non so personalmente quanti soldi ho fatto recuperare all’Italia, so che dei 90 milioni di fondi su cui può contare l’Ingv, almeno 20 vengono da progetti finanziati a livello europeo, e gran parte di quei progetti camminano sulle gambe dei precari». L’Italia può permettersi di fare a meno di loro?

da Pubblico Giornale 20.10.12

"Tengono a bada terremoti e vulcani. Lo Stato li scarica", di Mariagrazia Gerina

Dovevano essere assunti, l’Istituto di vulcanologia si rimangia anche la proroga. A spasso dal 1° gennaio. La notte del terremoto dell’Aquila, mi sono svegliato per la scossa e subito dopo ero già in viaggio per l’Abruzzo, eravamo in quattro, abbiamo lavorato per due giorni di fila, quando c’è un evento del genere si registrano centinaia di terremoti, abbiamo ottenuto la più importante raccolta di dati su una sequenza sismica al mondo… ah, tre su quattro eravamo precari». Ecco basterebbe questo racconto per far vergognare l’Italia e chi la governa. Anche perché tre anni dopo, Raffaele Di Stefano, 41 anni, una laurea in geologia, un dottorato a Zurigo, insieme agli altri due che erano con lui quella notte tragica del 6 aprile e a tutti gli altri precari che per 1700 euro al mese da dieci anni tengono in piedi l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologica con la rete di monitoraggio sismico e vulcanico, l’attività di ricerca, i progetti finanziati dall’Europa non solo sono ancora precari, ma stanno per andarsene a casa. Tralasciando gli “ultimi arrivati”(si fa per dire) che sono circa 150, ci sono 196 precari “s to ri ci ” che secondo quanto previsto nelle due finanziarie del governo Prodi avrebbero dovuto essere già stabilizzati da un pezzo e che invece da cinque anni continuano ad essere etichettati come “s t ab i l i zz a n di ”. E ci sono altri 56 ricercatori che si avviano verso la fine del loro quinto anno di precariato nell’ente. Ecco, alla maggior parte di loro il 31 dicembre 2012 finisce il contratto (agli altri poco dopo). E non solo per loro non ci sarà la stabilizzazione promessa cinque anni fa e mai tradotta in pratica perché la pianta organica (nonostante 4 interrogazioni parlamentari) non è mai stata adeguata, ma non ci sarà neppure la proroga pattuita la scorsa estate, in extremis. Una mediazione, che, in tempi di spending review, prevedeva per chi avrebbe avuto pieno diritto all’assunzione, un rinnovo del contratto fino al 31 dicembre 2016. In deroga a quanto previsto per i contratti a termine nella pubblica amministrazione (come prevede la legge 386 del 2001). A“l o rs i g n o ri ”è sembrato troppo anche quello. E tra un parere arrivato dal ministero della Funzione pubblica (che paventa futuri tavoli di lavoro per discutere dei contratti a termine nel pubblico) e uno richiesto al Ministero dell’Eco nomia e della Finanza (che non è ancora arrivato) l’ente si è rimangiato l’accordo siglato il 18 luglio 2012 e sottoscritto da tutti i sindacati, Cgil, Cisl, Uil, Anpri, Rdb. Una decisione «incomprensibile, infondata sul piano giuridico e inaccettabile», protesta la Flc-Cgil. Una follia, anche secondo quanto gli stessi vertici dell’en te hanno messo nero su bianco tre mesi fa, quando sottolineavano che: «Pressanti esigenze operative richiedono il mantenimento in servizio di questo personale, perfettamente inserito in tutte le attività istituzionali dopo essere stato adeguatamente formato a svolgerle, prima di tutto quelle connesse al servizio di sorveglianza sismica e vulcanica». Insomma, lo scrivevano loro che l’Ingv non può fare a meno di quei precari cresciuti e formati. Cos’è c a m b i a to ? Un cambiamento a dire il vero c’è stato. Dopo la sostituzione del presidente al posto di Enzo Boschi, il meno titolato Stefano Gresta che già aveva suscitato polemiche, anche il vecchio direttore generale è stato “ro t t a m a to ”. Al suo posto è arrivato Massimo Ghilardi, 149mila euro all’anno, una vecchia conoscenza dell’ex ministro Gelmini, che lo aveva strappato al suo lavoro di promotore finanziario a Brescia per chiamarlo a viale Trastevere. Anche se a nominarlo, è stato l’attuale ministro Profumo, con un certo trasversale fair play e a dispetto del curriculum bizzarro che abbina la laurea in sociologia a quella in scienze motorie. Chissà se il nuovo arrivato prima di bloccare la proroga del contratto per oltre 200 ricercatori ha avuto tempo di riguardare i numeri su cui poggia il futuro dell’Ingv. Un ente di ricerca retto dai precari: la rete mobile, soprattutto, quella che come nella notte raccontata da Raffaele corre quando c’è un sisma a rafforzare la sorveglianza, è composta per il 70-80% da precari. Adesso i vertici dell’Ingv dicono che vogliono bandire un concorso. Per assumere i ricercatori di cui avrà bisogno. A tempo determinato, ovviamente. Una beffa. Che, tra una procedura burocratica e l’altra, lascerà l’Ingv scoperto chissà per quanti mesi. E farà fuggire all’estero altri cervelli. «Sai quanto è costato all’Italia formare uno come me? Almeno 500mila euro, gli altri paesi sono ben contenti di prenderci, già formati, con dieci anni di esperienza alle spalle», si permette di far notare Stefano Corradini, 41 anni. Fisico d el l ’atomosfera, all’Ingv si occupa di sorvegliare attraverso il satellite le emissioni vulcaniche dell’Etna, ma anche degli altri vulcani sparsi nel mondo. A lui come a tanti altri ricercatori Ingv, a dirla tutta, lo stipendio lo paga l’Unione europea. «Non so personalmente quanti soldi ho fatto recuperare all’Italia, so che dei 90 milioni di fondi su cui può contare l’Ingv, almeno 20 vengono da progetti finanziati a livello europeo, e gran parte di quei progetti camminano sulle gambe dei precari». L’Italia può permettersi di fare a meno di loro?
da Pubblico Giornale 20.10.12