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"La vera sfida è il dopo Monti", di Alfredo Reichlin

La candidatura del Pa a governare sta acquistando forza. Ma più ci presentiamo al Paese come la sua possibile guida più diventa acuta l’esigenza (per me, almeno) di poggiarla su una base più forte, culturale, fondata non solo sulla contingenza politica ma sullo sforzo di cominciare a offrire qualche risposta ai grandi quesiti della nuova storia europea in cui siamo immersi. È ormai difficilmente contestabile che il Pd rappresenta il perno della sola alleanza di governo possibile, quello tra la sinistra democratica e un più vasto mondo moderato. Ma basta questo? La base dei vecchi schieramenti si sta sfarinando. È con forze, interessi e domande più profonde che ci dobbiamo confrontare. E, al fondo, la questione che io comincerei a porre come fondamento della nostra candidatura al governo dell’Italia è la necessità di uscire dalla Grande crisi che poi, come sappiamo, è molto di più di una crisi economica.
Il tema riguarda un «ordine» globale, che ha creato una società della super ricchezza e della super-miseria la quale ha emarginato il lavoro e i ceti medi. Per cui uscirne non è semplice. Comporta la necessità di rimettere in discussione qualcosa degli assetti anche sociali che sono alla sua base. E, quindi, richiede di allungare lo sguardo oltre l’emergenza, misurandosi con quello che a me appare ormai il rischio di una lunga decadenza di questo nostro Paese. Di che si tratta? Non delle solite cose. I fatti sono impressionanti, a cominciare dalla corruzione dilagante che è anche la spia di un vuoto spaventoso di classi dirigenti. È evidente la necessità vitale di un grande rinnovamento di persone, oltre che di idee. Ma il vergognoso linciaggio di D’Alema non è questo. Mi ferisce e voglio dirlo. Vedo in esso anche il tentativo di «rottamare» una delle cose più rispettabili di questo Paese che è la lunga, ininterrotta storia tormentata della sinistra. Una cosa è certa. Così non si riforma niente e non si forma nessuna classe dirigente.
Ritorno così al mio articolo che nasce, come sempre, dall’assillo di alzare il livello della discussione e contribuire a darci una visione più avanzata delle cose. La nostra crisi è così grave perché è parte integrante di una vicenda mondiale che ha scoperchiato tutte le nostre debolezze storiche. Dunque, questa vicenda (la grande svolta liberista e la finanziarizzazione dell’economia con tutto ciò che ha comportato come rottura del vecchio compromesso democratico e sociale) non è un fenomeno che ci è arrivato addosso dall’esterno. Insomma, noi e il mondo resta la chiave di lettura della crisi italiana. Noi e il mondo, sia per capire la decadenza di una nazione, ma sia per rendersi conto che anche tutte le nostre prospettive stanno nel rapporto col mondo. Stanno cioè nella lotta per una nuova Europa, perché solo a questo livello è possibile pensare di dare una nuova base sociale al rilancio dello sviluppo nel mondo attuale. È per la consapevolezza di questo nodo profondo che a me sembra molto fuorviante dividere il Pd tra «montiani» e «anti-montiani». È veramente una disputa vana se guardiamo alle grandi sfide che incombono.
Non capisco che idea ha dell’Italia chi considera la lotta contro il governo Monti come il discrimine tra destra e sinistra. Tutto ci dice che il problema di risanare l’insieme dell’organismo italiano (Stato e società) è problema nostro, ineludibile. Non è una emergenza che si chiude con un nuovo governo. È la condizione per rimettere con i piedi per terra tutta la lotta delle forze di progresso. I vecchi conflitti sociali del Novecento non sono affatto scomparsi. Ma qual è, oggi, il senso del riformismo nell’Italia del 2000 se esso non si pone il problema di liberare le forze produttive (si, le forze produttive) dal peso schiacciante delle rendite? Quali efficienti servizi collettivi ci sono dietro quell’insostenibile 51 per cento di spesa pubblica se non una serie di grandi rapine a spese del lavoro e della povera gente? E non sto a ricordare le speculazioni finanziarie, gli sprechi e le distorsioni che da venti anni hanno bloccato lo sviluppo del Paese spingendolo verso un destino di decadenza. Guardiamo al Mezzogiorno e misuriamo l’enormità del disastro fatto in questi anni dal cosiddetto governo del Nord (Berlusconi e Bossi insieme). Ricostruire la fisionomia dell’Italia. Questo è il compito nostro, non di Monti. Non affrontarlo significherebbe rinunciare alla missione stessa del Pd, che è quella di ridare al mondo del lavoro il senso della sua funzione nazionale e quello di restituire una cittadinanza alle classi subalterne e una rinnovata idea di patto civile agli italiani.
Detto questo, anche l’idea di fare dell’agenda dei «professori» l’orizzonte dell’Italia di domani a me sembra nasca da una visione piccola e subalterna rispetto ai problemi e ai compiti che spettano alle forze progressiste europee. Non scherziamo. La più grande crisi mondiale del dopoguerra non è scoppiata per le eccessive pretese dei sindacati né per l’avidità dei banchieri. Non voglio ritornare sulle stesse analisi che hanno già detto tutto. Richiamo solo l’attenzione sul peso che ebbe la rottura degli equilibri sociali che stavano alla base del compromesso tra il capitalismo e l’economia. E quindi sul fatto che, oggi, non si esce dalla crisi senza affrontare la questione di un nuovo modello sociale, senza un rapporto diverso tra società, economia e politica, senza dar voce non solo al lavoro ma a una nuova umanità.
Il passato non tornerà più. Ma è bene non dimenticarlo. In sostanza fu l’arrivo sulla scena di nuovi popoli con tutto il loro carico di bisogni e di domande che rese insostenibili gli equilibri e i compromessi sociali su cui si reggevano fino a 30-40 anni fa le ricche società occidentali. Erano società molto costose perché in esse la crescita della ricchezza privata e dei consumi opulenti conviveva con l’espansione del Welfare e un grande peso dei poteri sindacali e dei diritti del mondo del lavoro. Ma adesso arrivavano i nuovi soggetti della mondializzazione, e quindi il problema di non ridistribuzione della ricchezza mondiale. Si giungeva così a un bivio, si imponevano nuove scelte non solo economiche ma sociali di fondo. Sulla carta c’era anche l’ipotesi (non dimentichiamolo, perché in modi del tutto nuovi io penso che questa è la questione che si ripresenterà nel futuro) di andare avanti, verso società meno costose perché più egualitarie, con consumi meno opulenti ma più ricchi, anche culturalmente e moralmente, con grandi innovazioni nel campo della produzione di beni sociali, culturali, ambientali. Oppure sterzare a destra. L’altro corno del dilemma. È quanto fecero le oligarchie dominanti. Ruppero gli accordi di Bretton Woods su cui si era basata nel dopoguerra la costruzione di assetti politici e sociali più democratici, insieme con una economia più regolata e l’allocazione mondiale dei capitali più controllati. La finanziarizzazione senza regole fornì anche carburante allo sviluppo delle nuove economie. Ma in compenso il costo irrisorio della mano d’opera di quei Paesi venne usato come un grande «esercito di riserva» che scaricava sulla civiltà del lavoro europea, sui diritti democratici e sui vecchi ceti medi il compito di stringere la cinta a fronte dei nuovi imperativi della competitività. Questo sistema è arrivato al termine della corsa. Come se ne esce? Per piacere, non ditemi che al di là dell’agenda Monti non si può andare. Con tutto il rispetto per il professore e tutto l’augurio di lavorare ancora insieme, egli non rappresenta la misura di tutte le cose.

L’Unità 18.10.12

"La vera sfida è il dopo Monti", di Alfredo Reichlin

La candidatura del Pa a governare sta acquistando forza. Ma più ci presentiamo al Paese come la sua possibile guida più diventa acuta l’esigenza (per me, almeno) di poggiarla su una base più forte, culturale, fondata non solo sulla contingenza politica ma sullo sforzo di cominciare a offrire qualche risposta ai grandi quesiti della nuova storia europea in cui siamo immersi. È ormai difficilmente contestabile che il Pd rappresenta il perno della sola alleanza di governo possibile, quello tra la sinistra democratica e un più vasto mondo moderato. Ma basta questo? La base dei vecchi schieramenti si sta sfarinando. È con forze, interessi e domande più profonde che ci dobbiamo confrontare. E, al fondo, la questione che io comincerei a porre come fondamento della nostra candidatura al governo dell’Italia è la necessità di uscire dalla Grande crisi che poi, come sappiamo, è molto di più di una crisi economica.
Il tema riguarda un «ordine» globale, che ha creato una società della super ricchezza e della super-miseria la quale ha emarginato il lavoro e i ceti medi. Per cui uscirne non è semplice. Comporta la necessità di rimettere in discussione qualcosa degli assetti anche sociali che sono alla sua base. E, quindi, richiede di allungare lo sguardo oltre l’emergenza, misurandosi con quello che a me appare ormai il rischio di una lunga decadenza di questo nostro Paese. Di che si tratta? Non delle solite cose. I fatti sono impressionanti, a cominciare dalla corruzione dilagante che è anche la spia di un vuoto spaventoso di classi dirigenti. È evidente la necessità vitale di un grande rinnovamento di persone, oltre che di idee. Ma il vergognoso linciaggio di D’Alema non è questo. Mi ferisce e voglio dirlo. Vedo in esso anche il tentativo di «rottamare» una delle cose più rispettabili di questo Paese che è la lunga, ininterrotta storia tormentata della sinistra. Una cosa è certa. Così non si riforma niente e non si forma nessuna classe dirigente.
Ritorno così al mio articolo che nasce, come sempre, dall’assillo di alzare il livello della discussione e contribuire a darci una visione più avanzata delle cose. La nostra crisi è così grave perché è parte integrante di una vicenda mondiale che ha scoperchiato tutte le nostre debolezze storiche. Dunque, questa vicenda (la grande svolta liberista e la finanziarizzazione dell’economia con tutto ciò che ha comportato come rottura del vecchio compromesso democratico e sociale) non è un fenomeno che ci è arrivato addosso dall’esterno. Insomma, noi e il mondo resta la chiave di lettura della crisi italiana. Noi e il mondo, sia per capire la decadenza di una nazione, ma sia per rendersi conto che anche tutte le nostre prospettive stanno nel rapporto col mondo. Stanno cioè nella lotta per una nuova Europa, perché solo a questo livello è possibile pensare di dare una nuova base sociale al rilancio dello sviluppo nel mondo attuale. È per la consapevolezza di questo nodo profondo che a me sembra molto fuorviante dividere il Pd tra «montiani» e «anti-montiani». È veramente una disputa vana se guardiamo alle grandi sfide che incombono.
Non capisco che idea ha dell’Italia chi considera la lotta contro il governo Monti come il discrimine tra destra e sinistra. Tutto ci dice che il problema di risanare l’insieme dell’organismo italiano (Stato e società) è problema nostro, ineludibile. Non è una emergenza che si chiude con un nuovo governo. È la condizione per rimettere con i piedi per terra tutta la lotta delle forze di progresso. I vecchi conflitti sociali del Novecento non sono affatto scomparsi. Ma qual è, oggi, il senso del riformismo nell’Italia del 2000 se esso non si pone il problema di liberare le forze produttive (si, le forze produttive) dal peso schiacciante delle rendite? Quali efficienti servizi collettivi ci sono dietro quell’insostenibile 51 per cento di spesa pubblica se non una serie di grandi rapine a spese del lavoro e della povera gente? E non sto a ricordare le speculazioni finanziarie, gli sprechi e le distorsioni che da venti anni hanno bloccato lo sviluppo del Paese spingendolo verso un destino di decadenza. Guardiamo al Mezzogiorno e misuriamo l’enormità del disastro fatto in questi anni dal cosiddetto governo del Nord (Berlusconi e Bossi insieme). Ricostruire la fisionomia dell’Italia. Questo è il compito nostro, non di Monti. Non affrontarlo significherebbe rinunciare alla missione stessa del Pd, che è quella di ridare al mondo del lavoro il senso della sua funzione nazionale e quello di restituire una cittadinanza alle classi subalterne e una rinnovata idea di patto civile agli italiani.
Detto questo, anche l’idea di fare dell’agenda dei «professori» l’orizzonte dell’Italia di domani a me sembra nasca da una visione piccola e subalterna rispetto ai problemi e ai compiti che spettano alle forze progressiste europee. Non scherziamo. La più grande crisi mondiale del dopoguerra non è scoppiata per le eccessive pretese dei sindacati né per l’avidità dei banchieri. Non voglio ritornare sulle stesse analisi che hanno già detto tutto. Richiamo solo l’attenzione sul peso che ebbe la rottura degli equilibri sociali che stavano alla base del compromesso tra il capitalismo e l’economia. E quindi sul fatto che, oggi, non si esce dalla crisi senza affrontare la questione di un nuovo modello sociale, senza un rapporto diverso tra società, economia e politica, senza dar voce non solo al lavoro ma a una nuova umanità.
Il passato non tornerà più. Ma è bene non dimenticarlo. In sostanza fu l’arrivo sulla scena di nuovi popoli con tutto il loro carico di bisogni e di domande che rese insostenibili gli equilibri e i compromessi sociali su cui si reggevano fino a 30-40 anni fa le ricche società occidentali. Erano società molto costose perché in esse la crescita della ricchezza privata e dei consumi opulenti conviveva con l’espansione del Welfare e un grande peso dei poteri sindacali e dei diritti del mondo del lavoro. Ma adesso arrivavano i nuovi soggetti della mondializzazione, e quindi il problema di non ridistribuzione della ricchezza mondiale. Si giungeva così a un bivio, si imponevano nuove scelte non solo economiche ma sociali di fondo. Sulla carta c’era anche l’ipotesi (non dimentichiamolo, perché in modi del tutto nuovi io penso che questa è la questione che si ripresenterà nel futuro) di andare avanti, verso società meno costose perché più egualitarie, con consumi meno opulenti ma più ricchi, anche culturalmente e moralmente, con grandi innovazioni nel campo della produzione di beni sociali, culturali, ambientali. Oppure sterzare a destra. L’altro corno del dilemma. È quanto fecero le oligarchie dominanti. Ruppero gli accordi di Bretton Woods su cui si era basata nel dopoguerra la costruzione di assetti politici e sociali più democratici, insieme con una economia più regolata e l’allocazione mondiale dei capitali più controllati. La finanziarizzazione senza regole fornì anche carburante allo sviluppo delle nuove economie. Ma in compenso il costo irrisorio della mano d’opera di quei Paesi venne usato come un grande «esercito di riserva» che scaricava sulla civiltà del lavoro europea, sui diritti democratici e sui vecchi ceti medi il compito di stringere la cinta a fronte dei nuovi imperativi della competitività. Questo sistema è arrivato al termine della corsa. Come se ne esce? Per piacere, non ditemi che al di là dell’agenda Monti non si può andare. Con tutto il rispetto per il professore e tutto l’augurio di lavorare ancora insieme, egli non rappresenta la misura di tutte le cose.
L’Unità 18.10.12

"Giungla tasse, l’università non è un diritto per tutti", di Luciana Cimino

L’Italia non sarà più un paese con una università di massa. Non è più in grado di garantire il suo dettato costituzionale per il quale, all’articolo 34, «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». C’è una fuga dall’università italiana. Secondo Alma Laurea quest’anno c’è stato l’8% di immatricolazioni in meno. Totalmente in controtendenza con il resto d’Europa, dove siamo ultimi per studenti laureati, dopo la Turchia. E quell’8 per cento in meno sono figli di operai che hanno rinunciato a fare i dottori. Per il futuro prossimo non ci si aspetta una inversione di tendenza. Quest’anno il decreto legislativo 68/2012 sul diritto allo studio e la spending review che interviene sulle tasse universitarie costituiranno un’ulteriore gradino per le famiglie meno abbienti. Un’indagine Adiconsum ha rilevato come ogni ateneo ha applicato gli aumenti in una «giungla di distinzioni e differenziazioni che hanno reso il costo dell’Università una stangata per le famiglie». «Il sistema della tassazione universitaria rivela Adiconsum non garantisce pari opportunità di studio a tutti gli aventi diritto, tagliando fuori studenti fuori sede, con reddito basso e lavoratori».

RINCARI E ALIQUOTE Se La Sapienza di Roma ha aumentato del 50% le tasse agli studenti per i fuori corso, in quella di Bologna si sfiorano i 4000 euro. All’Aquila sarà applicata solo l’imposta di bollo regionale da 150 euro. A Firenze le tasse vanno da 367 euro (1417 per i corsi con laboratori) a 3654 euro. A Cagliari si parte da 367 euro fino a 2891 euro ma c’è la maggiorazione per i fuori corso. A Milano i cittadini con il reddito più basso, cioè con un’Isee di 20.000 euro, rispetto all’anno scorso subiranno un incremento di circa il 30%. A tutto ciò si aggiunge il rincaro dei libri di testo (mediamente 420 euro per le facoltà umanistiche, 750 per le scientifiche e fino a mille euro per Medicina o Architettura) e dei trasporti, il prezzo esorbitante degli affitti. «Per il fuorisede studiare diventa proibitivo – commenta Pietro Giordano, segretario generale Adiconsum – se anche lo studente prendesse una borsa di studio l’importo non gli servirebbe a coprire le spese e si dovrebbe rivolgere al solito ammortizzatore della famiglia. Allora è ovvio che i figli dei lavoratori o quelli dei pensionati sono penalizzati. Si sta configurando un’università per redditi alti». Il ricercatore Alessandro Ferretti dell’assemblea nazionale “Università Bene Comune” nota: «Gelmini, prima, e governo Monti, adesso, si ispirano a una università che non è un bene del Paese ma è un bene del singolo che la frequenta perché l’ha pagata. Questo è un danno perché dell’università ne beneficia l’intero stato: l’Ocse evidenzia come l’istruzione diffusa comporti non solo un aumento di cultura ma anche del Pil, della partecipazione politica, della fiducia dei cittadini, più soldi alla collettività. Consentire l’accesso solo a pochi privilegiati non ha senso».

ICONTI DI LINK Link, coordinamento studentesco presente in 17 città, ha fatto un po’ di conti: «Dal 2006 al 2011 sono stati prelevati dalle tasche degli studenti 283 milioni in più spiega Luca Spadon, portavoce nazionale Questa è solo la contribuzione universitaria, poi c’è stato l’aumento delle tasse per il diritto allo studio, alcune più che raddoppiate, poi la tassa di laurea, poi l’aumento della tassa per i test per numero chiuso. Definanziano la scuola e l’università e recuperano con l’aumento della contribuzione, intanto riducono le borse di studio, il risultato è che espelli gli studenti più deboli». Spadon ragiona anche sulle norme che alzano le tasse ai fuori corso. «Chi va fuori corso per la maggior parte dei casi ha necessità di lavorare – ragiona Spadon sono pochissime gli atenei che riconoscono la figura dello studente lavoratore ma pretendono il contratto regolare, è assurdo. Uno che lavora in un bar a nero è massacrato. Ma per il resto delle università il lavoratore non esiste e chi si mantiene da soo è doppiamente penalizzato». «L’Italia sta rinunciando all’università di massa», chiosa Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil. «Il diritto allo studio non è più garantito. Diciamo al ministro: anziché pensare ai prestiti stile Usa che indebitano gli studenti rimetta i soldi lì». Per la FlcCgl la situazione dell’accesso al grado più alto dell’istruzione è ormai drammatica. «L’aumento delle tasse previsto dala spending review, la demolizione del diritto allo studio, oltre il 50% delle facoltà a numero chiuso, questo combinato ha come conseguenza che i figli delle famiglie meno abbienti non posso accedere all’università, che il sapere non è per tutti, peraltro in una condizione generale del paese in cui la tua carriera dipende da che famiglia vieni. Per i figli della povera gente non c’è prospettiva».

L’Unità 18.10.12

"Giungla tasse, l’università non è un diritto per tutti", di Luciana Cimino

L’Italia non sarà più un paese con una università di massa. Non è più in grado di garantire il suo dettato costituzionale per il quale, all’articolo 34, «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». C’è una fuga dall’università italiana. Secondo Alma Laurea quest’anno c’è stato l’8% di immatricolazioni in meno. Totalmente in controtendenza con il resto d’Europa, dove siamo ultimi per studenti laureati, dopo la Turchia. E quell’8 per cento in meno sono figli di operai che hanno rinunciato a fare i dottori. Per il futuro prossimo non ci si aspetta una inversione di tendenza. Quest’anno il decreto legislativo 68/2012 sul diritto allo studio e la spending review che interviene sulle tasse universitarie costituiranno un’ulteriore gradino per le famiglie meno abbienti. Un’indagine Adiconsum ha rilevato come ogni ateneo ha applicato gli aumenti in una «giungla di distinzioni e differenziazioni che hanno reso il costo dell’Università una stangata per le famiglie». «Il sistema della tassazione universitaria rivela Adiconsum non garantisce pari opportunità di studio a tutti gli aventi diritto, tagliando fuori studenti fuori sede, con reddito basso e lavoratori».
RINCARI E ALIQUOTE Se La Sapienza di Roma ha aumentato del 50% le tasse agli studenti per i fuori corso, in quella di Bologna si sfiorano i 4000 euro. All’Aquila sarà applicata solo l’imposta di bollo regionale da 150 euro. A Firenze le tasse vanno da 367 euro (1417 per i corsi con laboratori) a 3654 euro. A Cagliari si parte da 367 euro fino a 2891 euro ma c’è la maggiorazione per i fuori corso. A Milano i cittadini con il reddito più basso, cioè con un’Isee di 20.000 euro, rispetto all’anno scorso subiranno un incremento di circa il 30%. A tutto ciò si aggiunge il rincaro dei libri di testo (mediamente 420 euro per le facoltà umanistiche, 750 per le scientifiche e fino a mille euro per Medicina o Architettura) e dei trasporti, il prezzo esorbitante degli affitti. «Per il fuorisede studiare diventa proibitivo – commenta Pietro Giordano, segretario generale Adiconsum – se anche lo studente prendesse una borsa di studio l’importo non gli servirebbe a coprire le spese e si dovrebbe rivolgere al solito ammortizzatore della famiglia. Allora è ovvio che i figli dei lavoratori o quelli dei pensionati sono penalizzati. Si sta configurando un’università per redditi alti». Il ricercatore Alessandro Ferretti dell’assemblea nazionale “Università Bene Comune” nota: «Gelmini, prima, e governo Monti, adesso, si ispirano a una università che non è un bene del Paese ma è un bene del singolo che la frequenta perché l’ha pagata. Questo è un danno perché dell’università ne beneficia l’intero stato: l’Ocse evidenzia come l’istruzione diffusa comporti non solo un aumento di cultura ma anche del Pil, della partecipazione politica, della fiducia dei cittadini, più soldi alla collettività. Consentire l’accesso solo a pochi privilegiati non ha senso».
ICONTI DI LINK Link, coordinamento studentesco presente in 17 città, ha fatto un po’ di conti: «Dal 2006 al 2011 sono stati prelevati dalle tasche degli studenti 283 milioni in più spiega Luca Spadon, portavoce nazionale Questa è solo la contribuzione universitaria, poi c’è stato l’aumento delle tasse per il diritto allo studio, alcune più che raddoppiate, poi la tassa di laurea, poi l’aumento della tassa per i test per numero chiuso. Definanziano la scuola e l’università e recuperano con l’aumento della contribuzione, intanto riducono le borse di studio, il risultato è che espelli gli studenti più deboli». Spadon ragiona anche sulle norme che alzano le tasse ai fuori corso. «Chi va fuori corso per la maggior parte dei casi ha necessità di lavorare – ragiona Spadon sono pochissime gli atenei che riconoscono la figura dello studente lavoratore ma pretendono il contratto regolare, è assurdo. Uno che lavora in un bar a nero è massacrato. Ma per il resto delle università il lavoratore non esiste e chi si mantiene da soo è doppiamente penalizzato». «L’Italia sta rinunciando all’università di massa», chiosa Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil. «Il diritto allo studio non è più garantito. Diciamo al ministro: anziché pensare ai prestiti stile Usa che indebitano gli studenti rimetta i soldi lì». Per la FlcCgl la situazione dell’accesso al grado più alto dell’istruzione è ormai drammatica. «L’aumento delle tasse previsto dala spending review, la demolizione del diritto allo studio, oltre il 50% delle facoltà a numero chiuso, questo combinato ha come conseguenza che i figli delle famiglie meno abbienti non posso accedere all’università, che il sapere non è per tutti, peraltro in una condizione generale del paese in cui la tua carriera dipende da che famiglia vieni. Per i figli della povera gente non c’è prospettiva».
L’Unità 18.10.12

"Milano e il crepuscolo di un potere dal forzaleghismo ai travagli di Cl", di Gad Lerner

Ignaro del fatto che i due segretari ne avevano già programmato la liquidazione in data aprile 2013 per effetto di un proficuo comodato di scambio, sulla cui digeribilità ci permettiamo di nutrire ancora molti dubbi: a te Maroni la presidenza della Lombardia; la Lega in simultanea tornerà alleata del Pdl per le elezioni nazionali. Oplà.
Non a caso da allora il Formigoni silurato ha tentato invano di anticipare a dicembre la data del voto lombardo e di favorire la candidatura di Gabriele Albertini, dichiaratosi indisponibile a ulteriori patti elettorali con la Lega. Ma Berlusconi e Alfano da questo orecchio non ci sentono: loro sono disposti a concedere ai leghisti finanche la Lombardia, dopo il Veneto e il Piemonte, pur di colmare il distacco che li separa dal centrosinistra. Difatti il patto di vertice viene già salutato con favore dalle gazzette berlusconiane; il coordinatore lombardo del Pdl, Mario Mantovani, boccia le elezioni sotto Natale; i fedelissimi di Berlusconi in consiglio regionale ritirano le dimissioni annunciate; e La Russa propone di riunirsi alla Lega e poi contarsi attraverso delle primarie di coalizione. Per la gioia di Maroni che si accinge a celebrare la propria candidatura domenica prossima con un plebiscito ai gazebo del Carroccio.
La destra del Nord cerca di risorgere dalle macerie liberandosi di Formigoni e resuscitando il forzaleghismo. Operazione zeppa di incognite che forse sottovaluta il travaglio della galassia di Comunione e Liberazione, certamente delusa dai comportamenti spregiudicati del Celeste, ma recalcitrante all’ennesima resa di fronte al ricatto delle camicie verdi. Siamo alla resa dei conti. E i rapporti di forza favorirebbero la “presenza” e le “opere” strutturatesi in vent’anni di predominio ciellino nella sanità, nelle infrastrutture, nella formazione professionale, nelle fiere, nel tessuto cooperativo, non fosse che le alte temperature della nuova Tangentopoli stanno sciogliendo a velocità impensabile il ghiacciaio del sistema di potere formigoniano.
Per rendersene conto, prima ancora che a Milano bisogna rivolgere lo sguardo agli scandali che turbano la cattolicissima roccaforte di Bergamo, dove ieri si è dimesso il presidente della Compagnia delle Opere, Rossano Breno. La confessione dell’imprenditore Pierluca Locatelli che ha pagato un milione e duecentomila euro la licenza per una discarica d’amianto, colpisce soprattutto per la destinazione della parte più cospicua di questa somma: la ristrutturazione “gratuita” della scuola paritaria Imiberg, 700 studenti e 100 docenti, sita in un palazzo storico della Città Alta, fiore all’occhiello della “libertà d’insegnamento”
lombarda.
Nel dicembre scorso Formigoni aveva inaugurato il suo centro sportivo lodandone la fisionomia esemplare, fiancheggiato dal giornalista ciellino Ettore Ongis che sovrintende alla sua gestione da quando il vescovo Francesco Beschi l’ha allontanato dalla direzione dell’Eco di Bergamo per liberare il giornale della curia dai vincoli eccessivi del gruppo di potere ciellino. Talmente bene introdotto da sedere anche nel cda dell’Ubi, la ricca banca popolare orobica, di cui è membro lo stesso Rossano Breno, compaesano nel comune di Mornico
del segretario regionale del Pd, Maurizio Martina, insieme al quale nel 2009 promosse una lista civica tentando invano di sconfiggere il sindaco leghista. I militanti di Comunione e Liberazione sono turbati e offesi dalla disinvoltura con cui l’altro dirigente Cdo indagato per tangenti, Luigi Brambilla, ironizzava al telefono sul “senso religioso” di don Luigi Giussani, citato abusivamente per
compiacersi dell’appartenenza spregiudicata con cui quei manager intrallazzavano fra politica e affari (“Figa, è così! Il caro vecchio Don Gius c’ha ragione”). Ma non è tutto. Perché Bergamo sta facendo i conti pure con lo scandalo delle case vacanze per bambini delle scuole milanesi, tre gare d’appalto truccate per 32 milioni di euro, assegnate dall’assessorato della morattiana Mariolina Moioli a un’azienda di proprietà della Cisl bergamasca. Ora sono in carcere il suo dirigente Patrizio Mercadante e un manager del sindacato bianco, Dario Zambelli (membro anche del direttivo Cdo), entrambi bergamaschi come del resto il segretario della Cisl regionale, Gigi Petteni, in rapporti privilegiati con Formigoni e sdoganatore di un rapporto fra sindacato e Cdo prima di lui assai freddo.
Intrecci di relazioni capillari che si traducevano in denaro pubblico assegnato tramite canali privilegiati. L’arricchimento straordinario dei “consulenti” alla Daccò e alla Simone, le centinaia di milioni assegnati al San Raffaele e alla Fondazione Maugeri, rappresentano solo la punta dell’iceberg che ora si sta sciogliendo e travolge il sistema scaturito dalla deformazione degli ideali di don Giussani: dalla “presenza di personalità integralmente cristiane” alla “conversione testimoniata”, per sopraggiungere alla “sussidiarietà” intesa come “concorrenza fra pubblico e privato”. Invano la Lega ha cercato di inseguire i ciellini su questo terreno delle “opere”. La scuola Bosina di Varese, fondata dalla moglie di Bossi, Manuela Marrone, e alimentata con i rifornimenti di soldi pubblici dall’ex tesoriere Belsito, appare ben piccola cosa al cospetto dell’Imiberg bergamasca e degli altri istituti cattolici finanziati evidentemente non solo con il “buono scuola” erogato alle famiglie dalla Regione.
Resta da vedere se lo scoperchiamento di un sistema che i suoi artefici consideravano naturale e di cui declamavano l’efficienza al servizio dei cittadini, comporterà scelte politiche di rottura da parte di Comunione e Liberazione, ora che sembra rinascere l’asse Berlusconi-Maroni con il sostegno subalterno di La Russa. Di certo la riflessione interna avviata dall’autocritica
del capo spirituale di Cl, don Juliàn Carron, sacerdote spagnolo distaccato (e disgustato) dalla politica italiana, sta producendo i suoi effetti. Particolarmente doloroso fra i ciellini è constatare quali frutti abbia generato il silenziatore al messaggio evangelico applicato nei lunghi anni di alleanza con la Lega. Non a caso il più autorevole fra i politici ciellini, Mario Mauro, capogruppo Pdl al Parlamento europeo, pur difendendo l’esperienza del governo lombardo, oggi critica esplicitamente Formigoni per le sue frequentazioni. E, sempre Mauro, boccia l’idea di recuperare l’alleanza con la Lega, candidando Gabriele Albertini viceversa a coalizzare i moderati nell’alveo del Partito Popolare europeo.
E’ il preludio di una storica rottura, fallita l’illusione formigoniana di ereditare la guida del centrodestra nel dopo Berlusconi? Capiremo nelle prossime settimane se la Lombardia, dove il movimento di Comunione e Liberazione è divenuto un pezzo di società imprescindibile, destinato certamente a durare ben oltre il ciclo fallimentare del forzaleghismo, diventerà il laboratorio politico di una nuova formazione conservatrice. O se invece Formigoni sarà solo l’ennesima vittima divorata nel crepuscolo autodistruttivo del vecchio leader silenzioso, asserragliato nella villa di Arcore.

La Repubblica 18.10.12

"Milano e il crepuscolo di un potere dal forzaleghismo ai travagli di Cl", di Gad Lerner

Ignaro del fatto che i due segretari ne avevano già programmato la liquidazione in data aprile 2013 per effetto di un proficuo comodato di scambio, sulla cui digeribilità ci permettiamo di nutrire ancora molti dubbi: a te Maroni la presidenza della Lombardia; la Lega in simultanea tornerà alleata del Pdl per le elezioni nazionali. Oplà.
Non a caso da allora il Formigoni silurato ha tentato invano di anticipare a dicembre la data del voto lombardo e di favorire la candidatura di Gabriele Albertini, dichiaratosi indisponibile a ulteriori patti elettorali con la Lega. Ma Berlusconi e Alfano da questo orecchio non ci sentono: loro sono disposti a concedere ai leghisti finanche la Lombardia, dopo il Veneto e il Piemonte, pur di colmare il distacco che li separa dal centrosinistra. Difatti il patto di vertice viene già salutato con favore dalle gazzette berlusconiane; il coordinatore lombardo del Pdl, Mario Mantovani, boccia le elezioni sotto Natale; i fedelissimi di Berlusconi in consiglio regionale ritirano le dimissioni annunciate; e La Russa propone di riunirsi alla Lega e poi contarsi attraverso delle primarie di coalizione. Per la gioia di Maroni che si accinge a celebrare la propria candidatura domenica prossima con un plebiscito ai gazebo del Carroccio.
La destra del Nord cerca di risorgere dalle macerie liberandosi di Formigoni e resuscitando il forzaleghismo. Operazione zeppa di incognite che forse sottovaluta il travaglio della galassia di Comunione e Liberazione, certamente delusa dai comportamenti spregiudicati del Celeste, ma recalcitrante all’ennesima resa di fronte al ricatto delle camicie verdi. Siamo alla resa dei conti. E i rapporti di forza favorirebbero la “presenza” e le “opere” strutturatesi in vent’anni di predominio ciellino nella sanità, nelle infrastrutture, nella formazione professionale, nelle fiere, nel tessuto cooperativo, non fosse che le alte temperature della nuova Tangentopoli stanno sciogliendo a velocità impensabile il ghiacciaio del sistema di potere formigoniano.
Per rendersene conto, prima ancora che a Milano bisogna rivolgere lo sguardo agli scandali che turbano la cattolicissima roccaforte di Bergamo, dove ieri si è dimesso il presidente della Compagnia delle Opere, Rossano Breno. La confessione dell’imprenditore Pierluca Locatelli che ha pagato un milione e duecentomila euro la licenza per una discarica d’amianto, colpisce soprattutto per la destinazione della parte più cospicua di questa somma: la ristrutturazione “gratuita” della scuola paritaria Imiberg, 700 studenti e 100 docenti, sita in un palazzo storico della Città Alta, fiore all’occhiello della “libertà d’insegnamento”
lombarda.
Nel dicembre scorso Formigoni aveva inaugurato il suo centro sportivo lodandone la fisionomia esemplare, fiancheggiato dal giornalista ciellino Ettore Ongis che sovrintende alla sua gestione da quando il vescovo Francesco Beschi l’ha allontanato dalla direzione dell’Eco di Bergamo per liberare il giornale della curia dai vincoli eccessivi del gruppo di potere ciellino. Talmente bene introdotto da sedere anche nel cda dell’Ubi, la ricca banca popolare orobica, di cui è membro lo stesso Rossano Breno, compaesano nel comune di Mornico
del segretario regionale del Pd, Maurizio Martina, insieme al quale nel 2009 promosse una lista civica tentando invano di sconfiggere il sindaco leghista. I militanti di Comunione e Liberazione sono turbati e offesi dalla disinvoltura con cui l’altro dirigente Cdo indagato per tangenti, Luigi Brambilla, ironizzava al telefono sul “senso religioso” di don Luigi Giussani, citato abusivamente per
compiacersi dell’appartenenza spregiudicata con cui quei manager intrallazzavano fra politica e affari (“Figa, è così! Il caro vecchio Don Gius c’ha ragione”). Ma non è tutto. Perché Bergamo sta facendo i conti pure con lo scandalo delle case vacanze per bambini delle scuole milanesi, tre gare d’appalto truccate per 32 milioni di euro, assegnate dall’assessorato della morattiana Mariolina Moioli a un’azienda di proprietà della Cisl bergamasca. Ora sono in carcere il suo dirigente Patrizio Mercadante e un manager del sindacato bianco, Dario Zambelli (membro anche del direttivo Cdo), entrambi bergamaschi come del resto il segretario della Cisl regionale, Gigi Petteni, in rapporti privilegiati con Formigoni e sdoganatore di un rapporto fra sindacato e Cdo prima di lui assai freddo.
Intrecci di relazioni capillari che si traducevano in denaro pubblico assegnato tramite canali privilegiati. L’arricchimento straordinario dei “consulenti” alla Daccò e alla Simone, le centinaia di milioni assegnati al San Raffaele e alla Fondazione Maugeri, rappresentano solo la punta dell’iceberg che ora si sta sciogliendo e travolge il sistema scaturito dalla deformazione degli ideali di don Giussani: dalla “presenza di personalità integralmente cristiane” alla “conversione testimoniata”, per sopraggiungere alla “sussidiarietà” intesa come “concorrenza fra pubblico e privato”. Invano la Lega ha cercato di inseguire i ciellini su questo terreno delle “opere”. La scuola Bosina di Varese, fondata dalla moglie di Bossi, Manuela Marrone, e alimentata con i rifornimenti di soldi pubblici dall’ex tesoriere Belsito, appare ben piccola cosa al cospetto dell’Imiberg bergamasca e degli altri istituti cattolici finanziati evidentemente non solo con il “buono scuola” erogato alle famiglie dalla Regione.
Resta da vedere se lo scoperchiamento di un sistema che i suoi artefici consideravano naturale e di cui declamavano l’efficienza al servizio dei cittadini, comporterà scelte politiche di rottura da parte di Comunione e Liberazione, ora che sembra rinascere l’asse Berlusconi-Maroni con il sostegno subalterno di La Russa. Di certo la riflessione interna avviata dall’autocritica
del capo spirituale di Cl, don Juliàn Carron, sacerdote spagnolo distaccato (e disgustato) dalla politica italiana, sta producendo i suoi effetti. Particolarmente doloroso fra i ciellini è constatare quali frutti abbia generato il silenziatore al messaggio evangelico applicato nei lunghi anni di alleanza con la Lega. Non a caso il più autorevole fra i politici ciellini, Mario Mauro, capogruppo Pdl al Parlamento europeo, pur difendendo l’esperienza del governo lombardo, oggi critica esplicitamente Formigoni per le sue frequentazioni. E, sempre Mauro, boccia l’idea di recuperare l’alleanza con la Lega, candidando Gabriele Albertini viceversa a coalizzare i moderati nell’alveo del Partito Popolare europeo.
E’ il preludio di una storica rottura, fallita l’illusione formigoniana di ereditare la guida del centrodestra nel dopo Berlusconi? Capiremo nelle prossime settimane se la Lombardia, dove il movimento di Comunione e Liberazione è divenuto un pezzo di società imprescindibile, destinato certamente a durare ben oltre il ciclo fallimentare del forzaleghismo, diventerà il laboratorio politico di una nuova formazione conservatrice. O se invece Formigoni sarà solo l’ennesima vittima divorata nel crepuscolo autodistruttivo del vecchio leader silenzioso, asserragliato nella villa di Arcore.
La Repubblica 18.10.12

"La battaglia delle ventiquattr’ore", di Maria Grazia Gerina

«Se diciotto ore di lezione in classe vi sembrano poche…». Il loro no gli insegnanti, precari e non, lo hanno già detto forte e chiaro. E lo stesso ministro dell’Istruzione Francesco Profumo ha già annunciato una possibile marcia indietro. Ma nel testo definitivo consegnato al parlamento la legge di stabilità fa ancora conto di poter fare cassa su di loro, aumentando a parità di stipendio l’orario di lavoro fino a 24 ore a settimana. Lavoro in classe. Perché poi c’è tutto il resto, i compiti da correggere, le lezioni da preparare, i consigli di classe, il collegio docenti, i consigli d’istituto. All’articolo 3, comma 42, il testo della legge di stabilità, così come licenziato dal governo, spiega che «a decorrere dal primo settembre 2013 l’orario di impegno per l’insegnamento del personale docente della scuola secondaria di primo e di secondo grado, incluso quello di sostegno, è di 24 ore settimanali». Più precisamente: «Nelle sei ore eccedenti l’orario di cattedra il personale docente non di sostegno… è utilizzato prioritariamente per la copertura di spezzoni di orario disponibili» bontà loro, nella scuola dove il docente già insegna ma anche per le supplenze, per il sostegno se ne ha titolo, per il recupero, per eventuali ore aggiuntive di insegnamento, etc. etc.. Il piano è chiaro: caricando gli insegnanti di sei ore di lavoro aggiuntivo, senza aumentare loro lo stipendio, il governo potrà lasciare a casa un bel po’ di precari. Secondo la FlcCgil, si perderebbero in questo modo fino a 30mila posti di lavoro. Mentre il risparmio per lo Stato sarebbe anche superiore a quello inizialmente richiesto dal Ministero d el l ’Economia. Circa un miliardo di euro, secondo la Flc-Cgil, che ha già annunciato una nuova mobilitazione delle scuole. Con tanto di presidio davanti a Montecitorio, se sarà necessario, per accompagnare i lavori parlamentari, senza dare tregua ai deputati chiamati a votare in aula i sacrifici pianificati dal governo. Per ora, però, è lo stesso ministro Profumo ad accennare a una possibile marcia indietro. Lo ha fatto sabato scorso, spiegando in una intervista al Messaggero che l’orario è materia contrattuale da discutere con i sindacati e che perciò le 24 ore non scatteranno prima del 2014. Ma poi il testo di legge licenziato da Palazzo Chigi non è cambiato. Che sia rimasto così per esser usato come spauracchio? Ieri, il sottosegretario Giarda, rispondendo a una interrogazione parlamentare, ha ribadito che «il ministro Profumo ha dichiarato la sua disponibilità a rivedere, d’accordo con i gruppi parlamentari, la proposta contenuta nel ddl». E però ha anche ribadito che in un modo o nell’altro i risparmi che la scuola dovrà produrre in ossequio alla legge di stabilità sono quelli: 183 milioni di euro per il 2013, 173 milioni per il 2014, 237 milioni per il 2015. La domanda perciò è: ammesso che accetti di tornare indietro sulle 24 ore, l’es e cutivo Monti dove andrà a tagliare visto che i governi che l’hanno preceduto alla scuola hanno già tagliato tutto ciò che si poteva? In attesa di una soluzione alternativa che potrebbe non essere meglio di quella di partenza, da questa mattina, l’invito della FlcCgil a tutto il personale docente è di astenersi da ogni attività aggiuntiva in segno di protesta. Mentre per la prossima settimana è già in cantiere una sorta di «Occupy» della scuola che prenderà di mira gli uffici scolastici territoriali e regionali. Mentre una petizione sta già facendo il giro della rete al grido «Nessun aumento del carico orario dei docenti nelle scuole pubbliche» (vedi su www.petizionepubblica.it) .

da Pubblico giornale 18.10.12