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"La battaglia delle ventiquattr’ore", di Maria Grazia Gerina

«Se diciotto ore di lezione in classe vi sembrano poche…». Il loro no gli insegnanti, precari e non, lo hanno già detto forte e chiaro. E lo stesso ministro dell’Istruzione Francesco Profumo ha già annunciato una possibile marcia indietro. Ma nel testo definitivo consegnato al parlamento la legge di stabilità fa ancora conto di poter fare cassa su di loro, aumentando a parità di stipendio l’orario di lavoro fino a 24 ore a settimana. Lavoro in classe. Perché poi c’è tutto il resto, i compiti da correggere, le lezioni da preparare, i consigli di classe, il collegio docenti, i consigli d’istituto. All’articolo 3, comma 42, il testo della legge di stabilità, così come licenziato dal governo, spiega che «a decorrere dal primo settembre 2013 l’orario di impegno per l’insegnamento del personale docente della scuola secondaria di primo e di secondo grado, incluso quello di sostegno, è di 24 ore settimanali». Più precisamente: «Nelle sei ore eccedenti l’orario di cattedra il personale docente non di sostegno… è utilizzato prioritariamente per la copertura di spezzoni di orario disponibili» bontà loro, nella scuola dove il docente già insegna ma anche per le supplenze, per il sostegno se ne ha titolo, per il recupero, per eventuali ore aggiuntive di insegnamento, etc. etc.. Il piano è chiaro: caricando gli insegnanti di sei ore di lavoro aggiuntivo, senza aumentare loro lo stipendio, il governo potrà lasciare a casa un bel po’ di precari. Secondo la FlcCgil, si perderebbero in questo modo fino a 30mila posti di lavoro. Mentre il risparmio per lo Stato sarebbe anche superiore a quello inizialmente richiesto dal Ministero d el l ’Economia. Circa un miliardo di euro, secondo la Flc-Cgil, che ha già annunciato una nuova mobilitazione delle scuole. Con tanto di presidio davanti a Montecitorio, se sarà necessario, per accompagnare i lavori parlamentari, senza dare tregua ai deputati chiamati a votare in aula i sacrifici pianificati dal governo. Per ora, però, è lo stesso ministro Profumo ad accennare a una possibile marcia indietro. Lo ha fatto sabato scorso, spiegando in una intervista al Messaggero che l’orario è materia contrattuale da discutere con i sindacati e che perciò le 24 ore non scatteranno prima del 2014. Ma poi il testo di legge licenziato da Palazzo Chigi non è cambiato. Che sia rimasto così per esser usato come spauracchio? Ieri, il sottosegretario Giarda, rispondendo a una interrogazione parlamentare, ha ribadito che «il ministro Profumo ha dichiarato la sua disponibilità a rivedere, d’accordo con i gruppi parlamentari, la proposta contenuta nel ddl». E però ha anche ribadito che in un modo o nell’altro i risparmi che la scuola dovrà produrre in ossequio alla legge di stabilità sono quelli: 183 milioni di euro per il 2013, 173 milioni per il 2014, 237 milioni per il 2015. La domanda perciò è: ammesso che accetti di tornare indietro sulle 24 ore, l’es e cutivo Monti dove andrà a tagliare visto che i governi che l’hanno preceduto alla scuola hanno già tagliato tutto ciò che si poteva? In attesa di una soluzione alternativa che potrebbe non essere meglio di quella di partenza, da questa mattina, l’invito della FlcCgil a tutto il personale docente è di astenersi da ogni attività aggiuntiva in segno di protesta. Mentre per la prossima settimana è già in cantiere una sorta di «Occupy» della scuola che prenderà di mira gli uffici scolastici territoriali e regionali. Mentre una petizione sta già facendo il giro della rete al grido «Nessun aumento del carico orario dei docenti nelle scuole pubbliche» (vedi su www.petizionepubblica.it) .
da Pubblico giornale 18.10.12

"Rossi Doria: orario dei prof governo pronto a ripensarci", di Pietro Piovani

Il governo è pronto a ripensarci: la norma che aumenta l’orario di lavoro per i professori può essere tolta dalla legge di stabilità. A una condizione però, e cioè che si individui qualche misura alternativa in grado di garantire i risparmi previsti per i prossimi anni dalla spending review (183 milioni nel 2013, 237 milioni dal 2015 in poi). Marco Rossi Doria, sottosegretario all’Istruzione, è stato il primo a comunicare la notizia martedì sera con un messaggio su Twitter. La conferma ufficiale del ministro Profumo è arrivata ieri mattina alla Camera.
«La disponibilità del governo c’è», dice Rossi Doria, che prima di essere un sottosegretario nella vita ha sempre fatto il maestro elementare.
Ma quali possono essere queste soluzioni alternative?
«Come ha detto il ministro, le cercheremo in Parlamento, attraverso un confronto con tutte le forze politiche».
Però risparmiare nella scuola significa quasi sempre risparmiare sul personale.
«Ci sono altre possibilità. Ma ora è prematuro parlarne».
Con l’aumento dell’orario, e il conseguente taglio dei posti di lavoro per i precari, i risparmi sarebbero ben 721 milioni a regime. Anche con le misure alternative bisognerà trovare tutti questi soldi?
«Il ministro ha spiegato bene che il vincolo finanziario da rispettare è quello della legge 135 (la cosiddetta spending review, ndr). Quindi le risorse da reperire per il 2013 sono 183 milioni, non c’è bisogno di trovarne di più».
Lei ha detto esplicitamente che l’intervento proposto dal governo, cioè portare l’orario di insegnamento a 24 ore anziché 18, non è la soluzione migliore. Perché? Perché serve a tagliare posti di lavoro o perché 24 ore di lavoro sono troppe?
«Innanzitutto, io sono convinto che non si possano fare ulteriori tagli di personale nella scuola. Il personale che abbiamo oggi nella scuola è quello giusto, anzi in alcune zone del Paese siamo sottodimensionati: ci sono regioni dove cresce la popolazione di bambini, stranieri e non solo. C’è l’esigenza di garantire un orario più pieno che copra almeno una parte di pomeriggio».
A maggior ragione allora bisognerebbe aumentare l’orario di lavoro degli insegnanti.
«Bisognerebbe aprire una discussione seria sull’orario. Se guardiamo come è organizzato il lavoro dei docenti in Europa, ci accorgiamo che l’orario in classe con i ragazzi rappresenta solo una parte dell’orario complessivo. Da noi questo è previsto soltanto per le primarie, alle medie e alle superiori vige ancora uno schema ottocentesco di scuola. Nel contratto esiste la funzione docente, che comprende la preparazione delle lezioni, la correzione dei compiti, i collegi, i colloqui con le famiglie. Ma non c’è un orario per fare gruppi differenziati di livello per recuperare chi sta indietro o per coltivare talenti specifici».
Un cambiamento del genere non solo non porta risparmi ma anzi avrebbe dei costi.
«È chiaro che il tema non è all’ordine del giorno, non ci sono risorse. Però, come ha detto il ministro Profumo, prima o poi nel Paese si dovrà aprire un dibattito politico e culturale sull’orario di lavoro nella scuola».

Il Messaggero 18.10.12

"Rossi Doria: orario dei prof governo pronto a ripensarci", di Pietro Piovani

Il governo è pronto a ripensarci: la norma che aumenta l’orario di lavoro per i professori può essere tolta dalla legge di stabilità. A una condizione però, e cioè che si individui qualche misura alternativa in grado di garantire i risparmi previsti per i prossimi anni dalla spending review (183 milioni nel 2013, 237 milioni dal 2015 in poi). Marco Rossi Doria, sottosegretario all’Istruzione, è stato il primo a comunicare la notizia martedì sera con un messaggio su Twitter. La conferma ufficiale del ministro Profumo è arrivata ieri mattina alla Camera.
«La disponibilità del governo c’è», dice Rossi Doria, che prima di essere un sottosegretario nella vita ha sempre fatto il maestro elementare.
Ma quali possono essere queste soluzioni alternative?
«Come ha detto il ministro, le cercheremo in Parlamento, attraverso un confronto con tutte le forze politiche».
Però risparmiare nella scuola significa quasi sempre risparmiare sul personale.
«Ci sono altre possibilità. Ma ora è prematuro parlarne».
Con l’aumento dell’orario, e il conseguente taglio dei posti di lavoro per i precari, i risparmi sarebbero ben 721 milioni a regime. Anche con le misure alternative bisognerà trovare tutti questi soldi?
«Il ministro ha spiegato bene che il vincolo finanziario da rispettare è quello della legge 135 (la cosiddetta spending review, ndr). Quindi le risorse da reperire per il 2013 sono 183 milioni, non c’è bisogno di trovarne di più».
Lei ha detto esplicitamente che l’intervento proposto dal governo, cioè portare l’orario di insegnamento a 24 ore anziché 18, non è la soluzione migliore. Perché? Perché serve a tagliare posti di lavoro o perché 24 ore di lavoro sono troppe?
«Innanzitutto, io sono convinto che non si possano fare ulteriori tagli di personale nella scuola. Il personale che abbiamo oggi nella scuola è quello giusto, anzi in alcune zone del Paese siamo sottodimensionati: ci sono regioni dove cresce la popolazione di bambini, stranieri e non solo. C’è l’esigenza di garantire un orario più pieno che copra almeno una parte di pomeriggio».
A maggior ragione allora bisognerebbe aumentare l’orario di lavoro degli insegnanti.
«Bisognerebbe aprire una discussione seria sull’orario. Se guardiamo come è organizzato il lavoro dei docenti in Europa, ci accorgiamo che l’orario in classe con i ragazzi rappresenta solo una parte dell’orario complessivo. Da noi questo è previsto soltanto per le primarie, alle medie e alle superiori vige ancora uno schema ottocentesco di scuola. Nel contratto esiste la funzione docente, che comprende la preparazione delle lezioni, la correzione dei compiti, i collegi, i colloqui con le famiglie. Ma non c’è un orario per fare gruppi differenziati di livello per recuperare chi sta indietro o per coltivare talenti specifici».
Un cambiamento del genere non solo non porta risparmi ma anzi avrebbe dei costi.
«È chiaro che il tema non è all’ordine del giorno, non ci sono risorse. Però, come ha detto il ministro Profumo, prima o poi nel Paese si dovrà aprire un dibattito politico e culturale sull’orario di lavoro nella scuola».
Il Messaggero 18.10.12

"Bentornato Mr. President", di Vittorio Zucconi

Carboidrati, proteine, niente grassi, questa è stata la sua ultima cena prima dell’incontro della vita. Il dettaglio alimentare che racconta la serietà, e dunque la paura, con la quale ha affrontato la partita di ritorno.
“Barry”, come si faceva chiamare da ragazzo per nascondere quel suo nome arabo–africano troppo diverso e un po’ inquietante, sapeva che se avesse perduto anche il secondo round di dibattiti contro Romney per lui sarebbe suonata la campana. Si è preparato per tre giorni chiuso in un albergo resort della Virginia, accanto a Williamsburg, la finta città coloniale luogo di turismo storico, con gentiluomini in tricorno, fabbri ferrai e gentildonne in crinoline. Ha consumato pasti studiati da un preparatore atletico, calorie ridotte, molta energia, facile digeribilità, molto pollo, filet mignon e patate al vapore.
Ha studiato come non studiava da quanto tirava gli “all nighter” a Harvard, le notti bianche prima degli esami. Non ha sbuffato come aveva fatto alla vigilia del primo – “what a drag”, che palle, aveva confessato – è salito sul ring con l’occhio lucido e vigile, i riflessi pronti, le battute ben temperate e ha vinto. E ora deve aspettare, per sapere se la battaglia vinta di martedì sera basteranno per rovesciare le sorti della guerra che stava volgendo contro di lui, scandite dal ticchettio sinistro dei sondaggi.
I molti Machiavelli dilettanti che infestano i media erano arrivati a insinuare che il disastro del primo incontro fosse stato uno stratagemma tattico, studiato per creare nel nemico un falso senso di sicurezza. Ma le cronache della preparazione che ha preceduto i due incontri raccontano una verità molto più semplice. Il Presidente aveva sottovalutato l’avversario. La sua arroganza intellettuale, la sua certezza di essere nel giusto di fronte all ‘opportunismo spudorato di Romney, acrobata passato dalla destra al centro, lasciandosi dietro una lunghissima coda di contraddizioni, gli aveva fatto pensare di potergli semplicemente dare la corda per impiccarsi.
Ma la corda è attorno al collo di Obama ed è la storia del suo regno quadriennale. L’avversario, che rappresenta l’opposizione, può fare qualsiasi promessa, raccontare ogni favola, sparare programmi senza controprova, come è prerogativa ogni opposizione. L’“incumbent”, il politico in carica, Obama, porta appesi al collo i risultati del proprio governo. Se i risultati economici sono buoni, come furono per Clinton o per Reagan o per Bush il Giovane, la sua posizione è inattaccabile. Se sono cattivi, come furono per Carter o per Bush il Vecchio, non ci saranno preparatori atletici, sparring partner, diete che potranno salvarlo.
Da una posizione di vantaggio, il capo del governo in carica si trova a dover competere portando l’handicap della realtà e soltanto un’eccezionale scatto di vitalità e di passione nei dibattiti faccia a faccia possono ridurlo. Quello che Obama non fece nel primo e ha fatto nel secondo. L’handicap si è ridotto, ma non è stato annullato. Il timore dei suoi sostenitori è che la resurrezione del Presidente sia stata «troppo poco, troppo tardi».
Ma almeno si è visto un uomo vivo, un uomo che non ha respinto, ma si è assunto la responsabilità di quanto di buono ha fatto e di buono non è riuscito a fare. È uscito dalla gabbia del “primo presidente afroamericano” per incarnare soltanto il “Mister President”, di tutti, bianchi, neri o gialli. Nel linguaggio del corpo, nello sguardo, nella forza dei gesti, ha comunicato di voler ancora, fortemente, guidare l’America per i prossimi quattro anni.
Ha evitato i piccoli, micidiali errori che avevano preceduto il primo incontro. La scelta di Las Vegas, Sodoma e Gomorra di plastica e neon, gli è stata rinfacciata. A Las Vegas non si va per la “notte prima degli esami”.
Questa volta, nel “resort” virginiano – scelto anche perché la Virginia è uno degli Stati che tengono le chiavi della prossima Casa Bianca, evocativo di antiche virtù americane – gli avevano costruito un set identico a quello sul quale avrebbe incontrato Romney. Avevano richiamato in servizio una signora, già collaboratrice, per fare la parte della moderatrice, Candy Crowley. A Kerry, il simulatore e imitatore di Romney, era stato ordinato di attaccare, di essere aggressivo, di comportarsi da “lupo alfa”, come infatti avrebbe poi fatto il repubblicano, duellando per il controllo del territorio, cioè del palcoscenico, con l’altro “alfa” di fronte alle domande del pubblico. E mentre lo chef presidenziale, sotto la sorveglianza delle First Lady, grigliava filet mignon e petti di pollo per la pasta, “Barry” ordinava luride pizze per tutti gli avventori dei locali nei quali si fermava durante lo jogging quotidiano.
Un campo da Muhammad Ali, interrotto soltanto la sera prima del dibattito, per stare con gli amici più veri e intimi, a chiacchierare di sport, di ricordi, di nulla, per rilassare il cervello.
Il risultato si è visto ed è stata l’impressione, fondamentale per motivare le proprie truppe sparse nei collegi elettorali d’America, che il proverbiale “fuoco nella pancia” si sia riacceso. Mancano ancora un incontro, vicinissimo, lunedì prossimo, nella “Fatal Florida” che sconfisse Al Gore nel 2000 e poi il nuovo dato sull’occupazione, venerdì 2 novembre, appena quattro giorni prima del voto. “Barry is back” hanno ammesso anche gli avversari, Barack è tornato, ma non è stato il “Terminator” della leggenda cinematografica e il tempo si accorcia. Se il prossimo dibattito, e i dati del 2 novembre, fossero negativi per lui, il cappio di questi suoi quattro anni poco brillanti, si stringerebbe definitivamente. Perché, come sempre, alla fine sarà l’economia a decidere.

La Repubblica 18.10.12

"Bentornato Mr. President", di Vittorio Zucconi

Carboidrati, proteine, niente grassi, questa è stata la sua ultima cena prima dell’incontro della vita. Il dettaglio alimentare che racconta la serietà, e dunque la paura, con la quale ha affrontato la partita di ritorno.
“Barry”, come si faceva chiamare da ragazzo per nascondere quel suo nome arabo–africano troppo diverso e un po’ inquietante, sapeva che se avesse perduto anche il secondo round di dibattiti contro Romney per lui sarebbe suonata la campana. Si è preparato per tre giorni chiuso in un albergo resort della Virginia, accanto a Williamsburg, la finta città coloniale luogo di turismo storico, con gentiluomini in tricorno, fabbri ferrai e gentildonne in crinoline. Ha consumato pasti studiati da un preparatore atletico, calorie ridotte, molta energia, facile digeribilità, molto pollo, filet mignon e patate al vapore.
Ha studiato come non studiava da quanto tirava gli “all nighter” a Harvard, le notti bianche prima degli esami. Non ha sbuffato come aveva fatto alla vigilia del primo – “what a drag”, che palle, aveva confessato – è salito sul ring con l’occhio lucido e vigile, i riflessi pronti, le battute ben temperate e ha vinto. E ora deve aspettare, per sapere se la battaglia vinta di martedì sera basteranno per rovesciare le sorti della guerra che stava volgendo contro di lui, scandite dal ticchettio sinistro dei sondaggi.
I molti Machiavelli dilettanti che infestano i media erano arrivati a insinuare che il disastro del primo incontro fosse stato uno stratagemma tattico, studiato per creare nel nemico un falso senso di sicurezza. Ma le cronache della preparazione che ha preceduto i due incontri raccontano una verità molto più semplice. Il Presidente aveva sottovalutato l’avversario. La sua arroganza intellettuale, la sua certezza di essere nel giusto di fronte all ‘opportunismo spudorato di Romney, acrobata passato dalla destra al centro, lasciandosi dietro una lunghissima coda di contraddizioni, gli aveva fatto pensare di potergli semplicemente dare la corda per impiccarsi.
Ma la corda è attorno al collo di Obama ed è la storia del suo regno quadriennale. L’avversario, che rappresenta l’opposizione, può fare qualsiasi promessa, raccontare ogni favola, sparare programmi senza controprova, come è prerogativa ogni opposizione. L’“incumbent”, il politico in carica, Obama, porta appesi al collo i risultati del proprio governo. Se i risultati economici sono buoni, come furono per Clinton o per Reagan o per Bush il Giovane, la sua posizione è inattaccabile. Se sono cattivi, come furono per Carter o per Bush il Vecchio, non ci saranno preparatori atletici, sparring partner, diete che potranno salvarlo.
Da una posizione di vantaggio, il capo del governo in carica si trova a dover competere portando l’handicap della realtà e soltanto un’eccezionale scatto di vitalità e di passione nei dibattiti faccia a faccia possono ridurlo. Quello che Obama non fece nel primo e ha fatto nel secondo. L’handicap si è ridotto, ma non è stato annullato. Il timore dei suoi sostenitori è che la resurrezione del Presidente sia stata «troppo poco, troppo tardi».
Ma almeno si è visto un uomo vivo, un uomo che non ha respinto, ma si è assunto la responsabilità di quanto di buono ha fatto e di buono non è riuscito a fare. È uscito dalla gabbia del “primo presidente afroamericano” per incarnare soltanto il “Mister President”, di tutti, bianchi, neri o gialli. Nel linguaggio del corpo, nello sguardo, nella forza dei gesti, ha comunicato di voler ancora, fortemente, guidare l’America per i prossimi quattro anni.
Ha evitato i piccoli, micidiali errori che avevano preceduto il primo incontro. La scelta di Las Vegas, Sodoma e Gomorra di plastica e neon, gli è stata rinfacciata. A Las Vegas non si va per la “notte prima degli esami”.
Questa volta, nel “resort” virginiano – scelto anche perché la Virginia è uno degli Stati che tengono le chiavi della prossima Casa Bianca, evocativo di antiche virtù americane – gli avevano costruito un set identico a quello sul quale avrebbe incontrato Romney. Avevano richiamato in servizio una signora, già collaboratrice, per fare la parte della moderatrice, Candy Crowley. A Kerry, il simulatore e imitatore di Romney, era stato ordinato di attaccare, di essere aggressivo, di comportarsi da “lupo alfa”, come infatti avrebbe poi fatto il repubblicano, duellando per il controllo del territorio, cioè del palcoscenico, con l’altro “alfa” di fronte alle domande del pubblico. E mentre lo chef presidenziale, sotto la sorveglianza delle First Lady, grigliava filet mignon e petti di pollo per la pasta, “Barry” ordinava luride pizze per tutti gli avventori dei locali nei quali si fermava durante lo jogging quotidiano.
Un campo da Muhammad Ali, interrotto soltanto la sera prima del dibattito, per stare con gli amici più veri e intimi, a chiacchierare di sport, di ricordi, di nulla, per rilassare il cervello.
Il risultato si è visto ed è stata l’impressione, fondamentale per motivare le proprie truppe sparse nei collegi elettorali d’America, che il proverbiale “fuoco nella pancia” si sia riacceso. Mancano ancora un incontro, vicinissimo, lunedì prossimo, nella “Fatal Florida” che sconfisse Al Gore nel 2000 e poi il nuovo dato sull’occupazione, venerdì 2 novembre, appena quattro giorni prima del voto. “Barry is back” hanno ammesso anche gli avversari, Barack è tornato, ma non è stato il “Terminator” della leggenda cinematografica e il tempo si accorcia. Se il prossimo dibattito, e i dati del 2 novembre, fossero negativi per lui, il cappio di questi suoi quattro anni poco brillanti, si stringerebbe definitivamente. Perché, come sempre, alla fine sarà l’economia a decidere.
La Repubblica 18.10.12

"L'occasione mancata", di Massimo Giannini

Nell’Italia dei Berlusconi e dei Formigoni, nel Paese dei Belsito e dei Fiorito, una legge contro la corruzione che vede la luce quasi vent’anni dopo Tangentopoli è un evento storico. E Monti, che sulla legge ci mette la faccia e la firma, si assume per questo una responsabilità rilevante. Dopo mesi di pretestuosa melina parlamentare, di inerzia «comprensibile ma non scusabile di alcune parti politiche», di trattative sopra e sotto il banco, il governo rompe gli indugi con il voto di fiducia al Senato, passato con un plebiscito bulgaro: 257 sì, e solo 7 no. Ci sarebbe da festeggiare. Ma la festa ha un gusto un po’ amaro.
Il ministro della Giustizia tuona: «Questa legge non è carta straccia». Ha ragione: questa legge, semmai, è un pannicello caldo. Conforta, ma non cura. Lenisce, ma non risolve. In qualche caso, addirittura, peggiora il male che vorrebbe estirpare.
Nessuno nega il segnale politico. Dopo il devastante lavacro di Mani Pulite, e dopo diciassette anni di cultura dell’impunità scientificamente inoculata nelle vene del Paese dalla macchina del potere berlusconiano, il testo della Severino è il primo tentativo di rialzare in qualche modo la bandiera della legalità. Di rimettere mano a una strumentazione normativa logora, contraddittoria e comunque inadeguata ad arginare la nuova ondata di scandali che dalla Lombardia alla Sicilia sta ammorbando la democrazia e soffocando l’economia. La corruzione «vale» 62 miliardi di giro d’affari, «pesa» per il 2,4% sul reddito nazionale e per il 3% sul fatturato delle imprese, riduce del 16% il volume degli investimenti esteri. Se si rimuovesse la metastasi del malaffare, il Pil italiano potrebbe crescere del 4% in 5 anni. Varare una legge che almeno sulla carta si prefigge questo obiettivo è già di per sé un atto di discontinuità con il drammatico «passato che non passa».
Ma i motivi di soddisfazione finiscono qui. Se dal politico si passa al giuridico, e se dal simbolico si passa al pratico, è purtroppo facile dimostrare che questa legge non è affatto una grande svolta, ma una gigantesca occasione mancata. Innanzi tutto, per quello che il testo «non contiene» (come ieri ha giustamente ricordato su questo giornale Barbara Spinelli). Il falso in bilancio, depenalizzato nel 2002 dal Cavaliere. Il reato di «auto-riciclaggio», invocato inutilmente dalla Ue, dalla Banca d’Italia e dal procuratore antimafia Piero Grasso. Il reato di «voto di scambio», utilizzato a man bassa da governatori e assessori, e non più a suon di denaro ma di appalti e assunzioni, ville e vacanze. E poi la sanzione dell’interdizione automatica dai pubblici uffici per i politici concussori, che viene inopinatamente cancellata dal codice e che rischia di precipitarci dalla vetta delle «liste pulite» all’abisso delle «poltrone sporche».
Ma questa legge diventa addirittura pericolosa per quello che invece «contiene». Al di là degli obiettivi passi avanti sulle nuove figure di reato (traffico di influenze, corruzione tra privati) nel caso della concussione la
marcia indietro è davvero inquietante. Qui, paradossalmente, il provvedimento del governo non solo non riduce il danno, ma lo produce. Il reato finora disciplinato dall’articolo 317 del codice penale viene spacchettato in due fattispecie diverse. Per uno (la «corruzione per costrizione», ipotesi quanto meno fantasiosa perché in genere nessuno si fa corrompere con la pistola alla tempia) le pene restano immutate a 12 anni nel massimo e si inaspriscono da 3 a 4 anni nel minimo. Per l’altro (la «indebita induzione», ipotesi classica di chi ottiene favori o «utilità» abusando della propria posizione di pubblico ufficiale) le pene si abbattono da 12 a 8 anni. Questa scelta, insensata e dissennata, incide sui tempi di prescrizione, che scendono da 15 a 10 anni. E può tradursi in un vero e proprio colpo di spugna per molti processi, tuttora pendenti di fronte ai tribunali della Repubblica.
Lo stesso ministero della Giustizia stima che i processi per concussione, giunti al traguardo della sentenza definitiva in Cassazione prima della mannaia della prescrizione, sono stati 109 nel 2009, 121 nel 2010, 142 nel 2001. Allo stato attuale, ne risultano pendenti 75. Con la nuova legge almeno la metà di questi potrebbe già decadere. E a saltare potrebbero essere i processi più illustri, con imputati eccellenti e bipartisan.
Da quello di Berlusconi per il caso Ruby, la «nipote di Mubarak», a quello di Penati per le aree ex Falck. Da quello di Ottaviano del Turco a quello di Clemente Mastella. Da quello di Alfonso Papa a quello di Alberto Tedesco. Perché questi processi meritano un trattamento di favore rispetto a tutti gli altri, resta un arcano che nessuno ha il coraggio di spiegare.
La Severino, in aula, si difende dalle critiche. Parla di un «equilibrio delle pene» che va sempre rispettato, perché «non ci devono essere eccessi né in basso né in alto». Parla di pene giuste che si devono costruire «tenendo conto dei valori da tutelare». Ma proprio questo è il punto debole del Guardasigilli. La concussione (come dimostrano le cronache giudiziarie di questi mesi e di questi giorni) è forse il reato più grave tra quelli compiuti contro la pubblica amministrazione. Perché merita una diminuzione della pena, rispetto alle norme già in vigore? Dov’è l’equilibrio? Quello che il ministro considererebbe evidentemente un «eccesso» (il mantenimento della pena massima a 12 anni anche per l’indebita induzione, oltre che per la concussione per costrizione)
sarebbe fondamentale non solo e non tanto per punire più severamente chi commette il reato, ma soprattutto per mantenere a 15 anni i tempi della prescrizione, e quindi per evitare che saltino i relativi processi ancora in corso. Non è forse questo un «valore da tutelare», in un Paese che ha conosciuto le leggi ad personam di Berlusconi (a partire dalla ex Cirielli, utile a lui proprio per dimezzare le prescrizioni), e che per questo ha subito diversi richiami dall’Europa e dall’Ocse?
Il nodo è giuridico. Ma con tutta evidenza, è prima di tutto politico. Il tira e molla sulla legge anti-corruzione, in corso ormai da quasi due anni, nasconde un non detto che chiama in causa tutti i partiti, e ora anche il governo. Il patto finale, rappresentato da questa legge, conviene a vario titolo a tutti i «contraenti». Gli stessi che ora, a destra e a sinistra, si affrettano a dire che il testo va approvato, ma alcune norme andranno riviste, lo hanno di fatto «blindato» nella parte che gli stava più a cuore, litigando (o fingendo di litigare) su tutto il resto. La Severino respinge i sospetti, ed è legittimo che lo faccia. Grida «nessuno dica che questa legge è frutto di inciuci». Ne prendiamo atto: non ci sono stati «inciuci » negoziati a tavolino (anche se il Guardasigilli in queste settimane di confronto con i partiti deve aver visto l’inferno, altrimenti non aggiungerebbe un sibillino «bisogna passare qui dentro per capire la fatica che c’è dietro ad ogni provvedimento»). Diciamo allora che il risultato finale è probabilmente il frutto di una mutua e forse anche tacita convenienza. E dirlo non è fare i «grilli parlanti», ma semplicemente gli onesti cronisti. Non tutto è ancora perduto, comunque. Il disegno di legge torna ora alla Camera. Con un rigurgito di coraggio e di consapevolezza, magari supportato da un parere del Csm che stranamente questa volta tarda troppo a venire, il governo potrebbe ancora correggere queste storture. Potrebbe ancora riempire di misure coerenti e cogenti quello che, per adesso, resta solo un passaggio significativo, ma non decisivo, nella lotta alla corruzione. «Siamo un governo di persone oneste, non abbiamo varato queste norme perché siamo amici degli amici dei corrotti»: nessuno può dubitare delle parole del ministro della Giustizia, che riflettono al meglio quelle più volte pronunciate dal presidente del Consiglio. Ma proprio per questo ci aspettiamo qualcosa di più. Proprio per questo è nato l’appello e poi la raccolta delle oltre 300 mila firme lanciata da
Repubblica.
Una legge diversa. Una legge della quale «l’Italia possa andare davvero orgogliosa». Questa, obiettivamente, non lo è.

La Repubblica 18.10.12

"L'occasione mancata", di Massimo Giannini

Nell’Italia dei Berlusconi e dei Formigoni, nel Paese dei Belsito e dei Fiorito, una legge contro la corruzione che vede la luce quasi vent’anni dopo Tangentopoli è un evento storico. E Monti, che sulla legge ci mette la faccia e la firma, si assume per questo una responsabilità rilevante. Dopo mesi di pretestuosa melina parlamentare, di inerzia «comprensibile ma non scusabile di alcune parti politiche», di trattative sopra e sotto il banco, il governo rompe gli indugi con il voto di fiducia al Senato, passato con un plebiscito bulgaro: 257 sì, e solo 7 no. Ci sarebbe da festeggiare. Ma la festa ha un gusto un po’ amaro.
Il ministro della Giustizia tuona: «Questa legge non è carta straccia». Ha ragione: questa legge, semmai, è un pannicello caldo. Conforta, ma non cura. Lenisce, ma non risolve. In qualche caso, addirittura, peggiora il male che vorrebbe estirpare.
Nessuno nega il segnale politico. Dopo il devastante lavacro di Mani Pulite, e dopo diciassette anni di cultura dell’impunità scientificamente inoculata nelle vene del Paese dalla macchina del potere berlusconiano, il testo della Severino è il primo tentativo di rialzare in qualche modo la bandiera della legalità. Di rimettere mano a una strumentazione normativa logora, contraddittoria e comunque inadeguata ad arginare la nuova ondata di scandali che dalla Lombardia alla Sicilia sta ammorbando la democrazia e soffocando l’economia. La corruzione «vale» 62 miliardi di giro d’affari, «pesa» per il 2,4% sul reddito nazionale e per il 3% sul fatturato delle imprese, riduce del 16% il volume degli investimenti esteri. Se si rimuovesse la metastasi del malaffare, il Pil italiano potrebbe crescere del 4% in 5 anni. Varare una legge che almeno sulla carta si prefigge questo obiettivo è già di per sé un atto di discontinuità con il drammatico «passato che non passa».
Ma i motivi di soddisfazione finiscono qui. Se dal politico si passa al giuridico, e se dal simbolico si passa al pratico, è purtroppo facile dimostrare che questa legge non è affatto una grande svolta, ma una gigantesca occasione mancata. Innanzi tutto, per quello che il testo «non contiene» (come ieri ha giustamente ricordato su questo giornale Barbara Spinelli). Il falso in bilancio, depenalizzato nel 2002 dal Cavaliere. Il reato di «auto-riciclaggio», invocato inutilmente dalla Ue, dalla Banca d’Italia e dal procuratore antimafia Piero Grasso. Il reato di «voto di scambio», utilizzato a man bassa da governatori e assessori, e non più a suon di denaro ma di appalti e assunzioni, ville e vacanze. E poi la sanzione dell’interdizione automatica dai pubblici uffici per i politici concussori, che viene inopinatamente cancellata dal codice e che rischia di precipitarci dalla vetta delle «liste pulite» all’abisso delle «poltrone sporche».
Ma questa legge diventa addirittura pericolosa per quello che invece «contiene». Al di là degli obiettivi passi avanti sulle nuove figure di reato (traffico di influenze, corruzione tra privati) nel caso della concussione la
marcia indietro è davvero inquietante. Qui, paradossalmente, il provvedimento del governo non solo non riduce il danno, ma lo produce. Il reato finora disciplinato dall’articolo 317 del codice penale viene spacchettato in due fattispecie diverse. Per uno (la «corruzione per costrizione», ipotesi quanto meno fantasiosa perché in genere nessuno si fa corrompere con la pistola alla tempia) le pene restano immutate a 12 anni nel massimo e si inaspriscono da 3 a 4 anni nel minimo. Per l’altro (la «indebita induzione», ipotesi classica di chi ottiene favori o «utilità» abusando della propria posizione di pubblico ufficiale) le pene si abbattono da 12 a 8 anni. Questa scelta, insensata e dissennata, incide sui tempi di prescrizione, che scendono da 15 a 10 anni. E può tradursi in un vero e proprio colpo di spugna per molti processi, tuttora pendenti di fronte ai tribunali della Repubblica.
Lo stesso ministero della Giustizia stima che i processi per concussione, giunti al traguardo della sentenza definitiva in Cassazione prima della mannaia della prescrizione, sono stati 109 nel 2009, 121 nel 2010, 142 nel 2001. Allo stato attuale, ne risultano pendenti 75. Con la nuova legge almeno la metà di questi potrebbe già decadere. E a saltare potrebbero essere i processi più illustri, con imputati eccellenti e bipartisan.
Da quello di Berlusconi per il caso Ruby, la «nipote di Mubarak», a quello di Penati per le aree ex Falck. Da quello di Ottaviano del Turco a quello di Clemente Mastella. Da quello di Alfonso Papa a quello di Alberto Tedesco. Perché questi processi meritano un trattamento di favore rispetto a tutti gli altri, resta un arcano che nessuno ha il coraggio di spiegare.
La Severino, in aula, si difende dalle critiche. Parla di un «equilibrio delle pene» che va sempre rispettato, perché «non ci devono essere eccessi né in basso né in alto». Parla di pene giuste che si devono costruire «tenendo conto dei valori da tutelare». Ma proprio questo è il punto debole del Guardasigilli. La concussione (come dimostrano le cronache giudiziarie di questi mesi e di questi giorni) è forse il reato più grave tra quelli compiuti contro la pubblica amministrazione. Perché merita una diminuzione della pena, rispetto alle norme già in vigore? Dov’è l’equilibrio? Quello che il ministro considererebbe evidentemente un «eccesso» (il mantenimento della pena massima a 12 anni anche per l’indebita induzione, oltre che per la concussione per costrizione)
sarebbe fondamentale non solo e non tanto per punire più severamente chi commette il reato, ma soprattutto per mantenere a 15 anni i tempi della prescrizione, e quindi per evitare che saltino i relativi processi ancora in corso. Non è forse questo un «valore da tutelare», in un Paese che ha conosciuto le leggi ad personam di Berlusconi (a partire dalla ex Cirielli, utile a lui proprio per dimezzare le prescrizioni), e che per questo ha subito diversi richiami dall’Europa e dall’Ocse?
Il nodo è giuridico. Ma con tutta evidenza, è prima di tutto politico. Il tira e molla sulla legge anti-corruzione, in corso ormai da quasi due anni, nasconde un non detto che chiama in causa tutti i partiti, e ora anche il governo. Il patto finale, rappresentato da questa legge, conviene a vario titolo a tutti i «contraenti». Gli stessi che ora, a destra e a sinistra, si affrettano a dire che il testo va approvato, ma alcune norme andranno riviste, lo hanno di fatto «blindato» nella parte che gli stava più a cuore, litigando (o fingendo di litigare) su tutto il resto. La Severino respinge i sospetti, ed è legittimo che lo faccia. Grida «nessuno dica che questa legge è frutto di inciuci». Ne prendiamo atto: non ci sono stati «inciuci » negoziati a tavolino (anche se il Guardasigilli in queste settimane di confronto con i partiti deve aver visto l’inferno, altrimenti non aggiungerebbe un sibillino «bisogna passare qui dentro per capire la fatica che c’è dietro ad ogni provvedimento»). Diciamo allora che il risultato finale è probabilmente il frutto di una mutua e forse anche tacita convenienza. E dirlo non è fare i «grilli parlanti», ma semplicemente gli onesti cronisti. Non tutto è ancora perduto, comunque. Il disegno di legge torna ora alla Camera. Con un rigurgito di coraggio e di consapevolezza, magari supportato da un parere del Csm che stranamente questa volta tarda troppo a venire, il governo potrebbe ancora correggere queste storture. Potrebbe ancora riempire di misure coerenti e cogenti quello che, per adesso, resta solo un passaggio significativo, ma non decisivo, nella lotta alla corruzione. «Siamo un governo di persone oneste, non abbiamo varato queste norme perché siamo amici degli amici dei corrotti»: nessuno può dubitare delle parole del ministro della Giustizia, che riflettono al meglio quelle più volte pronunciate dal presidente del Consiglio. Ma proprio per questo ci aspettiamo qualcosa di più. Proprio per questo è nato l’appello e poi la raccolta delle oltre 300 mila firme lanciata da
Repubblica.
Una legge diversa. Una legge della quale «l’Italia possa andare davvero orgogliosa». Questa, obiettivamente, non lo è.
La Repubblica 18.10.12