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"I Comuni hanno già spento la luce", di Alessandro Mondo, Antonio Pitoni e Federico Taddia

La spesa annuale italiana per l’illuminazione è di 1 miliardo di euro
Operazione risparmio per l’illuminazione pubblica: la spending review impone tagli a una bolletta che supera il miliardo di euro Molte realtà locali, però,
lo fanno da tempo, e i cittadini lamentano scarsa visibilità su strade e vie. Fino a dove si può arrivare?
Per alcuni Comuni è un’esagerazione: roba che rimanda alla crisi petrolifera degli Anni Settanta. Preoccupano, tra l’altro, le possibili ricadute sulla sicurezza – sociale e stradale – anticipate dalle prime lamentele dei cittadini.

Altri, attenti alla valenza ambientale oltre che economica del provvedimento, l’hanno sposato e fatto loro: talora superandolo in virtuosismo. Quasi tutti convengono che dati i consumi insostenibili, abbinati alle tariffe in aumento e ai trasferimenti statali in picchiata, è una strada obbligata.

L’operazione «Cieli Bui» parte da un dato. Quello relativo al consumo pro capite per l’illuminazione pubblica: 105 chilowattora contro i 51 della media Ue. Per una spesa annuale, a carico dei comuni italiani, che ha superato il miliardo di euro, manutenzione esclusa. Numeri emblematici, quelli elaborati dall’associazione «Cielo Buio» e reperibili sul sito «Eco dalle Città». Non a caso, il Governo ha disposto nella legge di stabilità lo spegnimento (o l’affievolimento) dell’illuminazione pubblica durante tutte o parte delle ore notturne. Previa individuazione delle reti viarie e delle zone urbane ed extraurbane.

La bolletta per illuminare Torino, ad esempio, è di 35 mila euro a notte: al netto delle riduzioni già operate nel 2011. Ancora troppi. Gianguido Passoni, assessore al Bilancio, pensa a nuove misure: «Nella Loira, zona turistica, dalla mezzanotte in poi molti centri urbani lasciano accese le luci solo nelle zone con una viabilità importante».

Incide anche l’impennata delle tariffe: «Mentre i consumi dei primi cinque mesi del 2012 hanno registrato una riduzione complessiva di oltre il 4,50 per cento rispetto allo stesso periodo del 2011, la bolletta è salita del 15 per cento».

Altri numeri fanno riflettere: la potenza sviluppata dai nostri lampioni per superficie utilizzata è più che doppia rispetto alla Germania e quasi quadrupla rispetto al Regno Unito. Effetto, anche, delle sorgenti luminose sovente impiegate: la lampada da 150 watt. Laddove – secondo Diego Bonata, esperto del settore –, quella da 70 consentirebbe di rispettare le leggi di riferimento su oltre il 50% delle strade.

E la sicurezza dei cittadini? «È un falso problema: non si tratta di lasciare le città al buio, ma di riordinare i sistemi di illuminazione».

TORINO

Per ridurre i costi accensioni selettive

Nel 2011 Torino, forte di 96 mila punti luce, ha consumato in totale oltre 170 milioni di KWh (edifici comunali più illuminazione pubblica) per un fatturato di 30,81 milioni: meno 2,5% rispetto al 2010. Anche così, un assegno quotidiano di 35 mila euro – tanto costa, ogni notte, illuminare la città – è un lusso. Quest’anno l’assessore al Bilancio Passoni ha promosso un tavolo di lavoro per ridurre ulteriormente la spesa. Come? Limitando l’illuminazione decorativa nei giorni festivi, riducendo l’accensione di 20 minuti tra mattino e sera, spegnendo le fontane luminose durante la settimana, rinegoziando contratti e convenzioni. La legge di stabilità imporrà di tagliare ancora: si attendono istruzioni.

VENETO

I soldi della Regione per i progetti locali

La giunta regionale ha stanziato 1.250.000 euro per i 125 Comuni che predisporranno un piano-illuminazione che contenga l’inquinamento luminoso. «Il Veneto – ha commentato l’assessore Maurizio Conte – è stata la prima regione italiana a prendere coscienza del fenomeno, già nel 1997 aveva approvato una normativa in materia». Le somme a bilancio hanno permesso di finanziare tutte le richieste pervenute (al 50% della spesa ritenuta ammissibile e per un importo non superiore a 20.000 euro): in seguito la Regione dovrà valutare e finanziare le richieste di chi vorrà adeguare gli impianti esistenti e realizzare nuovi impianti di illuminazione pubblica e stradale».

REGGIO EMILIA

Perfino Calatrava ha pagato pegno

Anche i ponti di Calatrava hanno pagato pegno. E non poteva essere diversamente dato che Reggio Emilia, come tutti i Comuni, deve lavorare di lima. Stando ai dati riportati sul giornale on-line «Eco dalle Città», i risultati non si sono fatti attendere: al netto dell’operazione «Cieli bui», il Comune ha risparmiato nell’ultimo anno 400 mila euro. Da due anni è in atto uno spegnimento ragionato, frutto di un piano energetico basato su priorità. Nelle rotonde i corpi illuminanti sono stati ridotti da 8 a 4, spenti i lampioni lungo le piste ciclabili, ridotto il flusso luminoso in alcune fasce orarie. Su 35 mila punti luce, circa sei mila sono già stati spenti. Altri interventi sono allo studio.

BOLOGNA

“Il governo si muove come un troglodita”

«L’ operazione “Cieli bui” mi sembra il provvedimento di un governo troglodita». Non usa mezzi termini il segretario del Pd di Bologna Raffaele Donini, che commenta la notizia dei tagli all’illuminazione pubblica sulla bacheca di Facebook. Parole dirette anche a placare la rabbia dei cittadini, esasperati dai continui guasti alla rete elettrica stradale che in queste settimane ha trasformato la città in una dark city. L’assessore ai lavori pubblici Malagoli ha contestato la decisione del governo Monti: «L’illuminazione di strade e aree urbane è importante per la sicurezza stradale e per la vivibilità. Faremo di tutto perché il provvedimento non mini la serenità dei cittadini».

ANDORA (SAVONA)

“Siamo in anticipo di cinque anni”

Ad Andora, in provincia di Savona, si sono mossi con anticipo. «Già dal 2007», spiega il sindaco Franco Floris. Cinque anni prima delle nuove disposizioni del governo Monti, attivando un contratto con l’Enel che permetterà al Comune di risparmiare 350 mila euro in 15 anni, ma anche di assicurarsi, a costo zero, l’installazione di nuovi punti luce e riconvertire l’intera rete con tecnologie a risparmio energetico. «La nostra rete pubblica – spiega il primo cittadino – è stata ampliata di 125 nuovi punti luce e tutti gli impianti sono stati messi in sicurezza. L’Enel si è aggiudicata l’appalto, paga l’energia consumata, mettendoci al riparo dagli aumenti delle tariffe e ha rinnovato l’intera rete».

TODI (PERUGIA)

Meno 100 mila euro con nuovi punti luce

A Todi, in Provincia di Perugia, hanno stabilito un record: è il primo comune d’Italia ad aver aderito alla convenzione Consip che affida direttamente per nove anni alla società Enel Sole la gestione degli impianti di illuminazione. Attraverso un contratto che punta a incentivare il risparmio energetico e la messa a norma degli impianti, oltre alla possibilità di richiedere interventi di riqualificazione energetica e di manutenzione straordinaria. Come annunciato dal sindaco Antonino Ruggiamo lo scorso marzo, già da aprile sono iniziati i lavori di sostituzione dei punti luce con nuovi corpi illuminanti ad altissima efficienza energetica. Obiettivo: risparmiare 100 mila euro l’anno.

TORRACA (SALERNO)

“Siamo la prima Led City al mondo”

È giusto ridurre i consumi, ma non bisogna spegnere le città: si può risparmiare mantenendo lo stesso grado di luminosità, basta investire in nuove tecnologie». Non ha dubbi Daniele Filizzola, vice sindaco di Torraca, comune di 1500 abitanti in provincia di Salerno trasformato nella prima Led City al mondo. Con 180 mila euro sette anni fa sono stati sostituti i 700 punti luce pubblici con impianti al Led, che hanno portato un risparmio delle bollette del 68% e costi di manutenzione ridotti dell’80% grazie alla durata ventennale delle lampade. Abbassando anche l’inquinamento luminoso. «Un progetto pilota replicabile su larga scala: metropoli come Toronto si stanno ispirando al nostro modello».

BARI

Lampioni intelligenti che si autoregolano

A Bari si punta su un nuovo sistema sperimentale di telegestione incentrato sull’installazione di lampioni a luminosità variabile. Non si tratta di una rivoluzione: già da cinque anni il comune oggi guidato dal sindaco Michele Emiliano ha provveduto a dotarsi di regolatori, attivi sul 60 per cento dei lampioni, che consentono di abbassare automaticamente l’intensità della luce dopo la mezzanotte (da 220 a 180 volt) in alcune zone della città. Con il nuovo bando (scaduto due giorni fa) si punta ad abbattere i consumi del 30-40%. Con una novità: l’introduzione di regolatori singoli per aumentare l’intensità luminosa su una singola strada abbassandola sulle altre vie della stessa zona.

La Stampa 18.10.12

"I Comuni hanno già spento la luce", di Alessandro Mondo, Antonio Pitoni e Federico Taddia

La spesa annuale italiana per l’illuminazione è di 1 miliardo di euro
Operazione risparmio per l’illuminazione pubblica: la spending review impone tagli a una bolletta che supera il miliardo di euro Molte realtà locali, però,
lo fanno da tempo, e i cittadini lamentano scarsa visibilità su strade e vie. Fino a dove si può arrivare?
Per alcuni Comuni è un’esagerazione: roba che rimanda alla crisi petrolifera degli Anni Settanta. Preoccupano, tra l’altro, le possibili ricadute sulla sicurezza – sociale e stradale – anticipate dalle prime lamentele dei cittadini.
Altri, attenti alla valenza ambientale oltre che economica del provvedimento, l’hanno sposato e fatto loro: talora superandolo in virtuosismo. Quasi tutti convengono che dati i consumi insostenibili, abbinati alle tariffe in aumento e ai trasferimenti statali in picchiata, è una strada obbligata.
L’operazione «Cieli Bui» parte da un dato. Quello relativo al consumo pro capite per l’illuminazione pubblica: 105 chilowattora contro i 51 della media Ue. Per una spesa annuale, a carico dei comuni italiani, che ha superato il miliardo di euro, manutenzione esclusa. Numeri emblematici, quelli elaborati dall’associazione «Cielo Buio» e reperibili sul sito «Eco dalle Città». Non a caso, il Governo ha disposto nella legge di stabilità lo spegnimento (o l’affievolimento) dell’illuminazione pubblica durante tutte o parte delle ore notturne. Previa individuazione delle reti viarie e delle zone urbane ed extraurbane.
La bolletta per illuminare Torino, ad esempio, è di 35 mila euro a notte: al netto delle riduzioni già operate nel 2011. Ancora troppi. Gianguido Passoni, assessore al Bilancio, pensa a nuove misure: «Nella Loira, zona turistica, dalla mezzanotte in poi molti centri urbani lasciano accese le luci solo nelle zone con una viabilità importante».
Incide anche l’impennata delle tariffe: «Mentre i consumi dei primi cinque mesi del 2012 hanno registrato una riduzione complessiva di oltre il 4,50 per cento rispetto allo stesso periodo del 2011, la bolletta è salita del 15 per cento».
Altri numeri fanno riflettere: la potenza sviluppata dai nostri lampioni per superficie utilizzata è più che doppia rispetto alla Germania e quasi quadrupla rispetto al Regno Unito. Effetto, anche, delle sorgenti luminose sovente impiegate: la lampada da 150 watt. Laddove – secondo Diego Bonata, esperto del settore –, quella da 70 consentirebbe di rispettare le leggi di riferimento su oltre il 50% delle strade.
E la sicurezza dei cittadini? «È un falso problema: non si tratta di lasciare le città al buio, ma di riordinare i sistemi di illuminazione».
TORINO
Per ridurre i costi accensioni selettive
Nel 2011 Torino, forte di 96 mila punti luce, ha consumato in totale oltre 170 milioni di KWh (edifici comunali più illuminazione pubblica) per un fatturato di 30,81 milioni: meno 2,5% rispetto al 2010. Anche così, un assegno quotidiano di 35 mila euro – tanto costa, ogni notte, illuminare la città – è un lusso. Quest’anno l’assessore al Bilancio Passoni ha promosso un tavolo di lavoro per ridurre ulteriormente la spesa. Come? Limitando l’illuminazione decorativa nei giorni festivi, riducendo l’accensione di 20 minuti tra mattino e sera, spegnendo le fontane luminose durante la settimana, rinegoziando contratti e convenzioni. La legge di stabilità imporrà di tagliare ancora: si attendono istruzioni.
VENETO
I soldi della Regione per i progetti locali
La giunta regionale ha stanziato 1.250.000 euro per i 125 Comuni che predisporranno un piano-illuminazione che contenga l’inquinamento luminoso. «Il Veneto – ha commentato l’assessore Maurizio Conte – è stata la prima regione italiana a prendere coscienza del fenomeno, già nel 1997 aveva approvato una normativa in materia». Le somme a bilancio hanno permesso di finanziare tutte le richieste pervenute (al 50% della spesa ritenuta ammissibile e per un importo non superiore a 20.000 euro): in seguito la Regione dovrà valutare e finanziare le richieste di chi vorrà adeguare gli impianti esistenti e realizzare nuovi impianti di illuminazione pubblica e stradale».
REGGIO EMILIA
Perfino Calatrava ha pagato pegno
Anche i ponti di Calatrava hanno pagato pegno. E non poteva essere diversamente dato che Reggio Emilia, come tutti i Comuni, deve lavorare di lima. Stando ai dati riportati sul giornale on-line «Eco dalle Città», i risultati non si sono fatti attendere: al netto dell’operazione «Cieli bui», il Comune ha risparmiato nell’ultimo anno 400 mila euro. Da due anni è in atto uno spegnimento ragionato, frutto di un piano energetico basato su priorità. Nelle rotonde i corpi illuminanti sono stati ridotti da 8 a 4, spenti i lampioni lungo le piste ciclabili, ridotto il flusso luminoso in alcune fasce orarie. Su 35 mila punti luce, circa sei mila sono già stati spenti. Altri interventi sono allo studio.
BOLOGNA
“Il governo si muove come un troglodita”
«L’ operazione “Cieli bui” mi sembra il provvedimento di un governo troglodita». Non usa mezzi termini il segretario del Pd di Bologna Raffaele Donini, che commenta la notizia dei tagli all’illuminazione pubblica sulla bacheca di Facebook. Parole dirette anche a placare la rabbia dei cittadini, esasperati dai continui guasti alla rete elettrica stradale che in queste settimane ha trasformato la città in una dark city. L’assessore ai lavori pubblici Malagoli ha contestato la decisione del governo Monti: «L’illuminazione di strade e aree urbane è importante per la sicurezza stradale e per la vivibilità. Faremo di tutto perché il provvedimento non mini la serenità dei cittadini».
ANDORA (SAVONA)
“Siamo in anticipo di cinque anni”
Ad Andora, in provincia di Savona, si sono mossi con anticipo. «Già dal 2007», spiega il sindaco Franco Floris. Cinque anni prima delle nuove disposizioni del governo Monti, attivando un contratto con l’Enel che permetterà al Comune di risparmiare 350 mila euro in 15 anni, ma anche di assicurarsi, a costo zero, l’installazione di nuovi punti luce e riconvertire l’intera rete con tecnologie a risparmio energetico. «La nostra rete pubblica – spiega il primo cittadino – è stata ampliata di 125 nuovi punti luce e tutti gli impianti sono stati messi in sicurezza. L’Enel si è aggiudicata l’appalto, paga l’energia consumata, mettendoci al riparo dagli aumenti delle tariffe e ha rinnovato l’intera rete».
TODI (PERUGIA)
Meno 100 mila euro con nuovi punti luce
A Todi, in Provincia di Perugia, hanno stabilito un record: è il primo comune d’Italia ad aver aderito alla convenzione Consip che affida direttamente per nove anni alla società Enel Sole la gestione degli impianti di illuminazione. Attraverso un contratto che punta a incentivare il risparmio energetico e la messa a norma degli impianti, oltre alla possibilità di richiedere interventi di riqualificazione energetica e di manutenzione straordinaria. Come annunciato dal sindaco Antonino Ruggiamo lo scorso marzo, già da aprile sono iniziati i lavori di sostituzione dei punti luce con nuovi corpi illuminanti ad altissima efficienza energetica. Obiettivo: risparmiare 100 mila euro l’anno.
TORRACA (SALERNO)
“Siamo la prima Led City al mondo”
È giusto ridurre i consumi, ma non bisogna spegnere le città: si può risparmiare mantenendo lo stesso grado di luminosità, basta investire in nuove tecnologie». Non ha dubbi Daniele Filizzola, vice sindaco di Torraca, comune di 1500 abitanti in provincia di Salerno trasformato nella prima Led City al mondo. Con 180 mila euro sette anni fa sono stati sostituti i 700 punti luce pubblici con impianti al Led, che hanno portato un risparmio delle bollette del 68% e costi di manutenzione ridotti dell’80% grazie alla durata ventennale delle lampade. Abbassando anche l’inquinamento luminoso. «Un progetto pilota replicabile su larga scala: metropoli come Toronto si stanno ispirando al nostro modello».
BARI
Lampioni intelligenti che si autoregolano
A Bari si punta su un nuovo sistema sperimentale di telegestione incentrato sull’installazione di lampioni a luminosità variabile. Non si tratta di una rivoluzione: già da cinque anni il comune oggi guidato dal sindaco Michele Emiliano ha provveduto a dotarsi di regolatori, attivi sul 60 per cento dei lampioni, che consentono di abbassare automaticamente l’intensità della luce dopo la mezzanotte (da 220 a 180 volt) in alcune zone della città. Con il nuovo bando (scaduto due giorni fa) si punta ad abbattere i consumi del 30-40%. Con una novità: l’introduzione di regolatori singoli per aumentare l’intensità luminosa su una singola strada abbassandola sulle altre vie della stessa zona.
La Stampa 18.10.12

«Io non rottamo, rinnoviamo assieme», di Simone Collini

«Sento dire che io scaricherei, scaccerei questo o quel deputato. Ora chiedo che questa polemica la si chiuda, per favore. Io ho detto una cosa chiara: che io i deputati non li nomino e che nell’Italia che ho in testa io i deputati non li nomina né Berlusconi, né Renzi, né Bersani». Non è un semplice sfogo, anche se non ci vuole molto per capire che la lettura dei giornali non sia stata per lui piacevole. Vedersi rappresentato da diversi quotidiani come quello che «rottama» D’Alema o altri dirigenti del Pd non è piaciuto affatto a Bersani. Perché non era questo il senso delle frase «io non chiederò a D’Alema di candidarsi» e perché il concetto stesso di «rottamazione» è indigesto per il leader del Pd: «Rinnovare sì, rottamare è una parola sbagliata, se si pensa che c’è uno illuminato che decide, non andiamo da nessuna parte».
LE REGOLE VANNO RISPETTATE
Dice Bersani ai giornalisti che lo avvicinano nel giorno in cui sulle prime pagine campeggiano titoli a base di «gelo» e «strappi»: «Può essere che si conosca poco D’Alema. Io lo conosco bene: sul concetto di rottamazione combatterà fino alla morte, ma sul rinnovamento c’è. Quindi faremo un rinnovamento lavorando tutti insieme». E lavorando nel rispetto delle norme previste dallo statuto del Pd: «Le regole sui tre mandati ci sono e vanno rispettate».
Con questo Bersani spera di chiudere una polemica che poco e nulla ha che vedere con le questioni di cui invece intende discutere in questa campagna per le primarie. Un giudizio diffuso nel gruppo dirigente del Pd, come spiega anche il vicesegretario Enrico Letta: «Ora che Bersani ha rottamato la rottamazione, le primarie siano sulle idee per il Paese. Anche io rispetterò lo statuto Pd e il 2013 sarà la mia ultima candidatura al Parlamento».
Vasco Errani guarda ai ripetuti attacchi di Renzi a D’Alema e osserva che il punto non è soltanto il rispetto dovuto a una «personalità importante e un punto di riferimento» com’è il presidente del Copasir, ma il fatto che «l’idea di rottamare le persone è un atto di arroganza che non ha nulla a che fare con il rinnovamento, ma serve soltanto a destrutturare, a priscindere dal merito». Per il presidente della Regione Emilia Romagna quella in atto «è un’operazione che danneggia l’Italia, il centrosinistra e il Pd».
LA CRISI NON È ALLE SPALLE
Lo sa bene Bersani, che giudica un errore alimentare la polemica su candidature e deroghe quando sono ben altre le questioni su cui devono confrontarsi i candidati alle primarie. Parlando al consiglio generale di Confcommercio, il leader del Pd domanda, a proposito della crisi economica: «Ma noi ne stiamo uscendo o ci stiamo entrando? Perché mentre ci si interroga e si favoleggia sul futuro, la percezione delle famiglie è che ci stiamo entrando».
Per affrontare in futuro la crisi, che non terminerà certo la prossima primavera, secondo Bersani servirà un governo sostenuto da una maggioranza politicamente solida. E quindi la riforma elettorale dovrà prevedere «un ragionevole premio di governabilità» e non essere invece costruita per impedire l’emergere di una netta maggioranza. Il sospetto che alcune forze presenti in Parlamento stiano puntando proprio a questo per rendere la strada del Monti bis obbligata c’è. Per questo Bersani avverte: «Se non c’è qualcuno che dirige il traffico, se la sera delle elezioni non c’è un vincitore, si torna a votare dopo otto mesi. Da una situazione frantumata, balcanizzata, viene fuori Grillo e non il Monti bis».
NO ALLE PREFERENZE
Anche a proposito delle preferenze, il leader del Pd fa notare che sarebbe suo interesse dare il via libera a questo sistema di scelta per i parlamentari, ma sarebbe l’interesse generale a risentirne: «Le preferenze mi risolverebbero tutti i problemi: con le primarie, con le liste… Ci andrei a nozze. Ma dobbiamo pensare al Paese». E le preferenze, con quel che si portano dietro in termini di costi delle campagne elettorali e rischi di inquinamenti di ogni tipo, non vanno in direzione degli interessi dell’Italia. Anche perché, nota Bersani, già oggi «la situazione di distacco tra politica e cittadini è micidiale, è superiore al ‘92».
Con le primarie Bersani punta proprio ad abbattere quel «muro» che si è venuto a creare tra le istituzioni e i partiti, da una parte, e gli elettori dall’altra. Ma l’operazione non riuscirà se la discussione passerà da una polemica all’altra su argomenti che non hanno a che fare con la vita degli italiani. Ieri Renzi ha tirato in ballo la questione dei finanziamenti e delle spese del Pd, chiedendo trasparenza. Bersani ha liquidato la faccenda con una battuta: «Renzi non si preoccupi, noi metteremo on line tutto quanto. Metta anche lui, e vedrà che siamo tutti a posto».

L’Unità 18.10.12

"La lunga notte delle famiglie", di Maurizio Ferrera

La legge di stabilità appena varata dal governo è un provvedimento complesso e variegato: i suoi effetti distributivi sul reddito degli italiani sono difficili da stimare. A giudicare dal coro di proteste degli ultimi giorni, la parte più controversa riguarda i tagli a deduzioni e detrazioni fiscali e la tosatura delle prestazioni assistenziali. Quando si toccano i portafogli delle famiglie, le critiche sono inevitabili e spesso hanno carattere strumentale. Più che entrare nel merito di singole misure, conviene concentrarsi sulla direzione generale della manovra. La strada imboccata è quella giusta? Rispondo con una metafora: la strada è giusta, ma il governo ha messo il carro davanti ai buoi. Ha cioè agito senza avere gli strumenti per poter essere davvero efficace ed equo.
Nel nostro Paese il complesso fisco-welfare è un labirinto disordinato e incoerente, con scarsa capacità di sostenere le famiglie disagiate e di contrastare la (vera) povertà. Nel loro insieme, le prestazioni di assistenza sociale riducono il tasso di povertà relativa di un misero 8%, rispetto al 13% di Francia e Germania e al 17% dell’Inghilterra. Nella Ue solo Bulgaria e Lettonia fanno peggio. Circa la metà della spesa va a famiglie che non sono economicamente disagiate (sempre in termini relativi).
Data questa situazione, l’obiettivo di razionalizzare e «mirare» in modo più accurato i trattamenti, a cominciare da quelli di invalidità, in ragione dei bisogni reali e della situazione economica di chi li riceve è sacrosanto e questo governo non è certo il primo ad affrontare il problema.
Il fatto è che non disponiamo (ancora) dello strumento adatto per selezionare bisogni e redditi delle famiglie. Da almeno quindici anni, è su questo punto che «casca l’asino» delle politiche selettive all’italiana. Mario Monti ed Elsa Fornero lo sanno bene. Da mesi il governo sta lavorando proprio sullo strumento: una versione riveduta e corretta del cosiddetto Indicatore della situazione economica equivalente (Isee), già in uso per l’accesso ad alcune prestazioni a livello locale. Ecco allora la perplessità di fondo. Perché si è usata l’accetta per aggredire agevolazioni e trasferimenti invece di aspettare che il nuovo strumento fosse pronto? E se non si poteva aspettare, perché non si è proceduto più rapidamente con la riforma dell’Isee?
Sempre in tema di famiglie, vi è poi un secondo aspetto che delude: la scarsa attenzione nei confronti di chi si trova in povertà «assoluta» (senza beni essenziali per condurre una vita dignitosa), tre milioni e mezzo circa di famiglie. L’unico sostegno nazionale è rappresentato dalla «carta acquisti», che vale 40 euro al mese: un importo che si commenta da solo. La legge di stabilità ipotizza un rifinanziamento della carta per il 2013. Ma nell’ambito di uno stanziamento complessivo di 900 milioni di euro volto a finanziare «interventi di settore per le università statali, le politiche sociali, le famiglie, i giovani, la ricostruzione dell’Aquila e le missioni di pace all’estero». Quanto resterà per i poveri?
In Francia il «reddito di solidarietà attiva» garantisce a una famiglia nullatenente con due figli un trasferimento di circa mille euro al mese. La prestazione è stata introdotta da Sarkozy nel 2008. Poche settimane fa, Hollande ha imposto un prelievo dello 0,15% sulle pensioni, che raddoppierà nel 2014 per finanziare politiche a favore dei non autosufficienti. Certo la Francia non ha i nostri vincoli finanziari. Tuttavia l’esperienza d’Oltralpe indica un percorso: costruire un welfare più equo ed efficace si può. Ma bisogna prima volerlo, a destra come a sinistra.

Il Corriere della Sera 18.10.12

"La lunga notte delle famiglie", di Maurizio Ferrera

La legge di stabilità appena varata dal governo è un provvedimento complesso e variegato: i suoi effetti distributivi sul reddito degli italiani sono difficili da stimare. A giudicare dal coro di proteste degli ultimi giorni, la parte più controversa riguarda i tagli a deduzioni e detrazioni fiscali e la tosatura delle prestazioni assistenziali. Quando si toccano i portafogli delle famiglie, le critiche sono inevitabili e spesso hanno carattere strumentale. Più che entrare nel merito di singole misure, conviene concentrarsi sulla direzione generale della manovra. La strada imboccata è quella giusta? Rispondo con una metafora: la strada è giusta, ma il governo ha messo il carro davanti ai buoi. Ha cioè agito senza avere gli strumenti per poter essere davvero efficace ed equo.
Nel nostro Paese il complesso fisco-welfare è un labirinto disordinato e incoerente, con scarsa capacità di sostenere le famiglie disagiate e di contrastare la (vera) povertà. Nel loro insieme, le prestazioni di assistenza sociale riducono il tasso di povertà relativa di un misero 8%, rispetto al 13% di Francia e Germania e al 17% dell’Inghilterra. Nella Ue solo Bulgaria e Lettonia fanno peggio. Circa la metà della spesa va a famiglie che non sono economicamente disagiate (sempre in termini relativi).
Data questa situazione, l’obiettivo di razionalizzare e «mirare» in modo più accurato i trattamenti, a cominciare da quelli di invalidità, in ragione dei bisogni reali e della situazione economica di chi li riceve è sacrosanto e questo governo non è certo il primo ad affrontare il problema.
Il fatto è che non disponiamo (ancora) dello strumento adatto per selezionare bisogni e redditi delle famiglie. Da almeno quindici anni, è su questo punto che «casca l’asino» delle politiche selettive all’italiana. Mario Monti ed Elsa Fornero lo sanno bene. Da mesi il governo sta lavorando proprio sullo strumento: una versione riveduta e corretta del cosiddetto Indicatore della situazione economica equivalente (Isee), già in uso per l’accesso ad alcune prestazioni a livello locale. Ecco allora la perplessità di fondo. Perché si è usata l’accetta per aggredire agevolazioni e trasferimenti invece di aspettare che il nuovo strumento fosse pronto? E se non si poteva aspettare, perché non si è proceduto più rapidamente con la riforma dell’Isee?
Sempre in tema di famiglie, vi è poi un secondo aspetto che delude: la scarsa attenzione nei confronti di chi si trova in povertà «assoluta» (senza beni essenziali per condurre una vita dignitosa), tre milioni e mezzo circa di famiglie. L’unico sostegno nazionale è rappresentato dalla «carta acquisti», che vale 40 euro al mese: un importo che si commenta da solo. La legge di stabilità ipotizza un rifinanziamento della carta per il 2013. Ma nell’ambito di uno stanziamento complessivo di 900 milioni di euro volto a finanziare «interventi di settore per le università statali, le politiche sociali, le famiglie, i giovani, la ricostruzione dell’Aquila e le missioni di pace all’estero». Quanto resterà per i poveri?
In Francia il «reddito di solidarietà attiva» garantisce a una famiglia nullatenente con due figli un trasferimento di circa mille euro al mese. La prestazione è stata introdotta da Sarkozy nel 2008. Poche settimane fa, Hollande ha imposto un prelievo dello 0,15% sulle pensioni, che raddoppierà nel 2014 per finanziare politiche a favore dei non autosufficienti. Certo la Francia non ha i nostri vincoli finanziari. Tuttavia l’esperienza d’Oltralpe indica un percorso: costruire un welfare più equo ed efficace si può. Ma bisogna prima volerlo, a destra come a sinistra.
Il Corriere della Sera 18.10.12

"Ministro Profumo, non è questione di ore", di Marco Campione

«L’orizzonte della conoscenza che ci si apre davanti impone di ridisegnare il ruolo degli insegnanti». Una dichiarazione impegnativa quella del ministro Profumo. Ancor più impegnativa dal momento che è arrivata dopo alcuni giorni nei quali si sono inseguite voci, anticipazioni e mezze smentite di un presunto piano del governo per portare l’orario di insegnamento dei docenti della scuola secondaria a 24 ore settimanali, con conseguente riduzione delle supplenze annuali assegnate ai precari.
Il ministero nei primi giorni non ha chiarito il contenuto preciso della proposta e per giorni si è discusso di problemi importanti, ma specifici: se questo carico di lavoro aggiuntivo fosse o meno a parità di salario, se consistesse in docenza o altre attività (corsi di recupero, funzioni strumentali, organico funzionale…), se riguardasse solo gli spezzoni di orario e le supplenze brevi oppure no… Una responsabilità in questo è anche di chi ha scelto di gettare benzina sul fuoco, commentando una bozza. Magari per migliorare la resa di uno sciopero che rischiava – in assenza di “stimoli” – di fallire, oppure per alzare il prezzo di una trattativa (lo sblocco degli scatti di anzianità?), preparandosi una volta di più a far pagare ai precari i benefici di chi è dentro il fortino della contrattazione nazionale.
Ma questa volta la responsabilità del governo è superiore. Perché dimostra scarsa coerenza con le cose enunciate fino a qui sull’importanza di immettere risorse più la fresche nella scuola italiana. Stiamo ancora aspettando un nuovo concorso – per ora solo annunciato per il 2013 – aperto anche ai neo laureati che si abiliteranno quest’anno: che senso ha diminuire in modo significativo il numero delle cattedre disponibili?
Ma l’errore principale è quello di aver cominciato dalla fine e non con dichiarazioni del tenore di quella che ho ricordato. Pensare di discutere di una questione così importante prendendola dal capo della produttività è il modo migliore per mettere in difficoltà le forze politiche, le associazioni professionali e il mondo della scuola più attenti all’esigenza di innovare profondamente il modo di fare scuola. Se in gioco c’è «ridisegnare il ruolo degli insegnanti», come si può immaginare di cominciare da questioni meramente sindacali ed economiche? Come si può pensare di farlo in una norma inserita nella legge di stabilità? Come si può ignorare che si tratta di temi oggetto di contrattazione sindacale? Il governo non poteva immaginare modo migliore per mettere la parola fine a qualsiasi ragionamento su una possibile riforma della professionalità docente.
Il fine non è il carico di lavoro, che può essere conseguenza di un modo diverso di intendere la professione nel suo complesso. Formazione in servizio obbligatoria, valutazione, possibilità di differenziare ruoli e funzioni, carriera. E su tutto la riorganizzazione del modo di stare a scuola e in classe. I cambiamenti intervenuti nel modo di apprendere e nell’organizzazione della società, impongono anche una presenza dei docenti non limitata alle sole ore di lezione? Sì, ma perché questo sia possibile, vanno ripensati non solo i carichi orari ma gli edifici stessi delle nostre scuole. Uffici per i docenti, aule e laboratori attrezzati, spazi concepiti diversamente. In una sola parola, risorse. Che si possono trovare, a patto che non siano distribuite a pioggia, ma finalizzate agli obiettivi che il governo vuole darsi.
Il ministro sa che la sfida che la scuola italiana ha davanti è molto impegnativa e che deve assolutamente superarla se vogliamo costruire un sistema educativo più eguale ed efficace, più giusto ed europeo, più capace di valorizzare i talenti del nostro paese, qualsiasi mestiere facciano e da qualsiasi paese provengano i loro genitori. Il ministro sa anche che le resistenze a questo cambiamento sono tante. Tantissime peraltro proprio all’interno del ministero che lui dirige.
Anche per questo la politica del bastone e della carota non è la scelta migliore. Solo un ministro ha l’autorità (e nel caso di quello attuale anche l’autorevolezza) per imporre un dibattito di questa portata. A patto che si impegni in quella direzione nel poco tempo che gli resta prima della fine della legislatura. Forse non soddisferà le richieste del ministro dell’economia, ma certamente avrà posto le basi perché il suo successore possa riuscire nell’impresa.
Voli alto, signor ministro! Così, togliendo ogni alibi, sconfiggerà i conservatorismi ministeriali, sindacali e corporativi e avrà al suo fianco i tanti che vogliono che le cose cambino. La scuola non potrà che guadagnarci.

da Europa Quotidiano 18.10.12

"Ministro Profumo, non è questione di ore", di Marco Campione

«L’orizzonte della conoscenza che ci si apre davanti impone di ridisegnare il ruolo degli insegnanti». Una dichiarazione impegnativa quella del ministro Profumo. Ancor più impegnativa dal momento che è arrivata dopo alcuni giorni nei quali si sono inseguite voci, anticipazioni e mezze smentite di un presunto piano del governo per portare l’orario di insegnamento dei docenti della scuola secondaria a 24 ore settimanali, con conseguente riduzione delle supplenze annuali assegnate ai precari.
Il ministero nei primi giorni non ha chiarito il contenuto preciso della proposta e per giorni si è discusso di problemi importanti, ma specifici: se questo carico di lavoro aggiuntivo fosse o meno a parità di salario, se consistesse in docenza o altre attività (corsi di recupero, funzioni strumentali, organico funzionale…), se riguardasse solo gli spezzoni di orario e le supplenze brevi oppure no… Una responsabilità in questo è anche di chi ha scelto di gettare benzina sul fuoco, commentando una bozza. Magari per migliorare la resa di uno sciopero che rischiava – in assenza di “stimoli” – di fallire, oppure per alzare il prezzo di una trattativa (lo sblocco degli scatti di anzianità?), preparandosi una volta di più a far pagare ai precari i benefici di chi è dentro il fortino della contrattazione nazionale.
Ma questa volta la responsabilità del governo è superiore. Perché dimostra scarsa coerenza con le cose enunciate fino a qui sull’importanza di immettere risorse più la fresche nella scuola italiana. Stiamo ancora aspettando un nuovo concorso – per ora solo annunciato per il 2013 – aperto anche ai neo laureati che si abiliteranno quest’anno: che senso ha diminuire in modo significativo il numero delle cattedre disponibili?
Ma l’errore principale è quello di aver cominciato dalla fine e non con dichiarazioni del tenore di quella che ho ricordato. Pensare di discutere di una questione così importante prendendola dal capo della produttività è il modo migliore per mettere in difficoltà le forze politiche, le associazioni professionali e il mondo della scuola più attenti all’esigenza di innovare profondamente il modo di fare scuola. Se in gioco c’è «ridisegnare il ruolo degli insegnanti», come si può immaginare di cominciare da questioni meramente sindacali ed economiche? Come si può pensare di farlo in una norma inserita nella legge di stabilità? Come si può ignorare che si tratta di temi oggetto di contrattazione sindacale? Il governo non poteva immaginare modo migliore per mettere la parola fine a qualsiasi ragionamento su una possibile riforma della professionalità docente.
Il fine non è il carico di lavoro, che può essere conseguenza di un modo diverso di intendere la professione nel suo complesso. Formazione in servizio obbligatoria, valutazione, possibilità di differenziare ruoli e funzioni, carriera. E su tutto la riorganizzazione del modo di stare a scuola e in classe. I cambiamenti intervenuti nel modo di apprendere e nell’organizzazione della società, impongono anche una presenza dei docenti non limitata alle sole ore di lezione? Sì, ma perché questo sia possibile, vanno ripensati non solo i carichi orari ma gli edifici stessi delle nostre scuole. Uffici per i docenti, aule e laboratori attrezzati, spazi concepiti diversamente. In una sola parola, risorse. Che si possono trovare, a patto che non siano distribuite a pioggia, ma finalizzate agli obiettivi che il governo vuole darsi.
Il ministro sa che la sfida che la scuola italiana ha davanti è molto impegnativa e che deve assolutamente superarla se vogliamo costruire un sistema educativo più eguale ed efficace, più giusto ed europeo, più capace di valorizzare i talenti del nostro paese, qualsiasi mestiere facciano e da qualsiasi paese provengano i loro genitori. Il ministro sa anche che le resistenze a questo cambiamento sono tante. Tantissime peraltro proprio all’interno del ministero che lui dirige.
Anche per questo la politica del bastone e della carota non è la scelta migliore. Solo un ministro ha l’autorità (e nel caso di quello attuale anche l’autorevolezza) per imporre un dibattito di questa portata. A patto che si impegni in quella direzione nel poco tempo che gli resta prima della fine della legislatura. Forse non soddisferà le richieste del ministro dell’economia, ma certamente avrà posto le basi perché il suo successore possa riuscire nell’impresa.
Voli alto, signor ministro! Così, togliendo ogni alibi, sconfiggerà i conservatorismi ministeriali, sindacali e corporativi e avrà al suo fianco i tanti che vogliono che le cose cambino. La scuola non potrà che guadagnarci.
da Europa Quotidiano 18.10.12