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"La posta in gioco" di Michele Ciliberto

Vorrei cercare di svolgere una riflessione pacata e nei limiti del possibile distaccata sulla questione così dibattuta in questi mesi della cosiddetta «rottamazione». Un termine infelice che allude però a un problema reale con cui occorre confrontarsi. E bisogna farlo anche perché la polemica ha assunto, specie negli ultimi giorni, toni miseri, anche penosi, e ha coinvolto direttamente personalità di primo piano della nostra vita politica.
Prendo le mosse da una considerazione preliminare: ogni «corpo misto» (per riprendere l’espressione di Machiavelli) ha bisogno di rinnovarsi, di riformarsi, se non vuol morire. Né è detto che rinnovandosi continui a vivere: la fine, la morte sono in modo inesorabile nell’orizzonte della storia. Di questo fatto hanno avuto piena e complessa coscienza tutti i grandi leader politici, i quali si sono impegnati, in modo costante, in questa azione di rinnovamento e di ricambio.
Ma il rinnovamento ed è questa la seconda osservazione da fare non è un fatto generazionale (anche questo un termine equivoco): è un problema di carattere politico ed anche etico-politico la cui importanza e la cui urgenza è da valutare, volta per volta, a seconda della situazione storica in cui viene proposto e, quando possibile, attuato.
Le domanda da porre diventano quindi queste: qual è oggi la situazione della democrazia italiana? Ha bisogno, e in che misura, di un profondo rinnovamento e di un ricambio? E a quali livelli? Né è possibile rispondere in modo corretto a queste domande se non si tiene conto di quello che ha significato nella storia italiana il ventennio berlusconiano. È da qui che occorre prendere le mosse per capire la direzione da prendere.
Il berlusconismo ha generato una crisi radicale della nostra democrazia; ha portato al diffondersi di posizioni populistiche sia a destra che a sinistra; soprattutto ha determinato una separazione mai così aspra e violenta tra governanti e governati da cui, per contrasto, è scaturita e si è diffusa a livello di senso comune una forte e impetuosa ondata anti-politica, anti-partiti, anti-parlamentare che ha confuso in un fascio solo vinti e vincitori, perseguitati e persecutori. Non è giusto, lo so bene, ma è così che stanno le cose a livello di sensibilità assai diffuse: se non fosse così, come si spiegherebbe il successo di Grillo e la forte e violenta richiesta di democrazia diretta che anima tutti i suoi seguaci? Da un lato c’è disprezzo verso la politica e i partiti, dall’altro una fortissima esigenza di partecipazione e la tentazione di farsi giustizia da soli. Non per nulla Grillo ha evocato i tribunali popolari come strumenti di questo nuovo potere democratico parola, anche questa, che si è svuotata di significato, come avviene nei tempi di crisi.
L’esigenza del ricambio politico ed etico-politico nasce proprio qui: perché concerne, direttamente, la questione della degenerazione e del destino della democrazia italiana. È in questo contesto eccezionale e non ordinario che va posta, e apprezzata, la decisione di Bersani di aprire le primarie a Renzi, modificando lo statuto del Pd. Ha ritenuto giustamente che in tempi come i nostri il problema dei rapporti tra governanti e governati sia diventato cruciale e che occorra fare di tutto, mettendo in gioco anche se stessi, per cominciare a suturare lo strappo tra dirigenti e diretti che attraversa le viscere dell’Italia, con conseguenze che è perfino difficile immaginare. Insomma, con la sua scelta Bersani ha posto il problema politico ed etico-politico,della democrazia italiana. E lo ha fatto riconoscendo giustamente anche il ruolo politico che, su questo terreno, oggi gioca Renzi. Le cose vanno viste per quello che sono, senza lasciarci abbacinare dai pregiudizi: il sindaco di Firenze, usando strumenti e parole d’ordine che possono piacere o dispiacere, allestendo spettacoli più o meno interessanti, sta contribuendo in ogni caso a ristabilire un canale di comunicazione tra cittadini e politica. Sta, in altre parole, facendo uno sforzo che può giovare alla nostra democrazia, se il punto massimo della crisi concerne il rapporto tra politica, partiti, democrazia. È un contributo da non sottovalutare.
Questi sono i termini reali del problema che, lo ribadisco, è politico ed etico-politico, non generazionale. Ma è proprio un effetto della crisi della nostra democrazia se oggi è difficile metterlo a fuoco nei suoi reali termini, senza precipitare in polemiche volgari. Né si tratta di un’eccezione: oggi è diventato normale confondere sovranità dei cittadini, ruolo dei partiti, funzione del Parlamento e anche problemi politici e problemi generazionali. Oggi le parole si sono svuotate, hanno perso peso ponendo con forza l’esigenza di un nuovo linguaggio, di un nuovo lessico all’altezza dei tempi e della situazione.
È in questo contesto difficile e complicato che va posta anche la questione della candidatura di importanti personalità della nostra vita politica, sottraendola ai riti tribali cui sembra essersi ridotta, ma considerando con l’attenzione necessaria il dilemma, anche personale, esistenziale oltre che politico, che essa pone. Come non capire, infatti, che senza la loro presenza il Parlamento sarà meno autorevole, meno forte? Che non bisogna mai fare di ogni erba un fascio? Certo, la politica non si risolve nel Parlamento, anche questo è vero ed è stato osservato. Ma è un’osservazione ordinaria, una risposta insufficiente. I nostri sono tempi duri, eccezionali, veramente straordinari.
Il problema di fondo è un altro e riguarda la costituzione interiore dell’Italia: se quello che si è appena detto è vero, come non vedere che nel Paese esiste, ed è violenta, un’ondata anti-politica che ha assunto anche una forma generazionale e che va frontalmente contrastata nell’unico modo possibile: individuando i motivi che ne sono al fondo e cercando, con tutti gli strumenti a disposizione, di proiettarla e dirigerla in un orizzonte democratico e parlamentare, evitando le derive della democrazia diretta e plebiscitaria, di matrice populistica? Certo, possono essere alti i prezzi da pagare. Ma questo è il problema, e questo è oggi il nostro comune orizzonte, anche quello del Partito democratico. Nelle polemiche sulla «rottamazione» è in gioco qualcosa di profondo, che richiede una riflessione complessa, e che chiama ciascuno ad assumersi le proprie responsabilità.

L’Unità 17.10.12

"La posta in gioco" di Michele Ciliberto

Vorrei cercare di svolgere una riflessione pacata e nei limiti del possibile distaccata sulla questione così dibattuta in questi mesi della cosiddetta «rottamazione». Un termine infelice che allude però a un problema reale con cui occorre confrontarsi. E bisogna farlo anche perché la polemica ha assunto, specie negli ultimi giorni, toni miseri, anche penosi, e ha coinvolto direttamente personalità di primo piano della nostra vita politica.
Prendo le mosse da una considerazione preliminare: ogni «corpo misto» (per riprendere l’espressione di Machiavelli) ha bisogno di rinnovarsi, di riformarsi, se non vuol morire. Né è detto che rinnovandosi continui a vivere: la fine, la morte sono in modo inesorabile nell’orizzonte della storia. Di questo fatto hanno avuto piena e complessa coscienza tutti i grandi leader politici, i quali si sono impegnati, in modo costante, in questa azione di rinnovamento e di ricambio.
Ma il rinnovamento ed è questa la seconda osservazione da fare non è un fatto generazionale (anche questo un termine equivoco): è un problema di carattere politico ed anche etico-politico la cui importanza e la cui urgenza è da valutare, volta per volta, a seconda della situazione storica in cui viene proposto e, quando possibile, attuato.
Le domanda da porre diventano quindi queste: qual è oggi la situazione della democrazia italiana? Ha bisogno, e in che misura, di un profondo rinnovamento e di un ricambio? E a quali livelli? Né è possibile rispondere in modo corretto a queste domande se non si tiene conto di quello che ha significato nella storia italiana il ventennio berlusconiano. È da qui che occorre prendere le mosse per capire la direzione da prendere.
Il berlusconismo ha generato una crisi radicale della nostra democrazia; ha portato al diffondersi di posizioni populistiche sia a destra che a sinistra; soprattutto ha determinato una separazione mai così aspra e violenta tra governanti e governati da cui, per contrasto, è scaturita e si è diffusa a livello di senso comune una forte e impetuosa ondata anti-politica, anti-partiti, anti-parlamentare che ha confuso in un fascio solo vinti e vincitori, perseguitati e persecutori. Non è giusto, lo so bene, ma è così che stanno le cose a livello di sensibilità assai diffuse: se non fosse così, come si spiegherebbe il successo di Grillo e la forte e violenta richiesta di democrazia diretta che anima tutti i suoi seguaci? Da un lato c’è disprezzo verso la politica e i partiti, dall’altro una fortissima esigenza di partecipazione e la tentazione di farsi giustizia da soli. Non per nulla Grillo ha evocato i tribunali popolari come strumenti di questo nuovo potere democratico parola, anche questa, che si è svuotata di significato, come avviene nei tempi di crisi.
L’esigenza del ricambio politico ed etico-politico nasce proprio qui: perché concerne, direttamente, la questione della degenerazione e del destino della democrazia italiana. È in questo contesto eccezionale e non ordinario che va posta, e apprezzata, la decisione di Bersani di aprire le primarie a Renzi, modificando lo statuto del Pd. Ha ritenuto giustamente che in tempi come i nostri il problema dei rapporti tra governanti e governati sia diventato cruciale e che occorra fare di tutto, mettendo in gioco anche se stessi, per cominciare a suturare lo strappo tra dirigenti e diretti che attraversa le viscere dell’Italia, con conseguenze che è perfino difficile immaginare. Insomma, con la sua scelta Bersani ha posto il problema politico ed etico-politico,della democrazia italiana. E lo ha fatto riconoscendo giustamente anche il ruolo politico che, su questo terreno, oggi gioca Renzi. Le cose vanno viste per quello che sono, senza lasciarci abbacinare dai pregiudizi: il sindaco di Firenze, usando strumenti e parole d’ordine che possono piacere o dispiacere, allestendo spettacoli più o meno interessanti, sta contribuendo in ogni caso a ristabilire un canale di comunicazione tra cittadini e politica. Sta, in altre parole, facendo uno sforzo che può giovare alla nostra democrazia, se il punto massimo della crisi concerne il rapporto tra politica, partiti, democrazia. È un contributo da non sottovalutare.
Questi sono i termini reali del problema che, lo ribadisco, è politico ed etico-politico, non generazionale. Ma è proprio un effetto della crisi della nostra democrazia se oggi è difficile metterlo a fuoco nei suoi reali termini, senza precipitare in polemiche volgari. Né si tratta di un’eccezione: oggi è diventato normale confondere sovranità dei cittadini, ruolo dei partiti, funzione del Parlamento e anche problemi politici e problemi generazionali. Oggi le parole si sono svuotate, hanno perso peso ponendo con forza l’esigenza di un nuovo linguaggio, di un nuovo lessico all’altezza dei tempi e della situazione.
È in questo contesto difficile e complicato che va posta anche la questione della candidatura di importanti personalità della nostra vita politica, sottraendola ai riti tribali cui sembra essersi ridotta, ma considerando con l’attenzione necessaria il dilemma, anche personale, esistenziale oltre che politico, che essa pone. Come non capire, infatti, che senza la loro presenza il Parlamento sarà meno autorevole, meno forte? Che non bisogna mai fare di ogni erba un fascio? Certo, la politica non si risolve nel Parlamento, anche questo è vero ed è stato osservato. Ma è un’osservazione ordinaria, una risposta insufficiente. I nostri sono tempi duri, eccezionali, veramente straordinari.
Il problema di fondo è un altro e riguarda la costituzione interiore dell’Italia: se quello che si è appena detto è vero, come non vedere che nel Paese esiste, ed è violenta, un’ondata anti-politica che ha assunto anche una forma generazionale e che va frontalmente contrastata nell’unico modo possibile: individuando i motivi che ne sono al fondo e cercando, con tutti gli strumenti a disposizione, di proiettarla e dirigerla in un orizzonte democratico e parlamentare, evitando le derive della democrazia diretta e plebiscitaria, di matrice populistica? Certo, possono essere alti i prezzi da pagare. Ma questo è il problema, e questo è oggi il nostro comune orizzonte, anche quello del Partito democratico. Nelle polemiche sulla «rottamazione» è in gioco qualcosa di profondo, che richiede una riflessione complessa, e che chiama ciascuno ad assumersi le proprie responsabilità.
L’Unità 17.10.12

"Formigoni trascina a fondo Polverini e sabota il patto Berlusconi-Maroni", di Francesco Lo Sardo

Il Celeste porta tutti subito al voto per far saltare in aria l’intesa Pdl-Lega su governo e Pirellone Che voglia cancellare il viaggio a Bucarest per il congresso del Partito popolare europeo si capisce. È furioso, nero, tutto gli va per storto, maledetto Pdl e accidenti a Formigoni. Se Silvio Berlusconi aveva deciso di volare oggi in Romania in occasione dell’adunata dei conservatori europei, era essenzialmente per presidiare col suo corpo il simulacro del Pdl: per non accreditare ulteriormente con la sua assenza l’idea della dissoluzione del Pdl, evitando di mandare in giro per il mondo in vece sua l’ignoto Angelino Alfano («un signore che dice di essere segretario del partito», lo sfotte Fini) sovrastato dal gigante Pier Ferdinando Casini in rappresentanza della piccola Udc.
Ci sarebbe andato comunque mentre il Pdl gli va in pezzi – dalla Lombardia alla Sicilia, passando per il Lazio – per ribadire che il Capo è sempre lui e per prendere altro tempo, dicendo e non dicendo, barcamenandosi in pubblico e continuando a trattare riservatamente con la Lega di Maroni un’intesa alle politiche 2013 in cambio della poltrona di governatore di Formigoni.
Una strategia abborracciata, per cercare di limitare i danni, sempre meglio che niente. E invece no: nemmeno questa gli riesce.
«Berlusconi è imbufalito», dicevano ieri i suoi, perciò al diavolo Bucarest e il Ppe. Quel poco che aveva in testa di fare, il Pdl e Formigoni gliel’hanno mandato all’aria.
Prima i notabili lombardi del Pdl che non intendono cedere la presidenza del Pirellone alla Lega e poi Formigoni si sono messi di traverso. Ma se sui primi si poteva usare il pugno di ferro e fargli ingoiare Maroni candidato – in un election day a primavera 2013 – insieme a un patto nazionale con la Lega, sul secondo, su Formiga, non c’è stato niente da fare. Il perfido Formigoni ha detto «no a Maroni candidato» ma, quel che è peggio, ha accelerato i tempi delle elezioni lombarde. Lui che da governatore ha il potere istituzionale per farlo, ha annunciato che darà vita a una giunta tecnica per poche settimane e che si andrà al voto prestissimo, sotto Natale. Il che per la Lega e Berlusconi è una doppia catastrofe. Primo, perché non dà tempo alla Lega di far digerire alla base un’intesa col Pdl travolto dagli scandali, incluso l’acquisto di voti dalla ’ndrangheta, annacquata in una intesa elettorale nazionale. Secondo, perché ha un effetto di trascinamento al voto anticipato ravvicinato anche nel Lazio. La Polverini, che aveva ricevuto da Berlusconi in persona l’ordine di resistere fino a primavera, è stata risucchiata e travolta dal “muoia Sansone con tutti filistei” di Formigoni. La linea di del rinvio del voto nel Lazio, se si va alle urne presto in Lombardia, non regge. «Voteremo tra Natale e la Befana sia in Lombardia che nel Lazio. Complimenti per il capolavoro. Un regalo alla sinistra senza neppure provare a combattere», si diceva ieri con amaro sarcasmo nel giro dei pidiellini romani vicini al vecchio Cesare Previti.
Ma ormai il danno è fatto. Azzoppato, quand’era ormai chiaro che la sua testa era stata venduta da Berlusconi a Maroni, Formigoni ieri s’è vendicato giocando al guastatore. Ma tanto era caro alla Lega e a palazzo Grazioli quell’accordo che – mentre Berlusconi tace – Maroni s’è affannato tutto il giorno a a dire che Formigoni sbaglia a irrigidirsi e spiattella al Corriere della Sera: «Unelection day per la Lombardia e le politiche sarebbe di grande aiuto per il rinnovo dell’alleanza nazionale Pdl-Lega», su cui il Carroccio nelle intenzioni del successore di Bossi avrebbe dovuto decidere a gennaio-febbraio, non prima. Formiga, con la mossa di ieri, ha compromesso questo piano, mentre il Pdl lombardo è squassato da lotte intestine in un clima di confusa e generalizzata rivolta contro il silente Berlusconi che vorrebbe regalare il Pirellone alla Lega. Un caos. Così, come in giocattolo rotto che svela il suo interno da cui escono molle, ingranaggi e cascano pezzi, ecco la conferma delle trattative con Berlusconi iniziate all’indomani della presa di potere di Maroni in Lega: sempre smentite, tra le urla di Formigoni che le definiva falsità e diceva che Berlusconi non l’avrebbe mai scaricato, ma venute a galla in questi giorni di bufera politica, conseguenza di grane giudiziarie che si moltiplicano.
Da ieri il presidente della Compagnia delle Opere di Bergamo, Rossano Breno, risulta indagato per corruzione nell’inchiesta che aveva portato all’arresto del vicepresidente del consiglio regionale lombardo del Pdl Franco Nicoli Cristiani.

da Europa Quotidiano 17.10.12

"Formigoni trascina a fondo Polverini e sabota il patto Berlusconi-Maroni", di Francesco Lo Sardo

Il Celeste porta tutti subito al voto per far saltare in aria l’intesa Pdl-Lega su governo e Pirellone Che voglia cancellare il viaggio a Bucarest per il congresso del Partito popolare europeo si capisce. È furioso, nero, tutto gli va per storto, maledetto Pdl e accidenti a Formigoni. Se Silvio Berlusconi aveva deciso di volare oggi in Romania in occasione dell’adunata dei conservatori europei, era essenzialmente per presidiare col suo corpo il simulacro del Pdl: per non accreditare ulteriormente con la sua assenza l’idea della dissoluzione del Pdl, evitando di mandare in giro per il mondo in vece sua l’ignoto Angelino Alfano («un signore che dice di essere segretario del partito», lo sfotte Fini) sovrastato dal gigante Pier Ferdinando Casini in rappresentanza della piccola Udc.
Ci sarebbe andato comunque mentre il Pdl gli va in pezzi – dalla Lombardia alla Sicilia, passando per il Lazio – per ribadire che il Capo è sempre lui e per prendere altro tempo, dicendo e non dicendo, barcamenandosi in pubblico e continuando a trattare riservatamente con la Lega di Maroni un’intesa alle politiche 2013 in cambio della poltrona di governatore di Formigoni.
Una strategia abborracciata, per cercare di limitare i danni, sempre meglio che niente. E invece no: nemmeno questa gli riesce.
«Berlusconi è imbufalito», dicevano ieri i suoi, perciò al diavolo Bucarest e il Ppe. Quel poco che aveva in testa di fare, il Pdl e Formigoni gliel’hanno mandato all’aria.
Prima i notabili lombardi del Pdl che non intendono cedere la presidenza del Pirellone alla Lega e poi Formigoni si sono messi di traverso. Ma se sui primi si poteva usare il pugno di ferro e fargli ingoiare Maroni candidato – in un election day a primavera 2013 – insieme a un patto nazionale con la Lega, sul secondo, su Formiga, non c’è stato niente da fare. Il perfido Formigoni ha detto «no a Maroni candidato» ma, quel che è peggio, ha accelerato i tempi delle elezioni lombarde. Lui che da governatore ha il potere istituzionale per farlo, ha annunciato che darà vita a una giunta tecnica per poche settimane e che si andrà al voto prestissimo, sotto Natale. Il che per la Lega e Berlusconi è una doppia catastrofe. Primo, perché non dà tempo alla Lega di far digerire alla base un’intesa col Pdl travolto dagli scandali, incluso l’acquisto di voti dalla ’ndrangheta, annacquata in una intesa elettorale nazionale. Secondo, perché ha un effetto di trascinamento al voto anticipato ravvicinato anche nel Lazio. La Polverini, che aveva ricevuto da Berlusconi in persona l’ordine di resistere fino a primavera, è stata risucchiata e travolta dal “muoia Sansone con tutti filistei” di Formigoni. La linea di del rinvio del voto nel Lazio, se si va alle urne presto in Lombardia, non regge. «Voteremo tra Natale e la Befana sia in Lombardia che nel Lazio. Complimenti per il capolavoro. Un regalo alla sinistra senza neppure provare a combattere», si diceva ieri con amaro sarcasmo nel giro dei pidiellini romani vicini al vecchio Cesare Previti.
Ma ormai il danno è fatto. Azzoppato, quand’era ormai chiaro che la sua testa era stata venduta da Berlusconi a Maroni, Formigoni ieri s’è vendicato giocando al guastatore. Ma tanto era caro alla Lega e a palazzo Grazioli quell’accordo che – mentre Berlusconi tace – Maroni s’è affannato tutto il giorno a a dire che Formigoni sbaglia a irrigidirsi e spiattella al Corriere della Sera: «Unelection day per la Lombardia e le politiche sarebbe di grande aiuto per il rinnovo dell’alleanza nazionale Pdl-Lega», su cui il Carroccio nelle intenzioni del successore di Bossi avrebbe dovuto decidere a gennaio-febbraio, non prima. Formiga, con la mossa di ieri, ha compromesso questo piano, mentre il Pdl lombardo è squassato da lotte intestine in un clima di confusa e generalizzata rivolta contro il silente Berlusconi che vorrebbe regalare il Pirellone alla Lega. Un caos. Così, come in giocattolo rotto che svela il suo interno da cui escono molle, ingranaggi e cascano pezzi, ecco la conferma delle trattative con Berlusconi iniziate all’indomani della presa di potere di Maroni in Lega: sempre smentite, tra le urla di Formigoni che le definiva falsità e diceva che Berlusconi non l’avrebbe mai scaricato, ma venute a galla in questi giorni di bufera politica, conseguenza di grane giudiziarie che si moltiplicano.
Da ieri il presidente della Compagnia delle Opere di Bergamo, Rossano Breno, risulta indagato per corruzione nell’inchiesta che aveva portato all’arresto del vicepresidente del consiglio regionale lombardo del Pdl Franco Nicoli Cristiani.
da Europa Quotidiano 17.10.12

"Caccia F35: altro che tagli, costo più che raddoppiato", di Rachele Gonnelli

Esosi anche nel modello «nude», figuriamoci compresi gli accessori. I nuovi cacciabombardieri F35 erano stati ridotti di numero dal governo «tecnico». L’esecutivo Monti aveva portato la commessa statale da 131 velivoli agli attuali 90. La riduzione, annunciata nel febbraio scorso dall’ammiraglio-ministro Giampaolo Di Paola, era stata decisa come contributo alla prima spending review, sulla scia di una campagna che ha coinvolto 660 associazioni, oltre 60 enti locali e raccolto 77mila firme di cittadini a favore della riduzione delle spese militari. Si scopre ora però che il costo di ogni singolo aereo nel frattempo è lievitato. Non un po’, più del doppio, tanto che il risparmio sul programma di realizzazioni e acquisizioni firmato dall’ammiraglio Di Paola 11 anni fa di fatto è sparito. E anzi, sembra che gli F35 siano destinati a pesare sempre più sull’erario.
Dell’aggravio sui costi scrive in una lunga intervista sull’ultimo numero della rivista di settore “Analisi Difesa” il generale Claudio Debertolis, segretario generale dello stesso ministero, cioè in definitiva colui che presiede alle acquisizioni di armamenti per la Difesa. Debertolis aveva da sempre ritenuto «irrealistico» il costo stimato in Parlamento di 80 milioni di dollari ciascuno per i primi tre caccia stealth a marchio Lockeed Martin che dovrebbero uscire dalle catene di assemblaggio di Cameri a inizio 2015. Aggiornando i prezzi, rivisti i prototipi e i rincari dei materiali Debertolis ammette che il costo medio dell’aereo «nudo», in gergo recurrent fly-away cost, sarà di 137,1 milioni di dollari nel 2015 anche se poi non specifica per effetto di cosa sarebbe destinato a scendere negli anni a seguire. Si tratta di un aggravio del 60 per cento circa rispetto alla spesa indicata al Parlamento. Quindi almeno 13-14 miliardi di euro invece dei 10 pattuiti dal governo. «Pensiamo che la lievitazione dei costi in corso d’opera sia solo agli inizi», sostiene Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo che, prendendo a confronto i dati e le osservazioni della Corte dei Conti statunitense al Congresso Usa, denuncia in Italia la mancanza di trasparenza sui contratti e sulla loro portata, sulle penali da pagare in caso di riduzione «poi rivelatesi fasulle» e sulle ricadute occupazionali del progetto negli stabilimenti Faco di Cameri nel Novarese. L’ammiraglio Di Paola in audizione aveva detto che gli F35 avrebbero dato lavoro a 10mila addetti ma finora non sono più di 700 in tutto i ricercatori, progettisti e tecnici specializzati coinvolti. «Soprattutto con tutti questi soldi quante altre cose si potrebbero fare? creando molti più posti di lavoro, ad esempio nella manutenzione degli edifici scolastici si chiede Giulio Marcon di Sbilanciamoci senza contare che gli F35 non sono neanche caccia intercettori come gli Eurofighter, con compiti quindi di difesa, sono aerei esclusivamente d’attacco per voli radenti sui fronti di guerra». Marcon si chiede «perché la Ragioneria dello Stato che fa le pulci al provvedimemento sugli esodati di Damiano su questo progetto faraonico non dice niente».
Per Savino Pezzotta, deputato Udc «quegli areei non sono necessari e in tempi di sacrifici, di crisi, di drammi occupazionali sono un lusso che non possiamo permetterci, con quei soldi si può investire in settori molto più produttivi».

L’Unità 17.10.12

"Caccia F35: altro che tagli, costo più che raddoppiato", di Rachele Gonnelli

Esosi anche nel modello «nude», figuriamoci compresi gli accessori. I nuovi cacciabombardieri F35 erano stati ridotti di numero dal governo «tecnico». L’esecutivo Monti aveva portato la commessa statale da 131 velivoli agli attuali 90. La riduzione, annunciata nel febbraio scorso dall’ammiraglio-ministro Giampaolo Di Paola, era stata decisa come contributo alla prima spending review, sulla scia di una campagna che ha coinvolto 660 associazioni, oltre 60 enti locali e raccolto 77mila firme di cittadini a favore della riduzione delle spese militari. Si scopre ora però che il costo di ogni singolo aereo nel frattempo è lievitato. Non un po’, più del doppio, tanto che il risparmio sul programma di realizzazioni e acquisizioni firmato dall’ammiraglio Di Paola 11 anni fa di fatto è sparito. E anzi, sembra che gli F35 siano destinati a pesare sempre più sull’erario.
Dell’aggravio sui costi scrive in una lunga intervista sull’ultimo numero della rivista di settore “Analisi Difesa” il generale Claudio Debertolis, segretario generale dello stesso ministero, cioè in definitiva colui che presiede alle acquisizioni di armamenti per la Difesa. Debertolis aveva da sempre ritenuto «irrealistico» il costo stimato in Parlamento di 80 milioni di dollari ciascuno per i primi tre caccia stealth a marchio Lockeed Martin che dovrebbero uscire dalle catene di assemblaggio di Cameri a inizio 2015. Aggiornando i prezzi, rivisti i prototipi e i rincari dei materiali Debertolis ammette che il costo medio dell’aereo «nudo», in gergo recurrent fly-away cost, sarà di 137,1 milioni di dollari nel 2015 anche se poi non specifica per effetto di cosa sarebbe destinato a scendere negli anni a seguire. Si tratta di un aggravio del 60 per cento circa rispetto alla spesa indicata al Parlamento. Quindi almeno 13-14 miliardi di euro invece dei 10 pattuiti dal governo. «Pensiamo che la lievitazione dei costi in corso d’opera sia solo agli inizi», sostiene Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo che, prendendo a confronto i dati e le osservazioni della Corte dei Conti statunitense al Congresso Usa, denuncia in Italia la mancanza di trasparenza sui contratti e sulla loro portata, sulle penali da pagare in caso di riduzione «poi rivelatesi fasulle» e sulle ricadute occupazionali del progetto negli stabilimenti Faco di Cameri nel Novarese. L’ammiraglio Di Paola in audizione aveva detto che gli F35 avrebbero dato lavoro a 10mila addetti ma finora non sono più di 700 in tutto i ricercatori, progettisti e tecnici specializzati coinvolti. «Soprattutto con tutti questi soldi quante altre cose si potrebbero fare? creando molti più posti di lavoro, ad esempio nella manutenzione degli edifici scolastici si chiede Giulio Marcon di Sbilanciamoci senza contare che gli F35 non sono neanche caccia intercettori come gli Eurofighter, con compiti quindi di difesa, sono aerei esclusivamente d’attacco per voli radenti sui fronti di guerra». Marcon si chiede «perché la Ragioneria dello Stato che fa le pulci al provvedimemento sugli esodati di Damiano su questo progetto faraonico non dice niente».
Per Savino Pezzotta, deputato Udc «quegli areei non sono necessari e in tempi di sacrifici, di crisi, di drammi occupazionali sono un lusso che non possiamo permetterci, con quei soldi si può investire in settori molto più produttivi».
L’Unità 17.10.12