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“Se la famiglia diventa un inferno”, di Rossella Diaz – Gazzetta di Modena 22.03.15

Donne strappate alla vita senza distinzione di ceto sociale, età anagrafica, estrazione culturale. Nord e Sud Italia. Il femminicidio è un neologismo che indica ogni forma di discriminazione e violenza posta in essere contro la donna “in quanto donna”. Ma nella vita reale, il femmincidio è ossessione, amore malato, morte. Il 70 per cento circa delle uccisioni femminili avviene in ambito familiare. Ùn fenomeno fortemente connotato che trae origine dallo squilibrio nei rapporti di genere. Non si tratta di epidemia o emergenza, ma è ormai fenomeno endemico, con radici profonde nella nostra società. Sentiamo spesso parlare di “delitto d’amore”, “amante incompreso”, “passione impazzita” concetti che vanno scardinati dalle nostri menti, occorre avere il coraggio di chiamare queste azioni per quello che sono, omicidi. È allarmante constatare che i più raccapriccianti e mostruosi fatti di cronaca sono commessi da mariti, padri, ex fidanzati: persone che dovrebbero proteggere, tutelare, rispettare, e che invece con ferocia, tolgono di mezzo senza esitare chi ai loro occhi, è ormai divenuto solo un ostacolo. In appena tre mesi dall’inizio dell’anno sono oltre 15 le vittime in Italia strappate alla vita per mano di un uomo. I dati raccolti dal Viminale da marzo 2014 a marzo 2015 rivelano 137 donne uccise (-22,6% rispetto all’anno precedente), di cui 102 in ambito familiare. Rimane oggettivo il fatto però che in Italia una donna ogni tre giorni viene ammazzata, e dobbiamo smetterla di limitarci a valutare solo il numero delle donne uccise, poiché sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno assai più complesso ed eterogeneo, sommerso ma allo stesso tempo diffuso. Non possiamo affidarci solo al Diritto o a misure repressive per trovare una soluzione, poiché l’uccisione di una donna è spesso il gesto estremo giunto dopo anni di maltrattamenti fisici, psicologici, verbali e sessuali. Una donna deve recuperare l’autostima personale, capire di potercela fare e rendersi conto di non essere sola, e quando finalmente trova il coraggio di uscire dall’incubo di cui è protagonista, deve essere sostenuta e ascoltata. Istituzioni e società civile devono fare la propria parte, è quindi indispensabile, su scala nazionale, svolgere un’opera di educazione, sensibilizzazione e informazione al problema della violenza sulle donne, è prioritario riuscire a formare una rete di operatori professionali ed istituzionali pronti ad accogliere donne in difficoltà, ed individuare i primi sintomi dei maltrattamenti di cui sono oggetto da parte degli uomini. Fino a pochi anni fa il genere femminile era considerato inferiore e socialmente le donne erano accettate solo in quanto “figlie di, mogli di, sorelle di”; si tende a volerlo rimuovere, ma sino al 1963, se una donna tradiva l’uomo che l’aveva protetta ed appoggiata finiva in carcere. Il delitto d’onore in Italia è stato abrogato nel 1981, un atto eccessivamente recente, se osserviamo la cronologia della nostra storia giuridica. A distanza di anni però, è ancora ben presente la mentalità patriarcale e si fatica a sradicare la vecchia cultura del “mia o di nessun altro”. Alcuni studi hanno dimostrato come la prima causa di morte violenta di una donna, nel mondo, avvenga per mano di un uomo. I femminicidi quindi, rappresentano più che la vulnerabilità femminile, la debolezza maschile. L’immaginario collettivo identifica gli autori delle violenze come soggetti senza cultura, stranieri, pazzi, ma questo è assolutamente sbagliato. È bene sottolineare che il fenomeno riguarda tutte le classi sociali: imprenditori, studenti, operai, professionisti, impiegati e nell’ottanta per cento dei casi gli autori delle violenze sono italiani, insospettabili. Uomini considerati perbene, senza disturbi mentali. Il grande lavoro che dobbiamo fare consiste nel trasmettere ai nostri figli modelli differenti, spiegare che la sensibilità è un pregio, e l’uomo “che non deve chiedere mai” è una becera deformazione della realtà. La società deve aiutarli a riappropriarsi della propria identità trasformandoli in uomini liberi ed indipendenti. Anche l’informazione ha un ruolo fondamentale, ed è essenziale che i media trattino la violenza contro le donne in modo responsabile per creare una forte consapevolezza collettiva. Nell’inchiesta condotta per l’uscita del mio nuovo libro sulla violenza di genere “Non succederà mai più” ho incontrato molte donne presso gruppi di condivisione e case rifugio presenti sul territorio nazionale, hanno scambiato le loro impressioni condividendo attimi della loro traumatica esperienza, grazie all’aiuto di professionisti moderatori degli incontri. In questo viaggio, ho appreso inoltre testimonianze dirette di uomini che stanno provando a non picchiare, molestare o abusare. Vite molto diverse, ma così incredibilmente uguali. Non è stato semplice mantenere il “filtro giornalistico”, quando si trattano argomenti così complessi… ascoltare e sviscerare sin nel profondo le vicende personali che hanno distrutto l’esistenza di persone che oggi tentano con tutte le proprie forze, di uscire dal tunnel della violenza.

“I legami tra politica e burocrazia”, di Massimo L. Salvadori – La Repubblica 22.03.15

La bagarre scoppiata intorno all’ asse di potere Lupi-Incalza ha portato in primo piano nel dibattito pubblico la questione dei rapporti inquinati tra politica e burocrazia. Nel nostro Paese essa ha una storia senza fine e rappresenta un capitolo centrale nelle vicende legate alla corruzione. Non ci si può dunque meravigliare che in Italia la parola “burocrazia” equivalga a una parolaccia, sia sinonimo di un’arroganza che fa dei cittadini delle persone perennemente frustrate a causa dei bastoni messi tra le ruote di chiunque voglia combinare qualcosa di buono, di una inefficienza pianificata per consentire manovre a beneficio di corruttori e corrotti.
Là dove la burocrazia è stata tradizionalmente sentita come un potere opprimente posto al servizio delle classi dominanti, si è progettato di sopprimerla e di liberarsene una volta per tutte sostituendola con l’autogoverno. Fu questo l’obiettivo di Marx, di Lenin — il quale, guardando alla pessima burocrazia zarista, nella Russia del 1917 teorizzò che il proletariato vittorioso avrebbe distrutto alle radici l’apparato burocratico così che “nessuno possa diventare un burocrate” — e anche di Mao Zedong in Cina che durante la rivoluzione culturale scagliò le sue guardie rosse contro i “burocrati rossi”. L’ambizione di distruggere la burocrazia si rivelò un sogno, come mostrato dal fatto che è toccato proprio ai regimi comunisti di elevare la burocrazia a una posizione di potere senza precedenti. Eppure in altri Paesi la burocrazia, come nel passato, anche nel presente non è oggetto di discredito; anzi in alcuni quali ad esempio oggi la Germania, l’Austria e anche la Francia è rispettata e i burocrati non sono considerati nemici dei cittadini.
La verità — come ha spiegato in maniera insuperata, classica, Max Weber in Economia e società — è che senza la burocrazia la gestione delle moderne società complesse non sarebbe letteralmente possibile. Essa ricopre, infatti, un ruolo insostituibile nell’organizzazione degli apparati dello Stato, nell’amministrazione delle imprese, delle forze armate, dei partiti e dei sindacati, senza il quale si piomberebbe in un ingovernabile disordine. Naturalmente questo ruolo ha carattere positivo unicamente ad alcune condizioni: che operi secondo criteri di razionalità, un sistema di regole che non spetta ad essa darsi ma deve ricevere dal potere politico; che non ambisca, travalicando le sue funzioni tecniche, ad impadronirsi di un potere autonomo e autogestito, di cui è leva fondamentale «la trasformazione del sapere d’ufficio in un sapere segreto », che «costituisce il più importante strumento di potenza della burocrazia ed è in definitiva unicamente un mezzo per garantire l’amministrazione contro i controlli ».
Dopo avere chiarito l’indispensabilità e l’importanza della burocrazia, Weber ha messo d’altro canto in luce la sua pericolosità, che emerge allorché essa esula dai limiti che dovrebbero restare suoi propri. Superati quei limiti, allora inizia la degenerazione, che è enormemente favorita quando i leader dei partiti, i parlamentari e gli uomini di governo si rivelino impari ai loro compiti vuoi per la pochezza delle loro qualità vuoi per l’incapacità di esercitare nei confronti della burocrazia quel che detterebbe la loro responsabilità in quanto guide. Allora coloro cui spetta di essere al servizio dello Stato e della politica, ne diventano i padroni, assumendo impropriamente di fatto la parte di legislatori, di guide del processo politico, di tutori degli stessi parlamentari e governanti. È a questo punto che il rapporto politica-burocrazia si rovescia e la corruzione trova spianata la strada.
A chi tenga presente quanto sopra, non riesce difficile capire dove si collochi in tutta la sua portata la stortura della relazione tra il ministro Lupi e il grande burocrate Incalza. Peccato di Lupi sarà pure anche di essersi dato da fare, giovandosi della sua influenza, per agevolare la carriera del figlio. Ma il suo peccato non perdonabile è di natura interamente politica: essere giunto a minacciare — come inequivocabilmente rivelato dalle intercettazioni telefoniche — di far cadere un governo se si fosse toccato un burocrate che ha costruito la propria personale potenza accumulata in decenni, mettendosi al riparo del fatto che i governi passano e la burocrazia resta. Lupi legga Weber, e non farà fatica a capire quanto sia stato inutile spostare l’attenzione dal sodalizio tra lui, Incalza e compagni ai favori che dice di non aver chiesto per il figlio e all’orologio che personalmente non avrebbe accettato.

“Per crescere prima e meglio ci vuole più «womenomics»”, di Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore 22.03.15

Quali sono le fonti della crescita economica? Per crescere ci vogliono braccia, macchine e cervelli. Le braccia sono l’occupazione, il lavoro; le macchine sono il capitale: macchinari, case, capannoni, ponti, strade…; i cervelli (terzo e importante elemento) sono la produttività: quella “polverina magica” di cui abbiamo parlato in passato (Il Sole Junior, 30 giugno e 7 luglio 2013) che combina lavoro e capitale in modi sempre più produttivi, con il progresso tecnico, l’organizzazione del lavoro, la qualità delle istituzioni…
Abbiamo dimenticato un altro fattore di produzione: le risorse, cioè terra, mari, minerali…. Ma oggi vogliamo concentrarci sulle… donne. Cosa c’entrano le donne con la crescita? C’entrano, eccome. Perché, quando si parla di braccia e di cervelli, questi fattori della produzione possono essere declinati al maschile e al femminile. Il capitale umano è forse il capitale più importante di tutti e per far crescere l’economia bisogna che questo capitale sia (come si diceva del rancio dei soldati) “ottimo e abbondante”. Il capitale umano (braccia e cervelli) crea il capitale fisico (macchine e costruzioni) ed elabora la “polverina magica” che fa lievitare l’economia.
Il problema è che di questo capitale umano la metà – quella femminile – è scarsamente utilizzata. Anche là dove la popolazione non cresce, o addirittura diminuisce (come è il caso della Germania o del Giappone) quel che è importante, per la crescita economica, non è il numero di abitanti, ma il numero di lavoratori. Andiamo a vedere la popolazione in età di lavoro (da 15 a 64 anni) e calcoliamo la quota di occupati su quel totale, divisa fra uomini e donne. Un po’ in tutti i Paesi, la quota di occupazione femminile è più bassa di quella maschile.
Se questa quota crescesse più rapidamente (in effetti è andata crescendo, anche se rimane più bassa) ne beneficerebbe la crescita, economica e sociale. Il problema è importante anche perché con l’invecchiamento in corso della popolazione (la natalità è bassa e la gente vive più a lungo) coloro che lavorano dovranno mantenere stuoli crescenti di anziani. I rimedi, se non si vuole tassare ancora di più chi lavora, sono tre: allungare l’età di pensionamento, ridurre i trattamenti di pensione, o aumentare il numero di coloro che lavorano. Certamente, dei tre rimedi quello di gran lunga preferibile è l’aumento dell’occupazione. E il modo più diretto di farlo è quello di ricorrere a un particolare “giacimento”: il giacimento del lavoro femminile, attirando nella forza lavoro le donne che ne sono tenute al margine.
Il grafico mostra come in Italia il tasso di occupazione femminile sia particolarmente basso. Il numero di donne occupate è andato aumentando (vedi il confronto fra gli andamenti dell’occupazione maschile e femminile in Italia e in America) ma molta strada resta ancora da fare. Per l’Italia, insomma, c’è una buona notizia e una cattiva notizia: l’occupazione femminile aumenta ma il numero di donne occupate è troppo basso.
Perché l’occupazione femminile aumenta? L’aumento dipende essenzialmente dalla composizione dell’attività economica. In tutti i Paesi, e anche in Italia, diminuisce la quota di attività che è legata alla produzione di “cose” (manifatturiero, agricoltura e costruzioni) e aumenta la quota dei servizi (pubblici e privati). La produzione di cose era tradizionalmente dominata dal lavoro maschile, spesso pesante, mentre la produzione di servizi è più accessibile alle donne. Inoltre, la scolarizzazione femminile è andata procedendo più rapidamente di quella maschile, e questo ha reso le donne più “impiegabili” di prima.
Perché il tasso di occupazione femminile in Italia è così basso? La risposta si divide in due. Il problema è generale: il tasso di occupazione complessivo (maschi e femmine) è basso. In percentuale della popolazione in età di lavoro, nel 2013, gli occupati maschi erano in Italia il 65,8%, contro una media di 73,2% per i Paesi Ocse. Un classamento basso, che dipende da difetti di fondo del sistema economico italiano, che non riesce a produrre posti di lavoro: molte imprese nascono ma non riescono a crescere, per ostacoli alla concorrenza, cattive infrastrutture, vincoli burocratici, pesantezza del fisco, scarso rispetto dei valori di mercato… . Ma la differenza fra Italia e media Ocse nel tasso di occupazione, che è di circa 7 punti per gli uomini, diventa di 10 punti per le donne. Abbiamo bisogno quindi di altre ragioni per spiegare la minorità del lavoro femminile.
La risposta è allora legata non alla domanda di lavoro (delle imprese) ma all’offerta di lavoro (delle lavoratrici). Qui le ragioni sono culturali. La figura tradizionale della donna legata alla casa è dura a morire e il lavoro femminile viene guardato, magari inconsciamente, con sospetto. Là dove l’emancipazione della donna è meno pronunciata (come vedete dal grafico, Spagna, Italia e Grecia sono agli ultimi tre posti nel tasso di occupazione femminile) la presenza nella forza-lavoro è più bassa.
I rimedi? Certo, si potrebbe dire: date tempo al tempo. L’occupazione femminile sta aumentando per conto suo, per le ragioni sopra dette. Ma molto si può – e si deve – fare per accelerare questo processo. Le ragioni ‘culturali’ accennate prima stanno svanendo rapidamente, specie per le generazioni più giovani, ma permangono ostacoli a una maggiore partecipazione femminile: primo, il problema di conciliare maternità e lavoro. Nei Paesi ove più diffuso è il ricorso ad asili nido, l’occupazione femminile è più alta. E naturalmente, la cura dei figli e della casa può essere più equamente distribuita fra uomini e donne, con norme che prevedano congedi di paternità e non solo di maternità.

“Cultura è libertà di ricercare”, di Giovanni Maria Flick – Il Sole 24 Ore 22.03.15

L’art. 9 della Costituzione disegna uno strano e originale “trittico” di valori (tutti fondamentali e riguardati come “tipizzanti” del volto costituzionale dello Stato-apparato e dello Stato-collettività), rispetto ai quali i compiti della Repubblica vengono ad essere scanditi secondo direttrici apparentemente non sintoniche fra loro. C’è la «cultura», che deve essere sviluppata; la «ricerca scientifica e tecnica» che deve essere promossa; il «paesaggio ed il patrimonio storico e artistico» che devono infine essere tutelati.
Sembrerebbe, quindi, che, mentre la “cultura” viene vista dalla Costituzione come un quid mai compiuto, ma sempre in divenire e da accrescere, la ricerca non abbia una sua dimensione diacronica, quantificabile secondo un più o un meno, ma debba semplicemente essere assecondata: quasi una funzione maieutica dello Stato, che ne deve accompagnare l’incedere, lasciando a chi si occupa di ricerca stabilire l’an, il quid ed il quomodo. Paesaggio e patrimonio storico e artistico sono invece visti nella loro prospettiva statica: vanno solo tutelati, quasi a farne un “museo” (all’aperto o al chiuso non importa).
Eppure, cultura, ricerca e patrimonio storico e artistico non appaiono elementi scollegati all’interno del “trittico” normativo di cui si è detto; né può dirsi che i compiti della Repubblica tracciati per ciascuno di essi siano frutto di una rapsodica rassegna, priva di un tratto unificante. Cultura e ricerca sono spesso (direi anzi sempre, sul piano storico) valori (e non solo strumenti) fra loro “interfacciabili”, non potendosi l’una “accrescere” – come vuole la Costituzione – senza la seconda, che per svolgere la sua funzione non deve essere “indirizzata” (come di regola accade negli assetti totalitari), ma semplicemente “promossa”. Lo stesso è a dirsi per il patrimonio paesaggistico, storico e artistico: è seriamente pensabile che un simile “valore” possa essere efficacemente “tutelato” senza cultura e ricerca?
Il “trittico” e i differenti compiti assegnati allo Stato sembrano dunque ricomporsi. Mentre, sul piano soggettivo (quello dei rapporti etico sociali della Parte II della Costituzione), il “faro” è offerto dall’art. 33 che, nel sancire la libertà dell’arte e della scienza, non si limita ad assegnare valore di intangibilità ad un semplice diritto per chiunque, ma finisce per “qualificare” contenutisticamente tanto l’arte che la scienza come materie “in sé” libere, quindi non “limitabili” da parte dello Stato. E poiché la scienza si compone e si compenetra con la ricerca, anche quest’ultima non potrà che essere attratta nella sfera precettiva dell’art. 33 Cost.
Da qui già alcuni primi corollari. Non mi sembra, anzitutto, che la posizione della Costituzione sia “neutra” sul tema della scienza, cultura e ricerca scientifica e tecnica: la propensione, più che esplicita, è verso uno Stato “attivo” nel “coltivare” la “cultura”, nella piena consapevolezza che i valori del “sapere” non possono disancorarsi dal valore “dell’essere” (e, soprattutto, del come essere). Attraverso la evocazione di questo “attivismo” promozionale per tutto ciò che è “cultura” (pur con tutto il relativismo semantico che accompagna questa espressione), la Costituzione – a me pare – non è neppure “eticamente” neutra (anche se, va precisato, si tratta di un’etica profondamente laica). Arte, storia, scienza sono senz’altro “cultura” (in chiave costituzionale) e qualsiasi giudizio “morale” che rompesse la compenetrazione tra i vari termini del sintagma finirebbe per assegnare una inconcepibile attribuzione negativa (“non” arte, “non” storia, “non” scienza, “non” cultura) in dipendenza di valutazioni “soggettive” totalmente eccentriche rispetto al disegno della Costituzione.
Ma è altrettanto evidente che la “cultura” che lo Stato ha il compito di “sviluppare” non è avulsa dal contesto di valori in cui il costituente l’ha iscritta; con la chiara conseguenza che un simile “sviluppo” debba rappresentare una “progressione” verso il conseguimento di quei valori, dando risalto alla “storia” che ha accompagnato un simile “progresso” verso il bene comune. La “moralità” costituzionale va, dunque, a mio avviso ricostruita come necessaria sintonia tra la evoluzione culturale e la somma dei valori presenti in un paese, in un dato contesto storico; in modo tale da evitare che una determinata “cultura” possa offendere e pregiudicare i “diritti” di una cultura “diversa” che si conformi ai valori della legalità (globalizzazione e conseguenti confronti-scontri fra “culture” sono sotto gli occhi di tutti).
Altra conseguenza che scaturisce da quanto si è detto, è rappresentata dal fatto che la ricerca – che lo Stato deve, come si è detto “promuovere” – è anch’essa da conformare agli indicati parametri di “moralità” costituzionale, dal momento che l’assenza di “confini” normativamente predefiniti, impone un intervento pubblico solo a tutela di un interesse pubblico, e quindi “moralmente” in linea con l’intera tavola dei valori tanto costituzionali che derivanti da fonti internazionali o sovranazionali. Ma, ciò che più conta, la ricerca da promuovere, saldandosi a filo doppio con il fine di perseguire “un valore aggiunto” evocativo di un sostanziale “progresso collettivo”, non può disancorarsi (ancora una volta, secondo una “etica dei valori”, quali in particolare il principio solidaristico) dalla esigenza che la “ricerca” non possa essere racchiusa in un confine di autoreferenzialità “dogmatica”, senza perseguire obiettivi che presentino una qualche rilevanza “esterna”.
La ricerca meramente “autoreferenziale” può essere arte, scienza, tutelate nella loro libertà, o semmai, “cultura” da sviluppare. Ma per essa – in sé e per sé considerata – appare difficile immaginare una “causa” costituzionale per ritenere che lo Stato abbia uno specifico obbligo di “promozione”: proprio perché fa per definizione difetto qualsiasi significativo riverbero sul piano degli interessi collettivi. Libertà, dunque, di ricerca: ma promozione solo di quella “costituzionalmente” significativa.
Un terzo ed ultimo corollario mi pare possa trarsi da quanto si è detto. A prescindere dalla vexata quaestio di quali siano i tratti distintivi tra scienza, tecnica e tecnologia, la Costituzione sembra ritenere del tutto equivalenti gli attributi della ricerca, ancora una volta denotando una opzione “generalista” che eviti qualsiasi elemento lessicale dal quale poter dedurre una sorta di limitazione “qualitativa” della ricerca che lo Stato è chiamato a promuovere. Spira, come è evidente, una qualche aria di propensione verso una proiezione “tecnologica” della ricerca, nella prospettiva di un incremento del benessere “materiale” dei consociati: ma, a mio avviso, l’apparenza inganna. Cultura e ricerca – come abbiamo già detto – sono i due volti di uno stesso “valore”, sicché apparirebbe davvero illogica una previsione che si limitasse a promuovere la ricerca scientifica o tecnica senza preoccuparsi di “scienze” in sé prive di riflessi “applicativi” sul piano materiale; l’intera gamma delle scienze umane resterebbe implausibimente negletta, quando, al contrario, lo sviluppo della cultura di un paese non può evidentemente farne a meno.

“È la distruzione della civiltà araba la vera strategia del falso Califfo” di Tahar Ben Jelloun – La REpubblica 21.03.15

La Tunizia è nota per i suoi gelsomini, le sue terrazze affacciate sul mare, la sua ospitalità e la volontà di essere l’elemento femminile nel Maghreb — se, come dice il proverbio, l’Algeria è un leone e il Marocco un uomo. Di fatto, per chi viene dall’Algeria, ove la vita è piuttosto dura, soprattutto dopo la terribile guerra condotta per strappare la sua indipendenza, la Tunisia appare come un porto di pace, dolcezza e vita serena. Per questo molti turisti hanno apprezzano questo Paese, fino all’attentato del 2002 contro la Sinagoga di Djerba, città nota per le sue attrattive turistiche e la sua buona cucina. In quel periodo il Paese era sotto il pugno di ferro di Ben Ali e della sua onnipresente polizia. La quale però non impedì il massacro di 14 tedeschi, 2 francesi e 5 tunisini periti in quell’attacco, che già allora voleva essere un avvertimento, destinato a tener lontani i turisti.
Il Paese rimase sotto shock, incapace di comprendere il perché di quest’azione tesa a rovinarlo: senza turismo la Tunisia si sarebbe trovata in una situazione economica molto grave.
C’è stata poi la scintilla che ha fatto divampare la cosiddetta “primavera araba”. Sembra che la Tunisia fosse il solo Paese a trarre vantaggio da quella rivoluzione, altrove degenerata in barbarie, o in ordine militare. L’attentato di mercoledì 18 è un palese attacco contro i progressi che la Tunisia sta compiendo sulla via della democrazia e di un certo grado di laicità, o quanto meno del rifiuto di un islamismo volto al ritorno ai tempi del profeta Maometto, con evidente anacronismo.
La Tunisia è un piccolo Paese affacciato sul Mediterraneo, aperto all’Europa; un Paese di métissage ben riusciti, ove la condizione delle donne è più protetta che in qualsiasi altro Paese arabo e musulmano.
È anche il Paese che vanta il maggior poeta della letteratura araba del XX° secolo, Abu Kachen Chebbi (1909 — 1934) autore di una poesia celebre, divenuta l’inno di vari movimenti rivoluzionari: «Ai tiranni del mondo». Ecco come descrive la figura del despota-presidente o assassino: «O tiranno oppressore /Amico della notte / nemico della vita / ti sei fatto beffe di un popolo debole / e la tua mano è macchiata di sangue. / Tu guasti la magia dell’universo — e nei suoi luoghi più alti — semini spine di sventura …» Molte spine di sventura e selvaggia ferocia sono state seminate in Tunisia in questi ultimi anni; soprattutto da quando il Paese è riuscito a trovare un accordo per una Costituzione eccezionale, unica nel mondo arabo e musulmano, dato che garantisce “libertà di coscienza” e parità di diritti tra uomini e donne.
Già prima dell’attacco al Museo Bardo, la Tunisia si sapeva minacciata, consapevole che gruppi finanziati e armati da nemici della libertà e della democrazia volevano punirla. Vi sono stati attacchi contro mostre di pittura, omicidi di personalità politiche democratiche come Chokri Belaïd (il 5 febbraio 2013) e il deputato Mohamen Brahmi (il 25 luglio dello stesso anno). In precedenza c’era stato l’attacco dei salafisti contro l’Ambasciata degli Stati Uniti (quattro morti). Si scoprì allora che la polizia era disorganizzata e mal preparata a questo genere di guerriglia. Se ne è avuta conferma ora al Museo Bardo. Tutti si chiedono come mai due individui armati di kalashnikov abbiano potuto penetrare in un museo e sparare sulla folla dei visitatori, tanto più che quel museo è adiacente alla sede dell’Assemblea nazionale. Certo, in materia di sicurezza, come ha detto un ministro, il Paese «è nel caos». La polizia avrebbe bisogno di essere gestita meglio, anche perché gli assassini che si richiamano all’autoproclamato “Califfo” non si fermeranno qui. Il progetto di questo “Califfo” è di regnare ovunque, e destabilizzare tutti i Paesi musulmani che non si piegheranno al suo dominio. Il capo di uno “Stato islamico” illegittimo, che nessuna istanza legale ha mai riconosciuto, persegue il suo sogno e il suo progetto; e gli eserciti dei molti Paesi che lo combattono non ottengono alcun risultato.
Va detto che la situazione caotica della Libia gli è particolarmente favorevole. È in questa terra — non uno Stato ma un’accozzaglia di tribù in guerra tra loro — che i massacratori del Bardo sono stati addestrati. Si sono dati il nome di “Falangi Okba Ibn Nafaa”, un generale che fu alla testa delle armate musulmane inviate dal califfo omayyade di Damasco, Mu’awiya, per diffondere l’islam subito dopo la morte di Maometto. In questo tipo di riferimenti si ravvisa la logica dell’Is, volta a far tornare l’islam di oggi ai suoi albori, quando il Profeta dovette fare la guerra per difendersi contro le armate di politeisti e non credenti.
Di fatto, le forze di Al Baghdadi dispongono di un sostegno e di mezzi poco noti alle grandi potenze che asseriscono di voler combattere il terrorismo internazionale. Non sarebbe il caso di incominciare a indagare sull’origine di quei fondi, armamenti, filiere di reclutamento in ogni parte del mondo? L’Occidente non è meno minacciato dei Paesi musulmani che respingono i discorsi e gli atti di quella barbarie.
Oggi sappiamo che cellule terroristiche si sono insediate nel Sinai, e che altre, a Gaza, si sono avvicinate a Hamas. Sappiamo di alcuni elementi, ex ufficiali di Saddam e di Gheddafi, che hanno aderito alle forze di Al Baghdadi e combattono per un nuovo ordine mirante non solo ad annientare i Paesi arabi moderati, impegnati in uno sviluppo verso la modalità come quelli del Maghreb, ma ad abbattere la stessa civiltà araba e islamica, con la distruzione delle sue opere d’arte, patrimonio universale dell’umanità.
Tutto il mondo civile è oggi coinvolto in questa tragedia. Contro quel nemico invisibile e impunito la mobilitazione dovrebbe andare molto al di là di quanto i Paesi impegnati nella lotta all’Is stanno facendo in questi giorni.
( traduzione di Elisabetta Horvat)

Pd Soliera, lunedì si parla de La buona scuola con l’on. Ghizzoni – comunicato stampa 21.03.15

E’ la deputata Pd Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Istruzione della Camera, l’ospite dell’incontro di approfondimento sui temi della riforma della scuola organizzato per la sera di lunedì 23 marzo dal Pd di Soliera. Appuntamento a Il Mulino alle ore 21.00.  

 

 

Come procede la riforma della scuola? Quali modifiche? Quali miglioramenti? A queste domande tenterà di dare una risposta l’incontro pubblico organizzato dal Partito democratico di Soliera per la sera di lunedì 23 marzo: titolo dell’iniziativa “La buona scuola – facciamo crescere il Paese”. Si tratta di un incontro di approfondimento a cui partecipa la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Istruzione della Camera. L’appuntamento è presso Il Mulino, in via Nenni 55, a Soliera, a partire dalle ore 21.00.

 

“Casal di Principe ospita gli Uffizi la sfida dell’arte contro Gomorra”, di Stefania Parmeggiani – La Repubblica 20.03.15

La Galleria degli Uffizi a Gomorra. Il più importante museo italiano non andrà ad Abu Dhabi, come il Louvre, ma porterà un po’ della sua bellezza a Casal di Principe, nella villa confiscata a un boss della camorra: Egidio Coppola, detto Brutus, luogotenente di Cicciotto ‘e mezzanotte, uno dei capi storici del clan dei casalesi. La luce vince l’ombra , che si inaugurerà il 21 giugno, è la prossima tappa della collana di mostre “Città degli Uffizi”, che da qualche anno porta in giro le opere dei depositi della Galleria con l’obiettivo di farle conoscere e di restituire a centri lontani dai circuiti turistici la nobiltà del loro passato. Dal 2008 gli Uffizi hanno fatto tappa in diciassette città, ma nella terra dei fuochi, in un territorio così difficile da fare arretrare anche lo Stato, non erano mai andati. E fino a qualche anno fa sarebbe stato impossibile anche solo da immaginare. Invece, in questi giorni, si sta lavorando alla ristrutturazione della villa, che sarà intitolata a don Peppe Diana, ucciso dalla camorra nel 1994. E tra pochi mesi arriveranno le opere: nove pezzi di pregio tra cui Carità di Luca Giordano, Santa Caterina d’Alessandria di Artemisia Gentileschi, Vanità di Mattia Preti, Salomè con la testa del Battista di Giovann Battista Caracciolo. «Vogliamo puntare un riflettore su una terra antica e fiera che la criminalità ha emarginato e addirittura bandito, ma questa non è solo una mostra etica», spiega Antonio Natali, direttore degli Uffizi e insieme all’ex soprintendente di Napoli Fabrizio Vona, curatore scientifico del progetto. «Abbiamo scelto quadri d’artisti del Seicento, napoletani o legati a Napoli, linguisticamente affascinati da Caravaggio». E quindi dal contrasto tra luce e ombra. «Io credo che a Casal di Principe stia nascendo una nuova società. La volontà delle persone si pone come luce che scaccia le tenebre, come bene che vince sul male». Il tema è quello della rinascita. Ed è sottolineato dalla ricostruzione del Concerto di Bartolomeo Manfredi, opera mandata in pezzi dalla bomba che nel 1993 scoppiò in via dei Georgofili. Insieme a lei anche la videoinstallazione Una luce nuova, l’adorazione dei pastori di Gherardo delle Notti, che racconta la storia di un altro capolavoro distrutto dall’attentato. «Sono due opere simbolo della vigliaccheria mafiosa, della furia criminale e di quella stagione buia, ma anche di una rinascita orgogliosa». La stessa che si vuole a Casal di Principe: «Stiamo lanciando un’opa contro la camorra», spiega Alessandro de Lisi, direttore del programma R Rinascita. Lui è uno degli uomini, che insieme a Giacinto Palladino di Fiba Social Life e Battista Villa del progetto San Francesco, ha voluto portare gli Uffizi a Gomorra, riuscendo a coinvolgere nell’esposizione anche il museo di Capodimonte di Napoli, il Museo provinciale di Capua e il Palazzo Reale di Caserta. «Non si tratta di vacua mondana solidarietà. Il nostro è un programma di sviluppo sociale che vuole generare economia e fare cultura coinvolgendo le imprese locali. Quando gli Uffizi andranno via, arriveranno altre esposizioni, laboratori, eventi». Il primo passo sarà la formazione di quaranta guide che accompagneranno i visitatori raccontando la storia dei quadri, ma anche la terra dei fuochi, senza censure. «Vogliamo una nuova narrazione del territorio – spiega il sindaco Renato Natale – che parli della criminalità senza nascondere nulla, ma che sappia andare oltre, che racconti il paese che sta rinascendo». E che ora sfida la camorra con l’arte, portando un pezzetto degli Uffizi a casa dei boss.