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“I legami tra politica e burocrazia”, di Massimo L. Salvadori – La Repubblica 22.03.15
“Per crescere prima e meglio ci vuole più «womenomics»”, di Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore 22.03.15
Il problema è che di questo capitale umano la metà – quella femminile – è scarsamente utilizzata. Anche là dove la popolazione non cresce, o addirittura diminuisce (come è il caso della Germania o del Giappone) quel che è importante, per la crescita economica, non è il numero di abitanti, ma il numero di lavoratori. Andiamo a vedere la popolazione in età di lavoro (da 15 a 64 anni) e calcoliamo la quota di occupati su quel totale, divisa fra uomini e donne. Un po’ in tutti i Paesi, la quota di occupazione femminile è più bassa di quella maschile.
Se questa quota crescesse più rapidamente (in effetti è andata crescendo, anche se rimane più bassa) ne beneficerebbe la crescita, economica e sociale. Il problema è importante anche perché con l’invecchiamento in corso della popolazione (la natalità è bassa e la gente vive più a lungo) coloro che lavorano dovranno mantenere stuoli crescenti di anziani. I rimedi, se non si vuole tassare ancora di più chi lavora, sono tre: allungare l’età di pensionamento, ridurre i trattamenti di pensione, o aumentare il numero di coloro che lavorano. Certamente, dei tre rimedi quello di gran lunga preferibile è l’aumento dell’occupazione. E il modo più diretto di farlo è quello di ricorrere a un particolare “giacimento”: il giacimento del lavoro femminile, attirando nella forza lavoro le donne che ne sono tenute al margine.
Il grafico mostra come in Italia il tasso di occupazione femminile sia particolarmente basso. Il numero di donne occupate è andato aumentando (vedi il confronto fra gli andamenti dell’occupazione maschile e femminile in Italia e in America) ma molta strada resta ancora da fare. Per l’Italia, insomma, c’è una buona notizia e una cattiva notizia: l’occupazione femminile aumenta ma il numero di donne occupate è troppo basso.
Perché l’occupazione femminile aumenta? L’aumento dipende essenzialmente dalla composizione dell’attività economica. In tutti i Paesi, e anche in Italia, diminuisce la quota di attività che è legata alla produzione di “cose” (manifatturiero, agricoltura e costruzioni) e aumenta la quota dei servizi (pubblici e privati). La produzione di cose era tradizionalmente dominata dal lavoro maschile, spesso pesante, mentre la produzione di servizi è più accessibile alle donne. Inoltre, la scolarizzazione femminile è andata procedendo più rapidamente di quella maschile, e questo ha reso le donne più “impiegabili” di prima.
Perché il tasso di occupazione femminile in Italia è così basso? La risposta si divide in due. Il problema è generale: il tasso di occupazione complessivo (maschi e femmine) è basso. In percentuale della popolazione in età di lavoro, nel 2013, gli occupati maschi erano in Italia il 65,8%, contro una media di 73,2% per i Paesi Ocse. Un classamento basso, che dipende da difetti di fondo del sistema economico italiano, che non riesce a produrre posti di lavoro: molte imprese nascono ma non riescono a crescere, per ostacoli alla concorrenza, cattive infrastrutture, vincoli burocratici, pesantezza del fisco, scarso rispetto dei valori di mercato… . Ma la differenza fra Italia e media Ocse nel tasso di occupazione, che è di circa 7 punti per gli uomini, diventa di 10 punti per le donne. Abbiamo bisogno quindi di altre ragioni per spiegare la minorità del lavoro femminile.
La risposta è allora legata non alla domanda di lavoro (delle imprese) ma all’offerta di lavoro (delle lavoratrici). Qui le ragioni sono culturali. La figura tradizionale della donna legata alla casa è dura a morire e il lavoro femminile viene guardato, magari inconsciamente, con sospetto. Là dove l’emancipazione della donna è meno pronunciata (come vedete dal grafico, Spagna, Italia e Grecia sono agli ultimi tre posti nel tasso di occupazione femminile) la presenza nella forza-lavoro è più bassa.
I rimedi? Certo, si potrebbe dire: date tempo al tempo. L’occupazione femminile sta aumentando per conto suo, per le ragioni sopra dette. Ma molto si può – e si deve – fare per accelerare questo processo. Le ragioni ‘culturali’ accennate prima stanno svanendo rapidamente, specie per le generazioni più giovani, ma permangono ostacoli a una maggiore partecipazione femminile: primo, il problema di conciliare maternità e lavoro. Nei Paesi ove più diffuso è il ricorso ad asili nido, l’occupazione femminile è più alta. E naturalmente, la cura dei figli e della casa può essere più equamente distribuita fra uomini e donne, con norme che prevedano congedi di paternità e non solo di maternità.
“Cultura è libertà di ricercare”, di Giovanni Maria Flick – Il Sole 24 Ore 22.03.15
Sembrerebbe, quindi, che, mentre la “cultura” viene vista dalla Costituzione come un quid mai compiuto, ma sempre in divenire e da accrescere, la ricerca non abbia una sua dimensione diacronica, quantificabile secondo un più o un meno, ma debba semplicemente essere assecondata: quasi una funzione maieutica dello Stato, che ne deve accompagnare l’incedere, lasciando a chi si occupa di ricerca stabilire l’an, il quid ed il quomodo. Paesaggio e patrimonio storico e artistico sono invece visti nella loro prospettiva statica: vanno solo tutelati, quasi a farne un “museo” (all’aperto o al chiuso non importa).
Eppure, cultura, ricerca e patrimonio storico e artistico non appaiono elementi scollegati all’interno del “trittico” normativo di cui si è detto; né può dirsi che i compiti della Repubblica tracciati per ciascuno di essi siano frutto di una rapsodica rassegna, priva di un tratto unificante. Cultura e ricerca sono spesso (direi anzi sempre, sul piano storico) valori (e non solo strumenti) fra loro “interfacciabili”, non potendosi l’una “accrescere” – come vuole la Costituzione – senza la seconda, che per svolgere la sua funzione non deve essere “indirizzata” (come di regola accade negli assetti totalitari), ma semplicemente “promossa”. Lo stesso è a dirsi per il patrimonio paesaggistico, storico e artistico: è seriamente pensabile che un simile “valore” possa essere efficacemente “tutelato” senza cultura e ricerca?
Il “trittico” e i differenti compiti assegnati allo Stato sembrano dunque ricomporsi. Mentre, sul piano soggettivo (quello dei rapporti etico sociali della Parte II della Costituzione), il “faro” è offerto dall’art. 33 che, nel sancire la libertà dell’arte e della scienza, non si limita ad assegnare valore di intangibilità ad un semplice diritto per chiunque, ma finisce per “qualificare” contenutisticamente tanto l’arte che la scienza come materie “in sé” libere, quindi non “limitabili” da parte dello Stato. E poiché la scienza si compone e si compenetra con la ricerca, anche quest’ultima non potrà che essere attratta nella sfera precettiva dell’art. 33 Cost.
Da qui già alcuni primi corollari. Non mi sembra, anzitutto, che la posizione della Costituzione sia “neutra” sul tema della scienza, cultura e ricerca scientifica e tecnica: la propensione, più che esplicita, è verso uno Stato “attivo” nel “coltivare” la “cultura”, nella piena consapevolezza che i valori del “sapere” non possono disancorarsi dal valore “dell’essere” (e, soprattutto, del come essere). Attraverso la evocazione di questo “attivismo” promozionale per tutto ciò che è “cultura” (pur con tutto il relativismo semantico che accompagna questa espressione), la Costituzione – a me pare – non è neppure “eticamente” neutra (anche se, va precisato, si tratta di un’etica profondamente laica). Arte, storia, scienza sono senz’altro “cultura” (in chiave costituzionale) e qualsiasi giudizio “morale” che rompesse la compenetrazione tra i vari termini del sintagma finirebbe per assegnare una inconcepibile attribuzione negativa (“non” arte, “non” storia, “non” scienza, “non” cultura) in dipendenza di valutazioni “soggettive” totalmente eccentriche rispetto al disegno della Costituzione.
Ma è altrettanto evidente che la “cultura” che lo Stato ha il compito di “sviluppare” non è avulsa dal contesto di valori in cui il costituente l’ha iscritta; con la chiara conseguenza che un simile “sviluppo” debba rappresentare una “progressione” verso il conseguimento di quei valori, dando risalto alla “storia” che ha accompagnato un simile “progresso” verso il bene comune. La “moralità” costituzionale va, dunque, a mio avviso ricostruita come necessaria sintonia tra la evoluzione culturale e la somma dei valori presenti in un paese, in un dato contesto storico; in modo tale da evitare che una determinata “cultura” possa offendere e pregiudicare i “diritti” di una cultura “diversa” che si conformi ai valori della legalità (globalizzazione e conseguenti confronti-scontri fra “culture” sono sotto gli occhi di tutti).
Altra conseguenza che scaturisce da quanto si è detto, è rappresentata dal fatto che la ricerca – che lo Stato deve, come si è detto “promuovere” – è anch’essa da conformare agli indicati parametri di “moralità” costituzionale, dal momento che l’assenza di “confini” normativamente predefiniti, impone un intervento pubblico solo a tutela di un interesse pubblico, e quindi “moralmente” in linea con l’intera tavola dei valori tanto costituzionali che derivanti da fonti internazionali o sovranazionali. Ma, ciò che più conta, la ricerca da promuovere, saldandosi a filo doppio con il fine di perseguire “un valore aggiunto” evocativo di un sostanziale “progresso collettivo”, non può disancorarsi (ancora una volta, secondo una “etica dei valori”, quali in particolare il principio solidaristico) dalla esigenza che la “ricerca” non possa essere racchiusa in un confine di autoreferenzialità “dogmatica”, senza perseguire obiettivi che presentino una qualche rilevanza “esterna”.
La ricerca meramente “autoreferenziale” può essere arte, scienza, tutelate nella loro libertà, o semmai, “cultura” da sviluppare. Ma per essa – in sé e per sé considerata – appare difficile immaginare una “causa” costituzionale per ritenere che lo Stato abbia uno specifico obbligo di “promozione”: proprio perché fa per definizione difetto qualsiasi significativo riverbero sul piano degli interessi collettivi. Libertà, dunque, di ricerca: ma promozione solo di quella “costituzionalmente” significativa.
Un terzo ed ultimo corollario mi pare possa trarsi da quanto si è detto. A prescindere dalla vexata quaestio di quali siano i tratti distintivi tra scienza, tecnica e tecnologia, la Costituzione sembra ritenere del tutto equivalenti gli attributi della ricerca, ancora una volta denotando una opzione “generalista” che eviti qualsiasi elemento lessicale dal quale poter dedurre una sorta di limitazione “qualitativa” della ricerca che lo Stato è chiamato a promuovere. Spira, come è evidente, una qualche aria di propensione verso una proiezione “tecnologica” della ricerca, nella prospettiva di un incremento del benessere “materiale” dei consociati: ma, a mio avviso, l’apparenza inganna. Cultura e ricerca – come abbiamo già detto – sono i due volti di uno stesso “valore”, sicché apparirebbe davvero illogica una previsione che si limitasse a promuovere la ricerca scientifica o tecnica senza preoccuparsi di “scienze” in sé prive di riflessi “applicativi” sul piano materiale; l’intera gamma delle scienze umane resterebbe implausibimente negletta, quando, al contrario, lo sviluppo della cultura di un paese non può evidentemente farne a meno.
“È la distruzione della civiltà araba la vera strategia del falso Califfo” di Tahar Ben Jelloun – La REpubblica 21.03.15
Pd Soliera, lunedì si parla de La buona scuola con l’on. Ghizzoni – comunicato stampa 21.03.15
E’ la deputata Pd Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Istruzione della Camera, l’ospite dell’incontro di approfondimento sui temi della riforma della scuola organizzato per la sera di lunedì 23 marzo dal Pd di Soliera. Appuntamento a Il Mulino alle ore 21.00.
Come procede la riforma della scuola? Quali modifiche? Quali miglioramenti? A queste domande tenterà di dare una risposta l’incontro pubblico organizzato dal Partito democratico di Soliera per la sera di lunedì 23 marzo: titolo dell’iniziativa “La buona scuola – facciamo crescere il Paese”. Si tratta di un incontro di approfondimento a cui partecipa la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Istruzione della Camera. L’appuntamento è presso Il Mulino, in via Nenni 55, a Soliera, a partire dalle ore 21.00.