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"Pompei va oltre la «frana» dei commissari", di Antonello Cherchi

Il piano straordinario su Pompei entra nel vivo. È arrivato il momento dell’apertura delle buste dei candidati che intendono partecipare al restauro di cinque domus, per un totale di sei milioni di euro. Le cinque commissioni (una per bando; si è preferito non fare una gara unica così che eventuali ricorsi non “contagiassero” l’intero appalto) stanno già aprendo i plichi con i requisiti dei concorrenti. A metà mese si passerà alla valutazione delle offerte e all’assegnazione dei lavori.
Il cronoprogramma
Sempre in ottobre si procederà con l’altro bando, quello della messa in sicurezza dei terreni a confine con l’area di scavo (importo 2,8 milioni) e a dicembre sarà la volta delle gare che interesseranno tre delle nove regiones in cui è divisa la città (per un valore di 10 milioni di euro). Sempre entro l’anno vedrà la luce – assicurano al ministero dei Beni culturali – il bando per “il piano della conoscenza”, uno dei cinque interventi in cui si articola il progetto di 105 milioni finanziato con risorse comunitarie e interne.
Pompei, insomma, si prepara a rimettersi in sesto, dopo la sequela di crolli che ne hanno offuscato l’immagine (e quella del Paese) a livello internazionale. Operazione che ha qualche chance di successo, se non altro perché dobbiamo risponderne all’Unione europea, che alla fine del 2015 ci chiederà conto di come sono stati spesi i soldi. Gli ostacoli da superare sono tanti: una situazione di pesante degrado (interna ed esterna al sito, compresa la presenza di amianto nell’area degli scavi, fatto di cui si sta occupando la magistratura); la pressione della criminalità organizzata (le misure di contrasto sono state rafforzate, perché la torta di 105 milioni fa ancora più gola alla camorra); la mancanza di personale di controllo (a cui si farà fronte con il potenziamento del sistema di videosorveglianza); una vastissima area, e per di più assai delicata, da conservare e valorizzare.
Il fallimento dei commissari
Insomma, un compito impegnativo in cui tutti finora hanno fallito. Anche i commissari straordinari, che dal ’97 (allora li si chiamava direttori amministrativi o city manager) si sono succeduti, seppure non in maniera continuativa, nella gestione di Pompei. Anzi. L’ultimo commissario (super, per via degli ampi poteri che gli erano stati affidati), è andato oltre. La gestione di Marcello Fiori – transitato a febbraio 2009 dall’ufficio emergenze della protezione civile all’area archeologica, dove è rimasto fino all’estate dell’anno dopo – è incappata in una serie di irregolarità ora al vaglio della magistratura e della Corte dei conti.
Sotto la lente concessioni e contratti. Per esempio, quelli relativi al teatro grande di Pompei. Per l’organizzazione della stagione 2010, il commissario ha impiegato 7,5 milioni di euro per lavori complementari, l’acquisto di camerini-depositi e di allestimenti scenici e teatrali. Risorse che – oltre a essere state assegnate con procedure dubbie sulle quali si sta indagando – non hanno prodotto alcun ritorno economico significativo per la soprintendenza. Infatti, la convenzione con il teatro San Carlo di Napoli – all’epoca retto da un altro commissario, Salvo Nastasi, che era allo stesso tempo capo di gabinetto del ministero dei Beni culturali – prevedeva unicamente il versamento del 10% delle royalties sui biglietti di ingresso. Il risultato è che ora la programmazione del teatro di Pompei è inesistente, perché la procura di Torre Annunziata ha disposto, nell’ambito delle indagini sui lavori di restauro della struttura e sulle attività in cartellone nel 2010, il sequestro di tutto il materiale di scena e degli impianti acquistati dal commissario.
Non basta. La soprintendenza archeologica di Napoli e Pompei, retta da fine 2010 da Teresa Elena Cinquantaquattro, ha avviato, con l’ausilio dell’Avvocatura statale, le procedure per annullare la convenzione, per un valore di 5,8 milioni di euro, stipulata da Fiori con il raggruppamento temporaneo di imprese formato dalla fondazione Idis-Città della scienza e dalla casa editrice L’Erma di Bretschneider per la gestione dell’Antiquarium. Sono state riscontrate illegittimità nelle modalità di affidamento dell’appalto. Sotto il mirino della soprintendenza anche un’altra convenzione, quella sottoscritta dal commissario sempre con la fondazione Idis-Città della scienza per la gestione di un laboratorio per bambini presso la Casina Pacifico. Importo della concessione: 744mila euro. Anche in questo caso sono state riscontrate illegittimità e, per di più, l’attività appaltata si sovrapponeva ad altre programmate dalla soprintendenza prima della gestione commissariale.
L’esigenza di trasparenza
I 105 milioni devono servire, dunque, anche a far dimenticare tutto questo. Ecco perché il ministero ora procede con i piedi di piombo. E questo, in parte, spiega i ritardi nell’affidamento dei lavori relativi alle cinque domus e nei bandi per le regiones, attesi già a luglio. Per la prima gara, infatti, si è scelta la procedura aperta con prequalifica. «I tempi – spiega Cinquantaquattro – sono quelli imposti dal codice degli appalti. Per gli altri bandi si andrà, però, più veloci, anche perché si potrà utilizzare la piattaforma informatica messa a punto proprio per lo svolgimento delle gare previste dal piano su Pompei».
L’esigenza è quella di procedere senza lasciare ombre. Anche se il segretario generale, Antonella Recchia, ha riconosciuto, nel corso di una recente audizione presso la commissione Istruzione del Senato, come «l’aspetto della trasparenza e della partecipazione non sia stato finora adeguatamente implementato», perché assorbiti dall’urgenza di procedere con il progetto. Infatti, mentre si aspetta che il grosso del piano su Pompei parta, gli altri lavori non si sono fermati. A gennaio sono stati assunti – grazie al decreto legge 34/2011 che ha avviato il programma straordinario di rilancio di Pompei – 13 archeologi e 8 architetti (oltre a un funzionario amministrativo), che hanno finora censito oltre 250mila metri quadrati di scavi, individuando i fenomeni di degrado più gravi. Operazione propedeutica alla progettazione e ai lavori veri e propri, per i quali ci sono 85 milioni che aspettano.
Il Sole 24 Ore 08.10.12

"La ricerca crea sviluppo", di Donatella Coccoli

Chirurgia endoscopica, assistenza agli anziani, riabilitazione pediatrica. L’Istituto di BioRobotica del Sant’Anna produce robot ai servizio del cittadino. «Una tecnologia che, se potenziata, può creare nuovi posti di lavoro», afferma il direttore, l’ingegnere Paolo Dario. Un robot salverà l’economia? La produzione di automobili lascerà il posto a quella di oggetti dalle tecnologie raffinate e dai materiali leggeri? A due passi dai binari della stazione di Pontedera, c’è l’Istituto di BioRobotica della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Il luogo è di per sé significativo: una sorta di “campus anglosassone” all’interno di un edificio ristrutturato che un tempo faceva parte della cittadella Piaggio. La fabbrica della più grande azienda europea di scooter, colpita come tante dalla crisi, è là davanti, con il suo ingresso austero. Pochi metri di strada dividono i due edifici, ma la distanza è ben altra. Di là, la produzione industriale di beni di consumo ormai in picchiata, di qua la produzione di idee che si materializzano in macchine utili per il futuro della società, dell’ambiente e della medicina. Dai robot per l’assistenza agli anziani a quelli per esplorare i fondali marini, dalle minicapsule per la diagnosi medica a strumenti di naicrochirurgia interna: invenzioni che potrebbero diventare i prodotti delle fabbriche del domani. «Il Paese va ricostruito. E ha bisogno di innovatori, di persone incoraggiate a essere creative, a sognare e a saper realizzare», afferma sicuro il professor Paolo Dario, ingegnere biomedico, che dell’Istituto è stato il fondatore e che lo dirige parlandone con affetto, come fosse un figlio. In tempi in cui la parola innovazione viene sbandierata come una formula magica, siamo andati a verificare la realtà di un luogo che potrebbe, forse, dare delle idee a chi si occupa di politiche industriali. «Io sono convinto della bellezza dell’ingegneria se non è pura esecuzione, ma è creazione, invenzione, impresa, iniziativa. L’ingegnere è quello che sogna e fa», dice, citando gli esempi di Steve Jobs e Adriano Olivetti, questo elegante signore dall’impercettibile accento livornese che vive metà dell’anno all’estero tra Cina e Giappone. «L’innovazione non si impara a scuola, dai libri, si impara in un ambiente che ti incoraggia a esserlo», afferma Dario tra i corridoi della palazzina dove sfilano giovani ricercatori tra cui moltissime donne. L’istituto è nato nel 2011 da due laboratori esistenti da vent’anni nella sede sorta grazie anche a Enrico Rossi, allora sindaco di Pontedera, oggi governatore della Toscana. È uno dei sei istituti di ricerca della Scuola superiore di Pisa e nei tre anni di dottorato successivi alla laurea (e nei due post) si formano non solo ricercatori in ingegneria, ma si gettano anche le basi per vere e proprie imprese. Qui lavorano 160 giovani dottori di ricerca (li chiamano Phd che lui, alla livornese, chiama “super ganzi” ) attorno a progetti per lo più sostenuti da finanziamenti europei. «Sono 160 persone, io vorrei che fossero 16mila», continua il professor Dario, mentre seduto ad un tavolo mostra sul portatile slideshow e filmati che illustrano le attività dell’Istituto. «Con 160 ingegneri Phd magari si potrebbero creare lavori per altri 15mila ragazzi non così creativi», aggiunge. Uno di questi video lo ha mostrato a luglio anche al ministro della Ricerca Francesco Profumo, ingegnere pure lui. Il nodo oggi è proprio questo, come racconta a left: promuovere la ricerca d’eccellenza significa contribuire al progresso del Paese. «La Scuola superiore di Sant’Anna nasce istituzionalmente proprio per educare all’eccellenza, per formare persone che abbiano vocazione, dimestichezza verso l’applicazione, sia tecnica che sociale», spiega il professore, disegnando su un foglio cinque caselle, gli anni della laurea. «Ma i 5 anni dell’università servono essenzialmente per la formazione di base e professionale. Da qui escono i laureati, i potenziali esecutori nel senso di realizzatori di cose altrui, bravissimi ingegneri, ma non sempre sono produttori di nuove idee». «La produzione di idee nuove si raggiunge appieno o con l’esperienza in un ambiente creativo appunto, o, in un ambito universitario la si ottiene solo nel dottorato di ricerca ed è quello su cui noi abbiamo puntato», continua Dario, aggiungendo alle cinque caselle, altre tre e poi due ancora, quelle del post dottorato: «Ecco i nostri tre pilastri: educazione, ricerca e trasferimento tecnologico». Per inventare qualcosa di nuovo da immettere nel mercato è necessario avere nuove conoscenze, e per questo motivo è necessaria la ricerca dì base. «Quello di cui il Paese ha bisogno è questa parte. È qui che il Paese deve investire», sottolinea con forza Dario. «L’industria, l’Alcoa, le aziende manifatturiere in crisi, i poveri lavoratori del Sulcis, hanno pagato il fatto che nessuno veramente abbia alimentato questo sistema della ricerca. Il successo della Germania deriva dal fatto che ha investito non solo negli anni della laurea, ma qui» e indica con la matita le caselle del dottorato di ricerca e di post dottorato. Intanto, una grande opportunità potrebbe arrivare dall’approvazione in Commissione europea del grande progetto di cui è coordinatore l’ingegnere toscano. Si chiama The robot companions for citizen (RoboCom), il frutto di una sinergia di un consorzio di undici partner di Paesi europei. A guida italiana, coordinato dall’lit (Istituto italiano di tecnologia) in stretta collaborazione con il Sant’Anna, il progetto prevede il finanziamento complessivo di un miliardo in dieci anni: in caso di approvazione, coinvolgerà un migliaio di persone tra ricercatori e lavoratori dell’indotto. RoboCom si basa su una multidisciplinarietà dei saperi (dalla medicina alla chimica, dall’ingegneria all’informatica) e rivoluziona la robotica sinora concepita. Le macchine, a differenza di quelle di prima generazione, sono ideate a partire dagli esseri viventi, dalla loro anatomia e dai loro movimenti, con una ricerca approfondita su nuovi materiali e su risorse energetiche da utilizzare nel miglior modo possibile. «Da una nuova scienza a una nuova tecnologia» si legge nel Manifesto The robot companions for citizens, che prevede anche l’attenzione peri risvolti psicologici, etici, sociali e legali dell’impatto dei robot nella società, visto che i loro compiti interagiscono fortemente sia con l’essere umano che con l’ambiente. Ma a quali robot si sta lavorando a Pontedera? Per la medicina, prima di tutto. Come possiamo toccare con mano nel laboratorio di diagnosi e chirurgia endoscopica. La ricercatrice Selene Tognarelli mostra le “pillole” da inghiottire con tanto di motore interno e telecamera per poter effettuare la gastroscopia. Hanno anche delle eliche, che consentono alle “navicelle” di muoversi nello stomaco riempito d’acqua. Sono allo studio anche quelle, più complesse, che viaggiano dentro il lungo tubo dell’intestino e che per muoversi tra le pareti e la flora intestinale hanno delle zampette simili a quelle dei parassiti. La fantascienza del celebre film con Raquel Welch, Viaggio allucinante, con gli scienziati dentro un sommergibile miniaturizzato che si introduce nel corpo umano oggi è quasi una realtà. Ma la nuova “filosofia” robotica emerge anche nel progetto Octopus coordinato dalla professoressa Cecilia Laschi che si basa sul polpo e i suoi movimenti. In particolare si sta studiando un robot-strumento chirurgico che è flessibile e rigido al tempo stesso, può entrare dentro In cantiere un progetto con undici partner europei e un finanziamento di un miliardo di euro il corpo umano dall’ombelico, per esempio, come fosse un tentacolo e poi trasformarsi in una micro sala chirurgica da gestire attraverso comandi esterni. Esiste anche la robotica riabilitativa per l’infanzia, come si vede nel laboratorio Care Toy di cui è project manager Francesca Cecchi: robottini-giocattolo per neonati da 3 mesi a un anno che servono al pediatra per diagnosticare problemi medici e per la successiva riabilitazione del piccolo anche “in remoto”, da casa. E poi robot per
gli anziani, che ricordano loro le terapie e le medicine da prendere o DustCart, il robot “spazzino” per la raccolta differenziata in piccoli centri. Chiamato dalle famiglie, viene direttamente a casa, e poi riparte con i rifiuti da rovesciare nei cassonetti. «Qui se mai ci sono problemi di carattere legale e assicurativo da affrontare, oltre alla prevenzione di eventuali atti vandalici», sostiene Pericle Salvini, un ricercatore laureato in materie umanistiche che è responsabile di tutti quei problemi etici e legali connessi ai robot e project manager del progetto RoboLaw. Dall’Istituto di Pontedera esce gente preparatissima, «tutti trovano un lavoro», dice con orgoglio il professor Dario che racconta come i ricercatori italiani siano «bravissimi rispetto per esempio ai colleghi orientali, perché hanno un pensiero trasversale capace sempre di trovare soluzioni». Non bastano però le isole felici, è chiaro che l’Italia dovrà scegliere quale strada intraprendere. «Io credo che sia possibile creare posti di lavoro in industria di alta ma anche di medio e bassa tecnologia con tecniche innovative. La robotica è un saper fare che riflette la forza dell’industria manifatturiera italiana e sarà una delle tecnologie di maggior potenzialità nei prossimi anni», conclude il professor Dario. «E comunque sia, non ci sono alternative. A meno che non vogliamo rifugiarci nella terra o puntare sul turismo e fare i servi dei ricchi turisti russi, senza cartacce al Colosseo e con ì treni efficienti, però. Oppure potremmo scommettere su tutti quei giovani pronti a fiorire, se molti signori dell’industria e della politica capissero davvero che patrimonio hanno a disposizione».

da Left 08.10.12

"La ricerca crea sviluppo", di Donatella Coccoli

Chirurgia endoscopica, assistenza agli anziani, riabilitazione pediatrica. L’Istituto di BioRobotica del Sant’Anna produce robot ai servizio del cittadino. «Una tecnologia che, se potenziata, può creare nuovi posti di lavoro», afferma il direttore, l’ingegnere Paolo Dario. Un robot salverà l’economia? La produzione di automobili lascerà il posto a quella di oggetti dalle tecnologie raffinate e dai materiali leggeri? A due passi dai binari della stazione di Pontedera, c’è l’Istituto di BioRobotica della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Il luogo è di per sé significativo: una sorta di “campus anglosassone” all’interno di un edificio ristrutturato che un tempo faceva parte della cittadella Piaggio. La fabbrica della più grande azienda europea di scooter, colpita come tante dalla crisi, è là davanti, con il suo ingresso austero. Pochi metri di strada dividono i due edifici, ma la distanza è ben altra. Di là, la produzione industriale di beni di consumo ormai in picchiata, di qua la produzione di idee che si materializzano in macchine utili per il futuro della società, dell’ambiente e della medicina. Dai robot per l’assistenza agli anziani a quelli per esplorare i fondali marini, dalle minicapsule per la diagnosi medica a strumenti di naicrochirurgia interna: invenzioni che potrebbero diventare i prodotti delle fabbriche del domani. «Il Paese va ricostruito. E ha bisogno di innovatori, di persone incoraggiate a essere creative, a sognare e a saper realizzare», afferma sicuro il professor Paolo Dario, ingegnere biomedico, che dell’Istituto è stato il fondatore e che lo dirige parlandone con affetto, come fosse un figlio. In tempi in cui la parola innovazione viene sbandierata come una formula magica, siamo andati a verificare la realtà di un luogo che potrebbe, forse, dare delle idee a chi si occupa di politiche industriali. «Io sono convinto della bellezza dell’ingegneria se non è pura esecuzione, ma è creazione, invenzione, impresa, iniziativa. L’ingegnere è quello che sogna e fa», dice, citando gli esempi di Steve Jobs e Adriano Olivetti, questo elegante signore dall’impercettibile accento livornese che vive metà dell’anno all’estero tra Cina e Giappone. «L’innovazione non si impara a scuola, dai libri, si impara in un ambiente che ti incoraggia a esserlo», afferma Dario tra i corridoi della palazzina dove sfilano giovani ricercatori tra cui moltissime donne. L’istituto è nato nel 2011 da due laboratori esistenti da vent’anni nella sede sorta grazie anche a Enrico Rossi, allora sindaco di Pontedera, oggi governatore della Toscana. È uno dei sei istituti di ricerca della Scuola superiore di Pisa e nei tre anni di dottorato successivi alla laurea (e nei due post) si formano non solo ricercatori in ingegneria, ma si gettano anche le basi per vere e proprie imprese. Qui lavorano 160 giovani dottori di ricerca (li chiamano Phd che lui, alla livornese, chiama “super ganzi” ) attorno a progetti per lo più sostenuti da finanziamenti europei. «Sono 160 persone, io vorrei che fossero 16mila», continua il professor Dario, mentre seduto ad un tavolo mostra sul portatile slideshow e filmati che illustrano le attività dell’Istituto. «Con 160 ingegneri Phd magari si potrebbero creare lavori per altri 15mila ragazzi non così creativi», aggiunge. Uno di questi video lo ha mostrato a luglio anche al ministro della Ricerca Francesco Profumo, ingegnere pure lui. Il nodo oggi è proprio questo, come racconta a left: promuovere la ricerca d’eccellenza significa contribuire al progresso del Paese. «La Scuola superiore di Sant’Anna nasce istituzionalmente proprio per educare all’eccellenza, per formare persone che abbiano vocazione, dimestichezza verso l’applicazione, sia tecnica che sociale», spiega il professore, disegnando su un foglio cinque caselle, gli anni della laurea. «Ma i 5 anni dell’università servono essenzialmente per la formazione di base e professionale. Da qui escono i laureati, i potenziali esecutori nel senso di realizzatori di cose altrui, bravissimi ingegneri, ma non sempre sono produttori di nuove idee». «La produzione di idee nuove si raggiunge appieno o con l’esperienza in un ambiente creativo appunto, o, in un ambito universitario la si ottiene solo nel dottorato di ricerca ed è quello su cui noi abbiamo puntato», continua Dario, aggiungendo alle cinque caselle, altre tre e poi due ancora, quelle del post dottorato: «Ecco i nostri tre pilastri: educazione, ricerca e trasferimento tecnologico». Per inventare qualcosa di nuovo da immettere nel mercato è necessario avere nuove conoscenze, e per questo motivo è necessaria la ricerca dì base. «Quello di cui il Paese ha bisogno è questa parte. È qui che il Paese deve investire», sottolinea con forza Dario. «L’industria, l’Alcoa, le aziende manifatturiere in crisi, i poveri lavoratori del Sulcis, hanno pagato il fatto che nessuno veramente abbia alimentato questo sistema della ricerca. Il successo della Germania deriva dal fatto che ha investito non solo negli anni della laurea, ma qui» e indica con la matita le caselle del dottorato di ricerca e di post dottorato. Intanto, una grande opportunità potrebbe arrivare dall’approvazione in Commissione europea del grande progetto di cui è coordinatore l’ingegnere toscano. Si chiama The robot companions for citizen (RoboCom), il frutto di una sinergia di un consorzio di undici partner di Paesi europei. A guida italiana, coordinato dall’lit (Istituto italiano di tecnologia) in stretta collaborazione con il Sant’Anna, il progetto prevede il finanziamento complessivo di un miliardo in dieci anni: in caso di approvazione, coinvolgerà un migliaio di persone tra ricercatori e lavoratori dell’indotto. RoboCom si basa su una multidisciplinarietà dei saperi (dalla medicina alla chimica, dall’ingegneria all’informatica) e rivoluziona la robotica sinora concepita. Le macchine, a differenza di quelle di prima generazione, sono ideate a partire dagli esseri viventi, dalla loro anatomia e dai loro movimenti, con una ricerca approfondita su nuovi materiali e su risorse energetiche da utilizzare nel miglior modo possibile. «Da una nuova scienza a una nuova tecnologia» si legge nel Manifesto The robot companions for citizens, che prevede anche l’attenzione peri risvolti psicologici, etici, sociali e legali dell’impatto dei robot nella società, visto che i loro compiti interagiscono fortemente sia con l’essere umano che con l’ambiente. Ma a quali robot si sta lavorando a Pontedera? Per la medicina, prima di tutto. Come possiamo toccare con mano nel laboratorio di diagnosi e chirurgia endoscopica. La ricercatrice Selene Tognarelli mostra le “pillole” da inghiottire con tanto di motore interno e telecamera per poter effettuare la gastroscopia. Hanno anche delle eliche, che consentono alle “navicelle” di muoversi nello stomaco riempito d’acqua. Sono allo studio anche quelle, più complesse, che viaggiano dentro il lungo tubo dell’intestino e che per muoversi tra le pareti e la flora intestinale hanno delle zampette simili a quelle dei parassiti. La fantascienza del celebre film con Raquel Welch, Viaggio allucinante, con gli scienziati dentro un sommergibile miniaturizzato che si introduce nel corpo umano oggi è quasi una realtà. Ma la nuova “filosofia” robotica emerge anche nel progetto Octopus coordinato dalla professoressa Cecilia Laschi che si basa sul polpo e i suoi movimenti. In particolare si sta studiando un robot-strumento chirurgico che è flessibile e rigido al tempo stesso, può entrare dentro In cantiere un progetto con undici partner europei e un finanziamento di un miliardo di euro il corpo umano dall’ombelico, per esempio, come fosse un tentacolo e poi trasformarsi in una micro sala chirurgica da gestire attraverso comandi esterni. Esiste anche la robotica riabilitativa per l’infanzia, come si vede nel laboratorio Care Toy di cui è project manager Francesca Cecchi: robottini-giocattolo per neonati da 3 mesi a un anno che servono al pediatra per diagnosticare problemi medici e per la successiva riabilitazione del piccolo anche “in remoto”, da casa. E poi robot per
gli anziani, che ricordano loro le terapie e le medicine da prendere o DustCart, il robot “spazzino” per la raccolta differenziata in piccoli centri. Chiamato dalle famiglie, viene direttamente a casa, e poi riparte con i rifiuti da rovesciare nei cassonetti. «Qui se mai ci sono problemi di carattere legale e assicurativo da affrontare, oltre alla prevenzione di eventuali atti vandalici», sostiene Pericle Salvini, un ricercatore laureato in materie umanistiche che è responsabile di tutti quei problemi etici e legali connessi ai robot e project manager del progetto RoboLaw. Dall’Istituto di Pontedera esce gente preparatissima, «tutti trovano un lavoro», dice con orgoglio il professor Dario che racconta come i ricercatori italiani siano «bravissimi rispetto per esempio ai colleghi orientali, perché hanno un pensiero trasversale capace sempre di trovare soluzioni». Non bastano però le isole felici, è chiaro che l’Italia dovrà scegliere quale strada intraprendere. «Io credo che sia possibile creare posti di lavoro in industria di alta ma anche di medio e bassa tecnologia con tecniche innovative. La robotica è un saper fare che riflette la forza dell’industria manifatturiera italiana e sarà una delle tecnologie di maggior potenzialità nei prossimi anni», conclude il professor Dario. «E comunque sia, non ci sono alternative. A meno che non vogliamo rifugiarci nella terra o puntare sul turismo e fare i servi dei ricchi turisti russi, senza cartacce al Colosseo e con ì treni efficienti, però. Oppure potremmo scommettere su tutti quei giovani pronti a fiorire, se molti signori dell’industria e della politica capissero davvero che patrimonio hanno a disposizione».
da Left 08.10.12

"Anna Politkovskaja e gli altri trecento. Quanto costa la libertà in Russia" di Ludmila Ulitskaya

Prima di Eltsin in Russia — in Unione Sovietica — non c’erano mai stati omicidi politici di giornalisti. Perché non c’era libertà di parola. Paradossalmente, gli omicidi di giornalisti sono cominciati nell’era eltsiniana, che — comunque si consideri questo semi-riformatore — ha dato alla Russia la libertà di parola. Una libertà enorme, che il Paese non aveva mai conosciuto. La censura in Russia è stata abolita. Ed è difficile dire quando fosse nata. In ogni caso, il primo testo antico-russo che comprende un indice dei libri proibiti fu scritto nel 1079. Quasi mille anni fa. La censura nel nostro Paese è quasi più antica dello Stato stesso. E tutt’a un tratto, dopo dieci secoli di controlli e divieti, dopo la censura religiosa e laica, imperiale e burocratica, dopo la crudele censura sovietica, ecco che nel 1991 la libertà di stampa è piovuta quasi dal cielo. Bisogna riconoscere che nell’ambito della creazione letteraria la fine della censura non ha avuto conseguenze particolarmente evidenti. E si capisce: la libertà interiore dello scrittore non dipende dall’autorizzazione dei potenti. In compenso nel giornalismo, nel campo dell’informazione di massa ci fu una rivoluzione. I giornali e le riviste divennero talmente interessanti che in quei primi anni Novanta la gente quasi smise di leggere libri.
La parola lasciata in libertà divenne un’arma a doppio taglio: le indagini giornalistiche rivelavano casi di corruzione, minacciavano i leader politici, scoprivano piccoli e grandi «bubboni» del nuovo potere che si andava affermando. Quanto più alto era il livello professionale raggiunto dai giovani giornalisti, tanto più rischiosa diventava la loro posizione. L’epoca degli assassinii politici di giornalisti ebbe inizio già nel 1993, e oggi la Russia è al terzo posto nel mondo per numero di giornalisti uccisi, dopo l’Iraq e l’Algeria.
La carriera giornalistica di Anna Politkovskaja cominciò proprio negli anni in cui si definiva la nuova contrapposizione fra i giornalisti e un potere che non aveva imparato a dialogare civilmente con i suoi oppositori. Anna Politkovskaja reagiva con passione e perfino con furia quando si scontrava con la corruzione, la menzogna e i crimini dei potenti. Fu la prima giornalista a dare un ritratto politico di Putin: un ritratto non certo lusinghiero. La pubblicazione in Gran Bretagna e successivamente in altri Paesi del suo libro La Russia di Putin segnò una nuova fase dei suoi rapporti con il potere.
Anna difendeva con coerenza le sue posizioni, e le sue qualità umane erano il senso di giustizia e la disponibilità ad andare fino al limite, fino alla porta chiusa, fino al muro di cemento. Non era una persona malleabile, ed era impossibile mettersi d’accordo con lei: non accettava alcun compromesso. Il suo era una sorta di massimalismo giovanile, unito a un alto senso della propria dignità. Proprio su questo terreno si era sviluppata la sua attività in difesa dei diritti civili. Ogni volta che si scontrava con l’ingiustizia e la crudeltà, si sentiva offesa personalmente e si gettava nella lotta. Sempre impari.
Anna Politkovskaja è stata assassinata il 7 ottobre 2006, sei anni fa. È passato quasi un anno, prima che fossero arrestati dei ragazzi ceceni sospettati dell’omicidio, i fratelli Makhmudov e alcuni complici. Nell’autunno del 2008 è cominciato il processo. Nel febbraio 2009 i giurati hanno assolto gli imputati per insufficienza di prove, ma quattro mesi dopo la Corte suprema ha annullato la sentenza, riaprendo il caso. Nella primavera del 2011 è stato arrestato il presunto assassino, Rustam Makhmudov. Nell’agosto del 2011 è stato arrestato l’ex tenente colonnello della polizia Dmitrij Pavljuchenkov, che era già stato testimone al processo. In ottobre sono state notificate accuse ai presunti organizzatori dell’omicidio di Anna Politkovskaja, il boss criminale ceceno Lom-Ali Gajtukaev e l’ex agente dell’UBOP (Direzione lotta alla criminalità organizzata) di Mosca, Sergej Khadzhikurbanov. Come sempre nel caso di indagini così lunghe, nasce il sospetto che l’inchiesta sia «frenata» dall’alto. Nondimeno, qualcosa si sta chiarendo: si conosce il nome dell’assassino, si conosce la catena degli organizzatori. Pavljuchenkov si è riconosciuto colpevole di aver organizzato l’omicidio, ora promette di collaborare alle indagini. Ci sarà un nuovo processo. Ma non c’è più la giornalista Anna Politkovskaja, che avrebbe saputo denunciare con sdegno chi conduce questo processo annoso, lento e sospetto, e avrebbe fatto il nome del principale mandante di questo omicidio. Ma Anna non c’è, e senza di lei è impossibile sbrogliare la matassa…
Per ora non è stato individuato un mandante. Ma ci sono tante versioni.
1. Le tracce dei mandanti vanno cercate in Occidente. I mandanti si nascondono all’interno dei servizi segreti americani, e l’omicidio è stato compiuto per gettare ombra sulla figura di Putin.
2. Una pista porta all’oligarca in disgrazia Boris Berezovskij, che vuole seminare la discordia fra Putin e il popolo.
3. È possibile che a Berezovskij si sia unito Ahmet Zakaev, nel tentativo di guastare i rapporti fra Putin e il leader ceceno Ramzan Kadyrov.
4. Il responsabile è lo stesso Ramzan Kadyrov, più volte denunciato negli scritti di Anna Politkovskaja.
5. Secondo un’altra versione, mandanti dell’omicidio furono i dirigenti dell’operazione per la liberazione degli ostaggi al teatro Dubrovka, accusati da Anna Politkovskaja per l’uso del gas nervino che portò alla morte di oltre centoventi persone.
Può bastare?
Non mancano neppure le supposizioni piccanti e i dettagli sensazionali:
1. Agli esecutori furono pagati 2 milioni di dollari. Vero è che nessuno li ha visti.
2. Sulla pistola con cui fu uccisa Anna sono state scoperte tracce del Dna di una donna. Da ulteriori indagini è però emerso che si trattava delle tracce di uno starnuto.
3. Si suppone che l’omicidio di Anna Politkovskaja fosse stato fissato per il 7 ottobre — come regalo di compleanno per Vladimir Putin.
Voci insistenti affermano che il caso sia oggi a una svolta. Temo si tratti di un’illusione. Queste indagini interminabili dimostrano in modo eloquente che la libertà di parola è morta e sepolta, che stiamo tornando a quei tempi tristi in cui la parola libera poteva esistere solo nella clandestinità, nel sottosuolo. E il sottosuolo oggi ha cambiato indirizzo: si chiama Internet.
Sono passati sei anni dal giorno della morte di Anna Politkovskaja: a lei vengono intitolate vie e piazze in molti Paesi — ma non nel suo. Anna ha speso la sua vita per difendere la libertà di parola e la giustizia. Sulla tomba della parola libera si potrà innalzare un monumento con i nomi di quanti per essa hanno pagato con la vita. In Russia dall’inizio degli anni Novanta sono stati uccisi più di trecento giornalisti. Un caro prezzo. Cari giornalisti. In questo elenco Anna Politkovskaja è una delle figure più coraggiose e di maggior talento.
(Traduzione di Emanuela Guercetti)

Il COrriere della Sera 08.10.12

"Anna Politkovskaja e gli altri trecento. Quanto costa la libertà in Russia" di Ludmila Ulitskaya

Prima di Eltsin in Russia — in Unione Sovietica — non c’erano mai stati omicidi politici di giornalisti. Perché non c’era libertà di parola. Paradossalmente, gli omicidi di giornalisti sono cominciati nell’era eltsiniana, che — comunque si consideri questo semi-riformatore — ha dato alla Russia la libertà di parola. Una libertà enorme, che il Paese non aveva mai conosciuto. La censura in Russia è stata abolita. Ed è difficile dire quando fosse nata. In ogni caso, il primo testo antico-russo che comprende un indice dei libri proibiti fu scritto nel 1079. Quasi mille anni fa. La censura nel nostro Paese è quasi più antica dello Stato stesso. E tutt’a un tratto, dopo dieci secoli di controlli e divieti, dopo la censura religiosa e laica, imperiale e burocratica, dopo la crudele censura sovietica, ecco che nel 1991 la libertà di stampa è piovuta quasi dal cielo. Bisogna riconoscere che nell’ambito della creazione letteraria la fine della censura non ha avuto conseguenze particolarmente evidenti. E si capisce: la libertà interiore dello scrittore non dipende dall’autorizzazione dei potenti. In compenso nel giornalismo, nel campo dell’informazione di massa ci fu una rivoluzione. I giornali e le riviste divennero talmente interessanti che in quei primi anni Novanta la gente quasi smise di leggere libri.
La parola lasciata in libertà divenne un’arma a doppio taglio: le indagini giornalistiche rivelavano casi di corruzione, minacciavano i leader politici, scoprivano piccoli e grandi «bubboni» del nuovo potere che si andava affermando. Quanto più alto era il livello professionale raggiunto dai giovani giornalisti, tanto più rischiosa diventava la loro posizione. L’epoca degli assassinii politici di giornalisti ebbe inizio già nel 1993, e oggi la Russia è al terzo posto nel mondo per numero di giornalisti uccisi, dopo l’Iraq e l’Algeria.
La carriera giornalistica di Anna Politkovskaja cominciò proprio negli anni in cui si definiva la nuova contrapposizione fra i giornalisti e un potere che non aveva imparato a dialogare civilmente con i suoi oppositori. Anna Politkovskaja reagiva con passione e perfino con furia quando si scontrava con la corruzione, la menzogna e i crimini dei potenti. Fu la prima giornalista a dare un ritratto politico di Putin: un ritratto non certo lusinghiero. La pubblicazione in Gran Bretagna e successivamente in altri Paesi del suo libro La Russia di Putin segnò una nuova fase dei suoi rapporti con il potere.
Anna difendeva con coerenza le sue posizioni, e le sue qualità umane erano il senso di giustizia e la disponibilità ad andare fino al limite, fino alla porta chiusa, fino al muro di cemento. Non era una persona malleabile, ed era impossibile mettersi d’accordo con lei: non accettava alcun compromesso. Il suo era una sorta di massimalismo giovanile, unito a un alto senso della propria dignità. Proprio su questo terreno si era sviluppata la sua attività in difesa dei diritti civili. Ogni volta che si scontrava con l’ingiustizia e la crudeltà, si sentiva offesa personalmente e si gettava nella lotta. Sempre impari.
Anna Politkovskaja è stata assassinata il 7 ottobre 2006, sei anni fa. È passato quasi un anno, prima che fossero arrestati dei ragazzi ceceni sospettati dell’omicidio, i fratelli Makhmudov e alcuni complici. Nell’autunno del 2008 è cominciato il processo. Nel febbraio 2009 i giurati hanno assolto gli imputati per insufficienza di prove, ma quattro mesi dopo la Corte suprema ha annullato la sentenza, riaprendo il caso. Nella primavera del 2011 è stato arrestato il presunto assassino, Rustam Makhmudov. Nell’agosto del 2011 è stato arrestato l’ex tenente colonnello della polizia Dmitrij Pavljuchenkov, che era già stato testimone al processo. In ottobre sono state notificate accuse ai presunti organizzatori dell’omicidio di Anna Politkovskaja, il boss criminale ceceno Lom-Ali Gajtukaev e l’ex agente dell’UBOP (Direzione lotta alla criminalità organizzata) di Mosca, Sergej Khadzhikurbanov. Come sempre nel caso di indagini così lunghe, nasce il sospetto che l’inchiesta sia «frenata» dall’alto. Nondimeno, qualcosa si sta chiarendo: si conosce il nome dell’assassino, si conosce la catena degli organizzatori. Pavljuchenkov si è riconosciuto colpevole di aver organizzato l’omicidio, ora promette di collaborare alle indagini. Ci sarà un nuovo processo. Ma non c’è più la giornalista Anna Politkovskaja, che avrebbe saputo denunciare con sdegno chi conduce questo processo annoso, lento e sospetto, e avrebbe fatto il nome del principale mandante di questo omicidio. Ma Anna non c’è, e senza di lei è impossibile sbrogliare la matassa…
Per ora non è stato individuato un mandante. Ma ci sono tante versioni.
1. Le tracce dei mandanti vanno cercate in Occidente. I mandanti si nascondono all’interno dei servizi segreti americani, e l’omicidio è stato compiuto per gettare ombra sulla figura di Putin.
2. Una pista porta all’oligarca in disgrazia Boris Berezovskij, che vuole seminare la discordia fra Putin e il popolo.
3. È possibile che a Berezovskij si sia unito Ahmet Zakaev, nel tentativo di guastare i rapporti fra Putin e il leader ceceno Ramzan Kadyrov.
4. Il responsabile è lo stesso Ramzan Kadyrov, più volte denunciato negli scritti di Anna Politkovskaja.
5. Secondo un’altra versione, mandanti dell’omicidio furono i dirigenti dell’operazione per la liberazione degli ostaggi al teatro Dubrovka, accusati da Anna Politkovskaja per l’uso del gas nervino che portò alla morte di oltre centoventi persone.
Può bastare?
Non mancano neppure le supposizioni piccanti e i dettagli sensazionali:
1. Agli esecutori furono pagati 2 milioni di dollari. Vero è che nessuno li ha visti.
2. Sulla pistola con cui fu uccisa Anna sono state scoperte tracce del Dna di una donna. Da ulteriori indagini è però emerso che si trattava delle tracce di uno starnuto.
3. Si suppone che l’omicidio di Anna Politkovskaja fosse stato fissato per il 7 ottobre — come regalo di compleanno per Vladimir Putin.
Voci insistenti affermano che il caso sia oggi a una svolta. Temo si tratti di un’illusione. Queste indagini interminabili dimostrano in modo eloquente che la libertà di parola è morta e sepolta, che stiamo tornando a quei tempi tristi in cui la parola libera poteva esistere solo nella clandestinità, nel sottosuolo. E il sottosuolo oggi ha cambiato indirizzo: si chiama Internet.
Sono passati sei anni dal giorno della morte di Anna Politkovskaja: a lei vengono intitolate vie e piazze in molti Paesi — ma non nel suo. Anna ha speso la sua vita per difendere la libertà di parola e la giustizia. Sulla tomba della parola libera si potrà innalzare un monumento con i nomi di quanti per essa hanno pagato con la vita. In Russia dall’inizio degli anni Novanta sono stati uccisi più di trecento giornalisti. Un caro prezzo. Cari giornalisti. In questo elenco Anna Politkovskaja è una delle figure più coraggiose e di maggior talento.
(Traduzione di Emanuela Guercetti)
Il COrriere della Sera 08.10.12

"Sarebbe esempio di buona politica" di Carlo Sini

La crisi è strutturale: così sento ripetere da amici economisti, da operatori finanziari e da alti dirigenti bancari angosciati per il problema attuale del credito, insufficiente a rilanciare l’economia e nondimeno bloccato dalla difficoltà, per non dire impossibilità, di previsioni attendibili sugli andamenti della finanza e del mercato. Benissimo, anzi malissimo, ma se la crisi è strutturale (e le parole hanno un senso), non ne usciremo restando confinati entro le logiche tradizionali.
Né dentro le metodologie delle vecchie indagini statistiche, i sacri criteri valutativi e previsionali degli uffici studi accreditati dall’uso, dall’inerzia e magari da qualche inconfessato interesse.
Bisogna sforzarsi di guardare i nostri problemi da una nuova prospettiva, con uno sguardo «da fuori», se così si può dire e per quel che è possibile. L’attuale campagna in favore della introduzione della Tobin Tax sembra un’occasione quanto mai propizia per farlo, anche per le sue ricadute politiche e più in generale morali. Tassare la mera speculazione finanziaria può infatti suggerire, tra le molte considerazioni che in questi giorni si moltiplicano, due argomenti molto generali ma a mio avviso importanti.
Il primo argomento fa appello a una massima fondamentale che il grande filosofo Immanuel Kant espresse così: agisci in modo di trattare l’umanità nella tua come nell’altrui persona sempre come fine e mai soltanto come mezzo. La massima ricorda che gli esseri umani e le loro comunità sono la ragion d’essere di tutti gli strumenti teorici e pratici che nel corso della storia la società e la cultura sono venute elaborando. Questa massima consente allora uno sguardo effettivamente «esterno» rispetto a tutte le contingenze temporali della vita umana sulla terra, uno sguardo generale di persistente validità. E poiché l’invenzione del denaro è certo una delle più importanti e benefiche provvidenze dell’ingegno umano, ne vediamo subito, nel contempo, la liceità dell’uso, che non può mai essere meramente strumentale e auto-referenziale. Detto in modo semplice: unità di misura del valore e strumento fondamentale per favorire il mercato delle merci, il denaro non può venir ridotto esso stesso a mera merce senza contraddire la sua vocazione profonda e il suo fine essenziale. Dimenticarlo significa favorire il pervertimento, oggi ben noto, di una delle più importanti conquiste dello spirito mano. Seconda considerazione. Frenare un’azione diffusa e radicata con provvedimenti drastici di pura negazione non è mai consigliabile. Proprio nel campo della finanza abbiamo molti esempi negativi: l’inutilità dei calmieri imposti per legge ai prezzi delle merci o l’insuccesso pratico delle condanne morali di ciò che il medio evo intendeva come usura mostrano due aspetti che la saggia politica deve tener presenti.

Il primo insegna che i comportamenti contrari ai fini ultimi della comunità umana sono purtroppo anche radicati in aspetti dell’umana natura che non si possono eliminare per legge e neppure con la forza: bisogna piuttosto venire a patti con queste contraddizioni dell’umana condizione, badando più a favorire i comportamenti costruttivi, che non cadere nella illusione di distruggerle.

Il secondo aspetto insegna che la grande complessità dei fenomeni sociali fa sì che anche i comportamenti più negativi possano essere portatori di qualche conseguenza favorevole, così come le buone intenzioni repressive possono tradursi in effetti indesiderabili e distruttivi.

In conclusione: rendere più difficile un comportamento socialmente nocivo, penalizzarlo con una tassa, ricavando dal male un bene per tutti, sono propositi che è compito primo della politica perseguire e imporre. In questo senso la Tobin Tax è sicuramente un importante esempio di buona politica, qualcosa che va difeso contro chi lo neghi, per ignoranza, errore o interesse. Magari potessimo immaginare tasse per chi diffonde informazioni tendenziose e perversioni del linguaggio, o per chi si arricchisce sfruttando la limitazione di giudizio e la scarsezza di competenze che sono in molti e in ognuno. Ma qui la faccenda, invero interessante, sarebbe troppo complessa e discutibile. Limitiamoci alla tassa sulle transazioni finanziarie: sarà già un grandissimo successo.

L’Unità 08.10.12

"Sarebbe esempio di buona politica" di Carlo Sini

La crisi è strutturale: così sento ripetere da amici economisti, da operatori finanziari e da alti dirigenti bancari angosciati per il problema attuale del credito, insufficiente a rilanciare l’economia e nondimeno bloccato dalla difficoltà, per non dire impossibilità, di previsioni attendibili sugli andamenti della finanza e del mercato. Benissimo, anzi malissimo, ma se la crisi è strutturale (e le parole hanno un senso), non ne usciremo restando confinati entro le logiche tradizionali.
Né dentro le metodologie delle vecchie indagini statistiche, i sacri criteri valutativi e previsionali degli uffici studi accreditati dall’uso, dall’inerzia e magari da qualche inconfessato interesse.
Bisogna sforzarsi di guardare i nostri problemi da una nuova prospettiva, con uno sguardo «da fuori», se così si può dire e per quel che è possibile. L’attuale campagna in favore della introduzione della Tobin Tax sembra un’occasione quanto mai propizia per farlo, anche per le sue ricadute politiche e più in generale morali. Tassare la mera speculazione finanziaria può infatti suggerire, tra le molte considerazioni che in questi giorni si moltiplicano, due argomenti molto generali ma a mio avviso importanti.
Il primo argomento fa appello a una massima fondamentale che il grande filosofo Immanuel Kant espresse così: agisci in modo di trattare l’umanità nella tua come nell’altrui persona sempre come fine e mai soltanto come mezzo. La massima ricorda che gli esseri umani e le loro comunità sono la ragion d’essere di tutti gli strumenti teorici e pratici che nel corso della storia la società e la cultura sono venute elaborando. Questa massima consente allora uno sguardo effettivamente «esterno» rispetto a tutte le contingenze temporali della vita umana sulla terra, uno sguardo generale di persistente validità. E poiché l’invenzione del denaro è certo una delle più importanti e benefiche provvidenze dell’ingegno umano, ne vediamo subito, nel contempo, la liceità dell’uso, che non può mai essere meramente strumentale e auto-referenziale. Detto in modo semplice: unità di misura del valore e strumento fondamentale per favorire il mercato delle merci, il denaro non può venir ridotto esso stesso a mera merce senza contraddire la sua vocazione profonda e il suo fine essenziale. Dimenticarlo significa favorire il pervertimento, oggi ben noto, di una delle più importanti conquiste dello spirito mano. Seconda considerazione. Frenare un’azione diffusa e radicata con provvedimenti drastici di pura negazione non è mai consigliabile. Proprio nel campo della finanza abbiamo molti esempi negativi: l’inutilità dei calmieri imposti per legge ai prezzi delle merci o l’insuccesso pratico delle condanne morali di ciò che il medio evo intendeva come usura mostrano due aspetti che la saggia politica deve tener presenti.
Il primo insegna che i comportamenti contrari ai fini ultimi della comunità umana sono purtroppo anche radicati in aspetti dell’umana natura che non si possono eliminare per legge e neppure con la forza: bisogna piuttosto venire a patti con queste contraddizioni dell’umana condizione, badando più a favorire i comportamenti costruttivi, che non cadere nella illusione di distruggerle.
Il secondo aspetto insegna che la grande complessità dei fenomeni sociali fa sì che anche i comportamenti più negativi possano essere portatori di qualche conseguenza favorevole, così come le buone intenzioni repressive possono tradursi in effetti indesiderabili e distruttivi.
In conclusione: rendere più difficile un comportamento socialmente nocivo, penalizzarlo con una tassa, ricavando dal male un bene per tutti, sono propositi che è compito primo della politica perseguire e imporre. In questo senso la Tobin Tax è sicuramente un importante esempio di buona politica, qualcosa che va difeso contro chi lo neghi, per ignoranza, errore o interesse. Magari potessimo immaginare tasse per chi diffonde informazioni tendenziose e perversioni del linguaggio, o per chi si arricchisce sfruttando la limitazione di giudizio e la scarsezza di competenze che sono in molti e in ognuno. Ma qui la faccenda, invero interessante, sarebbe troppo complessa e discutibile. Limitiamoci alla tassa sulle transazioni finanziarie: sarà già un grandissimo successo.
L’Unità 08.10.12