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"Taranto specchio d'Italia", di Gad Lerner

Smettessimo di guardarla da lontano come una città polveriera – nel senso del veleno e dell’esplosivo – Taranto ci apparirebbe per quel che è: lo specchio, neanche troppo deformato, del degrado in cui sta precipitando l’Italia tutta. Puntuale degenera anche lo scontro istituzionale fra magistratura e governo tecnico, con la Procura che detta tempi ultimativi per lo spegnimento degli altiforni e il ministro Clini che accelera il varo di un’autorizzazione somigliante a una deroga mascherata.
È proprio quel che speravano i padroni del Nord arricchitisi oltre misura, la famiglia Riva, che non appena la giustizia li ha perseguiti e ha sequestrato loro gli impianti, si sono messi a cavalcare la rivolta operaia. Mai vista prima dell’Ilva una borghesia industriale cimentarsi così sfacciatamente nel paternalismo protestatario. Rifornendo le maestranze impegnate nei blocchi stradali con i viveri dalla mensa aziendale. Chiamando allo sciopero i lavoratori senza tessera sindacale attraverso i capireparto. Facendo pervenire all’esterno i comunicati dei dipendenti asserragliati a 60 metri d’altezza sul nastro di carico dell’Altoforno 5, indovinate da chi? Direttamente dall’ingegnere responsabile della struttura, trasformatosi in portavoce zelante, per non dire in regista dell’azione disperata. Perché l’Altoforno 5 è al tempo stesso il cuore produttivo dello stabilimento e la principale fonte d’inquinamento.
Detenuti agli arresti domiciliari, i Riva sanno di poter contare sull’imbarazzo della classe politica locale, già screditata dagli scandali e dal dissesto finanziario, adeguatasi all’idea che la produzione dell’acciaieria fosse per Taranto la priorità assoluta, e pazienza se ciò comportava di assumere per valide delle normative ambientali fasulle, peraltro cucite su misura da chi stava più in alto di loro, nei ministeri romani.
Come se non ci fossero di mezzo un’imputazione di disastro ambientale (e un’emergenza sanitaria che l’Ilva continua a negare), perfino i sindacati hanno sposato la linea della deroga a oltranza. Dopo l’adesione iniziale, nel mese d’agosto la Fiom si dissocerà. Ma ormai la comunità operaia è lacerata, anche perché emergono, sebbene minoritarie, le prime voci di dipendenti Ilva che sostengono il sequestro giudiziario della fabbrica, riunite nel Comitato Lavoratori e Cittadini Liberi e Pensanti.La disparità delle forze in campo è imbarazzante. Da una parte i proprietari del più grande stabilimento industriale italiano (11500 dipendenti più altre migliaia nell’indotto). Un’acciaieria dalle cui forniture dipende il 40% del comparto manifatturiero italiano; senza contare che fermarla significherebbe interrompere le lavorazioni pure negli altri stabilimenti Ilva di Genova e Novi Ligure (o almeno così sostiene la direzione aziendale).
Dall’altra parte ci sono le famiglie degli operai che non troveranno mai un’alternativa occupazionale, ma che già stanno pagando un prezzo altissimo sotto forma di patologie tumorali e malattie respiratorie, pericolose in special modo per i bambini. La città è stritolata da questa tenaglia, le cui leve sono impugnate da mani potenti e lontane.
Al quartiere Tamburi, epicentro popolare di questa Taranto che solo ora riconosce nel-l’Ilva una madre velenosa, l’indignazione è l’unica merce che si vende a buon mercato. Basta una folata di vento per sollevare la polvere di metallo cumulata a tonnellate nei limitrofi parchi minerali fino a invadere le case, le scuole, i nasi, gli occhi e le orecchie. Ma a chiudere le bocche sopraggiungono anche le dichiarazioni del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che equipara la chiusura dell’Ilva alla perdita di 8 punti di Pil: anche lui parla di “disastro” e invoca il “buonsenso”. Ma quale buonsenso? Non è forse il buonsenso alla base dell’operato della magistratura che, dopo anni di inutili sollecitazioni, preso atto della sordità delle istituzioni e delle inadempienze aziendali, procede nell’azione penale?
La sproporzione si misura nelle cifre dei bilanci: oltre quattro miliardi di utili hanno realizzato i Riva da quando, 15 anni fa, acquisirono la proprietà dell’ex Italsider. Da imprenditori capaci, hanno modernizzato gli impianti e migliorato le condizioni di lavoro, investendo nell’acciaieria, ricavandone utili straordinari. Evidentemente hanno speso per incrementare la produzione senza porsi il problema di una bonifica, come se la disastrosa situazione pregressa che avevano ereditato dall’Italsider li esentasse da questa responsabilità. Patetica è apparsa la sequenza delle cifre che, solo in seguito al sequestro, i Riva si sono dichiarati disposti a elargire: prima 90 milioni, poi 146, infine 400 “trattabili”. Gli esperti sostengono che tale somma non basterebbe neppure per la copertura dei parchi minerali da cui si sprigiona lo spolverio incivile su Tamburi.
Sicché viene il dubbio: può darsi un capitalismo al tempo stesso pulito e redditizio nel Mezzogiorno d’Italia, o invece la siderurgia deve per forza imporsi come colonizzazione?
Taranto specchio d’Italia rivela così gli effetti di una politica corrotta o sottomessa. A chi dovrebbero rivolgersi i cittadini spaventati che ora acclamano i magistrati e i pediatri, ma che domani potrebbero maledire con la stessa foga chi provocasse la chiusura del-l’Ilva?
I politici locali sono tutti sospettati di aver nascosto la verità per convenienze inconfessabili. C’è chi fischia i sindacalisti accusati di essersi venduti e chi ce l’ha con le donne ambientaliste portatrici di miseria. Un’apocalisse culturale in cui sguazza da sempre la malavita organizzata.
Taranto, Italia appunto. Perché il contraltare dell’indignazione non è altro che il cinismo, quando la situazione appare senza vie d’uscita. Un cinismo che si manifesta a voce bassa nell’attesa del solito, classico, italianissimo conflitto d’attribuzione sintetizzato dalle due parole chiave incombenti su Taranto: bonifica o autorizzazione? E’ presto detto: la magistratura impone la bonifica come priorità assoluta, incompatibile con il prosieguo dell’attività produttiva. Autorizzazione invece è la parola magica che l’Ilva, ma non solo l’Ilva, confida sia rilasciata entro la settimana dal ministero dell’Ambiente. Si chiama Aia (Autorizzazione Integrata Ambientale) il provvedimento che il ministro Clini intende varare d’intesa con la Regione Puglia, entrando in rotta di collisione con il decreto del gip Todisco. Ma pesa come un macigno l’esperienza dell’Aia precedente, varata dal ministro Prestigiacomo nell’agosto 2011 quando Clini era direttore generale dell’Ambiente (lui assicura di non averci avuto personalmente a che fare). Si trattò di un provvedimento elastico che consentì ai Riva di continuare a produrre inquinando, con forzature imposte da periti riconosciuti inesperti. Oggi a Taranto quell’Aiabeffa viene additata come il premio ottenuto dai Riva per aver sottoscritto 120 milioni nella cordata Alitalia voluta da Berlusconi (“sappiamo bene che non ci guadagneremo”, dichiarò allora il patriarca della dinastia).
Licenziato in fretta e furia il direttore delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà, celebre a Taranto per le buste di “beneficenza” con cui riscuoteva il consenso necessario (pochi spiccioli se comparati ai miliardi di profitti), la famiglia Riva si è affidata alle arti diplomatiche del prefetto Bruno Ferrante. Il nuovo presidente si è fatto fotografare al fianco degli operai che protestano. Ha negato di avere organizzato le forniture di vettovaglie ai blocchi stradali, incassando però una pubblica smentita corale dei diretti interessati.
Quella che fu la prima città industriale del Sud si avvicina al punto di rottura senza averne tratto neanche briciole di benessere.

La Repubblica 08.10.12

"Taranto specchio d'Italia", di Gad Lerner

Smettessimo di guardarla da lontano come una città polveriera – nel senso del veleno e dell’esplosivo – Taranto ci apparirebbe per quel che è: lo specchio, neanche troppo deformato, del degrado in cui sta precipitando l’Italia tutta. Puntuale degenera anche lo scontro istituzionale fra magistratura e governo tecnico, con la Procura che detta tempi ultimativi per lo spegnimento degli altiforni e il ministro Clini che accelera il varo di un’autorizzazione somigliante a una deroga mascherata.
È proprio quel che speravano i padroni del Nord arricchitisi oltre misura, la famiglia Riva, che non appena la giustizia li ha perseguiti e ha sequestrato loro gli impianti, si sono messi a cavalcare la rivolta operaia. Mai vista prima dell’Ilva una borghesia industriale cimentarsi così sfacciatamente nel paternalismo protestatario. Rifornendo le maestranze impegnate nei blocchi stradali con i viveri dalla mensa aziendale. Chiamando allo sciopero i lavoratori senza tessera sindacale attraverso i capireparto. Facendo pervenire all’esterno i comunicati dei dipendenti asserragliati a 60 metri d’altezza sul nastro di carico dell’Altoforno 5, indovinate da chi? Direttamente dall’ingegnere responsabile della struttura, trasformatosi in portavoce zelante, per non dire in regista dell’azione disperata. Perché l’Altoforno 5 è al tempo stesso il cuore produttivo dello stabilimento e la principale fonte d’inquinamento.
Detenuti agli arresti domiciliari, i Riva sanno di poter contare sull’imbarazzo della classe politica locale, già screditata dagli scandali e dal dissesto finanziario, adeguatasi all’idea che la produzione dell’acciaieria fosse per Taranto la priorità assoluta, e pazienza se ciò comportava di assumere per valide delle normative ambientali fasulle, peraltro cucite su misura da chi stava più in alto di loro, nei ministeri romani.
Come se non ci fossero di mezzo un’imputazione di disastro ambientale (e un’emergenza sanitaria che l’Ilva continua a negare), perfino i sindacati hanno sposato la linea della deroga a oltranza. Dopo l’adesione iniziale, nel mese d’agosto la Fiom si dissocerà. Ma ormai la comunità operaia è lacerata, anche perché emergono, sebbene minoritarie, le prime voci di dipendenti Ilva che sostengono il sequestro giudiziario della fabbrica, riunite nel Comitato Lavoratori e Cittadini Liberi e Pensanti.La disparità delle forze in campo è imbarazzante. Da una parte i proprietari del più grande stabilimento industriale italiano (11500 dipendenti più altre migliaia nell’indotto). Un’acciaieria dalle cui forniture dipende il 40% del comparto manifatturiero italiano; senza contare che fermarla significherebbe interrompere le lavorazioni pure negli altri stabilimenti Ilva di Genova e Novi Ligure (o almeno così sostiene la direzione aziendale).
Dall’altra parte ci sono le famiglie degli operai che non troveranno mai un’alternativa occupazionale, ma che già stanno pagando un prezzo altissimo sotto forma di patologie tumorali e malattie respiratorie, pericolose in special modo per i bambini. La città è stritolata da questa tenaglia, le cui leve sono impugnate da mani potenti e lontane.
Al quartiere Tamburi, epicentro popolare di questa Taranto che solo ora riconosce nel-l’Ilva una madre velenosa, l’indignazione è l’unica merce che si vende a buon mercato. Basta una folata di vento per sollevare la polvere di metallo cumulata a tonnellate nei limitrofi parchi minerali fino a invadere le case, le scuole, i nasi, gli occhi e le orecchie. Ma a chiudere le bocche sopraggiungono anche le dichiarazioni del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che equipara la chiusura dell’Ilva alla perdita di 8 punti di Pil: anche lui parla di “disastro” e invoca il “buonsenso”. Ma quale buonsenso? Non è forse il buonsenso alla base dell’operato della magistratura che, dopo anni di inutili sollecitazioni, preso atto della sordità delle istituzioni e delle inadempienze aziendali, procede nell’azione penale?
La sproporzione si misura nelle cifre dei bilanci: oltre quattro miliardi di utili hanno realizzato i Riva da quando, 15 anni fa, acquisirono la proprietà dell’ex Italsider. Da imprenditori capaci, hanno modernizzato gli impianti e migliorato le condizioni di lavoro, investendo nell’acciaieria, ricavandone utili straordinari. Evidentemente hanno speso per incrementare la produzione senza porsi il problema di una bonifica, come se la disastrosa situazione pregressa che avevano ereditato dall’Italsider li esentasse da questa responsabilità. Patetica è apparsa la sequenza delle cifre che, solo in seguito al sequestro, i Riva si sono dichiarati disposti a elargire: prima 90 milioni, poi 146, infine 400 “trattabili”. Gli esperti sostengono che tale somma non basterebbe neppure per la copertura dei parchi minerali da cui si sprigiona lo spolverio incivile su Tamburi.
Sicché viene il dubbio: può darsi un capitalismo al tempo stesso pulito e redditizio nel Mezzogiorno d’Italia, o invece la siderurgia deve per forza imporsi come colonizzazione?
Taranto specchio d’Italia rivela così gli effetti di una politica corrotta o sottomessa. A chi dovrebbero rivolgersi i cittadini spaventati che ora acclamano i magistrati e i pediatri, ma che domani potrebbero maledire con la stessa foga chi provocasse la chiusura del-l’Ilva?
I politici locali sono tutti sospettati di aver nascosto la verità per convenienze inconfessabili. C’è chi fischia i sindacalisti accusati di essersi venduti e chi ce l’ha con le donne ambientaliste portatrici di miseria. Un’apocalisse culturale in cui sguazza da sempre la malavita organizzata.
Taranto, Italia appunto. Perché il contraltare dell’indignazione non è altro che il cinismo, quando la situazione appare senza vie d’uscita. Un cinismo che si manifesta a voce bassa nell’attesa del solito, classico, italianissimo conflitto d’attribuzione sintetizzato dalle due parole chiave incombenti su Taranto: bonifica o autorizzazione? E’ presto detto: la magistratura impone la bonifica come priorità assoluta, incompatibile con il prosieguo dell’attività produttiva. Autorizzazione invece è la parola magica che l’Ilva, ma non solo l’Ilva, confida sia rilasciata entro la settimana dal ministero dell’Ambiente. Si chiama Aia (Autorizzazione Integrata Ambientale) il provvedimento che il ministro Clini intende varare d’intesa con la Regione Puglia, entrando in rotta di collisione con il decreto del gip Todisco. Ma pesa come un macigno l’esperienza dell’Aia precedente, varata dal ministro Prestigiacomo nell’agosto 2011 quando Clini era direttore generale dell’Ambiente (lui assicura di non averci avuto personalmente a che fare). Si trattò di un provvedimento elastico che consentì ai Riva di continuare a produrre inquinando, con forzature imposte da periti riconosciuti inesperti. Oggi a Taranto quell’Aiabeffa viene additata come il premio ottenuto dai Riva per aver sottoscritto 120 milioni nella cordata Alitalia voluta da Berlusconi (“sappiamo bene che non ci guadagneremo”, dichiarò allora il patriarca della dinastia).
Licenziato in fretta e furia il direttore delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà, celebre a Taranto per le buste di “beneficenza” con cui riscuoteva il consenso necessario (pochi spiccioli se comparati ai miliardi di profitti), la famiglia Riva si è affidata alle arti diplomatiche del prefetto Bruno Ferrante. Il nuovo presidente si è fatto fotografare al fianco degli operai che protestano. Ha negato di avere organizzato le forniture di vettovaglie ai blocchi stradali, incassando però una pubblica smentita corale dei diretti interessati.
Quella che fu la prima città industriale del Sud si avvicina al punto di rottura senza averne tratto neanche briciole di benessere.
La Repubblica 08.10.12

"Il ritorno delle scuole serali per allinearsi con l’Europa", di Alessia Campione

«Non è mai troppo tardi», secondo atto. Si chiamava così il programma tv che ha alfabetizzato l’Italia negli anni ‘60. Oggi il governo, per innalzare il livello dell’istruzione, rilancia le scuole serali. La nuova emergenza è il «deficit formativo» della popolazione. Sono oltre 28 milioni, infatti, gli adulti in possesso della sola licenza di terza media. E oltre l’80% non raggiunge il livello 3 fissato dall’Unione europea e necessario «per garantire il pieno inserimento nella società della conoscenza». Un ritardo che pesa parecchio in una economia sempre più globalizzata e che ha spinto il Miur (il ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca) a proporre un piano di formazione per adulti.
Il Consiglio dei ministri ha approvato il 4 ottobre, tra le misure urgenti per la crescita, e accanto all’agenda digitale, il regolamento per la riorganizzazione didattica dei Centri d’istruzione per gli adulti. Un provvedimento atteso da tempo: l’iter burocratico era iniziato nel 2009. Percorsi più flessibili, collegamento con la realtà lavorativa, iniziative di orientamento per gli studenti. Sono alcune delle novità pensate per questi nuovi corsi di studio che partiranno con il prossimo anno scolastico. L’obiettivo, se da un lato è di colmare il gap di istruzione, dall’altro è quello di fronteggiare anche i cambiamenti demografici di questi ultimi anni. L’Italia ha un indice di vecchiaia tra i più alti in Europa. Secondo l’Istat, la popolazione nazionale nel 2050 sarà composta per il 34,4% dagli over 65enni. All’inizio degli anni ’80 erano il 13,1%. Aumenta anche la presenza degli stranieri. I regolari sono il 7,5% della popolazione, secondo i dati della Caritas che stima che nel 2050 raggiungeranno il 20%. Ma c’è anche un’altra criticità: la mobilità sociale che nel nostro Paese è tra le più basse d’Europa. Solo il 5% di chi ha un genitore con la licenza media, secondo un dato Ocse, riuscirà poi a conquistare la laurea.
I percorsi di istruzione degli adulti saranno organizzati su base provinciale per essere il più vicino possibile a dove gli studenti vivono e lavorano. Un’altra novità è l’organizzazione su due livelli che supera il vecchio schema diviso per classi. Un livello permetterà di raggiungere il titolo di studio conclusivo del primo ciclo di istruzione (la licenza di terza media). L’altro permetterà di conseguire il diploma di istruzione tecnica, professionale e artistica. A questi bisogna aggiungere i percorsi di alfabetizzazione e di apprendimento della lingua italiana destinati principalmente agli stranieri. Rispetto ai normali corsi per i ragazzi, l’orario di insegnamento è ridotto del 30% ed è prevista la possibilità di seguire a distanza le lezioni, anche se solo per un quinto del programma. Ai nuovi percorsi potranno iscriversi anche i sedicenni che non hanno completato l’istruzione obbligatoria.

Il Messaggero 08.10.12

"Il ritorno delle scuole serali per allinearsi con l’Europa", di Alessia Campione

«Non è mai troppo tardi», secondo atto. Si chiamava così il programma tv che ha alfabetizzato l’Italia negli anni ‘60. Oggi il governo, per innalzare il livello dell’istruzione, rilancia le scuole serali. La nuova emergenza è il «deficit formativo» della popolazione. Sono oltre 28 milioni, infatti, gli adulti in possesso della sola licenza di terza media. E oltre l’80% non raggiunge il livello 3 fissato dall’Unione europea e necessario «per garantire il pieno inserimento nella società della conoscenza». Un ritardo che pesa parecchio in una economia sempre più globalizzata e che ha spinto il Miur (il ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca) a proporre un piano di formazione per adulti.
Il Consiglio dei ministri ha approvato il 4 ottobre, tra le misure urgenti per la crescita, e accanto all’agenda digitale, il regolamento per la riorganizzazione didattica dei Centri d’istruzione per gli adulti. Un provvedimento atteso da tempo: l’iter burocratico era iniziato nel 2009. Percorsi più flessibili, collegamento con la realtà lavorativa, iniziative di orientamento per gli studenti. Sono alcune delle novità pensate per questi nuovi corsi di studio che partiranno con il prossimo anno scolastico. L’obiettivo, se da un lato è di colmare il gap di istruzione, dall’altro è quello di fronteggiare anche i cambiamenti demografici di questi ultimi anni. L’Italia ha un indice di vecchiaia tra i più alti in Europa. Secondo l’Istat, la popolazione nazionale nel 2050 sarà composta per il 34,4% dagli over 65enni. All’inizio degli anni ’80 erano il 13,1%. Aumenta anche la presenza degli stranieri. I regolari sono il 7,5% della popolazione, secondo i dati della Caritas che stima che nel 2050 raggiungeranno il 20%. Ma c’è anche un’altra criticità: la mobilità sociale che nel nostro Paese è tra le più basse d’Europa. Solo il 5% di chi ha un genitore con la licenza media, secondo un dato Ocse, riuscirà poi a conquistare la laurea.
I percorsi di istruzione degli adulti saranno organizzati su base provinciale per essere il più vicino possibile a dove gli studenti vivono e lavorano. Un’altra novità è l’organizzazione su due livelli che supera il vecchio schema diviso per classi. Un livello permetterà di raggiungere il titolo di studio conclusivo del primo ciclo di istruzione (la licenza di terza media). L’altro permetterà di conseguire il diploma di istruzione tecnica, professionale e artistica. A questi bisogna aggiungere i percorsi di alfabetizzazione e di apprendimento della lingua italiana destinati principalmente agli stranieri. Rispetto ai normali corsi per i ragazzi, l’orario di insegnamento è ridotto del 30% ed è prevista la possibilità di seguire a distanza le lezioni, anche se solo per un quinto del programma. Ai nuovi percorsi potranno iscriversi anche i sedicenni che non hanno completato l’istruzione obbligatoria.
Il Messaggero 08.10.12

Napolitano all’Aquila: “Basta con le new town”, di Giuseppe Caporale

Le new town per i terremotati dell’Aquila realizzate dal Governo Berlusconi appena sei mesi dopo il sisma – e costate un miliardo e duecento milioni di euro per 4mila alloggi in 185 palazzi – furono un errore. «È tempo di pensare a ricostruire, dimenticando i progetti delle new town fuori dal centro storico. Ora mi pare si sia presa finalmente la strada giusta» ha detto ieri il capo dello Stato Giorgio Napolitano, arrivando nella città terremotata. L’occasione è stata l’inaugurazione dell’auditorium voluto da Renzo Piano e Claudio Abbado, e realizzato con il contributo economico (6 milioni di euro) della Provincia Autonoma di Trento.
«Ho ricevuto dal ministro Barca (che per conto del governo Monti sta seguendo la ricostruzione, ndr) una serie di elementi concreti relativi ai lavori in corso e ai finanziamenti decisi. Mi pare ci siano finalmente prospettive serie», ha proseguito Napolitano. E l’evento di festa nella città martoriata ha riacceso i riflettori sulla ricostruzione sbagliata, a tre anni e mezzo dal terremoto, con 3 miliardi e mezzo di euro già spesi in gran parte per l’emergenza e un centro storico ancora sotto le macerie e chiuso a lucchetto. E a rimarcare gli errori del passato è stato anche Renzo Piano. «All’indomani del sisma, provai a proporre una ricostruzione selettiva, per far ripartire subito il centro storico» spiega alla presentazione dell’auditorium. «Ma mi accorsi subito che la militarizzazione voluta dalla Protezione civile andava in una direzione opposta. Si scelse volontariamente di realizzare 19 nuove aree periferiche, contrariamente a quanto accade in tutto il mondo, dove si combattono le zone senza vita e affettività. Ciò è costato tempo e molto denaro. L’Aquila adesso è una città sofferente, ma non è morta. La sera, il centro storico, nonostante sia stato volutamente svuotato, torna a popolarsi di giovani… » assicura il celebre architetto. «Le scelte sbagliate del post terremoto, pesano. Ora occorre cambiare rotta, ragionare su una ricostruzione tollerante, che agevoli il ritorno degli aquilani nelle loro case».
E il primo tassello per la rinascita del centro storico è proprio l’Auditorium del Parco, collocato appena fuori dalla zona rossa. Il cubo “regalato” da Piano, dal maestro Abbado e dalla provincia di Trento è una cassa armonica costruita con l’abete pregiato della Val di Fiemme: 1.165 metri cubi di legno, seimila doghe con 21 colori diversi. «Quest’opera è la dimostrazione che non tutti i politici sono uguali, che non c’è solo la cattiva amministrazione della cosa pubblica» ha sottolineato Lorenzo Dellai, presidente della Provincia autonoma di Trento, «non tutti spendono i soldi dello Stato in festini privati… Il Trentino c’era appena dopo il 6 aprile ed è rimasto fino ad oggi». C’è poi spazio anche per le lacrime dell’assessore alla cultura del Comune dell’Aquila, Stefania Pezzopane, che racconta di come la domenica del 5 aprile 2009 fossero almeno 12 gli eventi culturali che contemporaneamente si stavano svolgendo all’Aquila. «Questa è una città che viveva di cultura. Abbiamo bisogno come l’aria di iniziative del genere». «Quest’opera è un inno alla gioia, un grande atto d’amore. La migliore risposta alla disperazione del terremoto. Uno scatto di reni… È incredibile vedere una struttura nascente in mezzo a tanta desolazione…» ha chiosato Roberto Benigni, ospite speciale

La Repubblica 08.10.12

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Per l’urbanista De Lucia era meglio optare per moduli provvisori da smontare dopo tre anni. “Ora serve un piano regolatore”

“Quartieri senz’anima, difficile tornare indietro”

«Sa cos’è oggi l’Aquila? Una periferia senza memoria. Le new town l’hanno rovinata, eppure dopo il terremoto del 2009 tutti erano d’accordo nel farle. Ormai il danno è fatto, ora bisogna concentrare tutti gli sforzi e i finanziamenti per ricostruire il centro storico. E l’Aquila si deve dotare al più presto di un nuovo piano regolatore». A parlare è Vezio De Lucia, decano degli urbanisti italiani.
Professore, dare un tetto agli sfollati dopo il sisma era la priorità. Quali altre soluzioni si potevano adottare?
«Sistemazioni provvisorie, moduli abitativi da smontare dopo 3-4 anni. Non certo quartieroni sconnessi l’uno dall’altro come sono oggi le new town, fatte oltretutto con un eccesso di misure antisismiche. Adesso sarà difficile recuperare una logica urbanistica unitaria della città».
Da cosa si ricomincia?
«Bisogna concentrare tutte le risorse, finanziarie e culturali, per mettere mano al centro storico. Adesso pare che ci siano le disponibilità finanziarie per farlo. Basta con la burocrazia, l’imperativo è ricostruire».
Come vede l’Aquila tra dieci anni?
«Io spero che il centro storico tornerà ad essere l’anima della città, anima culturale, intellettuale, commerciale e politica. E piano piano va risanato il disastro delle new town, che tra le altre cose hanno portato al caos della mobilità cittadina».
Bisognerà abbatterle, prima o poi?
«Sono costate troppo, lo stato ha pagato un prezzo tre volte superiore a quello dei moduli provvisori. È dura decidere di abbatterle. Ma di sicuro uno dei nodi da affrontare al più presto è l’adozione di un nuovo piano regolatore, che in tre anni e mezzo non è stato emanato».

La Repubblica 08.10.12

"Occupazione femminile nel sud. Le giovani che lavorano solo il 16,9 %", da repubblica.it

Nel Mezzogiorno, la probabilità di lavorare per le ragazze è quasi azzerata: la crisi ha eroso ancora di più le opportunità, con il tasso di occupazione sceso tra aprile e giugno a un mimino del 16,9% per le giovani tra i 15 e i 29 anni, vale a dire che meno di due su dieci ha un posto. Una quota così bassa non si registrava dal secondo trimestre del 2004, ovvero dall’inizio delle relative serie storiche. Insomma un nuovo record negativo che rimarca la scarsità di lavoro. La conferma delle difficoltà per le under 30 meridionali, che da sempre viaggiano su tassi molto bassi di occupazione, emerge dagli ultimi dati trimestrali dell’Istat. Ovviamente sul minimo pesa l’elevata percentuale di studenti che si concentra nella fascia d’età 15-29 anni, soprattutto tra i giovanissimi.

Ma alzando l’asticella dell’età il miglioramento è limitato: tra le 18-29enni del Mezzogiorno l’occupazione è al 20,7%. Resta così evidente il divario con il Nord, dove la quota di giovani occupate tra i 18 e i 29 anni sale al 45,7%, e con la media nazionale per la componente femminile (pari al 34%). Il gap sale ancora nel confronto con i ragazzi, basti pensare che nell’Italia settentrionale risulta occupato il 56%. Inoltre tra le ragazze meridionali tocca dei picchi anche il tasso di disoccupazione, superiore al 39%.

In Italia quindi le più penalizzate sono sicuramente le giovani donne del Sud, per loro lavorare è un’eccezione, ma la crisi ha fatto diventare la ricerca di un posto una missione impossibile per tutta la nuova generazione. Il tasso di occupazione registrato complessivamente per gli under 30 parla chiaro, per i 15-29enni è al 32,9%, con meno di un ragazzo su tre a lavoro. Mentre tra i 18-29enni meno di uno su due ha un posto, infatti per loro il tasso è intorno al 40%, come il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, ha sottolineato a fine settembre, nel corso di un’audizione parlamentare sulla nota di variazione del Documento di economia e finanza.

Inoltre spesso i giovani che hanno avuto la fortuna di trovare un impiego si devono accontentare di un posto a scadenza, infatti è proprio tra le ultime generazioni che si concentrano i livelli più elevati di lavoro precario.

www.repubblica.it

"Occupazione femminile nel sud. Le giovani che lavorano solo il 16,9 %", da repubblica.it

Nel Mezzogiorno, la probabilità di lavorare per le ragazze è quasi azzerata: la crisi ha eroso ancora di più le opportunità, con il tasso di occupazione sceso tra aprile e giugno a un mimino del 16,9% per le giovani tra i 15 e i 29 anni, vale a dire che meno di due su dieci ha un posto. Una quota così bassa non si registrava dal secondo trimestre del 2004, ovvero dall’inizio delle relative serie storiche. Insomma un nuovo record negativo che rimarca la scarsità di lavoro. La conferma delle difficoltà per le under 30 meridionali, che da sempre viaggiano su tassi molto bassi di occupazione, emerge dagli ultimi dati trimestrali dell’Istat. Ovviamente sul minimo pesa l’elevata percentuale di studenti che si concentra nella fascia d’età 15-29 anni, soprattutto tra i giovanissimi.
Ma alzando l’asticella dell’età il miglioramento è limitato: tra le 18-29enni del Mezzogiorno l’occupazione è al 20,7%. Resta così evidente il divario con il Nord, dove la quota di giovani occupate tra i 18 e i 29 anni sale al 45,7%, e con la media nazionale per la componente femminile (pari al 34%). Il gap sale ancora nel confronto con i ragazzi, basti pensare che nell’Italia settentrionale risulta occupato il 56%. Inoltre tra le ragazze meridionali tocca dei picchi anche il tasso di disoccupazione, superiore al 39%.
In Italia quindi le più penalizzate sono sicuramente le giovani donne del Sud, per loro lavorare è un’eccezione, ma la crisi ha fatto diventare la ricerca di un posto una missione impossibile per tutta la nuova generazione. Il tasso di occupazione registrato complessivamente per gli under 30 parla chiaro, per i 15-29enni è al 32,9%, con meno di un ragazzo su tre a lavoro. Mentre tra i 18-29enni meno di uno su due ha un posto, infatti per loro il tasso è intorno al 40%, come il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, ha sottolineato a fine settembre, nel corso di un’audizione parlamentare sulla nota di variazione del Documento di economia e finanza.
Inoltre spesso i giovani che hanno avuto la fortuna di trovare un impiego si devono accontentare di un posto a scadenza, infatti è proprio tra le ultime generazioni che si concentrano i livelli più elevati di lavoro precario.
www.repubblica.it