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"Cacciare i vulcanologi precari per scardinare la contrattazione", di Paolo Valente

La notizia non è certo di quelle che catturano l’attenzione: il Dipartimento della Funzione Pubblica ha dato un parere su un contratto integrativo sottoscritto tra sindacati del comparto ricerca e INGV. Serve un vocabolario anche solo per capire di cosa si sta parlando. La Funzione Pubblica è il “guardiano” del pubblico impiego: controlla assunzioni e contratti della miriade di enti pubblici del nostro Paese: relativamente facile.
Appena più difficile: l’INGV è l’ente di ricerca che, in Italia, si occupa di terremoti e vulcani; certo, bisognerebbe spiegare perché alcuni suoi ricercatori sono a processo per non aver avvertito dell’imminente terremoto dell’Aquila, perché l’ente pubblico che sorveglia i vulcani e gestisce la rete sismologica deve, da anni, avvalersi di oltre 400 precari, perché degli scienziati debbano avere le stesse regole degli impiegati ministeriali (ammetterete che andare sull’Etna non è come andare dal capo dipartimento), ma non sono sicuro di poter dare delle spiegazioni plausibili.
Saliamo di un livello: la contrattazione nel pubblico impiego. Questa è difficile: perché il legislatore (oramai una ventina di anni or sono) abbia deciso che i dipendenti pubblici debbano contrattare con lo Stato, come se fosse un imprenditore privato, non l’ho mai davvero capito (v. voce di Wikipedia che fornisce le informazioni di base in merito). Soprattutto se penso che da questa regola sono esclusi magistrati, forze armate e professori universitari, ma, appunto, non i ricercatori che si occupano di terremoti (o di epidemie, o dell’andamento dell’economia, o della fisica teorica e applicata, e così via…). Prendiamola come condizione al contorno (così dicono i fisici) non eliminabile, ma mettiamo da parte un’informazione importante: se gli stipendi degli “statali” aumentano attraverso la contrattazione sindacale, il governo Monti ha pensato di risparmiare bloccando la contrattazione almeno fino al 2014. Resta la contrattazione decentrata, quella “aziendale”, diversa in ciascun ente pubblico, che serve per contrattare sui buoni pasto, ma anche sui problemi specifici dell’amministrazione.
Perché, invece, questi benedetti 400 ricercatori non abbiano un contratto a tempo indeterminato (in un Paese come il nostro, non c’è dubbio che svolgano un servizio essenziale) si spiega molto facilmente: non sono previsti dall’organico dell’Istituto di Geofisica e Vulcanologia (l’INGV, appunto) e quindi non possono essere messi a concorso.
Da qui i contratti a tempo determinato, da qui la soluzione (temporanea, ma meglio di niente) di prolungare questi contratti per diversi anni, da qui il conflitto con la legge – del 2001 – che non permette di prolungare i contratti temporanei oltre un certo limite, se non con l’accordo dei sindacati, per mezzo di un accordo “aziendale”.
Siamo quasi arrivati in fondo, manca un ultima informazione: la riforma del mercato del lavoro del Ministro Fornero, ha introdotto recentemente una maggiore “flessibilità in entrata”, cioè maggiore elasticità nello stipulare i contratti a tempo determinato andando proprio a modificare quellalegge del 2001 che serviva ai vulcanologi per vedere i propri contratti prolungati ancora una volta. Arrivati alla scadenza dei contratti temporanei, i sindacati (tutti) “di categoria” si accordano velocemente con l’INGV per il prolungamento, come prevista dalla legge del 2001, e tutto sembra poter continuare nell’equilibrio (precario) di prima.
Ma c’è un ma. Abbiamo definito la Funzione Pubblica come il dipartimento “guardiano” delle pubbliche amministrazioni. Per quanto riguarda gli enti di ricerca, che tra l’altro godono di autonomia statutaria, regolamentare, finanziaria e di bilancio, il controllo è limitato alle dotazioni organiche, alle procedure di reclutamento e agli accordi integrativi, esclusi (attenzione!) gli accordi per il prolungamento dei contratti a tempo determinato. Bene, nonostante l’accordo per i contratti INGV non fosse sottoposto a controllo, la Funzione Pubblica ha ritenuto necessario pubblicare (e inviare all’Ente) un parere, che io traduco dal burocratese così: poiché 1) la legge del 2012 voluta dal ministro Fornero, ha introdotto nuove forme di lavoro flessibile e ha previsto – comprensibilmente – che alcuni aspetti di questa maggiore flessibilità siano definiti dalla contrattazione collettiva; 2) la contrattazione è bloccata; 3) l’accordo dell’INGV è nello stessoambito; allora sarebbe necessario attendere l’avvio delle procedure della nuova tornata di contrattazione collettiva prima di fare un accordo decentrato.
Per gli appassionati di diritto del lavoro pubblico, esistono delle contro-argomentazioni della FLC CGIL sul perché un tale parere in realtà non dovrebbe invalidare l’accordo INGV, che a me paiano documentate e convincenti (e che potete leggere qui). Se sia necessario o meno rivedere tutto l’impianto che riguarda il pubblico impiego, mettendo in discussione la cosiddetta “privatizzazione” del rapporto di lavoro, e di conseguenza la contrattazione collettiva, i rapporti sindacali e quant’altro, lo lascio alle dotte discussioni di giuristi e politici.
Per chi fosse meno avvezzo a decreti legislativi, “novelle” legislative, e contratti “a-casuali”, non mi restano, invece, che poche semplici domande:
– Come potrebbe l’INGV gestire la rete sismica dell’intera nostra penisola senza i 400 e oltre specialisti che da anni la sviluppano e la gestiscono?
– In alternativa: che risparmio ci sarebbe per lo Stato se l’Istituto fosse costretto a bandire centinaia di procedure concorsuali in tutta Italia per ricoprire quelle stesse posizioni (in larga maggioranza dalle stesse persone, data la loro alta specializzazione e esperienza)? e (oltre ai costi) quanti mesi occorrerebbero per un’operazione del genere?
– E infine: che senso ha sottoporre a regole burocratiche pensate per la generalità della pubblica amministrazione proprio l’unico settore pubblico (non se ne vogliano tutti gli onesti statali che non lavorano nell’ambito della ricerca) che sottopone il suo lavoro costantemente alla valutazione (spietata) della comunità internazionale (oltre che quella – seppur barocca e perfettibile – dell’ANVUR)?
L’Unità 09.10.12

"Erasmus, perché solo i cittadini e la democrazia possono realizzare gli Stati Uniti d’Europa", di Marco Meloni

In principio erano 3.244 studenti, nel 1987, incamminati sulle spalle del gigante Erasmo da Rotterdam, per ricordare, ma soprattutto per riportare in vita un umanesimo europeo fatto di confronto tra idee, mobilità, scambi culturali. Per scrivere una nuova storia di quel secolo in cui gli “erasmiani”, come ha ricordato Ralf Dahrendorf, sono gli intellettuali che coraggiosamente hanno difeso la libertà nella sfida con il totalitarismo, senza farsi risucchiare dal conformismo della loro epoca. Quella dell’Erasmus è stata una lunga storia, che ha battezzato una generazione e ha festeggiato proprio quest’anno il suo venticinquesimo compleanno. E ora che si fa? Si raddoppia, si penserà.

Invece no: il rischio è che, all’opposto, si lasci. Pochi giorni fa l’Europarlamento ha lanciato un allarme che ci ricorda che, quando parliamo di Europa, non ci riferiamo soltanto a direzioni generali, spread e manovre, ma a quelle questioni che davvero contribuiscono a costruire uno spazio europeo rivolto al futuro, e cioè la cultura, la civiltà, la solidarietà. Secondo il presidente della Commissione Bilancio, Alain Lamassoure, il Fondo Sociale Europeo è in rosso, la stessa situazione toccherà dalla prossima settimana al programma Erasmus e in seguito al Fondo di Ricerca e Innovazione.

I confronti europei, e in particolare quelli che riguardano la ricerca e l’innovazione, spesso vedono l’Italia in posizioni poco onorevoli per il suo peso in Europa e la sua storia. Purtroppo, il programma Erasmus non fa eccezione, perché coinvolge solo l’1% dei nostri studenti, metà della media europea, al Nord il doppio che al Sud. Il Partito Democratico ha presentato le sue proposte per puntare a far sì che in 5 anni si passi da 20mila a 100mila studenti Erasmus all’anno, intervenendo con sgravi fiscali per le famiglie, sul riconoscimento dei crediti, sugli scambi di ospitalità. Ma l’Italia è in ritardo anche sulla capacità di accoglienza: essere scelti dagli studenti di altri Paesi come destinazione Erasmus è, in fondo, un giudizio sull’Italia, e perciò coinvolge tanto il welfare studentesco quanto l’apertura e la trasparenza del sistema. Per questo è essenziale una risposta europea della “Generazione Erasmus”, come chiedono i Giovani Democratici e la Rete Universitaria Nazionale.

Parlare di Europa significa partire dalla “veduta lunga” dei nuovi erasmiani e prendere sul serio il ruolo dell’Italia in Europa, senza caricature e senza pregiudizi: è quello che cercherò di fare in questo spazio, in dialogo con voi. L’allarme di Lamassoure è più grave di una seduta negativa delle borse: ci ricorda quanto la capacità di scegliere le priorità da parte degli Stati nazionali sia fondamentale per investire nell’orizzonte europeo, nell’Europa della mobilità e della ricerca, degli studenti e dei ricercatori, e quindi dei cittadini. Perché solo dalla costruzione della democrazia europea e dei cittadini europei possono nascere gli Stati Uniti d’Europa.

www.unita.it

"Erasmus, perché solo i cittadini e la democrazia possono realizzare gli Stati Uniti d’Europa", di Marco Meloni

In principio erano 3.244 studenti, nel 1987, incamminati sulle spalle del gigante Erasmo da Rotterdam, per ricordare, ma soprattutto per riportare in vita un umanesimo europeo fatto di confronto tra idee, mobilità, scambi culturali. Per scrivere una nuova storia di quel secolo in cui gli “erasmiani”, come ha ricordato Ralf Dahrendorf, sono gli intellettuali che coraggiosamente hanno difeso la libertà nella sfida con il totalitarismo, senza farsi risucchiare dal conformismo della loro epoca. Quella dell’Erasmus è stata una lunga storia, che ha battezzato una generazione e ha festeggiato proprio quest’anno il suo venticinquesimo compleanno. E ora che si fa? Si raddoppia, si penserà.
Invece no: il rischio è che, all’opposto, si lasci. Pochi giorni fa l’Europarlamento ha lanciato un allarme che ci ricorda che, quando parliamo di Europa, non ci riferiamo soltanto a direzioni generali, spread e manovre, ma a quelle questioni che davvero contribuiscono a costruire uno spazio europeo rivolto al futuro, e cioè la cultura, la civiltà, la solidarietà. Secondo il presidente della Commissione Bilancio, Alain Lamassoure, il Fondo Sociale Europeo è in rosso, la stessa situazione toccherà dalla prossima settimana al programma Erasmus e in seguito al Fondo di Ricerca e Innovazione.
I confronti europei, e in particolare quelli che riguardano la ricerca e l’innovazione, spesso vedono l’Italia in posizioni poco onorevoli per il suo peso in Europa e la sua storia. Purtroppo, il programma Erasmus non fa eccezione, perché coinvolge solo l’1% dei nostri studenti, metà della media europea, al Nord il doppio che al Sud. Il Partito Democratico ha presentato le sue proposte per puntare a far sì che in 5 anni si passi da 20mila a 100mila studenti Erasmus all’anno, intervenendo con sgravi fiscali per le famiglie, sul riconoscimento dei crediti, sugli scambi di ospitalità. Ma l’Italia è in ritardo anche sulla capacità di accoglienza: essere scelti dagli studenti di altri Paesi come destinazione Erasmus è, in fondo, un giudizio sull’Italia, e perciò coinvolge tanto il welfare studentesco quanto l’apertura e la trasparenza del sistema. Per questo è essenziale una risposta europea della “Generazione Erasmus”, come chiedono i Giovani Democratici e la Rete Universitaria Nazionale.
Parlare di Europa significa partire dalla “veduta lunga” dei nuovi erasmiani e prendere sul serio il ruolo dell’Italia in Europa, senza caricature e senza pregiudizi: è quello che cercherò di fare in questo spazio, in dialogo con voi. L’allarme di Lamassoure è più grave di una seduta negativa delle borse: ci ricorda quanto la capacità di scegliere le priorità da parte degli Stati nazionali sia fondamentale per investire nell’orizzonte europeo, nell’Europa della mobilità e della ricerca, degli studenti e dei ricercatori, e quindi dei cittadini. Perché solo dalla costruzione della democrazia europea e dei cittadini europei possono nascere gli Stati Uniti d’Europa.
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Castagnetti: "La nostra generazione ha fallito. Giusto passare la mano", di Fabio Martini

Sinora nessuno della vecchia guardia del Pd lo aveva detto, come fa ora Pier Luigi Castagnetti: «Al di là della radicalità e della impertinenza di Renzi, ammettiamolo: chi ha attraversato l’intera storia della Seconda Repubblica, porta su di sé una responsabilità oggettiva, quella di appartenere ad una generazione che ha contribuito ad una stagione politica conclusa con una sconfitta clamorosa. In vista della nuova fase dobbiamo avere il coraggio di passare la mano: servono forze nuove, che non portino il retaggio di sconfitte ancora recenti». Già assistente di don Giuseppe Dossetti alla diocesi di Bologna, da anni uno dei punti di riferimento dei cattolici-democratici, Castagnetti è stato l’ultimo segretario dei Ppi, espressione finale della lunga stagione democristiana.

Bersani, vincendo resistenze occulte ed esplicite di quasi tutta la nomenclatura ex-Ds ed ex-Ppi, ha imposto le Primarie: condivide?

«Alla fine delle Primarie ci saranno due vincitori. Vince Bersani perché prevarrà sul piano numerico, ma vincerà anche Renzi perché costringerà il Pd ad accettare la sfida di un rinnovamento molto forte. L’analisi di Bersani sta dentro la modernità: la condizione del Paese e la sempre maggiore lontananza dei cittadini dalla politica impongono una sfida, capace di ricreare una motivazione forte. In lui non c’è solo generosità, ma anche intelligenza: quando una metà del sistema politico va in crisi, l’altra metà restata in piedi, non può restare ferma: per questo Bersani candida il Pd a diventare il partito della trasformazione del. Paese e quindi della modernità».

Lei allude alla gioiosa macchina da guerra dì Occhetto?

«Che colossale errore fu quello di Occhetto: immaginare di ereditare il potere della Dc e del Psi, “utilizzando” Forza Italia senza al tempo stesso rinnovare a fondo il Pds».

Nella modernità di Bersani c’è anche una bella dose di rischio?

«Certo, ma è la stessa osservazione che gli fanno tanti e alla quale lui risponde: sì, ma è un rischio che voglio correre. D’altra parte la storia travolge chi cerca di scansare i rischi e molto spesso premia chi se li prende. Non vorrei che l’esempio apparisse sproporzionato, ma mi torna alla memoria ciò che disse Helmut Kohl a Mino Martinazzoli e al sottoscritto, sulla porta della Cancelleria nel 1993. A noi che gli avevamo detto, ci rivedremo dopo le vostre elezioni, lui ci rispose: non so se ci rivedremo. E ci spiegò che molte delle scelte da lui fatte, parità del marco, l’intero gettito fiscale investito sull’ex-Est, rendevano rischiosissime le elezioni ma che quel rischio valeva la pena correrlo per il futuro della Germania».

I dirigenti ex Ppi, Bindi e Fioroni in prima linea, hanno cercato di evitare le Primarie o, in subordinata, di far saltare i nervi a Renzi: le pare una linea politica?

«Io voto Bersani per tante ragioni e in Assemblea ne ho trovate tante di più. Quelli che vengono dalla mia storia sono quelli che stanno soffrendo di più per il ripiegamento in sé stesso del partito e per la nostalgia di un certo passato di sinistra. Ma con Bersani che accetta la sfida della modernità, noi che facciamo? Stiamo sugli spalti! Noi cattolici-democratici – portatori di una cultura di governo e di una intelligenza che ci faceva fiutare i tempi che cambiano – dovremmo essere i primi a dirgli: vai avanti! E invece rischiamo di uscire da questa vicenda come vecchi e bastonati e questo mi fa arrabbiare»

Le Primarie consacreranno i due interlocutori nel Pd: è questo «fuori i secondi» che mette paura alla nomenclatura ex Ppi?

«C’è questo timore, anche se viene negato. Ma proprio questo timore dovrebbe imporre una risposta diversa, perché star lì a gestire la paura del cambiamento, significa condannarsi ad un ruolo subalterno».

Lei pensa che una intera generazione debba passare la mano?

«Non tutti devono andare a casa, anche perché le responsabilità soggettive sono diverse, ma le responsabilità devono essere gestite soprattutto da una generazione nuova, da intelligenze capaci di leggere e capire meglio la stagione che viviamo e vivremo».

La Stampa 08.10.12

Castagnetti: "La nostra generazione ha fallito. Giusto passare la mano", di Fabio Martini

Sinora nessuno della vecchia guardia del Pd lo aveva detto, come fa ora Pier Luigi Castagnetti: «Al di là della radicalità e della impertinenza di Renzi, ammettiamolo: chi ha attraversato l’intera storia della Seconda Repubblica, porta su di sé una responsabilità oggettiva, quella di appartenere ad una generazione che ha contribuito ad una stagione politica conclusa con una sconfitta clamorosa. In vista della nuova fase dobbiamo avere il coraggio di passare la mano: servono forze nuove, che non portino il retaggio di sconfitte ancora recenti». Già assistente di don Giuseppe Dossetti alla diocesi di Bologna, da anni uno dei punti di riferimento dei cattolici-democratici, Castagnetti è stato l’ultimo segretario dei Ppi, espressione finale della lunga stagione democristiana.
Bersani, vincendo resistenze occulte ed esplicite di quasi tutta la nomenclatura ex-Ds ed ex-Ppi, ha imposto le Primarie: condivide?
«Alla fine delle Primarie ci saranno due vincitori. Vince Bersani perché prevarrà sul piano numerico, ma vincerà anche Renzi perché costringerà il Pd ad accettare la sfida di un rinnovamento molto forte. L’analisi di Bersani sta dentro la modernità: la condizione del Paese e la sempre maggiore lontananza dei cittadini dalla politica impongono una sfida, capace di ricreare una motivazione forte. In lui non c’è solo generosità, ma anche intelligenza: quando una metà del sistema politico va in crisi, l’altra metà restata in piedi, non può restare ferma: per questo Bersani candida il Pd a diventare il partito della trasformazione del. Paese e quindi della modernità».
Lei allude alla gioiosa macchina da guerra dì Occhetto?
«Che colossale errore fu quello di Occhetto: immaginare di ereditare il potere della Dc e del Psi, “utilizzando” Forza Italia senza al tempo stesso rinnovare a fondo il Pds».
Nella modernità di Bersani c’è anche una bella dose di rischio?
«Certo, ma è la stessa osservazione che gli fanno tanti e alla quale lui risponde: sì, ma è un rischio che voglio correre. D’altra parte la storia travolge chi cerca di scansare i rischi e molto spesso premia chi se li prende. Non vorrei che l’esempio apparisse sproporzionato, ma mi torna alla memoria ciò che disse Helmut Kohl a Mino Martinazzoli e al sottoscritto, sulla porta della Cancelleria nel 1993. A noi che gli avevamo detto, ci rivedremo dopo le vostre elezioni, lui ci rispose: non so se ci rivedremo. E ci spiegò che molte delle scelte da lui fatte, parità del marco, l’intero gettito fiscale investito sull’ex-Est, rendevano rischiosissime le elezioni ma che quel rischio valeva la pena correrlo per il futuro della Germania».
I dirigenti ex Ppi, Bindi e Fioroni in prima linea, hanno cercato di evitare le Primarie o, in subordinata, di far saltare i nervi a Renzi: le pare una linea politica?
«Io voto Bersani per tante ragioni e in Assemblea ne ho trovate tante di più. Quelli che vengono dalla mia storia sono quelli che stanno soffrendo di più per il ripiegamento in sé stesso del partito e per la nostalgia di un certo passato di sinistra. Ma con Bersani che accetta la sfida della modernità, noi che facciamo? Stiamo sugli spalti! Noi cattolici-democratici – portatori di una cultura di governo e di una intelligenza che ci faceva fiutare i tempi che cambiano – dovremmo essere i primi a dirgli: vai avanti! E invece rischiamo di uscire da questa vicenda come vecchi e bastonati e questo mi fa arrabbiare»
Le Primarie consacreranno i due interlocutori nel Pd: è questo «fuori i secondi» che mette paura alla nomenclatura ex Ppi?
«C’è questo timore, anche se viene negato. Ma proprio questo timore dovrebbe imporre una risposta diversa, perché star lì a gestire la paura del cambiamento, significa condannarsi ad un ruolo subalterno».
Lei pensa che una intera generazione debba passare la mano?
«Non tutti devono andare a casa, anche perché le responsabilità soggettive sono diverse, ma le responsabilità devono essere gestite soprattutto da una generazione nuova, da intelligenze capaci di leggere e capire meglio la stagione che viviamo e vivremo».
La Stampa 08.10.12

"Pompei va oltre la «frana» dei commissari", di Antonello Cherchi

Il piano straordinario su Pompei entra nel vivo. È arrivato il momento dell’apertura delle buste dei candidati che intendono partecipare al restauro di cinque domus, per un totale di sei milioni di euro. Le cinque commissioni (una per bando; si è preferito non fare una gara unica così che eventuali ricorsi non “contagiassero” l’intero appalto) stanno già aprendo i plichi con i requisiti dei concorrenti. A metà mese si passerà alla valutazione delle offerte e all’assegnazione dei lavori.

Il cronoprogramma
Sempre in ottobre si procederà con l’altro bando, quello della messa in sicurezza dei terreni a confine con l’area di scavo (importo 2,8 milioni) e a dicembre sarà la volta delle gare che interesseranno tre delle nove regiones in cui è divisa la città (per un valore di 10 milioni di euro). Sempre entro l’anno vedrà la luce – assicurano al ministero dei Beni culturali – il bando per “il piano della conoscenza”, uno dei cinque interventi in cui si articola il progetto di 105 milioni finanziato con risorse comunitarie e interne.

Pompei, insomma, si prepara a rimettersi in sesto, dopo la sequela di crolli che ne hanno offuscato l’immagine (e quella del Paese) a livello internazionale. Operazione che ha qualche chance di successo, se non altro perché dobbiamo risponderne all’Unione europea, che alla fine del 2015 ci chiederà conto di come sono stati spesi i soldi. Gli ostacoli da superare sono tanti: una situazione di pesante degrado (interna ed esterna al sito, compresa la presenza di amianto nell’area degli scavi, fatto di cui si sta occupando la magistratura); la pressione della criminalità organizzata (le misure di contrasto sono state rafforzate, perché la torta di 105 milioni fa ancora più gola alla camorra); la mancanza di personale di controllo (a cui si farà fronte con il potenziamento del sistema di videosorveglianza); una vastissima area, e per di più assai delicata, da conservare e valorizzare.

Il fallimento dei commissari
Insomma, un compito impegnativo in cui tutti finora hanno fallito. Anche i commissari straordinari, che dal ’97 (allora li si chiamava direttori amministrativi o city manager) si sono succeduti, seppure non in maniera continuativa, nella gestione di Pompei. Anzi. L’ultimo commissario (super, per via degli ampi poteri che gli erano stati affidati), è andato oltre. La gestione di Marcello Fiori – transitato a febbraio 2009 dall’ufficio emergenze della protezione civile all’area archeologica, dove è rimasto fino all’estate dell’anno dopo – è incappata in una serie di irregolarità ora al vaglio della magistratura e della Corte dei conti.

Sotto la lente concessioni e contratti. Per esempio, quelli relativi al teatro grande di Pompei. Per l’organizzazione della stagione 2010, il commissario ha impiegato 7,5 milioni di euro per lavori complementari, l’acquisto di camerini-depositi e di allestimenti scenici e teatrali. Risorse che – oltre a essere state assegnate con procedure dubbie sulle quali si sta indagando – non hanno prodotto alcun ritorno economico significativo per la soprintendenza. Infatti, la convenzione con il teatro San Carlo di Napoli – all’epoca retto da un altro commissario, Salvo Nastasi, che era allo stesso tempo capo di gabinetto del ministero dei Beni culturali – prevedeva unicamente il versamento del 10% delle royalties sui biglietti di ingresso. Il risultato è che ora la programmazione del teatro di Pompei è inesistente, perché la procura di Torre Annunziata ha disposto, nell’ambito delle indagini sui lavori di restauro della struttura e sulle attività in cartellone nel 2010, il sequestro di tutto il materiale di scena e degli impianti acquistati dal commissario.

Non basta. La soprintendenza archeologica di Napoli e Pompei, retta da fine 2010 da Teresa Elena Cinquantaquattro, ha avviato, con l’ausilio dell’Avvocatura statale, le procedure per annullare la convenzione, per un valore di 5,8 milioni di euro, stipulata da Fiori con il raggruppamento temporaneo di imprese formato dalla fondazione Idis-Città della scienza e dalla casa editrice L’Erma di Bretschneider per la gestione dell’Antiquarium. Sono state riscontrate illegittimità nelle modalità di affidamento dell’appalto. Sotto il mirino della soprintendenza anche un’altra convenzione, quella sottoscritta dal commissario sempre con la fondazione Idis-Città della scienza per la gestione di un laboratorio per bambini presso la Casina Pacifico. Importo della concessione: 744mila euro. Anche in questo caso sono state riscontrate illegittimità e, per di più, l’attività appaltata si sovrapponeva ad altre programmate dalla soprintendenza prima della gestione commissariale.

L’esigenza di trasparenza
I 105 milioni devono servire, dunque, anche a far dimenticare tutto questo. Ecco perché il ministero ora procede con i piedi di piombo. E questo, in parte, spiega i ritardi nell’affidamento dei lavori relativi alle cinque domus e nei bandi per le regiones, attesi già a luglio. Per la prima gara, infatti, si è scelta la procedura aperta con prequalifica. «I tempi – spiega Cinquantaquattro – sono quelli imposti dal codice degli appalti. Per gli altri bandi si andrà, però, più veloci, anche perché si potrà utilizzare la piattaforma informatica messa a punto proprio per lo svolgimento delle gare previste dal piano su Pompei».

L’esigenza è quella di procedere senza lasciare ombre. Anche se il segretario generale, Antonella Recchia, ha riconosciuto, nel corso di una recente audizione presso la commissione Istruzione del Senato, come «l’aspetto della trasparenza e della partecipazione non sia stato finora adeguatamente implementato», perché assorbiti dall’urgenza di procedere con il progetto. Infatti, mentre si aspetta che il grosso del piano su Pompei parta, gli altri lavori non si sono fermati. A gennaio sono stati assunti – grazie al decreto legge 34/2011 che ha avviato il programma straordinario di rilancio di Pompei – 13 archeologi e 8 architetti (oltre a un funzionario amministrativo), che hanno finora censito oltre 250mila metri quadrati di scavi, individuando i fenomeni di degrado più gravi. Operazione propedeutica alla progettazione e ai lavori veri e propri, per i quali ci sono 85 milioni che aspettano.

Il Sole 24 Ore 08.10.12