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"Napolitano: da irresponsabili discutere l’euro", di Umberto Rosso

Juan Carlos, con uno strappo al protocollo, lo invita a cena in un locale tipico della capitale spagnola. Fra Giorgio Napolitano e il re di Spagna c’è una vecchia amicizia ma sono tempi difficili, per l’uno e per l’altro, e non c’è spazio per troppi convenevoli. «Non si torna indietro dall’euro», mette in guardia il capo dello Stato. Madrid deve restare agganciata al treno al Ue, e son serviti quelli che «profetizzano irresponsabilmente la fatale implosione della moneta unica», le cui voci sono state «messe a tacere o quantomeno fortemente attenuate». Chi sono i predicatori di sventura? Napolitano ne traccia in questo modo l’identikit: «Non si può discettare a cuor leggero sulle disastrose ricadute a catena di una disintegrazione dell’euro, sull’intero sistema economico europeo e mondiale». Nomi non ne fa, ma non è difficile scorgervi il profilo di Silvio Berlusconi, che ancora qualche giorno fa presentava con grande disivoltura la sua ricetta per uscire dalla crisi: fuori la Germania dalla moneta unica. Per il presidente della Repubblica, invece, è bene non farsi illusioni sulle conseguenze di una crisi dell’Europa, perché «non ci sarebbero né vinti né vincitori, solo economie prostrate, tensioni commerciali acute, fenomeni di impoverimento e fortissimi disagi sociali». E ne parla, a Roma, anche Mario Monti: se il governo italiano sta facendo le riforme strutturali, «bisogna dire grazie anche alla Germania». Il ragionamento del premier parte dal fatto che sì, in effetti una certa durezza dell’atteggiamento dell’Ue è stato determinato dalla linea Merkel, ma se oggi «abbiamo un’Europa che ci chiede di fare progressi, e senza questa richiesta non ci sarebbero stati, molto merito va ascritto anche alla Germania».
A Madrid, dove ieri ha incontrato anche il premier Rajoy e ritirato il premio Nuova economia Forum, Napolitano nei suoi colloqui ha naturalmente affrontato la delicatissima questione della richiesta dello scudo antispread, anche perché dopo la Spagna potrebbe toccare all’Italia finire nel ciclone della speculazione. Per il capo dello Stato però non si tratta di salvare via via l’uno o l’altro stato, ma di «stabilizzare l’euro sui mercati». È un compito comune, quindi bisogna andare avanti sulla strada tracciata dall’ultimo Consiglio europeo a Bruxelles: non è ammissibile che «ai sacrifici necessari per risanare il debito pubblico si debbano aggiungere i costi di interessi alti». Dovuti ad uno spread che oscilla per la speculazione, e non a causa dell’economia italiana, i cui fondamentali
sono migliori di altri paesi. Ed è grazie a queste basi, un sistema bancario più solido e un maggiore risparmio delle famiglie italiane, che secondo il Colle il nostro paese può evitare di imboccare lo stesso sentiero che potrebbe condurre la Spagna a chiedere l’intervento della Bce. Ma l’Europa non è solo euro, avverte Napolitano, non dobbiamo commettere l’errore di «esaurirla nella moneta unica». C’è un assoluto bisogno di crescita e occupazione, anche se non va certo dimenticato il problema numero uno che resta quello del debito sovrano. Altrimenti, denuncia un allarmatissimo presidente della Repubblica, «avremo una generazione persa ai fini del mondo del lavoro e della produzione, con gravi conseguenze sociali e politiche». Una generazione perduta, senza un’occupazione, che di sicuro non troverà risposte e fiducia nella politica.

La Repubblica 03.10.12

"Napolitano: da irresponsabili discutere l’euro", di Umberto Rosso

Juan Carlos, con uno strappo al protocollo, lo invita a cena in un locale tipico della capitale spagnola. Fra Giorgio Napolitano e il re di Spagna c’è una vecchia amicizia ma sono tempi difficili, per l’uno e per l’altro, e non c’è spazio per troppi convenevoli. «Non si torna indietro dall’euro», mette in guardia il capo dello Stato. Madrid deve restare agganciata al treno al Ue, e son serviti quelli che «profetizzano irresponsabilmente la fatale implosione della moneta unica», le cui voci sono state «messe a tacere o quantomeno fortemente attenuate». Chi sono i predicatori di sventura? Napolitano ne traccia in questo modo l’identikit: «Non si può discettare a cuor leggero sulle disastrose ricadute a catena di una disintegrazione dell’euro, sull’intero sistema economico europeo e mondiale». Nomi non ne fa, ma non è difficile scorgervi il profilo di Silvio Berlusconi, che ancora qualche giorno fa presentava con grande disivoltura la sua ricetta per uscire dalla crisi: fuori la Germania dalla moneta unica. Per il presidente della Repubblica, invece, è bene non farsi illusioni sulle conseguenze di una crisi dell’Europa, perché «non ci sarebbero né vinti né vincitori, solo economie prostrate, tensioni commerciali acute, fenomeni di impoverimento e fortissimi disagi sociali». E ne parla, a Roma, anche Mario Monti: se il governo italiano sta facendo le riforme strutturali, «bisogna dire grazie anche alla Germania». Il ragionamento del premier parte dal fatto che sì, in effetti una certa durezza dell’atteggiamento dell’Ue è stato determinato dalla linea Merkel, ma se oggi «abbiamo un’Europa che ci chiede di fare progressi, e senza questa richiesta non ci sarebbero stati, molto merito va ascritto anche alla Germania».
A Madrid, dove ieri ha incontrato anche il premier Rajoy e ritirato il premio Nuova economia Forum, Napolitano nei suoi colloqui ha naturalmente affrontato la delicatissima questione della richiesta dello scudo antispread, anche perché dopo la Spagna potrebbe toccare all’Italia finire nel ciclone della speculazione. Per il capo dello Stato però non si tratta di salvare via via l’uno o l’altro stato, ma di «stabilizzare l’euro sui mercati». È un compito comune, quindi bisogna andare avanti sulla strada tracciata dall’ultimo Consiglio europeo a Bruxelles: non è ammissibile che «ai sacrifici necessari per risanare il debito pubblico si debbano aggiungere i costi di interessi alti». Dovuti ad uno spread che oscilla per la speculazione, e non a causa dell’economia italiana, i cui fondamentali
sono migliori di altri paesi. Ed è grazie a queste basi, un sistema bancario più solido e un maggiore risparmio delle famiglie italiane, che secondo il Colle il nostro paese può evitare di imboccare lo stesso sentiero che potrebbe condurre la Spagna a chiedere l’intervento della Bce. Ma l’Europa non è solo euro, avverte Napolitano, non dobbiamo commettere l’errore di «esaurirla nella moneta unica». C’è un assoluto bisogno di crescita e occupazione, anche se non va certo dimenticato il problema numero uno che resta quello del debito sovrano. Altrimenti, denuncia un allarmatissimo presidente della Repubblica, «avremo una generazione persa ai fini del mondo del lavoro e della produzione, con gravi conseguenze sociali e politiche». Una generazione perduta, senza un’occupazione, che di sicuro non troverà risposte e fiducia nella politica.
La Repubblica 03.10.12

"La verità e la vergogna", di Adriano Prosperi

Sulla notte genovese della Scuola Diaz la sentenza numero 3885 fa finalmente chiarezza. La condotta della polizia nell’irruzione, dice la sentenza, «fu un puro esercizio di violenza». E questo lo sapevamo. Lo disse subito questo giornale che non ha più cessato di ricordarlo. Da allora la vigilanza dell’informazione democratica ha permesso che la coscienza dell’enormità dell’accaduto si facesse strada a forza nello spazio della vita civile vincendo l’incredulità più o meno faziosa e i maldestri tentativi di minimizzare.
Quel giorno ci svegliammo all’improvviso, straniati, in un Paese irriconoscibile. La scuola Diaz è diventata il luogo simbolo di una alterazione intollerabile delle regole di convivenza tale da farci vergognare di essere italiani. Dura da quella notte il senso di una mutazione del sistema Italia. “Scuola Diaz” è diventato un promemoria capace di segnare meglio di ogni altro il punto di passaggio a un diverso ciclo storico della nostra repubblica. Certo, anche nei decenni precedenti c’erano state manganellate e spari. Ma non quella macelleria senza limiti, non quei corpi e quelle teste sanguinanti, non quelle ossa rotte, non lamenti e preghiere di giovani inermi aggrediti con spaventosa violenza nel sonno e nella quiete di una notte genovese. La vita italiana fece allora un balzo verso dimensioni ignote e spaventevoli, che si faticò a definire se non col solito rinvio al nostro peggiore passato, il fascismo. Per misurare quanto diverso fosse diventato il panorama del Paese bastava pensare a quel che era accaduto negli stretti spazi dell’antica città di mare nel luglio 1960 quando da lì era venuto il segno di un rifiuto senza appello al governo clericofascista di Tambroni e al tentativo di riportare indietro un Paese ormai cresciuto nella libertà. Ma quella che si era annunciata col pestaggio della Diaz era una fase nuova e inaudita, dove lo scontro non era tra masse vigili, determinate, aggressive di manifestanti e le cariche di “alleggerimento” delle forze di polizia, ma tra uomini in divisa ebbri di violenza contro persone giovani, inermi, indifese come può esserlo chi giace nell’abbandono fiducioso del sonno. Le parole della sentenza sono proprio queste: «Le violenze, generalizzate in tutti gli ambienti della scuola, si sono scatenate contro persone
all’evidenza inermi, alcune dormienti, altre già in atteggiamento di sottomissione con le mani alzate e, spesso, con la loro posizione seduta in manifesta attesa di disposizioni ». Su quelle persone, dormienti o sedute, supplici, sottomesse, fiduciose, si esercitò una violenza «non giustificata e punitiva, vendicativa e diretta all’umiliazione e alla sofferenza fisica e mentale delle vittime». La sentenza va oltre questa denunzia: ci dice come e perché, e per colpa di chi, avvenne il massacro che lasciò 87 feriti anche molto gravi e insanguinò le pareti e i pavimenti di quella scuola. Leggiamola attentamente, perché una volta di più abbiamo l’occasione per imparare qualcosa sui comportamenti della polizia e sulle regole che governano corpi speciali sempre esposti per loro natura a subire l’attrazione dell’arbitrio e dell’illegalità. Sapevamo già che gli agenti erano apparsi al prefetto La Barbera in preda a un certo nervosismo, tanto da fargli pensare che si preparavano cose gravi perché, come lui disse, “ognuno conosce gli animali suoi”. Attenzione però: animali quegli uomini lo erano diventati non per la forza di un istinto naturale ma per effetto di un ordine: c’era stata l’esortazione del comandante Giovanni De Gennaro a “riscattare l’immagine della Polizia”. Dunque quei poliziotti erano stati caricati deliberatamente di un’aggressività obbligata, nutrita di senso del dovere, potenziata dall’idea dell’impunità di un corpo non soggetto alla legge, libero di superare il confine dell’illegalità perché c’era chi gli garantiva il privilegio dell’impunità. E fu proprio chi aveva la funzione del comando a creare verbali menzogneri “funzionali a sostenere così gravi accuse”, tali da giustificare arresti di massa e a indurre i pubblici ministeri a chiedere la convalida di quegli arresti.
Questo è il punto nuovo e importante che la sentenza chiarisce. Qui
si sposta finalmente l’attenzione verso l’alto, verso i vertici finora lasciati in ombra e sfuggiti col silenzio o con la copertura omertosa alle loro responsabilità. E si entra nella dinamica dei corpi scelti e delle logiche dell’obbedienza che possono trasformare gli individui più banalmente normali in macellai di carne umana. Sappiamo di quali imprese furono capaci nel Terzo Reich quei buoni borghesi di Amburgo che un ordine dall’alto e una divisa fecero diventare assassini professionali, capaci di straordinaria efficienza nell’eliminare intere comunità di ebrei. E basterebbero gli esperimenti di laboratorio sui meccanismi dell’obbedienza per spiegare quali effetti possa avere un ordine impartito da un comandante di polizia a un corpo militarizzato. Sulle loro spalle gravava il compito di “riscattare l’immagine” di tutta e intera la polizia italiana. C’era stata la giornata precedente, la devastazione, i saccheggi, una gestione dell’ordine pubblico talmente disastrosa e insipiente da far pensare addirittura a una pianificazione deliberata del disordine. Fu per rimediare e cancellare errori e mancanze vergognose che De Gennaro spedì centinaia di uomini in assetto militare a compiere qualcosa di ben più vergognoso: qualcosa che, invece di riscattare l’immagine della polizia l’ha resa ancora più sporca, tanto da porre con urgenza a chi di dovere il compito di provvedere alle sanzioni opportune e necessarie. Anche perché stavolta c’è qualcosa di più importante dell’immagine di un corpo dello Stato: quel che fu compiuto allora – nota la sentenza della Cassazione – “ha gettato discredito sulla nazione agli occhi del mondo intero”. Forse, grazie anche ai magistrati della Cassazione, si può finalmente cominciare a uscire dalla notte genovese della democrazia.

"La verità e la vergogna", di Adriano Prosperi

Sulla notte genovese della Scuola Diaz la sentenza numero 3885 fa finalmente chiarezza. La condotta della polizia nell’irruzione, dice la sentenza, «fu un puro esercizio di violenza». E questo lo sapevamo. Lo disse subito questo giornale che non ha più cessato di ricordarlo. Da allora la vigilanza dell’informazione democratica ha permesso che la coscienza dell’enormità dell’accaduto si facesse strada a forza nello spazio della vita civile vincendo l’incredulità più o meno faziosa e i maldestri tentativi di minimizzare.
Quel giorno ci svegliammo all’improvviso, straniati, in un Paese irriconoscibile. La scuola Diaz è diventata il luogo simbolo di una alterazione intollerabile delle regole di convivenza tale da farci vergognare di essere italiani. Dura da quella notte il senso di una mutazione del sistema Italia. “Scuola Diaz” è diventato un promemoria capace di segnare meglio di ogni altro il punto di passaggio a un diverso ciclo storico della nostra repubblica. Certo, anche nei decenni precedenti c’erano state manganellate e spari. Ma non quella macelleria senza limiti, non quei corpi e quelle teste sanguinanti, non quelle ossa rotte, non lamenti e preghiere di giovani inermi aggrediti con spaventosa violenza nel sonno e nella quiete di una notte genovese. La vita italiana fece allora un balzo verso dimensioni ignote e spaventevoli, che si faticò a definire se non col solito rinvio al nostro peggiore passato, il fascismo. Per misurare quanto diverso fosse diventato il panorama del Paese bastava pensare a quel che era accaduto negli stretti spazi dell’antica città di mare nel luglio 1960 quando da lì era venuto il segno di un rifiuto senza appello al governo clericofascista di Tambroni e al tentativo di riportare indietro un Paese ormai cresciuto nella libertà. Ma quella che si era annunciata col pestaggio della Diaz era una fase nuova e inaudita, dove lo scontro non era tra masse vigili, determinate, aggressive di manifestanti e le cariche di “alleggerimento” delle forze di polizia, ma tra uomini in divisa ebbri di violenza contro persone giovani, inermi, indifese come può esserlo chi giace nell’abbandono fiducioso del sonno. Le parole della sentenza sono proprio queste: «Le violenze, generalizzate in tutti gli ambienti della scuola, si sono scatenate contro persone
all’evidenza inermi, alcune dormienti, altre già in atteggiamento di sottomissione con le mani alzate e, spesso, con la loro posizione seduta in manifesta attesa di disposizioni ». Su quelle persone, dormienti o sedute, supplici, sottomesse, fiduciose, si esercitò una violenza «non giustificata e punitiva, vendicativa e diretta all’umiliazione e alla sofferenza fisica e mentale delle vittime». La sentenza va oltre questa denunzia: ci dice come e perché, e per colpa di chi, avvenne il massacro che lasciò 87 feriti anche molto gravi e insanguinò le pareti e i pavimenti di quella scuola. Leggiamola attentamente, perché una volta di più abbiamo l’occasione per imparare qualcosa sui comportamenti della polizia e sulle regole che governano corpi speciali sempre esposti per loro natura a subire l’attrazione dell’arbitrio e dell’illegalità. Sapevamo già che gli agenti erano apparsi al prefetto La Barbera in preda a un certo nervosismo, tanto da fargli pensare che si preparavano cose gravi perché, come lui disse, “ognuno conosce gli animali suoi”. Attenzione però: animali quegli uomini lo erano diventati non per la forza di un istinto naturale ma per effetto di un ordine: c’era stata l’esortazione del comandante Giovanni De Gennaro a “riscattare l’immagine della Polizia”. Dunque quei poliziotti erano stati caricati deliberatamente di un’aggressività obbligata, nutrita di senso del dovere, potenziata dall’idea dell’impunità di un corpo non soggetto alla legge, libero di superare il confine dell’illegalità perché c’era chi gli garantiva il privilegio dell’impunità. E fu proprio chi aveva la funzione del comando a creare verbali menzogneri “funzionali a sostenere così gravi accuse”, tali da giustificare arresti di massa e a indurre i pubblici ministeri a chiedere la convalida di quegli arresti.
Questo è il punto nuovo e importante che la sentenza chiarisce. Qui
si sposta finalmente l’attenzione verso l’alto, verso i vertici finora lasciati in ombra e sfuggiti col silenzio o con la copertura omertosa alle loro responsabilità. E si entra nella dinamica dei corpi scelti e delle logiche dell’obbedienza che possono trasformare gli individui più banalmente normali in macellai di carne umana. Sappiamo di quali imprese furono capaci nel Terzo Reich quei buoni borghesi di Amburgo che un ordine dall’alto e una divisa fecero diventare assassini professionali, capaci di straordinaria efficienza nell’eliminare intere comunità di ebrei. E basterebbero gli esperimenti di laboratorio sui meccanismi dell’obbedienza per spiegare quali effetti possa avere un ordine impartito da un comandante di polizia a un corpo militarizzato. Sulle loro spalle gravava il compito di “riscattare l’immagine” di tutta e intera la polizia italiana. C’era stata la giornata precedente, la devastazione, i saccheggi, una gestione dell’ordine pubblico talmente disastrosa e insipiente da far pensare addirittura a una pianificazione deliberata del disordine. Fu per rimediare e cancellare errori e mancanze vergognose che De Gennaro spedì centinaia di uomini in assetto militare a compiere qualcosa di ben più vergognoso: qualcosa che, invece di riscattare l’immagine della polizia l’ha resa ancora più sporca, tanto da porre con urgenza a chi di dovere il compito di provvedere alle sanzioni opportune e necessarie. Anche perché stavolta c’è qualcosa di più importante dell’immagine di un corpo dello Stato: quel che fu compiuto allora – nota la sentenza della Cassazione – “ha gettato discredito sulla nazione agli occhi del mondo intero”. Forse, grazie anche ai magistrati della Cassazione, si può finalmente cominciare a uscire dalla notte genovese della democrazia.

"C’è tanta differenza tra destra e sinistra", di Nicola Cacace

Il Premio Nobel Joseph Stiglitz, nel suo ultimo libro, The price od inequality (il prezzo della diseguaglianza), ha evidenziato come le diseguaglianze nel mondo globalizzato siano alla base della crisi di molti Paesi. Egli riconferma il dato che nella società della conoscenza mentre il capitale è mobile, la risorsa umana resta locale e questa si conferma il primo fattore di successo di imprese e Paesi e di attrazione degli investimenti. Emblematico il caso della Svezia, Paese ad alta pressione fiscale e dal costoso welfare universale, tra i primi paesi occidentali per eguaglianza ed attrazione di Ide, investimenti diretti esteri, sino al 30% degli investimenti fissi (Italia è al 3%).
Stiglitz cita il caso degli Stati Uniti, Paese ad alta diseguaglianza dove, negli ultimi decenni, da Reagan in poi, la ricchezza si è accumulata a favore dell’1% delle famiglie, col restante 99% che ha perso potere d’acquisto. L’effetto delle diseguaglianze sullo sviluppo è ancora più evidente in Europa, data la ricchezza di dati significativi, in particolare l’indice Gini, che misura le diseguaglianze di reddito, con valori che vanno da 0 (Paesi teoricamente a perfetta parità di redditi) ad 1 (Paesi col massimo di diseguaglianze). Questi dati confermano ancora una volta che i Paesi a più alta diseguaglianza, indice di Gini superiore a 0,3, sono quelli più in crisi e il cui reddito è cresciuto meno. In particolare i principali Paesi a maggior diseguaglianza dell’Eurozona sono Portogallo (Gini 0,36), Grecia (0,33) e Italia (0,32), mentre i Paesi con distribuzione dei redditi più equa sono Germania (0,29), Francia (0,28), Olanda e Belgio (0,27), Austria e Finlandia (0,26).
Non è un caso che i Paesi meno diseguali, siano cresciuti molto più dei secondi: nei 6 anni 2005-2010 il tasso cumulato di crescita del Pil è stato del 5% in Francia, dell’8% in Germania, Belgio e Finlandia, del 9% in Olanda ed Austria, mentre è stato del 4% in Grecia, del 3% in Portogallo e del -0,1% in Italia. I Paesi europei più «eguali» sono cresciuti più dei Paesi più «diseguali», con due eccezioni che confermano la regola, Spagna ed Irlanda, Paesi ad alta diseguaglianza (Gini 0,32) il cui Pil nel sessennio è cresciuto molto (8%), grazie solo alle Bolle immobiliare e finanziaria, che successivamente questi Paesi stanno pagando duramente con recessione e disoccupazione.
Ho ricordato questi dati per spiegare due assunti: A) esistono ancora oggi differenze nette tra destra e sinistra, differenze diverse da quelle classiste di una società che non c’è più, ma differenze giustificate da nuove stratificazioni sociali tra vertice e base della società. Una destra che chiede libertà senza eguaglianza e una sinistra che chiede libertà con eguaglianza; B) un governo politico di centrosinistra è da preferire ad un governo tecnico-bis, essendo il primo teso a mantenere gli impegni con l’Europa sia pure in un quadro di maggiore equità sociale, a differenza del secondo.
I casi della politica fiscale seguita in Francia dal presidente Hollande più tasse ai ricchi, Tobin tax per la finanza, etc.e quella seguita anche in Italia da Monti Imu sulla casa senza alcuna progressività per i multiproprietari, astensione a Bruxelles sulla Tobin tax anche per i condizionamenti della destra, sono esempi concreti di differenze politiche significative. Ecco perché il Pd non può non rifiutare l’ipotesi di un governo Monti bis, a priori e senza vaglio elettorale, pur riconoscendo al professore tutti i meriti acquisiti, tra cui quello di aver tirato il Paese fuori dal baratro in cui Berlusconi lo aveva avviato.
A prescindere da questioni di forma non marginali la farsa di una manifestazione elettorale con un candidato premier virtuale contro candidati in carne e ossa un governo tecnico-bis non potrebbe perseguire gli obiettivi di eguaglianza del centrosinistra. Questi alcuni significativi motivi per rifiutare l’ipotesi di un Monti-bis, definito a priori prima di una eventuale emergenza di ingovernabilità, oltre che per il rispetto degli elettori e dello stesso professor Monti, la cui nota coerenza di democratico e liberale, sono sicuro, lo sottrarrà all’abbraccio interessato di liste, movimenti e partiti, tesi solo, strumentalizzando la sua credibilità, ad evitare una sconfitta annunciata. Appoggiare Monti a priori, come chiedono anche alcuni amici e compagni del Pd, oltre a umiliare elettori e politica, significherebbe distruggere l’anima e il corpo dell’unico partito che vuole eguaglianza nella libertà.

L’Unità 02.12.10

"C’è tanta differenza tra destra e sinistra", di Nicola Cacace

Il Premio Nobel Joseph Stiglitz, nel suo ultimo libro, The price od inequality (il prezzo della diseguaglianza), ha evidenziato come le diseguaglianze nel mondo globalizzato siano alla base della crisi di molti Paesi. Egli riconferma il dato che nella società della conoscenza mentre il capitale è mobile, la risorsa umana resta locale e questa si conferma il primo fattore di successo di imprese e Paesi e di attrazione degli investimenti. Emblematico il caso della Svezia, Paese ad alta pressione fiscale e dal costoso welfare universale, tra i primi paesi occidentali per eguaglianza ed attrazione di Ide, investimenti diretti esteri, sino al 30% degli investimenti fissi (Italia è al 3%).
Stiglitz cita il caso degli Stati Uniti, Paese ad alta diseguaglianza dove, negli ultimi decenni, da Reagan in poi, la ricchezza si è accumulata a favore dell’1% delle famiglie, col restante 99% che ha perso potere d’acquisto. L’effetto delle diseguaglianze sullo sviluppo è ancora più evidente in Europa, data la ricchezza di dati significativi, in particolare l’indice Gini, che misura le diseguaglianze di reddito, con valori che vanno da 0 (Paesi teoricamente a perfetta parità di redditi) ad 1 (Paesi col massimo di diseguaglianze). Questi dati confermano ancora una volta che i Paesi a più alta diseguaglianza, indice di Gini superiore a 0,3, sono quelli più in crisi e il cui reddito è cresciuto meno. In particolare i principali Paesi a maggior diseguaglianza dell’Eurozona sono Portogallo (Gini 0,36), Grecia (0,33) e Italia (0,32), mentre i Paesi con distribuzione dei redditi più equa sono Germania (0,29), Francia (0,28), Olanda e Belgio (0,27), Austria e Finlandia (0,26).
Non è un caso che i Paesi meno diseguali, siano cresciuti molto più dei secondi: nei 6 anni 2005-2010 il tasso cumulato di crescita del Pil è stato del 5% in Francia, dell’8% in Germania, Belgio e Finlandia, del 9% in Olanda ed Austria, mentre è stato del 4% in Grecia, del 3% in Portogallo e del -0,1% in Italia. I Paesi europei più «eguali» sono cresciuti più dei Paesi più «diseguali», con due eccezioni che confermano la regola, Spagna ed Irlanda, Paesi ad alta diseguaglianza (Gini 0,32) il cui Pil nel sessennio è cresciuto molto (8%), grazie solo alle Bolle immobiliare e finanziaria, che successivamente questi Paesi stanno pagando duramente con recessione e disoccupazione.
Ho ricordato questi dati per spiegare due assunti: A) esistono ancora oggi differenze nette tra destra e sinistra, differenze diverse da quelle classiste di una società che non c’è più, ma differenze giustificate da nuove stratificazioni sociali tra vertice e base della società. Una destra che chiede libertà senza eguaglianza e una sinistra che chiede libertà con eguaglianza; B) un governo politico di centrosinistra è da preferire ad un governo tecnico-bis, essendo il primo teso a mantenere gli impegni con l’Europa sia pure in un quadro di maggiore equità sociale, a differenza del secondo.
I casi della politica fiscale seguita in Francia dal presidente Hollande più tasse ai ricchi, Tobin tax per la finanza, etc.e quella seguita anche in Italia da Monti Imu sulla casa senza alcuna progressività per i multiproprietari, astensione a Bruxelles sulla Tobin tax anche per i condizionamenti della destra, sono esempi concreti di differenze politiche significative. Ecco perché il Pd non può non rifiutare l’ipotesi di un governo Monti bis, a priori e senza vaglio elettorale, pur riconoscendo al professore tutti i meriti acquisiti, tra cui quello di aver tirato il Paese fuori dal baratro in cui Berlusconi lo aveva avviato.
A prescindere da questioni di forma non marginali la farsa di una manifestazione elettorale con un candidato premier virtuale contro candidati in carne e ossa un governo tecnico-bis non potrebbe perseguire gli obiettivi di eguaglianza del centrosinistra. Questi alcuni significativi motivi per rifiutare l’ipotesi di un Monti-bis, definito a priori prima di una eventuale emergenza di ingovernabilità, oltre che per il rispetto degli elettori e dello stesso professor Monti, la cui nota coerenza di democratico e liberale, sono sicuro, lo sottrarrà all’abbraccio interessato di liste, movimenti e partiti, tesi solo, strumentalizzando la sua credibilità, ad evitare una sconfitta annunciata. Appoggiare Monti a priori, come chiedono anche alcuni amici e compagni del Pd, oltre a umiliare elettori e politica, significherebbe distruggere l’anima e il corpo dell’unico partito che vuole eguaglianza nella libertà.
L’Unità 02.12.10

"Corruzione, il Pdl ci riprova con il salva-Ruby", di Liana Milella

Due emendamenti per far assolvere Berlusconi. Il Pd: basta ricatti, ora voto di fiducia. Una salva-Ruby non si nega a nessuno. Tantomeno a Berlusconi. Una alla Camera l’aveva proposta Sisto, un Pdl. Ma cadde a giugno nel nulla. Due senatori sempre Pdl, Compagna e Galloni, si precipitano a riproporla al Senato. Non s’accontentano. Mettono su carta pure la salva-Ruby/2. L’Ansa la scopre nel librone degli emendamenti. Non ha chance d’essere approvata perché salterebbe la maggioranza. Ma tant’è. Conta il gesto. E le benemerenze. Il trucco è ormai sperimentato.
Aggettivi, avverbi, che fanno smottare la norma precedente. Qui è in ballo il reato di concussione. Articolo 317 del codice penale. Testo chiarissimo. Il pubblico ufficiale che costringe uno indebitamente a dare o promettere denaro o altra utilità è punito col carcere. Il Guardasigilli Severino crea un secondo reato, ma mantiene sia l’avverbio “indebitamente” che la ricompensa. Che fa il Pdl? Propone di cambiare «indebitamente » con «illecitamente» e pretende che la concussione scatti solo se c’è un’utilità «patrimoniale». È ovvio che se passassero malauguratamente queste due modifiche il reato sarebbe un altro, non ci sarebbe più quella stessa condotta che i giuristi dicono sia necessaria per evitare di far evaporare i processi. Invece questo vuole il Pdl, che svanisca quello di Berlusconi per concussione a Milano per aver premuto sul funzionario di polizia Ostuni per liberare Ruby.
Ora. Dice il vice presidente dei senatori Pdl Quagliariello che «se Severino presentasse emendamenti che modificano i due punti che abbiamo indicato,
traffico di influenze e corruzione tra privati, noi ritireremmo i nostri». Non si fa alcun cenno alle salva-Ruby, segno che non è su di esse che il Pdl punta per approvare la legge. Certo, come dice il capogruppo Pd in commissione Della Monica, «c’è sempre il rischio di un blitz visto che loro, con la Lega, sono più di noi». Ma che interesse può avere il Carroccio di Maroni, proprio in questo momento politico, a fare un favore del genere a Berlusconi? Potrebbe servire solo per far saltare il governo Monti.
Per star tranquillo il Pd ribadisce — ormai da una settimana — che il ddl anti-corruzione va approvato «con la fiducia» proprio com’è uscito dalla Camera. Insistono il capogruppo Finocchiaro, il responsabile Giustizia Orlando, la capogruppo alla Camera Ferranti. L’Idv, con Belisario e Li Gotti, chiede che si fermi «la politica dei ricatti». È un coro. Ma il ministro della Giustizia Severino, nella sua riservatezza divenuta ormai proverbiale, lavora a via Arenula per produrre un maxi-emendamento che, se il consiglio dei ministri di giovedì sui costi degli enti locali non dovesse durar troppo, potrebbe essere già presentato nelle commissioni Giustizia e Affari costituzionali nel pomeriggio. Altrimenti se ne riparla martedì.
La via è segnata. Le salva-Ruby, tranne sorprese, non hanno chance, soprattutto perché, come sostengono molti tecnici, il nuovo reato di corruzione per induzione (punito fino a 10 anni) già così aiuta Berlusconi e naturalmente anche l’ex pd Penati, appena richiesto di un rinvio a giudizio per concussione. Potrebbe salvarli dai loro processi, checché ne dicano sia Severino che Ghedini, visto che è una norma diversa, più favorevole, quindi impugnabile.
Tempi. Il presidente Schifani spinge sull’acceleratore («sono ottimista»), ma il presidente della Giustizia Berselli lo frena, «qui stiamo andando a 300 all’ora, guarda che deragliamo».

La Repubblica 02.10.12