Nelle primarie è giusto crederci e io ci credo. Sono un’ottima occasione per elaborare idee, confrontarsi, coinvolgere. E con una società piagata dalla corruzione e una politica che disgusta gli italiani, dobbiamo considerarle uno strumento per non fare precipitare tutti, in particolare i più giovani, nella repulsione per l’impegno civico o, peggio, nel disinteresse totale.
Questa volta il voto servirà per scegliere il candidato del centrosinistra alla Presidenza del Consiglio: una donna o un uomo che, se vinceremo le elezioni, deve avere ricca preparazione tecnica ma anche personale autorevolezza nazionale ed internazionale per affrontare la più grave crisi economica dal 1930. Prima ancora di vincere, quel candidato dovrà lavorare per convincere gli italiani ad andare a votare, e a votare centrosinistra, in un clima di antipolitica dilagante.
Considerato l’obiettivo, va riconosciuto un coraggio fuori dall’ordinario a coloro che si dichiarano pronti per questa competizione ed è anche per questo che la sfida deve svolgersi sui contenuti, in modo che ogni elettore possa fare la propria scelta sulla base di programmi chiari e non della simpatia, dell’affinità generazionale o dei vantaggi personali. La responsabilità dei candidati sarà anche misurata con la loro capacità di proporre squadre di donne e uomini che non appartengano alla classe dirigente del secolo scorso, che ci avvicinino al resto dell’Europa e propongano idee all’altezza delle sfide di questi tempi. Su alcuni temi sarebbe importante conoscere da subito il punto di vista dei candidati perché sono argomenti qualificanti di una proposta politica che si preoccupa del futuro dell’Italia in Europa. Sono temi che sollecito da anni e che pongo ancora una volta in forma di riflessioni e domande.
Penso in primo luogo al tema del lavoro. Quali misure propongono i candidati per rilanciare l’occupazione? Cosa fare per estirpare quel tumore che si chiama nepotismo o assenza di merito, che mina nel profondo la salute civica del nostro Paese e garantire invece criteri meritocratici e trasparenti nel mondo del lavoro, della ricerca e anche nella politica?
Penso poi alla salute. La sostenibilità del servizio sanitario nazionale non riguarda solo le questioni di bilancio ma anche il livello di civiltà di un Paese. Che fare dopo 21 miliardi di tagli negli ultimi tre anni, con sette regioni commissariate, con un sud dove la sanità pubblica è solo una parola teorica priva di concretezza? Che fare contro gli scandali nella gestione della sanità, che divorano risorse in modo criminale? Sono d’accordo i candidati alle primarie ad eliminare il controllo della politica nei meccanismi di nomina di direttori generali e primari? E ad individuare strumenti di valutazione seri ed indipendenti, per cancellare l’epoca dei tagli lineari e combattere gli sprechi senza pesare sui cittadini e premiando chi lavora meglio?
Ma il grado di civiltà e di democrazia si misura anche dalla capacità di ascoltare la società, comprenderne i cambiamenti e adottare delle leggi nell’interesse delle persone. Il tema della cittadinanza è forse il più impellente quando facciamo riferimento all’esigenza concreta di nuovi diritti sociali e civili. L’Italia è lontana dall’Europa su molti altri temi dalle unioni civili, alle norme per il fine vita, alla procreazione assistita, sino alla ricerca così promettente sulle cellule staminali embrionali. Sono d’accordo i candidati nel riconoscere che chi nasce in Italia è italiano? Sono d’accordo nel garantire alle coppie di fatto, etero e gay, il pieno e pubblico riconoscimento civile dei propri diritti? E sono d’accordo nel sostenere una legge sul testamento biologico che permetta a ognuno di noi di decidere con i propri affetti quali cure riteniamo appropriate per noi stessi e quali no? In altre parole, si impegneranno a rispettare, e fare rispettare da tutti, i principi di laicità della Costituzione italiana?
L’Italia inoltre è arretratissima in quanto a rappresentanza femminile nelle istituzioni e più in generale nel mondo produttivo. Sono pronti i candidati a lavorare per la parità di genere nelle istituzioni e nel mondo del lavoro? Infine, uno sguardo al futuro: sappiamo che non ci sarà sviluppo né crescita se non si punterà su ricerca e innovazione. Da dove passa la strada dell’innovazione?
Abbiamo disperatamente bisogno di una classe dirigente che guardi all’Italia del 2030 e che sappia scegliere e promuovere i migliori; che sappia sradicare la gramigna dalla politica per piantare semi nuovi. Solo dando speranza e visione ai tanti giovani impegnati e brillanti che, spesso scoraggiati e sfiduciati, non provano nemmeno a mettersi in gioco e scappano all’estero, potremo creare le basi per dare una nuova opportunità di crescita all’Italia. Pongo oggi alcuni temi e domande. Altre se ne aggiungeranno, sull’ambiente o la scuola, ma l’importante è che le risposte arrivino puntuali e chiare, scacciando via ogni residua ambiguità e dimostrando il coraggio di chi ritiene di essere pronto a guidare l’Italia per restituirle crescita, orgoglio e sicurezza.
L’Unità 03.10.12
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"Il rating della scuola", di Raffaele Simone
In attesa che si diffonda l’idea che tutte le articolazioni della sfera pubblica (sanità, strutture militari, magistrature, amministrazione, fisco, agenzie) vanno sottoposte a valutazione, si è deciso, chissà perché, di cominciare il processo dalla scuola e dall’università, che da qualche anno sono messe in subbuglio da una varietà di iniziative. L’obiettivo è quello di attribuire un rating a tutti gli aspetti di quel mondo: persone, risorse, candidati e commissari, ricerca, strutture… Tutto ciò nella mira di agganciare al rating ottenuto una varietà di decisioni, a partire dai finanziamenti. Gli attori di questo processo sono due, indicati da sigle (scelte con poco senso del marketing) in cui la “V” significa “valutazione”: l’Invalsi si occupa della scuola, l’Anvur dell’università e della ricerca. Altre sigle con “V” designano funzioni diverse: Vqr, Gev, Ava.
L’esigenza di valutare la qualità di scuola e ricerca era avvertita da tempo. Credo di essere stato tra i primi a segnalarne l’urgenza per il mondo universitario, come condizione per innalzarne il livello, poco esaltante allora come ora. Naturalmente, però, quando in Italia si parla di “valutazione”, siccome nessuno si fida più di nessuno, c’è sempre chi storce il naso. “Nessuno mi può giudicare” sembra essere l’opinione dominante, a cominciare dalla politica, dove quella massima è stata pronunciata più volte. Quindi, la prima difficoltà consiste nel far accettare la “cultura della valutazione”.
Dopo alcuni anni di insistenza, all’idea che valutare non è una forma di mobbing ci si è pressappoco assuefatti. Poi si sono creati gli organi: nel 1999 l’Invalsi, che ha tardato non poco a trovare la sua mission di organo valutativo della scuola. Per l’università si ebbe dapprima il Civr (sempre impronunciabile), istituito nel 1998 e defunto nel 2006 senza lasciare rimpianto; poi l’Anvur, istituito nel 2006 (governo Prodi) ma messo in funzione solo nel 2010 (ministro Gelmini).
Tutto bene, allora? L’Italia è finalmente, come il Regno Unito o la Germania, in marcia verso la valutazione? Se avete risposto “no!”, la risposta, ahimé, è quella giusta. Quanto all’Invalsi, che da qualche anno sottopone tutti i ragazzi italiani a prove nazionali omogenee, i media hanno segnalato gli svarioni di cui le prove pullulano e il fastidio con cui l’esperienza è stata accolta dai professionisti della scuola. Si attendono serie correzioni di rotta. Gli aspetti critici dell’Anvur sono più numerosi. Diretto da un comitato di sette membri con esagerato orientamento tecno-numerico e (a quanto si sa) strapagati, è gravato da una gamma di competenze che molti considerano spropositata. Gli spetta infatti di valutare i risultati della ricerca, definire criteri per l’accreditamento di atenei e corsi di studio, controllare l’efficienza delle università, valutare i progetti del governo sulla ricerca. Queste competenze si sono concretizzate di recente nell’organizzazione di un “esercizio di valutazione” della ricerca negli anni 2004-2010 (il Vqr di cui sopra), nell’attribuzione di un rating alle riviste scientifiche, nella creazione di criteri per l’ammissione non solo dei candidati ai concorsi ma anche (udite!) dei candidati a fare da commissario in quei concorsi. Queste applicazioni sarebbero apprezzabili, se non fosse che il processo, malgrado l’enorme lavoro che comporta, ha patito tante di quelle imprecisioni, errori, marce indietro e macchinosità che sembra, al momento, inceppato.
Solo qualche esempio. L’ammissibilità dei candidati ai concorsi e dei commissari alle relative giurie è regolata dal terrificante sistema delle “mediane” (unicum mondiale). In pratica gli uni e gli altri possono candidarsi solo se hanno pubblicato un numero minimo di lavori, i quali valgono di più se apparsi in riviste con alto rating.
Ora, nella definizione delle “mediane” si è prodotta una serie incresciosa di ritardi, pentimenti e errori; i punteggi attribuiti alle riviste sono stati accusati di compromessi corporativi e alla fine tra le riviste “scientifiche” si sono intrufolati anche periodici come Airone, Yacht Capitale la rivista della diocesi di Udine; la natura rozzamente quantitativa dei criteri di selezione privilegia chi pubblica molto (quale che sia la qualità) rispetto a chi produce cose di alto livello; le auto-dichiarazioni dei candidati sono spesso inattendibili e non omogenee… Non è poco, eppure non basta. La calendarizzazione dei concorsi è spericolata: devono esaurirsi entro la fine di gennaio prossimo ma, siccome i candidati possono presentare domanda fino al 20 novembre, le commissioni non avranno che due mesi per esaminare i titoli di non meno di 15/20.000 persone!
Insomma, a sani principi generali fa contrasto una realizzazione tortuosa e zoppicante, che sta producendo sconcerto tra le migliaia di candidati. La cultura della valutazione va acquisita non solo dai valutati ma anche dai valutatori, da cui si attendono norme semplici, accurate, confrontabili. Che fare intanto? Lasciar correre? O azzerare e ricominciare?
La Repubblica 03.10.12
"Il rating della scuola", di Raffaele Simone
In attesa che si diffonda l’idea che tutte le articolazioni della sfera pubblica (sanità, strutture militari, magistrature, amministrazione, fisco, agenzie) vanno sottoposte a valutazione, si è deciso, chissà perché, di cominciare il processo dalla scuola e dall’università, che da qualche anno sono messe in subbuglio da una varietà di iniziative. L’obiettivo è quello di attribuire un rating a tutti gli aspetti di quel mondo: persone, risorse, candidati e commissari, ricerca, strutture… Tutto ciò nella mira di agganciare al rating ottenuto una varietà di decisioni, a partire dai finanziamenti. Gli attori di questo processo sono due, indicati da sigle (scelte con poco senso del marketing) in cui la “V” significa “valutazione”: l’Invalsi si occupa della scuola, l’Anvur dell’università e della ricerca. Altre sigle con “V” designano funzioni diverse: Vqr, Gev, Ava.
L’esigenza di valutare la qualità di scuola e ricerca era avvertita da tempo. Credo di essere stato tra i primi a segnalarne l’urgenza per il mondo universitario, come condizione per innalzarne il livello, poco esaltante allora come ora. Naturalmente, però, quando in Italia si parla di “valutazione”, siccome nessuno si fida più di nessuno, c’è sempre chi storce il naso. “Nessuno mi può giudicare” sembra essere l’opinione dominante, a cominciare dalla politica, dove quella massima è stata pronunciata più volte. Quindi, la prima difficoltà consiste nel far accettare la “cultura della valutazione”.
Dopo alcuni anni di insistenza, all’idea che valutare non è una forma di mobbing ci si è pressappoco assuefatti. Poi si sono creati gli organi: nel 1999 l’Invalsi, che ha tardato non poco a trovare la sua mission di organo valutativo della scuola. Per l’università si ebbe dapprima il Civr (sempre impronunciabile), istituito nel 1998 e defunto nel 2006 senza lasciare rimpianto; poi l’Anvur, istituito nel 2006 (governo Prodi) ma messo in funzione solo nel 2010 (ministro Gelmini).
Tutto bene, allora? L’Italia è finalmente, come il Regno Unito o la Germania, in marcia verso la valutazione? Se avete risposto “no!”, la risposta, ahimé, è quella giusta. Quanto all’Invalsi, che da qualche anno sottopone tutti i ragazzi italiani a prove nazionali omogenee, i media hanno segnalato gli svarioni di cui le prove pullulano e il fastidio con cui l’esperienza è stata accolta dai professionisti della scuola. Si attendono serie correzioni di rotta. Gli aspetti critici dell’Anvur sono più numerosi. Diretto da un comitato di sette membri con esagerato orientamento tecno-numerico e (a quanto si sa) strapagati, è gravato da una gamma di competenze che molti considerano spropositata. Gli spetta infatti di valutare i risultati della ricerca, definire criteri per l’accreditamento di atenei e corsi di studio, controllare l’efficienza delle università, valutare i progetti del governo sulla ricerca. Queste competenze si sono concretizzate di recente nell’organizzazione di un “esercizio di valutazione” della ricerca negli anni 2004-2010 (il Vqr di cui sopra), nell’attribuzione di un rating alle riviste scientifiche, nella creazione di criteri per l’ammissione non solo dei candidati ai concorsi ma anche (udite!) dei candidati a fare da commissario in quei concorsi. Queste applicazioni sarebbero apprezzabili, se non fosse che il processo, malgrado l’enorme lavoro che comporta, ha patito tante di quelle imprecisioni, errori, marce indietro e macchinosità che sembra, al momento, inceppato.
Solo qualche esempio. L’ammissibilità dei candidati ai concorsi e dei commissari alle relative giurie è regolata dal terrificante sistema delle “mediane” (unicum mondiale). In pratica gli uni e gli altri possono candidarsi solo se hanno pubblicato un numero minimo di lavori, i quali valgono di più se apparsi in riviste con alto rating.
Ora, nella definizione delle “mediane” si è prodotta una serie incresciosa di ritardi, pentimenti e errori; i punteggi attribuiti alle riviste sono stati accusati di compromessi corporativi e alla fine tra le riviste “scientifiche” si sono intrufolati anche periodici come Airone, Yacht Capitale la rivista della diocesi di Udine; la natura rozzamente quantitativa dei criteri di selezione privilegia chi pubblica molto (quale che sia la qualità) rispetto a chi produce cose di alto livello; le auto-dichiarazioni dei candidati sono spesso inattendibili e non omogenee… Non è poco, eppure non basta. La calendarizzazione dei concorsi è spericolata: devono esaurirsi entro la fine di gennaio prossimo ma, siccome i candidati possono presentare domanda fino al 20 novembre, le commissioni non avranno che due mesi per esaminare i titoli di non meno di 15/20.000 persone!
Insomma, a sani principi generali fa contrasto una realizzazione tortuosa e zoppicante, che sta producendo sconcerto tra le migliaia di candidati. La cultura della valutazione va acquisita non solo dai valutati ma anche dai valutatori, da cui si attendono norme semplici, accurate, confrontabili. Che fare intanto? Lasciar correre? O azzerare e ricominciare?
La Repubblica 03.10.12
"Il suicidio politico della Seconda Repubblica", di Marcello Sorgi
L’ondata di corruzione che sta portando al suicidio politico la Seconda Repubblica non si arresta. Anzi, negli ultimi giorni ha subito una recrudescenza: ieri con l’arresto di Franco Fiorito, il «Batman» di Anagni, attorno a cui ruota lo scandalo del Pdl del Lazio. E lunedì con la richiesta di rinvio a giudizio di Penati, il regista del «sistema Sesto» che ha fatto emergere una rete di tangenti destinate al Pd e distribuite con un ingegnoso sistema di falsi acquisti e false caparre. Ci si aspettava, di fronte a un quadro del genere, un’accelerata nell’approvazione della legge anti-corruzione giacente da mesi in Parlamento: ma per quanto il ministro della Giustizia Severino si sia impegnata, negli ultimi giorni, per arrivare a un compromesso che possa mettere d’accordo la maggioranza, il Pd continua ad accusare il centrodestra di voler far passare sottobanco gli emendamenti «salvaRuby» che dovrebbero servire a far cadere l’accusa di concussione pendente contro Berlusconi nel processo per il «bunga-bunga». Il segretario del Pdl Angelino Alfano ha tentato di parare, presentando un altro emendamento, cosiddetto «anti-Batman», per aumentare le pene per chi si appropria a fini personali dei fondi pubblici dei partiti. E il presidente del Senato Schifani, vista la confusione che continua a circondare la discussione, non ha potuto promettere di meglio che cercare di far concludere l’iter parlamentare del testo entro due settimane.
Nel frattempo, le novità che giorno dopo giorno vengono fuori dalle inchieste sono enormi. L’arresto di Fiorito (che ha dichiarato: «In carcere troverò gente migliore di quella del Pdl») è stato deciso perché dai primi accertamenti è emerso che si era appropriato di un milione e mezzo di euro (e su altri 4,6 sono in corso accertamenti), soldi usati anche per comperare la villa al Circeo e, lo scorso inverno, anche un fuoristrada (poi rivenduto) per far fronte alle nevicate che si erano abbattute su Roma!
In casa Pd la richiesta di rinvio a giudizio per Penati, fino a poco tempo fa vicepresidente del consiglio regionale lombardo, sta creando molta agitazione. Ci sono pressioni per farlo dimettere. Tra gli altri, insiste Pippo Civati, uno degli esponenti più critici della nuova generazione. Anche Bersani è in imbarazzo. Ma Penati continua a resistere: difeso, guarda caso, dal governatore Roberto Formigoni, anche lui alle prese con guai giudiziari e con richieste di dimissioni che si trascinano da mesi, e che potrebbero portare la Lombardia al voto regionale anticipato la prossima primavera.
La Stampa 03.10.12
"Il suicidio politico della Seconda Repubblica", di Marcello Sorgi
L’ondata di corruzione che sta portando al suicidio politico la Seconda Repubblica non si arresta. Anzi, negli ultimi giorni ha subito una recrudescenza: ieri con l’arresto di Franco Fiorito, il «Batman» di Anagni, attorno a cui ruota lo scandalo del Pdl del Lazio. E lunedì con la richiesta di rinvio a giudizio di Penati, il regista del «sistema Sesto» che ha fatto emergere una rete di tangenti destinate al Pd e distribuite con un ingegnoso sistema di falsi acquisti e false caparre. Ci si aspettava, di fronte a un quadro del genere, un’accelerata nell’approvazione della legge anti-corruzione giacente da mesi in Parlamento: ma per quanto il ministro della Giustizia Severino si sia impegnata, negli ultimi giorni, per arrivare a un compromesso che possa mettere d’accordo la maggioranza, il Pd continua ad accusare il centrodestra di voler far passare sottobanco gli emendamenti «salvaRuby» che dovrebbero servire a far cadere l’accusa di concussione pendente contro Berlusconi nel processo per il «bunga-bunga». Il segretario del Pdl Angelino Alfano ha tentato di parare, presentando un altro emendamento, cosiddetto «anti-Batman», per aumentare le pene per chi si appropria a fini personali dei fondi pubblici dei partiti. E il presidente del Senato Schifani, vista la confusione che continua a circondare la discussione, non ha potuto promettere di meglio che cercare di far concludere l’iter parlamentare del testo entro due settimane.
Nel frattempo, le novità che giorno dopo giorno vengono fuori dalle inchieste sono enormi. L’arresto di Fiorito (che ha dichiarato: «In carcere troverò gente migliore di quella del Pdl») è stato deciso perché dai primi accertamenti è emerso che si era appropriato di un milione e mezzo di euro (e su altri 4,6 sono in corso accertamenti), soldi usati anche per comperare la villa al Circeo e, lo scorso inverno, anche un fuoristrada (poi rivenduto) per far fronte alle nevicate che si erano abbattute su Roma!
In casa Pd la richiesta di rinvio a giudizio per Penati, fino a poco tempo fa vicepresidente del consiglio regionale lombardo, sta creando molta agitazione. Ci sono pressioni per farlo dimettere. Tra gli altri, insiste Pippo Civati, uno degli esponenti più critici della nuova generazione. Anche Bersani è in imbarazzo. Ma Penati continua a resistere: difeso, guarda caso, dal governatore Roberto Formigoni, anche lui alle prese con guai giudiziari e con richieste di dimissioni che si trascinano da mesi, e che potrebbero portare la Lombardia al voto regionale anticipato la prossima primavera.
La Stampa 03.10.12
"Le primarie del Pd entrano nel vivo. Bersani: a scuola niente merito se non c'è parità di condizioni", da La Tecnica della Scuola
Nel giorno in cui Vendola ufficializza la sua candidatura, l’attuale segretario del Partito Democratico dice di non accettare di parlare di merito quando si fanno parti uguali fra disuguali. Esternando una così una politica sulla scuola decisamente tradizionalista. Nel giorno in cui le primarie del Partito Democratico si arricchiscono di un’altra presenza importante, quale quella del governatore della regione Puglia, Nichi Vendola, che si aggiunge al sindaco di Firenze, Matteo Renzi, dal segretario Pd, Pier Luigi Bersani, giungono affermazioni indicative sul suo pensiero a proposito della gestione della scuola pubblica.
Nel corso del ‘Web-talk’, svolto su YouDem, Bersani ha affermato che a scuola non si può parlare di premiare il “merito” se non c’è “parità di condizioni”.
Il segretario del Partito Democratico ha poi spiegato perché “prima di parlare di merito bisogna parlare di parità di condizioni: io non accetto di parlare di merito quando si fanno parti uguali fra disuguali”.
Mettendo in luce, inoltre, la sua estrazione culturale di stampo filosofico (con tanto di laurea raggiunta a suon di 30 e lode), Bersani ha concluso così. “Poi capisco che è utopica la cosa che dico, però parto da quel presupposto per cercare di avvicinarmi a quell’idea”.
Anche a proposito degli alunni non italiani, Bersani si è dimostrato inclusivo, tornando ad auspicare un mutamento alla normativa attuale che obbliga i cittadini stranieri, nati da genitori altrettanto stranieri, a dover attendere il 18esimo anno di età per chiedere la cittadinanza. “E’ intollerabile, umiliante – ha detto il segretario del Pd – che in un paese civile come l’Italia i siano giovani nati qua, o arrivati qua che avevano tre-quattro anni, che frequentano le nostre scuole, non abbiano cittadinanza Utopica o no, l’attuale segretario del Pd sembra aver tracciato la strada che condurrà sul fronte dell’istruzione. Intesa come un servizio pubblico da garantire a tutti, prescindendo dal ceto sociale e dal talento personale. Esternando, insomma, una visione della scuola decisamente tradizionalista. E garantista della Costituzione. Sicuramente vicina a quella di Vendola. E più distante da quella più competitiva auspicata da tempo dal compagno-rivale Renzi.
da La Tecnica della Scuola 03.10.12
"Le primarie del Pd entrano nel vivo. Bersani: a scuola niente merito se non c'è parità di condizioni", da La Tecnica della Scuola
Nel giorno in cui Vendola ufficializza la sua candidatura, l’attuale segretario del Partito Democratico dice di non accettare di parlare di merito quando si fanno parti uguali fra disuguali. Esternando una così una politica sulla scuola decisamente tradizionalista. Nel giorno in cui le primarie del Partito Democratico si arricchiscono di un’altra presenza importante, quale quella del governatore della regione Puglia, Nichi Vendola, che si aggiunge al sindaco di Firenze, Matteo Renzi, dal segretario Pd, Pier Luigi Bersani, giungono affermazioni indicative sul suo pensiero a proposito della gestione della scuola pubblica.
Nel corso del ‘Web-talk’, svolto su YouDem, Bersani ha affermato che a scuola non si può parlare di premiare il “merito” se non c’è “parità di condizioni”.
Il segretario del Partito Democratico ha poi spiegato perché “prima di parlare di merito bisogna parlare di parità di condizioni: io non accetto di parlare di merito quando si fanno parti uguali fra disuguali”.
Mettendo in luce, inoltre, la sua estrazione culturale di stampo filosofico (con tanto di laurea raggiunta a suon di 30 e lode), Bersani ha concluso così. “Poi capisco che è utopica la cosa che dico, però parto da quel presupposto per cercare di avvicinarmi a quell’idea”.
Anche a proposito degli alunni non italiani, Bersani si è dimostrato inclusivo, tornando ad auspicare un mutamento alla normativa attuale che obbliga i cittadini stranieri, nati da genitori altrettanto stranieri, a dover attendere il 18esimo anno di età per chiedere la cittadinanza. “E’ intollerabile, umiliante – ha detto il segretario del Pd – che in un paese civile come l’Italia i siano giovani nati qua, o arrivati qua che avevano tre-quattro anni, che frequentano le nostre scuole, non abbiano cittadinanza Utopica o no, l’attuale segretario del Pd sembra aver tracciato la strada che condurrà sul fronte dell’istruzione. Intesa come un servizio pubblico da garantire a tutti, prescindendo dal ceto sociale e dal talento personale. Esternando, insomma, una visione della scuola decisamente tradizionalista. E garantista della Costituzione. Sicuramente vicina a quella di Vendola. E più distante da quella più competitiva auspicata da tempo dal compagno-rivale Renzi.
da La Tecnica della Scuola 03.10.12
