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"Corruzione, il Pdl ci riprova con il salva-Ruby", di Liana Milella

Due emendamenti per far assolvere Berlusconi. Il Pd: basta ricatti, ora voto di fiducia. Una salva-Ruby non si nega a nessuno. Tantomeno a Berlusconi. Una alla Camera l’aveva proposta Sisto, un Pdl. Ma cadde a giugno nel nulla. Due senatori sempre Pdl, Compagna e Galloni, si precipitano a riproporla al Senato. Non s’accontentano. Mettono su carta pure la salva-Ruby/2. L’Ansa la scopre nel librone degli emendamenti. Non ha chance d’essere approvata perché salterebbe la maggioranza. Ma tant’è. Conta il gesto. E le benemerenze. Il trucco è ormai sperimentato.
Aggettivi, avverbi, che fanno smottare la norma precedente. Qui è in ballo il reato di concussione. Articolo 317 del codice penale. Testo chiarissimo. Il pubblico ufficiale che costringe uno indebitamente a dare o promettere denaro o altra utilità è punito col carcere. Il Guardasigilli Severino crea un secondo reato, ma mantiene sia l’avverbio “indebitamente” che la ricompensa. Che fa il Pdl? Propone di cambiare «indebitamente » con «illecitamente» e pretende che la concussione scatti solo se c’è un’utilità «patrimoniale». È ovvio che se passassero malauguratamente queste due modifiche il reato sarebbe un altro, non ci sarebbe più quella stessa condotta che i giuristi dicono sia necessaria per evitare di far evaporare i processi. Invece questo vuole il Pdl, che svanisca quello di Berlusconi per concussione a Milano per aver premuto sul funzionario di polizia Ostuni per liberare Ruby.
Ora. Dice il vice presidente dei senatori Pdl Quagliariello che «se Severino presentasse emendamenti che modificano i due punti che abbiamo indicato,
traffico di influenze e corruzione tra privati, noi ritireremmo i nostri». Non si fa alcun cenno alle salva-Ruby, segno che non è su di esse che il Pdl punta per approvare la legge. Certo, come dice il capogruppo Pd in commissione Della Monica, «c’è sempre il rischio di un blitz visto che loro, con la Lega, sono più di noi». Ma che interesse può avere il Carroccio di Maroni, proprio in questo momento politico, a fare un favore del genere a Berlusconi? Potrebbe servire solo per far saltare il governo Monti.
Per star tranquillo il Pd ribadisce — ormai da una settimana — che il ddl anti-corruzione va approvato «con la fiducia» proprio com’è uscito dalla Camera. Insistono il capogruppo Finocchiaro, il responsabile Giustizia Orlando, la capogruppo alla Camera Ferranti. L’Idv, con Belisario e Li Gotti, chiede che si fermi «la politica dei ricatti». È un coro. Ma il ministro della Giustizia Severino, nella sua riservatezza divenuta ormai proverbiale, lavora a via Arenula per produrre un maxi-emendamento che, se il consiglio dei ministri di giovedì sui costi degli enti locali non dovesse durar troppo, potrebbe essere già presentato nelle commissioni Giustizia e Affari costituzionali nel pomeriggio. Altrimenti se ne riparla martedì.
La via è segnata. Le salva-Ruby, tranne sorprese, non hanno chance, soprattutto perché, come sostengono molti tecnici, il nuovo reato di corruzione per induzione (punito fino a 10 anni) già così aiuta Berlusconi e naturalmente anche l’ex pd Penati, appena richiesto di un rinvio a giudizio per concussione. Potrebbe salvarli dai loro processi, checché ne dicano sia Severino che Ghedini, visto che è una norma diversa, più favorevole, quindi impugnabile.
Tempi. Il presidente Schifani spinge sull’acceleratore («sono ottimista»), ma il presidente della Giustizia Berselli lo frena, «qui stiamo andando a 300 all’ora, guarda che deragliamo».
La Repubblica 02.10.12

Tobin Tax, l’offensiva del Pd: «Il governo non perda tempo», di Bianca Di Giovanni

L’iniziativa del gruppo alla Camera in vista del Consiglio europeo: «Pronta
la nostra mozione». Il governo decida subito. E non solo: decida su indicazione politica del Parlamento. Questo il messaggio del Pd indirizzato al premier Mario Monti e al suo ministro dell’Economia Vittorio Grilli sulla posizione del nostro Paese riguardo l’introduzione della tassa sulle transazioni finanziarie. Ora che Germania e Francia hanno espresso esplicitamente il loro appoggio all’ipotesi di prelievo «anti-speculazione», anche il nostro Paese deve schierarsi, e sostenere in Europa anche una decisione a cooperazione rafforzata, cioè con il sì di almeno 9 Stati. I democratici avvisano l’esecutivo: se non ci sarà una risposta chiara entro il prossimo consiglio europeo di fine ottobre «potremmo valutare l’ipotesi di presentare una mozione in Parlamento dove una grande maggioranza vuole la Tobin tax – dichiara Francesco Boccia (Pd) – così il governo avrebbe un chiaro mandato». In effetti sull’ipotesi Tobin da approvare anche a maggioranza in Europa potrebbe confluire anche l’Udc, «a patto che la cooperazione sia abbastanza forte, cioè coinvolga tutti i 17 di Eurolandia», sostiene Rocco Buttiglione.
Tutto nasce dall’ambiguità di Grilli, il quale nei giorni scorsi aveva dichiarato che «l’Italia ha tenuto una posizione aperta, vedremo al prossimo Ecofin se riusciremo a trovare una convergenza all’interno dell’Europa». Stop. Nulla di più. Un po’ poco rispetto alla presa di posizione netta dei leader francese e tedesco, che hanno scritto una lettera congiunta di sostegno alla proposta. «Nessuna irritazione per la lettera», aveva aggiunto il ministro italiano, sempre mantenendo molta cautela. Quasi una conferma per chi assicura che il ministro sia in realtà contrario a quell’ipotesi. «Come è sempre stato – spiega Boccia – visto che tutte le volte che il Pd avanzava proposte in quel senso, Giulio Tremonti rispondeva di no, anche ridicolizzandoci. Ho il fondato sospetto che il suo direttore generale fosse d’accordo con il ministro. In ogni caso voglio ricordare che questa è una decisione politica: è il Parlamento che decide».
Se Grilli frena, Monti tace. Ma la posizione del premier dovrebbe essere più aperturista: molto probabilmente sta cercando di giocare tatticamente l’adesione dell’Italia alla proposta, magari incassando qualche punto sul tema incandescente delle condizionalità per l’accesso al fondo salva-Stati (Esm). «Il premier si deve esprimere, e la cooperazione raf- forzata va decisa all’Ecofin di metà ottobre – aggiunge Sandro Gozi (Pd) – Personalmente credo che dica di sì. Il Parlamento italiano ha già preso posizione più volte, credo anche che ci siano le condizioni per una mozione unica. Lo stesso Ppe in Europa è su questa linea».
I NO DI TREMONTI
In effetti la storia della Tobin tax nei Palazzi della politica italiana ha già segnato alcune tappe. Il Pd dà battaglia dal 2009. «Dopo vari no di Tremonti – racconta Boccia – abbiamo depositato una proposta di legge primo firmatario Bersani. Il testo prevedeva un prelievo dello 0,05% a valre per metà sul compratore di titoli e per metà sul venditore. Il 50% del gettito era destinato alla riduzione del debito, il 25% alla cooperazione internazionale e l’altro 25 alle questioni climatiche. Naturalmente oggi le necessità sono mutate. All’epoca la Francia di Sarkozy era contraria. Oggi c’è il sì di Francia e Germania. L’Italia non può perdere questa occasione».
Nel gennaio scorso la Camera votò una mozione unitaria che impegnava il governo ad «appoggiare l’introduzione di una tassazione sulle transazioni finanziarie prospettando l’opportunità che essa si applichi a tutti Paesi membri dell’Unione europea e perseguendo contemporaneamente una più ampia intesa globale anche oltre i limiti dell’Unione europea». Allora la maggioranza fu netta. Il passo avanti di oggi sarebbe quello di aprire a un percorso a maggioranza. «Siamo aperti, anche se gli Stati coinvolti devono essere realtà importanti – spiega Buttiglione (Udc) – Per quanto mi riguarda ho sempre sostenuto questa ipotesi, anche quando ero in Europa. Credo che il gettito debba essere destinato a interventi per la crescita. In Parlamento penso sia importante coinvolgere tutte le forze di maggioranza, incluso il Pdl».
Il partito di Berlusconi è l’unico a presentarsi molto diviso al suo interno. I fedelissimi dell’ex premier sono contrari a una scelta che non includa anche gli Usa e la Gran Bretagna (che non aderirà mai). Ma molti al contrario spingono per una decisione anche limitata ai maggiori Paesi europei. Gli altri partiti voterebbero tutti a favore di una mozione che inviti il governo ad allinearsi con Francia e Germania. In Europa, tuttavia, il dibattito è ancora aperto. Parigi ha già introdotto una forma di prelievo, limitato però soltanto alle azioni (sono escluse le obbligazioni) di società con oltre un miliardo di capitalizzazione. Un fronte contrario invece è quello del nord, dove la Svezia ricorda ancora il fallimento degli anni ‘80, quando la tassa sulle transazioni (poi eliminata) dette un gettito inferiore del 70% del previsto. Ma quello fu l’effetto perverso di una decisione presa in solitudine.

L’Unità 02.10-12

"L’effetto Cortina sulle entrate fiscali", di Massimo Giannini

C’è poco da fare: quello che manca all’Italia è il “circolo virtuoso”. Attilio Befera, capo di Equitalia e braccio operativo dell’Agenzia delle Entrate, lo ripete da tempo. E lo ribadisce anche in questi giorni, costellati da due opposti
inconciliabili. A UNA parte c’è Mario Monti, che dice “il problema non è la differenza tra destra e sinistra, ma tra chi paga le tasse e chi le evade”. Dall’altra parte c’è Silvio Berlusconi, che urla “Equitalia pratica vere e proprie estorsioni”. In mezzo, c’è un abisso in cui precipitano tutti: gli onesti tartassati, che sopportano eroicamente una pressione fiscale ormai prossima al 45%, e i disonesti imboscati, che evadono ogni anno 260 miliardi di imposte. Così il “circolo virtuoso” fatica ad innescarsi, come lo stesso Befera ha spiegato pochi giorni fa ai parlamentari della Commissione finanze della Camera. Quel circolo «che porta, passo dopo passo, alla conquista di una cultura della legalità fiscale che troppo spesso è mancata nel Paese».
«L’evasione, insieme alla corruzione, resta una grande piaga nazionale». Nel bunker di Via Cristoforo Colombo, sede di Equitalia, questo è un teorema irrinunciabile, ma assolutamente dimostrabile. Rispetto al quale, le parole del premier risuonano come uno scudo prezioso: servono a mettere l’istituzione al riparo, almeno sul piano politico, dagli attacchi della destra populista e della sinistra antagonista. Befera può essere grato al presidente del Consiglio, come lo fu nella scorsa primavera, quando Monti andò personalmente a Equitalia, proprio nei giorni in cui fioccavano gli attentati e le intimidazioni. In questi mesi la pressione si era allentata, gli episodi di violenza erano scemati. Ma le parole dissennate e irresponsabili del Cavaliere non aiutano. E allontanano l’obiettivo che Befera dichiara solennemente di voler perseguire, anche di fronte al Parlamento: «Mi aspetto che la lotta all’evasione, più che la “mission” istituzionale dell’Amministrazione finanziaria, sia un obiettivo condiviso dalla società civile, e che le attività di controllo non siano più percepite come forme di invasiva intrusione nelle realtà private, ma siano accettate serenamente, al pari di altre forme di controllo dello Stato».
Equitalia ha commesso i suoi errori. Befera non li nasconde. Ma ha cercato di ridimensionarli, e di rimediare. É aumentato fino al 50% del totale il numero di mediazioni andata a buon fine con i contribuenti. É cambiata la norma sui crediti fiscali non pagati inferiori ai 2 mila euro, per i quali si possono fare solo due solleciti. Quest’anno si sono ridotti da 188 mila a 22 i blocchi amministrativi dei veicoli e da 29 mila a 2.700 le ipoteche. Parlare di “estorsioni”, in un Paese che secondo la Banca d’Italia continua a registrare un’evasione Iva superiore al 30%, è assurdo. Qualcosa si potrà e si dovrà ancora fare, anche sul piano legislativo, «per rendere davvero illuminata l’Amministrazione finanziaria», come vuole Befera.
Ma la lotta all’evasione deve continuare. «É una tappa nevralgica per il Paese». Befera ne è convinto. E proprio in questi giorni sta mettendo a punto la strategia d’autunno. Sulla sua scrivania c’è una cartellina, che riassume alcuni numeri-chiave. Il primo dato saliente riguarda l’andamento del recupero di evasione: nei primi otto mesi siamo a quota 7,2 miliardi. A fine anno la previsione è di 12,9 miliardi, contro i 12,7 del 2011. Un obiettivo giudicato “realistico”, come lo è quello fissato per il 2013, quando il recupero dovrebbe viaggiare verso i 13,2-13,5 miliardi. Il secondo dato saliente riguarda l’andamento delle entrate tributarie. In attesa dell’aggiornamento su agosto, nei primi sette mesi del 2012 c’è stato un aumento del gettito complessivo pari al 4,7%. Il gettito Iva si è ridotto invece dell’1,5%. «E’ il costo della recessione che incide sui consumi e sui versamenti ». Ma qui Befera e i suoi tecnici fanno una scomposizione ulteriore delle cifre, che fornisce un saldo sorprendente: nello stesso periodo, i versamenti Iva nel commercio al dettaglio (dai bar ai ristoranti) sono aumentati del 9%, e quelli sull’Iva nei servizi a terzi e a persone (dai centri benessere ai parrucchieri) sono aumentati
del 4%.
Come si spiega questo scostamento? Befera e i suoi non hanno dubbi: è “l’effetto Cortina”. Sia pure a fronte di un calo generalizzato dell’attività economica, i commercianti hanno rilasciato più scontrini, mentre i professionisti e gli artigiani hanno emesso più fatture. (come confermano anche le ultime statistiche di Findomestic). Tradotto nel gergo erariale: c’è stato un rilevante aumento della “compliance fiscale”, cioè della propensione dei contribuenti ad adempiere ai propri doveri. E questa propensione non può che nascere dall’effetto- deterrenza dei blitz compiuti dalle Fiamme Gialle nella “perla delle Dolomiti”, e poi sulle Costiere di Positano e di Taormina, o nei locali della movida milanese e romana. Per questo, nonostante le polemiche falso- garantiste dell’estate, i blitz di Equitalia continueranno anche nei prossimi mesi. «L’evidenza empirica dimostra che funzionano ». Dunque, non c’è ragione di interromperli.
Ma ci sono altre due “armi”, che Befera sta affinando e che sono pronte per l’offensiva antievasione di fine 2012-inizio 2013. La prima arma è il redditometro: ormai tutto è pronto per l’avvio del nuovo strumento, che sarà operativo dal mese di ottobre, e che con quasi 100 nuove voci dovrebbe consentire una significativa emersione di materia imponibile nell’area degli “invisibili” nel lavoro autonomo. La seconda arma, ancora più incisiva, sarà l’Anagrafe dei conti correnti. Befera sta perfezionando gli ultimi dettagli con il Garante per la Privacy, che ha chiesto la creazione di un “canale informatico riservato” per la trasmissione e la gestione dei dati bancari, proprio per tutelare i diritti dei contribuenti. Equitalia ha inviato il piano agli uffici di Antonello Soro. Manca solo il suo via libera, e a quel punto l’Amministrazione finanziaria potrà avere accesso diretto ai depositi bancari di tutti i cittadini “sospetti”. L’operazione scatterà con l’inizio del prossimo anno: secondo il timing di Befera, dal primo gennaio tutte le banche inizieranno a trasmettere all’Agenzia delle Entrate i tabulati con la movimentazione bancaria di tutti i clienti. E il Fisco, sulla base di questa documentazione, potrà chiedere tutti i chiarimenti
del caso.
C’è chi grida allo scandalo. Chi evoca il Grande Fratello. Qualche preoccupazione è legittima. Befera giura che non ci saranno abusi né violazioni alla riservatezza. Vedremo. L’evasione fiscale, come sostiene anche Monti, è davvero “una guerra”. E dunque, “a la guerre comme a la guerre”. Vale la pena di combattere. “A regime”, cioè quando tutto questo armamentario sarà in campo, i tecnici assicurano al capo di Equitalia che il recupero di evasione, anno su anno, può crescere di almeno 3 miliardi. Sono tanti, per un Paese che non ha risorse e si è impegnato al pareggio di bilancio. Ma è importante, e di questo anche Befera è consapevole, che tanto recupero di evasione a danno dei disonesti cominci a tradursi fin da subito in qualche tangibile ritorno nelle tasche degli onesti. Usare tutto il gettito riemerso per finanziare la rinuncia definitiva all’aumento delle aliquote Iva, a questo punto, può non bastare. Potrebbe rivelarsi più utile dirottare quelle risorse: lasciare cioè che aumenti l’Iva, e impiegare i 6,5 miliardi di imposte recuperate per ridurre l’Irpef in busta paga.
Toccherà a Monti decidere. Befera può solo continuare la sua “buona battaglia” per la legalità. A chi gliene chiede conto, oggi, rimanda a ciò che ha detto ai deputati della Commissione finanze: «Mi aspetto che qualcosa, nella cultura del nostro Paese, possa cambiare, Mi aspetto quell’evoluzione culturale che, se già appartiene a tanti, ancora non appartiene a tutti». É una tara storica. «In Italia il contribuente non ha mai sentito la sua dignità di partecipe alla vita statale: il contribuente italiano paga bestemmiando lo Stato, e non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana… Una rivoluzione di contribuenti in Italia, in queste condizioni, non è possibile per la semplice ragione che non esistono contribuenti». Questo potrebbe essere benissimo Attilio Befera, ottobre 2012. Ma non lo è. È Piero Gobetti, luglio 1922.

La Repubblica 02.10.12

"L’effetto Cortina sulle entrate fiscali", di Massimo Giannini

C’è poco da fare: quello che manca all’Italia è il “circolo virtuoso”. Attilio Befera, capo di Equitalia e braccio operativo dell’Agenzia delle Entrate, lo ripete da tempo. E lo ribadisce anche in questi giorni, costellati da due opposti
inconciliabili. A UNA parte c’è Mario Monti, che dice “il problema non è la differenza tra destra e sinistra, ma tra chi paga le tasse e chi le evade”. Dall’altra parte c’è Silvio Berlusconi, che urla “Equitalia pratica vere e proprie estorsioni”. In mezzo, c’è un abisso in cui precipitano tutti: gli onesti tartassati, che sopportano eroicamente una pressione fiscale ormai prossima al 45%, e i disonesti imboscati, che evadono ogni anno 260 miliardi di imposte. Così il “circolo virtuoso” fatica ad innescarsi, come lo stesso Befera ha spiegato pochi giorni fa ai parlamentari della Commissione finanze della Camera. Quel circolo «che porta, passo dopo passo, alla conquista di una cultura della legalità fiscale che troppo spesso è mancata nel Paese».
«L’evasione, insieme alla corruzione, resta una grande piaga nazionale». Nel bunker di Via Cristoforo Colombo, sede di Equitalia, questo è un teorema irrinunciabile, ma assolutamente dimostrabile. Rispetto al quale, le parole del premier risuonano come uno scudo prezioso: servono a mettere l’istituzione al riparo, almeno sul piano politico, dagli attacchi della destra populista e della sinistra antagonista. Befera può essere grato al presidente del Consiglio, come lo fu nella scorsa primavera, quando Monti andò personalmente a Equitalia, proprio nei giorni in cui fioccavano gli attentati e le intimidazioni. In questi mesi la pressione si era allentata, gli episodi di violenza erano scemati. Ma le parole dissennate e irresponsabili del Cavaliere non aiutano. E allontanano l’obiettivo che Befera dichiara solennemente di voler perseguire, anche di fronte al Parlamento: «Mi aspetto che la lotta all’evasione, più che la “mission” istituzionale dell’Amministrazione finanziaria, sia un obiettivo condiviso dalla società civile, e che le attività di controllo non siano più percepite come forme di invasiva intrusione nelle realtà private, ma siano accettate serenamente, al pari di altre forme di controllo dello Stato».
Equitalia ha commesso i suoi errori. Befera non li nasconde. Ma ha cercato di ridimensionarli, e di rimediare. É aumentato fino al 50% del totale il numero di mediazioni andata a buon fine con i contribuenti. É cambiata la norma sui crediti fiscali non pagati inferiori ai 2 mila euro, per i quali si possono fare solo due solleciti. Quest’anno si sono ridotti da 188 mila a 22 i blocchi amministrativi dei veicoli e da 29 mila a 2.700 le ipoteche. Parlare di “estorsioni”, in un Paese che secondo la Banca d’Italia continua a registrare un’evasione Iva superiore al 30%, è assurdo. Qualcosa si potrà e si dovrà ancora fare, anche sul piano legislativo, «per rendere davvero illuminata l’Amministrazione finanziaria», come vuole Befera.
Ma la lotta all’evasione deve continuare. «É una tappa nevralgica per il Paese». Befera ne è convinto. E proprio in questi giorni sta mettendo a punto la strategia d’autunno. Sulla sua scrivania c’è una cartellina, che riassume alcuni numeri-chiave. Il primo dato saliente riguarda l’andamento del recupero di evasione: nei primi otto mesi siamo a quota 7,2 miliardi. A fine anno la previsione è di 12,9 miliardi, contro i 12,7 del 2011. Un obiettivo giudicato “realistico”, come lo è quello fissato per il 2013, quando il recupero dovrebbe viaggiare verso i 13,2-13,5 miliardi. Il secondo dato saliente riguarda l’andamento delle entrate tributarie. In attesa dell’aggiornamento su agosto, nei primi sette mesi del 2012 c’è stato un aumento del gettito complessivo pari al 4,7%. Il gettito Iva si è ridotto invece dell’1,5%. «E’ il costo della recessione che incide sui consumi e sui versamenti ». Ma qui Befera e i suoi tecnici fanno una scomposizione ulteriore delle cifre, che fornisce un saldo sorprendente: nello stesso periodo, i versamenti Iva nel commercio al dettaglio (dai bar ai ristoranti) sono aumentati del 9%, e quelli sull’Iva nei servizi a terzi e a persone (dai centri benessere ai parrucchieri) sono aumentati
del 4%.
Come si spiega questo scostamento? Befera e i suoi non hanno dubbi: è “l’effetto Cortina”. Sia pure a fronte di un calo generalizzato dell’attività economica, i commercianti hanno rilasciato più scontrini, mentre i professionisti e gli artigiani hanno emesso più fatture. (come confermano anche le ultime statistiche di Findomestic). Tradotto nel gergo erariale: c’è stato un rilevante aumento della “compliance fiscale”, cioè della propensione dei contribuenti ad adempiere ai propri doveri. E questa propensione non può che nascere dall’effetto- deterrenza dei blitz compiuti dalle Fiamme Gialle nella “perla delle Dolomiti”, e poi sulle Costiere di Positano e di Taormina, o nei locali della movida milanese e romana. Per questo, nonostante le polemiche falso- garantiste dell’estate, i blitz di Equitalia continueranno anche nei prossimi mesi. «L’evidenza empirica dimostra che funzionano ». Dunque, non c’è ragione di interromperli.
Ma ci sono altre due “armi”, che Befera sta affinando e che sono pronte per l’offensiva antievasione di fine 2012-inizio 2013. La prima arma è il redditometro: ormai tutto è pronto per l’avvio del nuovo strumento, che sarà operativo dal mese di ottobre, e che con quasi 100 nuove voci dovrebbe consentire una significativa emersione di materia imponibile nell’area degli “invisibili” nel lavoro autonomo. La seconda arma, ancora più incisiva, sarà l’Anagrafe dei conti correnti. Befera sta perfezionando gli ultimi dettagli con il Garante per la Privacy, che ha chiesto la creazione di un “canale informatico riservato” per la trasmissione e la gestione dei dati bancari, proprio per tutelare i diritti dei contribuenti. Equitalia ha inviato il piano agli uffici di Antonello Soro. Manca solo il suo via libera, e a quel punto l’Amministrazione finanziaria potrà avere accesso diretto ai depositi bancari di tutti i cittadini “sospetti”. L’operazione scatterà con l’inizio del prossimo anno: secondo il timing di Befera, dal primo gennaio tutte le banche inizieranno a trasmettere all’Agenzia delle Entrate i tabulati con la movimentazione bancaria di tutti i clienti. E il Fisco, sulla base di questa documentazione, potrà chiedere tutti i chiarimenti
del caso.
C’è chi grida allo scandalo. Chi evoca il Grande Fratello. Qualche preoccupazione è legittima. Befera giura che non ci saranno abusi né violazioni alla riservatezza. Vedremo. L’evasione fiscale, come sostiene anche Monti, è davvero “una guerra”. E dunque, “a la guerre comme a la guerre”. Vale la pena di combattere. “A regime”, cioè quando tutto questo armamentario sarà in campo, i tecnici assicurano al capo di Equitalia che il recupero di evasione, anno su anno, può crescere di almeno 3 miliardi. Sono tanti, per un Paese che non ha risorse e si è impegnato al pareggio di bilancio. Ma è importante, e di questo anche Befera è consapevole, che tanto recupero di evasione a danno dei disonesti cominci a tradursi fin da subito in qualche tangibile ritorno nelle tasche degli onesti. Usare tutto il gettito riemerso per finanziare la rinuncia definitiva all’aumento delle aliquote Iva, a questo punto, può non bastare. Potrebbe rivelarsi più utile dirottare quelle risorse: lasciare cioè che aumenti l’Iva, e impiegare i 6,5 miliardi di imposte recuperate per ridurre l’Irpef in busta paga.
Toccherà a Monti decidere. Befera può solo continuare la sua “buona battaglia” per la legalità. A chi gliene chiede conto, oggi, rimanda a ciò che ha detto ai deputati della Commissione finanze: «Mi aspetto che qualcosa, nella cultura del nostro Paese, possa cambiare, Mi aspetto quell’evoluzione culturale che, se già appartiene a tanti, ancora non appartiene a tutti». É una tara storica. «In Italia il contribuente non ha mai sentito la sua dignità di partecipe alla vita statale: il contribuente italiano paga bestemmiando lo Stato, e non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana… Una rivoluzione di contribuenti in Italia, in queste condizioni, non è possibile per la semplice ragione che non esistono contribuenti». Questo potrebbe essere benissimo Attilio Befera, ottobre 2012. Ma non lo è. È Piero Gobetti, luglio 1922.
La Repubblica 02.10.12

"Classi dirigenti e modernità", di Alfredo Reichlin

La sinistra non è contenta di se stessa. Si lamenta, si divide. Per tante ragioni comprensibilissime ma (a mio parere) per una sopra tutte: perché troppi leggono il mondo con gli occhi del passato. Perché il consenso per Renzi ci sorprende? Su questo tema veramente cruciale del rinnovamento, che se non ha una guida può portare l’Italia a una crisi di regime, vorrei dire qualcosa. Parto dalle cose di oggi. Dalla drammatica situazione in cui l’Italia continua a essere immersa. Un Paese che da un lato è sotto il peso di una crisi economica epocale, che non è congiunturale ma che lo rimette in discussione come grande Paese industriale e società del benessere. Dall’altro che non riesce a fare il salto nella modernità. Perché di questo si tratta. La modernità. Cioè non il «nuovo» (il banale cambiamento delle cose) ma quella rara vicenda in cui si apre una nuova storia e la politica – se non lo capisce – diventa vana chiacchiera condita con ostriche e champagne per le mezze calze. Io credo che di questo si tratta. Siamo rimasti indietro di venti anni (la imperdonabile colpa di Berlusconi) e se la gente non ha più fiducia nella politica non è perché è qualunquista, ma perché sente che la stanno tagliando fuori dal mondo nuovo che avanza.
Di questo si tratta. Così – a mio modesto parere – dovrebbe parlare il capo della sinistra. Noi vogliamo governare non per sete di potere ma perché sentiamo la responsabilità di evitare che l’Italia faccia la fine del ’600. Si formava allora l’Europa moderna delle grandi monarchie continentali e noi divisi tra venti staterelli stupivamo il mondo con il lusso delle piccole corti e le invenzioni dei grandi avventurieri: i Casanova, i Cagliostro. Così di nuovo accadde 20 anni fa con Berlusconi. Così potrebbe accadere oggi. Il problema che sta di fronte agli italiani è di una chiarezza assoluta. Sotto i nostri occhi si sta compiendo un nuovo grande balzo nel moderno. Parlo della formazione di una sorta di super-Stato europeo il cui potere sulle nostre vite quotidiane è già enorme. Ce ne siamo accorti? Come va l’Italia a questo appuntamento? Con quale idea di sé e del suo destino, con quale raggruppamento di forze politiche e sociali? Con quale asse di governo, cioè con quale patto politico capace di tenere insieme il meglio delle sue risorse, che alla fin fine sono quelle del lavoro e dell’impresa, del saper fare e della solidarietà sociale? Ecco perché sono molto preoccupato. Perché questo è il tema che rischia di essere smarrito nella confusione delle primarie del Pd e nelle dispute sull’agenda Monti. Cerchiamo di non smarrire il tema delle grandi scelte e quindi delle vere alternative tra vecchio e nuovo che stanno davanti al Paese. L’altro giorno ero all’assemblea Svimez. Lo stato del Mezzogiorno che usciva da quelle analisi era semplicemente catastrofico: dalla chiusura delle ultime grandi fabbriche, alla metastasi della corruzione, al collasso della vita civile (legalità, diritti, scuola, servizi sociali) fino ormai a un impoverimento tale del tessuto umano per cui un milione e mezzo di persone, soprattutto giovani e ceti acculturati sono emigrati negli ultimi anni. Hanno abbandonato la terra dei loro padri. Il problema che balzava agli occhi era chiarissimo, ed era straordinariamente politico; non era il deficit di trasferimenti ma il rischio che il Mezzogiorno finisca sempre più

ai margini della nuova Europa che, di fatto, sta già ridisegnando le sue frontiere non soltanto economiche. Dentro o fuori? Stiamo attenti, si stava parlando del 40 per cento del Paese, dei luoghi della civiltà greco-romana, di Napoli e di città come Siracusa dove migliaia di anni fa la gente andava la sera al teatro per ascoltare la tragedia di Sofocle mentre il popolo padano viveva ancora nei boschi e adorava il dio Po. In quella mattinata gli economisti ci sommersero di cifre e di tabelle e il ministro fu bravissimo nel dire come qualcosa si poteva fare subito. Ma i politici tacquero. Che cos’è una classe dirigente se non è in grado di rispondere a interrogativi come questi dai quali dipende davvero il futuro dell’Italia?

Mario Monti si è dichiarato disposto, se richiesto, a non abbandonare il suo impegno politico. Il che non mi sembra una cattiva notizia, trattandosi dell’uomo che grazie a noi e insieme a noi ha lavorato per evitare all’Italia la bancarotta. Comunque si vedrà, decideranno gli elettori. Ma ciò che mi chiedo è perché parliamo tanto di Monti e non parliamo di noi? Noi non siamo l’ultima propaggine della vecchia sinistra che difende la sua residua identità facendo opposizione a Monti. La nostra «agenda» è più ricca di quella di Monti. Basti pensare che noi siamo un pezzo della formazione di una nuova cultura politica europea. Cioè di quella corrente politica e ideale alla quale spetta sgombrare il campo dalle macerie dell’orgia speculativa di questi anni e indicare le nuove vie dello sviluppo. Qualcosa che va oltre l’«agenda Monti». Conosco le enormi difficoltà, mi tengo cara la collaborazione delle grandi tecnostrutture europee ma io parto dall’idea che, finalmente, i grandi irrisolti problemi italiani (ne cito tre, essenziali: la corruzione, la caduta della produttività del sistema, il rischio che la metà meridionale del Paese si stacchi dall’Europa) vanno ormai chiamati col loro nome. Non sono problemi tecnici ma nodi storico-politici che richiedono nuovi patti sociali, formazione di classi dirigenti, e quindi larghe alleanze. Il Pd collabora con Monti, ne ha grande stima ma porta dentro di sé ben altre storie. Per esempio quella di Di Vittorio. L’Italia unita non l’hanno fatti i tecnici dell’Ocse ma uomini come questi. Di Vittorio era un grande uomo di governo perché ha dato ai lavoratori italiani il senso della loro missione e delle loro responsabilità nazionali, ma anche perché aveva una idea moderna della politica. La politica come nuova soggettività anche sociale perché solo la politica può unire questo Paese e dare voce anche agli ultimi, a quelli che stanno sempre sotto.

Come si può ricostruire un Paese come l’Italia se non si forma una nuova classe dirigente che abbia un pensiero autonomo sulla nazione e una sua visione dello sviluppo? E come si può formare questa classe dirigente se la politica, sia pure con facce nuove, è sempre la stessa cosa. L’eterno ritorno del sempre uguale: i mercati governano, i tecnici eseguono, i politici vanno in televisione a esibire se stessi. Il popolo resta sempre sotto.

L’Unità 02.10.12

"Classi dirigenti e modernità", di Alfredo Reichlin

La sinistra non è contenta di se stessa. Si lamenta, si divide. Per tante ragioni comprensibilissime ma (a mio parere) per una sopra tutte: perché troppi leggono il mondo con gli occhi del passato. Perché il consenso per Renzi ci sorprende? Su questo tema veramente cruciale del rinnovamento, che se non ha una guida può portare l’Italia a una crisi di regime, vorrei dire qualcosa. Parto dalle cose di oggi. Dalla drammatica situazione in cui l’Italia continua a essere immersa. Un Paese che da un lato è sotto il peso di una crisi economica epocale, che non è congiunturale ma che lo rimette in discussione come grande Paese industriale e società del benessere. Dall’altro che non riesce a fare il salto nella modernità. Perché di questo si tratta. La modernità. Cioè non il «nuovo» (il banale cambiamento delle cose) ma quella rara vicenda in cui si apre una nuova storia e la politica – se non lo capisce – diventa vana chiacchiera condita con ostriche e champagne per le mezze calze. Io credo che di questo si tratta. Siamo rimasti indietro di venti anni (la imperdonabile colpa di Berlusconi) e se la gente non ha più fiducia nella politica non è perché è qualunquista, ma perché sente che la stanno tagliando fuori dal mondo nuovo che avanza.
Di questo si tratta. Così – a mio modesto parere – dovrebbe parlare il capo della sinistra. Noi vogliamo governare non per sete di potere ma perché sentiamo la responsabilità di evitare che l’Italia faccia la fine del ’600. Si formava allora l’Europa moderna delle grandi monarchie continentali e noi divisi tra venti staterelli stupivamo il mondo con il lusso delle piccole corti e le invenzioni dei grandi avventurieri: i Casanova, i Cagliostro. Così di nuovo accadde 20 anni fa con Berlusconi. Così potrebbe accadere oggi. Il problema che sta di fronte agli italiani è di una chiarezza assoluta. Sotto i nostri occhi si sta compiendo un nuovo grande balzo nel moderno. Parlo della formazione di una sorta di super-Stato europeo il cui potere sulle nostre vite quotidiane è già enorme. Ce ne siamo accorti? Come va l’Italia a questo appuntamento? Con quale idea di sé e del suo destino, con quale raggruppamento di forze politiche e sociali? Con quale asse di governo, cioè con quale patto politico capace di tenere insieme il meglio delle sue risorse, che alla fin fine sono quelle del lavoro e dell’impresa, del saper fare e della solidarietà sociale? Ecco perché sono molto preoccupato. Perché questo è il tema che rischia di essere smarrito nella confusione delle primarie del Pd e nelle dispute sull’agenda Monti. Cerchiamo di non smarrire il tema delle grandi scelte e quindi delle vere alternative tra vecchio e nuovo che stanno davanti al Paese. L’altro giorno ero all’assemblea Svimez. Lo stato del Mezzogiorno che usciva da quelle analisi era semplicemente catastrofico: dalla chiusura delle ultime grandi fabbriche, alla metastasi della corruzione, al collasso della vita civile (legalità, diritti, scuola, servizi sociali) fino ormai a un impoverimento tale del tessuto umano per cui un milione e mezzo di persone, soprattutto giovani e ceti acculturati sono emigrati negli ultimi anni. Hanno abbandonato la terra dei loro padri. Il problema che balzava agli occhi era chiarissimo, ed era straordinariamente politico; non era il deficit di trasferimenti ma il rischio che il Mezzogiorno finisca sempre più
ai margini della nuova Europa che, di fatto, sta già ridisegnando le sue frontiere non soltanto economiche. Dentro o fuori? Stiamo attenti, si stava parlando del 40 per cento del Paese, dei luoghi della civiltà greco-romana, di Napoli e di città come Siracusa dove migliaia di anni fa la gente andava la sera al teatro per ascoltare la tragedia di Sofocle mentre il popolo padano viveva ancora nei boschi e adorava il dio Po. In quella mattinata gli economisti ci sommersero di cifre e di tabelle e il ministro fu bravissimo nel dire come qualcosa si poteva fare subito. Ma i politici tacquero. Che cos’è una classe dirigente se non è in grado di rispondere a interrogativi come questi dai quali dipende davvero il futuro dell’Italia?
Mario Monti si è dichiarato disposto, se richiesto, a non abbandonare il suo impegno politico. Il che non mi sembra una cattiva notizia, trattandosi dell’uomo che grazie a noi e insieme a noi ha lavorato per evitare all’Italia la bancarotta. Comunque si vedrà, decideranno gli elettori. Ma ciò che mi chiedo è perché parliamo tanto di Monti e non parliamo di noi? Noi non siamo l’ultima propaggine della vecchia sinistra che difende la sua residua identità facendo opposizione a Monti. La nostra «agenda» è più ricca di quella di Monti. Basti pensare che noi siamo un pezzo della formazione di una nuova cultura politica europea. Cioè di quella corrente politica e ideale alla quale spetta sgombrare il campo dalle macerie dell’orgia speculativa di questi anni e indicare le nuove vie dello sviluppo. Qualcosa che va oltre l’«agenda Monti». Conosco le enormi difficoltà, mi tengo cara la collaborazione delle grandi tecnostrutture europee ma io parto dall’idea che, finalmente, i grandi irrisolti problemi italiani (ne cito tre, essenziali: la corruzione, la caduta della produttività del sistema, il rischio che la metà meridionale del Paese si stacchi dall’Europa) vanno ormai chiamati col loro nome. Non sono problemi tecnici ma nodi storico-politici che richiedono nuovi patti sociali, formazione di classi dirigenti, e quindi larghe alleanze. Il Pd collabora con Monti, ne ha grande stima ma porta dentro di sé ben altre storie. Per esempio quella di Di Vittorio. L’Italia unita non l’hanno fatti i tecnici dell’Ocse ma uomini come questi. Di Vittorio era un grande uomo di governo perché ha dato ai lavoratori italiani il senso della loro missione e delle loro responsabilità nazionali, ma anche perché aveva una idea moderna della politica. La politica come nuova soggettività anche sociale perché solo la politica può unire questo Paese e dare voce anche agli ultimi, a quelli che stanno sempre sotto.
Come si può ricostruire un Paese come l’Italia se non si forma una nuova classe dirigente che abbia un pensiero autonomo sulla nazione e una sua visione dello sviluppo? E come si può formare questa classe dirigente se la politica, sia pure con facce nuove, è sempre la stessa cosa. L’eterno ritorno del sempre uguale: i mercati governano, i tecnici eseguono, i politici vanno in televisione a esibire se stessi. Il popolo resta sempre sotto.
L’Unità 02.10.12

"Più alunni per classe ma la paga dei prof scende", di Giovanni Scancarello

Quasi ovunque il numero di studenti per classe diminuisce per mettere la scuola in condizione di sfruttare al massimo le potenzialità dell’autonomia. E se non accade è perché i finanziamenti servono a retribuire meglio i docenti. Ebbene, in Italia non succede né l’una né l’altra cosa. Dal 2000 al 2010, affermano i ricercatori Ocse nell’ultimo rapporto sull’educazione, nel mondo la media delle classi è scesa di uno studente per classe sia alle primarie che alle medie. Si passa dai 17,4 studenti per classe in Islanda ai 38,5 della Corea nel 2000, dai 19,4 studenti in Lussemburgo e Regno Unito, ai 34,7 della Corea nel 2010. In Paesi come l’Italia, che invece avevano classi meno affollate nel 2000, il numero degli alunni è in aumento, da noi anche per effetto dell’incremento di un punto del rapporto alunni/docenti previsto dall’articolo 64 del decreto-legge n. 112 del 2008. Va detto che che nella 57^ seduta del gruppo di senatori del 2008 aveva ammonito l’allora governo Berlusconi sui rischi del sovraffollamento delle classi, con il cambio di governo le cose non sono cambiate. È vero che con l’art. 50 del decreto legge semplificazioni è stato poi annunciato dal governo Monti un piano di potenziamento dell’autonomia scolastica, con l’istituzione dell’organico funzionale d’istituto e di rete, ma è ormai da giugno che le scuole aspettano l’uscita dei decreti attuativi della legge di conversione. Alla fine la sensazione che emerge anche dalla lettura dei dati Ocse è disorientante. Da una parte il previsto aumento degli studenti per classe avrebbe dovuto portare ad un aumento degli stipendi che non c’è stato. Dall’altra si richiede alla scuola dell’autonomia di lavorare per personalizzare il curricolo ma con le risorse della scuola dei primi governi unitari. Alla fine quasi ovunque, tra il 2000 e il 2010, i salari dei docenti sono cresciuti, tranne che in Italia. Non solo, ma l’Italia è l’unico Paese dell’Ocse in cui il salario dei docenti praticamente diminuisce a fronte dell’incremento del numero di studenti per classe (più 9% in dieci anni). Fosse almeno servito per stimolare i docenti pagandoli appunto di più, sarà pure argomento di bassa lega, ma sembvra che altrove funzioni (Brewer, Krop, Gill, and Reichardt, 1999, Blatchford et al., 2002).

da ItaliaOggi 02.10.12