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“Selma e mio padre Martin Luther King La nonviolenza resta l’unica strada”, di Berenice A. King – La Repubblica 09.03.15

In tutto il pianeta oggi si ricorda Selma. Selma. Il nome stesso evoca immagini di persone diseredate, tuttavia coraggiose, che marciarono valorosamente lungo il ponte Edmund Pettus affrontando poliziotti ostili, gas lacrimogeni e cani feroci. A loro, ai neri, si unirono molte altre persone che non condividevano lo stesso colore della pelle, ma i valori di giustizia e uguaglianza. Attivisti dei diritti civili, leader, giovani e anziani marciarono insieme, decisi a ottenere per i neri d’America il diritto al voto a lungo atteso. Era il sette marzo 1965, culmine della storica Campagna per il diritto al voto del 1965. Quel giorno sarebbe passato alla storia come Bloody Sunday: Domenica di sangue.
Cinquant’anni più tardi, ricordiamo la sofferenza e i sacrifici di coloro che quel giorno si incamminarono da Selma verso Montgomery. Rendiamo onore a coloro che diedero la loro vita sfidando con coraggio l’oppressione razziale durante la Campagna. Il 18 febbraio Jimmy Lee Jackson, nipote di uno dei più cari compagni di liceo di mia madre, fu ucciso dalla polizia a Marion, in Alabama, mentre tentava di proteggere sua madre dalla violenza delle forze dell’ordine durante una manifestazione organizzata nei pressi del carcere in cui era detenuto il reverendo James Orange, uno degli organizzatori della Southern Christian Leadership Conference. Jackson morì otto giorni più tardi. In seguito, durante un attacco di matrice razzista, due sostenitori bianchi del Movimento per il diritto al voto, il reverendo James Reeb e Viola Liuzzo, furono assassinati per essersi uniti alla lotta. I nomi di questi martiri saranno custoditi per sempre negli annali del Movimento americano per i diritti civili e il loro eroico sacrificio non verrà mai dimenticato. Così, ricordiamo. E nel ricordare e rendere onore, dobbiamo anche essere consapevoli del fatto che la lotta continua. Come affermò tanto incisivamente mia madre, Coretta Scott King, «La lotta è un processo senza fine. La libertà non è mai definitivamente conquistata: ogni generazione deve guadagnarsela e ottenerla». Adesso, nel mezzo della lotta, ci spetta lo straordinario compito di valutare a che punto eravamo il sette marzo del 1965 e adesso.
A che punto siamo adesso? «La lotta è un processo senza fine», è vero, ma perché l’umanità è ancora alle prese con molti degli stessi problemi di cinquant’anni fa? Cosa animava gli eroi della Bloody Sunday che noi dobbiamo coltivare oggi a maggior ragione?
Nei cinquant’anni trascorsi dalla Bloody Sunday ci siamo ripetutamente scontrati con gli stessi problemi perché ancora non abbiamo adottato una filosofia condivisa, la stessa alla quale aderirono gli organizzatori della marcia: la nonviolenza. Questa filosofia, che ha permeato il pensiero, i preparativi e l’implementazione di molte fasi del moderno Movimento per i diritti civili, è da molti attribuita ad alcuni dei movimenti e delle iniziative dei nostri giorni. Ma stiamo davvero testimoniando e abbracciando la filosofia della nonviolenza, la stessa che animò la Bloody Sunday?
La filosofia nonviolenta di mio padre non si limita a pianificare una risposta organizzata a eventi tragici, violenti e razzisti. Va oltre il gesto di un attivista che rinuncia alle armi e alla lotta. Come affermava mia madre, la nonviolenza è «una disciplina spirituale che richiede molta forza, crescita ed espiazione dell’individuo perché uno possa superare quasi ogni ostacolo per il bene di tutti senza preoccuparsi della propria incolumità ».
Abbiamo fatto passi avanti, fisicamente e cronologicamente, ma abbiamo lasciato indietro questa disciplina spirituale. La filosofia nonviolenta che animò la Campagna per il diritto al voto e la Bloody Sunday è inestimabile e fondamentale se vogliamo smettere di sentirci come dei pompieri che accorrono da un’emergenza all’altra. La nonviolenza è uno stile di vita e una strategia perpetua che ci permetterà di porci sull’offensiva anziché mantenerci continuamente sulla difensiva. Saremo in grado di portare il pallone sino a metà campo grazie a decisioni condivise e gioco di squadra invece di preoccuparci delle mosse dei rivali.
La nonviolenza ci fornirà gli strumenti per portare generazioni di individui al tavolo delle trattative e unire le nostre conoscenze, talenti e entusiasmo. Come mio padre scrisse nel suo libro Dove stiamo andando: verso il caos o la comunità? , riusciremo a organizzare «la nostra forza sino a renderla un potere convincente», a essere consapevoli del fatto che dobbiamo dare la precedenza al potere sui programmi? Se così non fosse, i programmi si rivelerebbero impotenti.
È vero, «la lotta è un processo senza fine», ma non dobbiamo vagare senza meta quando abbiamo l’esempio fornitoci dai coraggiosi e nonviolenti fanti della Domenica di sangue. Essi compresero l’obiettivo, s’impegnarono per una causa comune e si attennero con tenacia e passione alla filosofia, un’ideologia galvanizzante, che era alla base del Movimento.
La nostra battaglia continua e, mentre ricordiamo Selma e la Bloody Sunday, andiamo avanti nella filosofia della Nonviolenza. Credo fermamente che lo dobbiamo a coloro che quel sette marzo del 1965 marciarono verso la violenza e la furia razzista. La loro determinazione e resilienza ci impone di elevare l’umanità con i principi che innanzitutto trasformano noi stessi. Sono questi gli echi che mi giungono da Selma.
( Copyright The Huffington Post. Traduzione di Marzia Porta)

“Brillanti negli studi ma penalizzate sul mercato lavoro: l’identikit delle laureate italiane”, di Alessia Tripodi – Scuola 24 09.03.15

Più brillanti nello studio, ma con meno chance sul mercato del lavoro, soprattutto se hanno figli. Sono le laureate italiane secondo il ritratto tracciato da Almalaurea in occasione dell’8 marzo, che rivela come tra i laureati del 2013 la presenza femminile raggiunga il 60%, con voti medi pari a 103,3 su 110 contro il 101 degli uomini. Mentre sul fronte occupazionale i numeri sono scoraggianti: a un anno dalla tesi magistrale lavora il 52% delle donne contro il 60% degli uomini, un divario che aumenta in modo considerevole per le laureate con prole. E che si riflette anche sulle retribuzioni, più basse del 30 per cento.

Più stage, meno lavoro 
In base al Rapporto sul Profilo dei laureati italiani, le donne hanno svolto più tirocini e stage riconosciuti dal proprio corso di laurea, il 60% contro il 52% dei maschi (la media nazionale è del 57%); hanno usufruito in maggior misura di borse di studio, 24% delle donne contro il 19% dei maschi la cui attribuzione è condizionata dal profitto negli studi (è il 22% a livello nazionale).
Ma se si guarda alle performance occupazionali delle laureate magistrali a uno e cinque anni dal titolo si scopre che, anche se più istruite, le donne sono ancora penalizzate. Già ad un anno dalla laurea le differenze fra uomini e donne (che rappresentano rispettivamente il 42% e il 58%) risultano significative, con un divario di oltre 7 punti percentuali: lavorano infatti il 52,5% delle donne e il 60% degli uomini.
Le donne risultano meno favorite non solo perché presentano un tasso di occupazione decisamente più basso, spiega Almalaurea, ma anche perché si dichiarano più frequentemente alla ricerca di un lavoro: il 34% contro il 26% rilevato per gli uomini. A cinque anni dal conseguimento del titolo le differenze di genere si confermano significative e pari a 7 punti percentuali: lavorano 78 donne su cento e 85 uomini su cento.

Più penalizzate se hanno figli 
Il differenziale occupazionale, a un anno dalla laurea, raggiunge i 28 punti tra quanti hanno figli (il tasso di occupazione, considerando solo quanti non lavoravano alla laurea, è pari al 55% tra gli uomini, contro il 27% delle laureate), mentre scende fino a 10 punti, sempre a favore degli uomini, tra quanti non hanno prole (tasso di occupazione pari al 50% contro il 40%, rispettivamente). A cinque anni dalla laurea,si conferma il differenziale: 24,5 punti percentuali tra quanti hanno figli (il tasso di occupazione è pari all’88% tra gli uomini, contro il 63,5% delle laureate), mentre scende fino a 7 punti, sempre a favore degli uomini, tra quanti non hanno prole (tasso di occupazione pari al 82% contro il 75%, rispettivamente). Anche nel confronto tra laureate, chi ha figli risulta penalizzata: a un anno dal titolo lavora il 40% delle laureate senza prole e il 27% di quelle con figli (un differenziale del 13%). A cinque anni il divario permane (11,5% punti percentuali): lavora il 75% delle laureate senza prole e il 63,5% di quelle con figli.

Buste paga più leggere 
Ad un anno dalla laurea gli uomini possono contare più delle colleghe su un lavoro stabile (le quote sono 38% e 31%), mentre il contratto a tempo determinato, spiega Almalaurea, è
leggermente più diffuso tra le donne (27%) e meno tra gli uomini (23%).
A cinque anni dal conseguimento del titolo il lavoro stabile diventa una prerogativa tutta maschile: può contare su un posto sicuro, infatti, il 77% degli occupati e il 64% delle occupate. «È naturale – sottolinea Almalaurea – che queste differenze sono legate anche alle diverse scelte professionali maturate da uomini e donne; le seconde, infatti, tendono più frequentemente ad inserirsi nel pubblico impiego e nel mondo dell’insegnamento, notoriamente in difficoltà nel garantire una rapida stabilizzazione contrattuale».
Sul fronte delle retribuzioni, a un anno dalla laurea gli uomini guadagnano il 30% in più delle loro colleghe: 1.217 euro contro i 936 euro delle donne. A cinque anni, il differenziale retributivo è pari sempre al 30,5% a favore dei maschi: 1.556 euro contro 1.192 euro delle colleghe. Ad influire sul differenziale retributivo, spiega l’indagine, è anche la maggior diffusione del contratto part time per le donne.
Un’analisi approfondita, conclude Almalaurea, mostra che a parità di condizioni gli uomini
guadagnano in media, ad un anno dalla laurea, 90 euro netti in più al mese; un valore che sale a 167 euro tra i laureati 2009 a cinque anni dalla laurea.

“Siamo noi l’America”, di Barack Obama – Corriere della Sera 09.03.15


Pubblichiamo i brani più significativi del discorso che il presidente Usa ha pronunciato sabato a Selma (Alabama) a 50 anni dalla marcia per i diritti degli afroamericani organizzata da Martin Luther King nel 1965

È un raro onore, nella vita, poter seguire l’esempio dei nostri eroi. E John Lewis è uno dei miei eroi. Tuttavia, immagino che quando il giovane John Lewis si svegliò quella mattina di cinquant’anni fa e si avviò verso la Brown Chapel, di certo non pensava all’eroismo. C’erano ragazzi con zaini e sacchi a pelo accorsi da ogni dove. Un dottore spiegava gli effetti dei gas lacrimogeni, mentre i manifestanti scrivevano su un foglietto come contattare i parenti in caso di necessità. L’aria era carica di tensioni, dubbi e timori. I partecipanti cercavano conforto nell’ultimo verso dell’ultimo inno intonato assieme: «Qualunque sarà la prova, Dio ti proteggerà;/ Poggia il capo, se sei stanco, sul Suo petto, Dio ti proteggerà».
Ci sono luoghi in cui è stato sancito il destino della nostra nazione. Selma è uno di questi.
Un pomeriggio di cinquant’anni fa, gran parte della storia travagliata di questa nazione – la vergogna della schiavitù e lo strazio della guerra civile; il giogo della segregazione e la tirannide delle leggi razziali; la morte di quattro bambine a Birmingham e il sogno di un predicatore battista – si è raccolta in questo luogo.
Dall’Alabama all’Ucraina
Gli americani che hanno attraversato questo ponte non avevano un fisico possente, eppure hanno saputo infondere coraggio a milioni di persone. Non erano stati eletti a nessuna carica di governo, eppure hanno saputo guidare una nazione. Si sono messi in marcia come cittadini americani che avevano sopportato centinaia d’anni di brutali violenze e innumerevoli umiliazioni quotidiane, ma non reclamavano privilegi, bensì di essere trattati con giustizia ed uguaglianza, come era stato promesso loro quasi un secolo prima (…). Lo spirito americano che ha spinto giovani, uomini e donne, ad afferrare la fiaccola e attraversare questo ponte è lo stesso spirito che ha spinto i patrioti a scegliere la rivoluzione per sottrarsi alla tirannia. È lo stesso istinto che ha attirato gli immigrati, dall’altra sponda degli oceani e del Rio Grande; lo stesso istinto che ha spinto le donne a lottare per il voto e i lavoratori a organizzarsi per combattere le ingiustizie; lo stesso istinto che ci ha portati a piantare la bandiera a Iwo Jima e sulla Luna.
È l’idea condivisa da generazioni di cittadini che vedono l’America come una realtà in continua evoluzione, per i quali amare il proprio Paese significa non solo osannarlo o scansare verità scomode, ma saper trovare addirittura il coraggio di causare disordini, la volontà di alzare la voce per difendere ciò che è giusto, ribaltare lo status quo.
È questo ciò che ci rende unici e cementa la nostra fama di Paese delle opportunità. I ragazzi dietro la Cortina di Ferro hanno assistito agli eventi di Selma e un giorno anche loro hanno rovesciato un muro. I giovani di Soweto hanno sentito parlare Bob Kennedy di quel piccolo raggio di speranza e alla fine sono riusciti a cancellare la vergogna dell’apartheid. Dalle strade di Tunisi a piazza Maidan in Ucraina, la nostra generazione di giovani potrà trarre ispirazione da questo luogo, dove coloro che erano senza potere hanno saputo cambiare la più grande potenza mondiale e costringere i suoi governanti ad allargare gli orizzonti della libertà (…).
Una conquista gloriosa, avrebbe detto Martin Luther King. Quale immenso debito di riconoscenza ci lega a loro. Ma la domanda è d’obbligo: come esprimere la nostra riconoscenza?
Rendiamo un cattivo servizio alla causa della giustizia insinuando che pregiudizio e discriminazione siano immutabili, o che le divisioni razziali siano connaturate in America. Se pensate che nulla sia cambiato nell’ultimo mezzo secolo, chiedete a chiunque sia vissuto a Selma, o a Chicago o a Los Angeles negli anni Cinquanta. Chiedete alle donne dirigenti d’impresa, che allora sarebbero state relegate a mansioni di segretarie, se nulla è cambiato. Chiedete al vostro amico gay, se è più facile vivere la propria sessualità oggi in America rispetto a trent’anni fa. Negare questo progresso – che è il nostro progresso – equivale a negare la nostra capacità d’azione, la nostra responsabilità nel fare ciò che è in nostro potere di fare per migliorare l’America.
La musica della libertà
Certo, un errore più comune è suggerire che il razzismo non esiste più(…). Basta tenere aperti occhi, orecchie e cuori per capire che la storia razziale di questo Paese getta ancora la sua lunga ombra su di noi. Sappiamo che la marcia non è ancora finita, che la partita non è ancora vinta (…). Con i nostri sforzi congiunti, possiamo tutelare le fondamenta della nostra democrazia, in nome della quale tante persone attraversarono questo ponte, e questo si chiama il diritto di voto. Oggi, nel 2015, cinquant’anni dopo Selma, esistono leggi in questo paese che ostacolano il diritto di voto dei cittadini, anzi, nuove leggi vengono proposte in questo senso (…).
Siamo nati dal cambiamento. Abbiamo infranto le antiche aristocrazie, riconoscendo la nostra nobiltà non nel sangue, ma nei diritti inalienabili concessi dal Creatore. Abbiamo stabilito quali sono i nostri diritti e doveri tramite un sistema di governo autonomo, del popolo, attraverso il popolo e per il popolo. Per questo siamo pronti a misurarci e a discutere con passione e convinzione, perché sappiamo che i nostri sforzi contano. Sappiamo che l’America è quella che noi costruiamo giorno dopo giorno (…).
Siamo noi gli immigrati che arrivarono da clandestini sulle navi, le folle accalcate impazienti di respirare la libertà, i superstiti dell’Olocausto, i dissidenti sovietici, gli orfani sudanesi. Siamo noi i migranti pieni di speranza che attraversano il Rio Grande per dare ai loro figli una vita migliore. Così è nato il nostro Paese. Siamo noi gli schiavi che hanno costruito la Casa Bianca e arricchito l’economia del sud. Siamo i braccianti e i cowboy che hanno spalancato il West, e un’infinità di operai che hanno costruito le ferrovie, innalzato i grattacieli e combattuto per i diritti dei lavoratori.
Siamo noi i soldati che hanno fatto la guerra per liberare un continente (…). Siamo i vigili del fuoco accorsi alle Torri Gemelle l’11 settembre, siamo i volontari andati a combattere in Iraq e in Afghanistan. Siamo noi gli omosessuali che hanno versato il loro sangue nelle strade di San Francisco e di New York, proprio come il sangue versato su questo ponte. Siamo noi gli inventori del gospel, del jazz e del blues, del bluegrass e del country, dell’hip-hop e del rock’n’roll; è questa la nostra musica, con tutta la malinconica tristezza e la gioia scatenata della libertà (…).
La nostra marcia
È questa l’America. Non foto di repertorio o storia edulcorata, né tiepidi tentativi di definire alcuni di noi come più americani degli altri. Rispettiamo il passato, ma non lo rimpiangiamo. Non abbiamo timore del futuro, anzi, lo anticipiamo. L’America non è qualcosa di fragile: siamo grandi e, nelle parole di Whitman, sappiamo accogliere le moltitudini. Siamo chiassosi, variegati e pieni di energia, sempre giovani. Ecco perché qualcuno come John Lewis, all’età di 25 anni, si mise alla testa di una marcia storica.
Perché Selma ci dimostra che l’America non è il progetto di questo o di quello. Perché la parola più potente della nostra democrazia è «noi». We The People . We Shall Overcome . Yes We Can . Questo spirito appartiene a tutti.
Cinquant’anni dopo quel Bloody Sunday, la nostra marcia non è ancora finita: ma il traguardo è vicino. Duecentotrentanove anni dopo la nascita della nostra nazione, la nostra unione non è ancora stata perfezionata. Ma il traguardo è vicino. Il nostro compito è reso più facile, perché qualcuno ci ha aiutato a superare il primo miglio. Quando pensiamo che la strada sia troppo difficile, ricordiamo questi primi viaggiatori per trarre forza dal loro esempio, ripetendo le parole del profeta Isaia: «Quelli che sperano nel Signore acquistano nuove forze, si alzano a volo come aquile, corrono e non si stancano, camminano e non si affaticano».
Onoriamo coloro che hanno camminato, e che ci hanno permesso di correre. Oggi tocca a noi correre, affinchè i nostri figli possano spiccare il volo. E non ci stancheremo, perché crediamo nella grandezza di Dio e crediamo nella sacra promessa di questo Paese.
Che Dio benedica quei combattenti per la giustizia che ci hanno lasciato, che Dio benedica gli Stati Uniti d’America.
(traduzione di Rita Baldassarre)

“Istruzione e formazione femminili sono un moltiplicatore per la crescita”, di Silvia Costa* – Scuola 24 09.03.15

La scolarizzazione femminile ha rappresentato la vera rivoluzione pacifica del Novecento, un secolo che – specie nella seconda parte, ha visto non solo crescere la presenza delle donne nell’educazione, anche come insegnanti, ma anche superare quella maschile. Tre dati per tutti, collegati agli obiettivi di Europa 2020: la dispersione scolastica tra 18 e 24 anni vede le ragazze coinvolte per il 12% e i ragazzi al 16% (obiettivo Ue: 10%); la frequenza delle scuole superiori registra una percentuale di ragazze superiore rispetto ai loro coetanei (addirittura dell’11%, in alcuni Paesi, come in Irlanda ma anche a Malta e in Romania); nelle università gli studenti di vent’anni sono per il 42% femmine e il 30% maschi, e le ragazze rappresentano inoltre il 60% dei laureati.

Ma sappiamo che permangono, sia pure in misura diversa, precoci discriminazioni dirette e indirette e aree di segregazione negli studi universitari (discipline scientifico-matematiche), nella formazione professionale e nell’alta istruzione tecnica (le ragazze sono meno presenti nelle competenze legate al TIC, all’energia e all’ambiente). È ancora troppo basso il numero delle giovani donne che si orientano verso la ricerca e le nuove tecnologie, mentre, la grande femminilizzazione del corpo docente (che prevale nelle scuole e si riduce nelle università) non sembra avere avuto l’impatto atteso: la riduzione degli stereotipi, il consolidamento di una maggiore autostima delle ragazze e il radicamento della cultura delle pari opportunità fra i ragazzi.

Se questo è vero in Europa, nell’anno europeo dedicato allo sviluppo e a pochi giorni dall’apertura della sessione Onu della Commissione Donne a vent’anni da Pechino, dobbiamo registrare che in molti Paesi in via di sviluppo la relazione fra accesso all’educazione delle donne, empowerment e partecipazione attiva è molto più evidente e che quindi l’esclusione o la riduzione delle possibilità di formazione diventa una priorità assoluta da affrontare e che deve vedere anche l’Europa più attiva sia nei partenariati e nella cooperazione allo sviluppo sia rimettendo l’educazione e la formazione più fortemente al centro della sua politica di crescita, intelligente, inclusiva e sostenibile.

I dati Unesco sull’istruzione delle ragazze, d’altro canto, sottolineano la relazione positiva con la salute, la riduzione della mortalità e povertà infantile, la tutela dell’ambiente, la crescita economica e la difesa dei diritti e dalla violenza e ci spingono ad agire almeno in due direzioni: nell’ambito dei modelli e degli strumenti educativi fin dalla prima infanzia, rafforzando da una parte la consapevolezza delle identità e delle attitudini personali e superando discriminazioni e stereotipi, e dall’altra, nei curricula scolastici, quelle competenze non formali (lavoro di gruppo, responsabilità, atteggiamento critico, creatività) che fanno crescere l’autostima e l’empowerment, ma anche la parità fra ragazze e ragazzi e l’attitudine alla partecipazione sociale; in ambito sociale e lavorativo, il gap tra le aspettative di ragazze con alti livelli di istruzione e il loro effettivo inserimento e i percorsi di carriera e le differenze di salario possono essere ridotti attraverso una maggiore applicazione dell’approccio della dual education, che consente di acquisire conoscenza non solo del mercato del lavoro ma anche delle proprie reali attitudini e capacità.

Accanto a questo il ruolo di nuove politiche di welfare che consentano la conciliazione è strategico. Ma c’è anche un livello culturale e simbolico. L’apporto dell’istruzione e dell’occupazione femminile ha un effetto moltiplicatore sia sulle prestazioni scolastiche dei figli, sia sull’incremento del Pil, e quindi delle risorse per un nuovo welfare. Ricerche europee su presenza femminile, scienza e tecnologie hanno testimoniato come la sotto-rappresentazione di donne costi alle imprese in termini di performance e profitti (i team di lavoro misti risultano essere più produttivi ), e che le imprese che investono di più nelle donne sono quelle che hanno maggior successo grazie alla loro capacità di produrre innovazione.

In generale, più fonti attestano che quelle competenze che ancora chiamiamo non formali o informali, insieme al talento e alla capacità di innovazione, ma anche di sintesi fra la cultura umanistica e quella scientifica sono oggi strategici per il nuovo mercato del lavoro. E sono patrimonio soprattutto delle donne. In questo consiste, dopo la rivoluzione del Novecento, consiste la sfida per il secolo che stiamo vivendo.

*Presidente commissione Cultura e Istruzione del Parlamento Europeo

“Cari uomini dall’ufficio al sesso la parità fa bene anche a voi”, di Sheryl Sandberg e Adam Grant – La Repubblica 08.03.15

E’ facile intuire i vantaggi della parità di genere per le donne: maggiori ruoli di responsabilità, un salario più alto e più aiuto in casa. Gli uomini, dal canto loro, potrebbero temere che il miglioramento della condizione femminile possa peggiorare la propria. La verità, sorprendente, è che la parità è vantaggiosa anche per loro. La presenza di un maggior numero di donne sul posto di lavoro è uno dei fattori che più contribuiscono a formare una squadra di successo. Lo scorso autunno Alibaba, la principale società di e-commerce cinese, è stata quotata in Borsa dopo anni di crescita straordinaria. Stando al suo fondatore, Jack Ma, «uno dei segreti del successo di Alibaba sta nel fatto che qui lavorano molte donne». Le donne rappresentano infatti il 47% dei dipendenti della società e ricoprono il 33% delle posizioni senior.
La ricerca sembra dargli ragione. Studi rivelano che in ambito lavorativo le donne apportano nuove conoscenze, competenze e reti relazionali, corrono meno rischi inutili e sono più portate a contribuire in maniera da migliorare i loro team e le loro imprese. Le start-up di maggior successo tra quelle finanziate da venture capital vantano una percentuale di dirigenti donne pari a più del doppio della media di quelle che invece falliscono. E un’indagine che ha seguito per quindici anni l’andamento delle 1.500 società dell’indice Standard & Poor’s dimostra che, quando le imprese cercano l’innovazione, a un maggior numero di donne ai massimi livelli dirigenziali corrisponde un valore di mercato maggiore.
Alcuni uomini si chiederanno se tutti questi benefici per le imprese, e per le donne, non vadano a loro scapito, facendoli retrocedere nell’organigramma aziendale. La risposta è no. La parità di genere non è un gioco a somma zero. A maggiori profitti corrispondono maggiori riconoscimenti e promozioni per tutti. Il rischio è semmai escludere le donne. Le imprese che non sfruttano le potenzialità di una forza-lavoro composita restano indietro. John T. Chambers e Carlos Ghosn, amministratori delegati rispettivamente di Cisco e di Renault- Nissan, hanno detto che non potrebbero essere competitivi a livello mondiale se non avessero aumentato la percentuale di donne dirigenti.
In passato avevamo evidenziato perché gli uomini dovrebbero condividere le “faccende domestiche da ufficio”, come prendere appunti, programmare incontri e aiutare gli altri. Dedicarsi maggiormente alle faccende domestiche vere e proprie è importante, allo stesso modo. Le ricerche dimostrano che, quando gli uomini si fanno carico della propria parte di faccende domestiche, le loro compagne sono più felici e meno depresse, i conflitti sono più rari e il tasso di divorzi inferiore. Inoltre, vivono più a lungo: uomini (e donne) che forniscono al proprio partner cure e sostegno emotivo vengono ripagati da una maggiore longevità.
E se ciò non basta ad entusiasmarvi, sentite qui: le coppie che si suddividono equamente le incombenze domestiche fanno più sesso. Come affermano i ricercatori Constance T. Gager e Scott T. Yabiku, gli uomini e le donne che “lavorano sodo giocano duro”. Io Sheryl consiglio agli uomini di occuparsi del bucato anziché comprare fiori se vogliono fare qualcosa di carino per le loro partner. Il choreplay, il fatto che le donne si eccitino vedendo il proprio compagno occuparsi delle faccende domestiche al posto loro, è vero.
Anche fare di più il padre fa bene agli uomini: prendersi cura dei figli li rende più pazienti, empatici e flessibili e diminuisce il tasso maschile di abuso di droghe. Nelle 500 migliori imprese americane della lista stilata da Fortune, i padri che trascorrono più tempo con i figli sono più soddisfatti del proprio lavoro. La paternità abbassa anche la pressione sanguigna e il tasso di malattie cardiovascolari.
Ma l’impatto più positivo potrebbe essere quello sulla generazione successiva. Ricerche condotte in numerosi Paesi rivelano che i figli di padri presenti sono più sani, più felici e meno portati a soffrire di disturbi del comportamento. Riescono meglio negli studi e nel lavoro. Un imponente studio della psicologa Alyssa Croft dell’Università della British Columbia mostra che, quando i padri condividono con le proprie compagne le incombenze domestiche, è meno probabile che le figlie limitino le proprie aspirazioni a ruoli tradizionalmente femminili. Ciò che più conta è quello che i padri fanno, e non cosa dicono. Perché una ragazza creda di avere le stesse opportunità dei maschi, fa differenza vedere il papà che lava i piatti.
Ma è vero anche il contrario: ai figli maschi fa bene avere una madre che ha un ruolo importante a lavoro. Anni fa alcuni psicologi hanno scoperto che una percentuale sorprendentemente alta degli architetti più creativi d’America era stata cresciuta da “madri spiccatamente autonome” che erano leader nella loro comunità o professioniste realizzate. E, secondo un recente studio dei ricercatori Kathryn H. Dekas di Google e Wayne E. Baker dell’Università del Michigan, coloro che considerano il proprio impiego più significativo e piacevole sono stati cresciuti da padri e madri estremamente coinvolti nel proprio lavoro.
Quando i bambini vedono le madri in carriera e i padri farsi carico delle incombenze domestiche, hanno maggiori probabilità di inculcare nella generazione successiva il concetto di parità di genere. E quando si compiono progressi verso la parità di genere è l’intera società a trarne vantaggio. Il 25 percento della crescita del Pil registrata dagli anni Settanta ad oggi negli Usa è riconducibile alla maggiore presenza delle donne nel mondo del lavoro retribuito. Oggi gli economisti stimano che un incremento della presenza femminile nella forza lavoro agli stessi livelli di quella maschile potrebbe aumentare il Pil del cinque percento negli Usa — e del nove percento in Giappone e del 34 percento in Egitto. «Abbiamo visto sino a dove possiamo spingerci sfruttando il cinquanta percento della nostra capacità umana», ha scritto l’imprenditore Warren Buffett. «Se riuscite a visualizzare cosa si potrebbe fare con il cento percento, diventerete, come me, smodatamente ottimisti riguardo al futuro dell’America ». Se vogliamo fare della parità di genere una realtà, occorre modificare il modo in cui la promuoviamo. Solitamente l’accento viene posto sulla giustizia: se si vuole essere giusti occorre offrire alle donne pari opportunità. Tuttavia, è importante spingersi oltre e articolare perché, oltre a rappresentare un legittimo obiettivo per le donne, la parità di genere è in realtà auspicabile per tutti.
Il movimento per il suffragio universale di fine XIX secolo è un buon esempio. Gli Stati non hanno riconosciuto il diritto di voto alle donne in nome della giustizia; le leggi per il suffragio passarono solo quando le donne riuscirono a far capire come avere il diritto di voto le avrebbe messe in grado di migliorare la società. Analogamente, durante il movimento per i diritti civili il reverendo Martin Luther King Jr. fu attento a enfatizzare l’idea che l’uguaglianza razziale avrebbe avuto ripercussioni positive sull’intera popolazione. Molti uomini che pure sono a favore della parità di genere non si impegnano attivamente su questo fronte perché si preoccupano dell’idea che non sia la loro battaglia. Invece è il momento, per uomini e donne simili, di fare fronte comune per promuovere la parità di genere. (© 2-015 New York Times News Service Traduzione di Marzia Porta)

«Senza donne, Italia più ingiusta», Il Sole 24 Ore 08.03.15

Mette da parte la ritualità della festa dell’8 marzo, il bagaglio di frasi scontate e parla con franchezza e semplicità dell’unico dato sostanziale, di come – cioè – alle donne sia affidato un pezzo importante del welfare italiano. «Su di voi grava il peso maggiore della crisi italiana». È tra le prime frasi che pronuncia Sergio Mattarella nel suo discorso al Quirinale davanti ai presidenti di Camera e Senato, alle ministre, alle donne che ieri hanno ricevuto i riconoscimenti nell’ambito della tutela ambientale. E cita una ricerca del movimento “WeCan” che racconta di come con la presenza delle donne nei Parlamenti aumenti l’attitudine a produrre leggi, firmare trattati, salvaguardare l’ambiente.
Ma è nel quotidiano che il lavoro delle donne assume un senso politico più profondo. «A voi una società non bene organizzata affida il compito fondamentale di provvedere in maniera prevalente all’educazione dei figli e alla cura degli anziani e dei portatori di invalidità». Un welfare al femminile che sopperisce ai deficit organizzativi, agli effetti della crisi economica, appunto. «Lo fate silenziosamente, a volte faticosamente». Parole che hanno un peso oltre che una grazia come quando parla di «donne consapevoli che badano all’essenziale e a ciò che è bello, spesso alla difficile ricerca di una compatibilità tra lavoro e famiglia». Basterebbe fermarsi qui per restituire un po’ di sostanza alla festa delle donne ma il presidente insiste su un aspetto – la solidarietà – che per lui è una priorità, il fondamento del vivere civile. «Senza le donne l’Italia sarebbe più povera e ingiusta. Siete il volto prevalente della solidarietà. Il volto della coesione sociale. Non dovremmo smettere di ringraziarvi». Ricorda che lo scorso anno con Giorgio Napolitano la cerimonia fu dedicata alla violenza inflitta alle donne e che quest’anno – invece – è dedicato al rapporto tra donne, natura e Terra. E anche su questo snodo, crescita e tutela dell’ambiente, vede la tessitura di un lavoro femminile. «La crescita globale è un obiettivo giusto e positivo ma occorre governare i contraccolpi a salvaguardia dell’ambiente: in questa situazione il ruolo della donna è determinante».
Ricorda come la metà della produzione del cibo – nei Paesi in via di sviluppo l’80% – passa attraverso mani femminili a cui è legata la salute, la biodiversità. Ricorda una donna, Rachel Carson, e la sua battaglia contro l’abuso degli insetticidi. Prima osteggiata dalle lobbies della chimica, perfino derisa dalla comunità scientifica, riuscì però a far mettere al bando il Ddt. Il suo contributo con il libro Primavera silenziosa fu determinante per la nascita del movimento ambientalista e dopo di lei sono arrivate le battaglie di Laura Conti – «medico, partigiana e deputata» che denunciò le responsabilità politiche e imprenditoriali dopo il disastro di Seveso – e la keniana Wangari Maathai Nobel per la pace come Rigoberta Menchù e infine Vandana Shiva ispiratrice del movimento democratico globale.
Racconta poi delle donne protagoniste della rete “WeCan” che lavorano con l’obiettivo di cambiare il linguaggio passando dalle parole «dominare, impoverire, distruggere» a quelle di «risanare, rispettare, rigenerare». Gli stessi criteri, dice Sergio Mattarella, con cui sono state premiate le donne ieri al Quirinale: professioniste e imprenditrici nel settore dell’agroalimentare, ambiente, risanamento periferie. E dà atto al Parlamento di aver compiuto un importante «passo avanti nella definizione di reato di disastro ambientale: un crimine finora sanzionato in misura inadeguata». Chiude l’intervento con un detto dei nativi americani Ojibwej: «La donna è la radice sulla quale le nazioni sono costruite». Intanto, secondo gli ultimi dati del Viminale, diminuiscono i reati di violenza, stalking o abusi contro le donne mentre sono in aumento le misure di allontanamento

“Gay Talese: non vedremo la fine del razzismo finché ci sarà la nostra generazione”, di Paolo Mastrolilli – La Stampa 07.03.15

Gay Talese

«Niente, la mia generazione deve morire. Fino a quando questo non succederà, e non lasceremo il passo ad una più giovane e aperta, il razzismo resterà con noi. Non solo negli Stati Uniti, ma anche in Italia: non pensiate di essere diversi voi».

Gay Talese c’era, cinquant’anni fa a Selma. Era andato a raccontare la marcia per il New York Times, che adesso lo ha rimandato in Alabama a ripercorrere la storia. «Ma è tutto un gioco, una photo opportunity, un’ipocrisia. Sembra che questo piccolo paese del sud sia la radice del problema, quando invece lo stesso razzismo esiste dentro di noi, ovunque nel paese. Andremo, faremo le parate, e poi torneremo alle nostre vite segregate».

Qual è il ricordo più vivo che ha della marcia?

la marcia da selma a montgomery di martin luther king jr 9

«Vedere Martin Luther King combattere una battaglia di cento anni prima».

Cioè?

«Un premio Nobel per la pace, una figura nota in tutto il mondo, che marciava nel 1965 in Alabama per cercare di affermare gli stessi principi per cui nel 1865 era stata combattuta la Guerra civile. Nulla era cambiato, in un secolo, e questa era la vera tragedia dell’America».

Perché dice che Selma non era la radice del problema?

la marcia da selma a montgomery di martin luther king jr 8

«Io sono cresciuto nel New Jersey, e vicino al negozio di sarto di mio padre vedevo spesso riunirsi degli uomini vestiti di bianco, che appartenevano al Ku Klux Klan. Il razzismo era dentro di noi, ovunque, solo che noi eravamo ipocriti e lo nascondevamo. Su questo aveva proprio ragione Wallace».

Chi, il governatore dell’Alabama? Ma non era quello che aveva ordinato di picchiare i manifestanti a Selma?

«Una volta l’ho intervistato, all’hotel Pierre di New York, nel cuore dell’Upper East Side privilegiato di Manhattan. Mi prese per un braccio, mi portò alla finestra, e indicandomi la Fifth Avenue mi disse: “Voi ve la prendete con il Sud, ma non siete diversi. Mi indichi una sola persona nera che vede per strada”. Ci pensai su, e mi resi conto che aveva ragione. Io abitavo e abito nell’Upper East Side: non avevo allora, e non ho oggi, un solo vicino di casa nero. Segregazione economica e sociale non dichiarata».

la marcia da selma a montgomery di martin luther king jr 7

Ma alla Casa Bianca c’è un presidente nero.

«Certo. Se è per questo, il sindaco di New York de Blasio è sposato con una donna nera e ha due figli misti. Sono eccezioni, però. La realtà quotidiana della gente normale non è questa. La nostra società è ancora segregata, e lo è anche la vostra».

Cosa intende dire?

«Io sono italiano, mio padre era emigrato dalla Calabria. Qual è la nostra storia? Dopo il Risorgimento e l’unificazione guidata da Garibaldi, la Calabria, la Sicilia, il sud in generale, erano l’Alabama dell’Italia. La gente povera moriva di fame e cercava di costruirsi una vita decente altrove, come mio padre che partì per l’America. Arrivati qui fummo maltrattati e discriminati, ma poco alla volta riuscimmo ad affermarci. E quando ci integrammo cosa facemmo? Cominciammo a riservare lo stesso trattamento alle altre minoranze, maltrattando i neri come facevano tutti gli altri bianchi. Nel frattempo il razzismo esplodeva anche in Italia».

ellis island immigrati italiani 4

Cioè?

«Ricordo che una volta venni a Roma, con l’ambasciatore americano Rabb, e l’autista che ci portava si lamentava: “Questa città – diceva – si sta riempiendo di meridionali. Con tutti questi calabresi, sembra di stare in Africa”. Io sono calabrese – pensai – e sono venuto dall’America fino a qui per farmi insultare da questo ignorante. Non lo vede? Non c’è alcuna differenza fra questo razzismo, e quello di Selma contro i neri».

L’Italia è razzista come l’Alabama del 1965?

«Certo. Infatti ora che siete ricchi, e gli immigrati vengono da voi, non volete i neri. Ma anche l’America è razzista come l’Alabama del 1965, tutti lo siamo».

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Come ne veniamo fuori?

«E’ un problema economico, perché i neri continuano a non avere le stesse opportunità dei bianchi, ma soprattutto culturale. E a questo punto temo che non sia più possibile cambiare il cuore degli uomini. Bisogna aspettare che muoiano le generazioni razziste, ed educare meglio i giovani, nella speranza che crescano senza questi pregiudizi. E’ difficile, però, perché da ragazzi siamo sensibili, ma invecchiando diventiamo tutti più conservatori e intolleranti verso gli altri».