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“Dall’Africa agli Usa: cambiamo passo o la parità di genere arriverà tra 80 anni”, di Viviana Mazza – Corriere della Sera 07.03.15
«Nessun Paese al mondo ha raggiunto la parità di genere».
Colpisce, alla vigilia dell’8 marzo, questa frase di Phumzile Mlambo-Ngcuka, direttore esecutivo di «UN Women», l’agenzia Onu per l’uguaglianza di genere. Le ragioni sono naturalmente diverse: dall’Africa, dove il 70% del raccolto dipende dalle donne che pure possiedono solo il 2% della terra, agli Stati Uniti, dove Patricia Arquette ha dato voce agli Oscar alla battaglia per la parità di salario. Riconoscerlo non vuol dire negare gli enormi passi avanti fatti negli ultimi vent’anni: molte nazioni sono riuscite aridurre il gender gap nell’istruzione (una sfida che negli ultimi anni ha trovato una nuova icona in Malala); tante più donne sopravvivono alle complicazioni durante il parto nei Paesi in via di sviluppo; nuove istituzioni e nuove leggi sono state create contro le discriminazioni; e questi sono solo alcuni esempi. Ma l’Onu osserva pure che i progressi sono stati «lenti e volubili» e per questo rilancia oggi gli obiettivi individuati nel 1995 da 189 Paesi alla Conferenza mondiale sulle donne di Pechino.
La piattaforma di Pechino indicò 12 «aree di crisi» da affrontare (povertà, istruzione, salute, violenza, conflitti armati, economia, potere, meccanismi istituzionali, media, diritti umani, ambiente, bambine): una roadmap per la parità in tutte le dimensioni della vita. Ora l’appello ai leader mondiali è: impegnatevi per farcela prima del 2030. Uno dei consigli è dicreare ministeri, commissioni e budget specifici per far sì che le buone politiche vengano applicate nei fatti.
«Altrimenti una bambina che nasce oggi dovrà aspettare 80 anni prima di poter vedere un mondo che offra pari opportunità».
8 marzo 2015 Il Pd dalla parte delle donne. Ogni giorno – Partito Democratico
8 marzo 2015 La libertà delle donne per un mondo nuovo
“Se lei diventa informatica tra studio e tenacia la classe media è femmina”, di Maurizio Ricci – La Repubblica – 06.03.15
In un mondo che va uniformandosi sempre più al modello americano di economia e occupazione, l’America ci indica quasi sempre quello che ci aspetta. E l’America, oggi, dice che la classe media è femmina.
Riflette in questa chiave, le tirate di Patricia Arquette alla cerimonia degli Oscar o di Christine Lagarde sul suo blog da direttore del Fondo monetario internazionale sulla discriminazione di cui sono vittime le donne nel mondo del lavoro centrano il bersaglio, ma sono fuori fase. Capita, quando le società cambiano: le proteste e le rivolte si fanno più rumorose e pressanti, man mano che gli spazi si aprono, non quando si chiudono. La discriminazione, in effetti, è sotto gli occhi di tutti, anche in un paese, come gli Stati Uniti, che di diritti delle donne discute da centocinquant’anni. Troppo poche, rispetto alla presenza nel mondo del lavoro, le donne manager e ancor meno quelle che hanno raggiunto i vertici. Ma, soprattutto, pesa il gap delle buste paga: stesso lavoro, stipendio minore. Un avvocato donna guadagna poco più della metà del suo collega uomo e meno dell’80 per cento se fa la bibliotecaria. Non si salvano neanche le supermanager: un Ceo donna prende il 70 per cento del suo omologo maschio. In media, la busta paga delle donne è più leggera del 15 per cento. Più o meno quanto in Europa, 16,7 per cento (a sorpresa, qui l’Italia fa eccezione: solo 7 per cento in meno). Anche in America, vale la discriminante Sud-Nord. In Louisiana, la paga di una donna è i due terzi di quella del suo collega maschio, a New York è proporzionalmente più alta. Ma non supera l’85 per cento. In più sono soprattutto le donne a ingrossare i ranghi dell’esercito dei precari e dei lavoratori part time.Ma le statistiche ci dicono anche altro, in una chiave diversa. In particolare, se ci preoccupiamo di rispondere alla domanda che inquieta gli studiosi e, ancor più, i politici dell’Occidente di oggi: che fine ha fatto quel possente pilastro su cui si sono rette le società industriali dal dopoguerra ad oggi e, cioè, la classe media? La risposta è che ha cambiato sesso. A reggere una famiglia di classe media sono, sempre più, le donne. Prendiamo le occupazioni che danno una busta paga da classe media. Per gli Stati Uniti, fra i 40 e gli 80 mila dollari (lordi) l’anno. Chi guadagna, oggi, questi soldi? Soprattutto, le infermiere. Nel 1980, solo 19 buste paga da classe media su mille facevano riferimento ad infermiere. Oggi sono 39. In cifre assolute, è il terzo plotone di stipendi da classe media, ma è quello che è cresciuto più in fretta. E il 90 per cento di chi fa questo lavoro, negli Usa, è donna. Subito dopo le infermiere, la categoria che è più cresciuta è quella degli informatici, prevalentemente maschile. Ma poi vengono periti delle assicurazioni, tecnici della sanità, insegnanti, fisioterapisti, contabili, assistenti legali, tutte professione con una preponderanza femminile. All’altro lato, quali sono le professioni che più si sono allontanate dalla dorata forchetta da 40-80 mila dollari? I lavori che sempre meno pagano stipendi da classe media sono quelli delle fabbriche, tradizionalmente maschili: operatori alle macchine, supervisori, elettricisti, trasportatori. Nel 1980, su 1000 stipendi da classe media, più di 50 erano di operatori alle macchine. Trent’anni dopo sono solo 18. A voler fare i conti da vicino, lo stipendio medio di un’infermiera è oltre il 50 per cento più alto di trent’anni fa ed è, oggi, di 9 mila dollari più corposo di quello di un tecnico delle riparazioni telefoniche, classica figura di capofamiglia degli anni ‘80.
E in Europa? La traiettoria è simile. Nel 2012, l’83 per cento delle donne nell’Unione europea aveva completato almeno la scuola superiore, contro il 77,6 per cento degli uomini. E il 60 per cento dei laureati festeggerà l’8 marzo. Le linee, insomma, sono tracciate e non è facile vedere come le tendenze possano mutare. Christine Lagarde e Patricia Arquette hanno ragione a protestare perché gli uomini occupano sette posti su 10 che pagano più di 80 mila dollari l’anno e non si schiodano. Ma, 50 anni fa, solo il 6 per cento delle donne guadagnava più dei rispettivi mariti. Oggi, in termini di quattrini portati a casa, il 25 per cento dei capifamiglia, in America, è mamma. Farsene una ragione non è semplice: gli esperti si preoccupano di “una sfasatura fra economia e cultura”. Per i consulenti matrimoniali, il sesso rischia di non essere più il problema numero uno.
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“L’Italia può ancora difendere «quota 4%»”, di Matteo Mantovani Benedetto Santacroce – Il Sole 24 Ore – 06.03.15
Analizzando la questione da questo punto di vista, occorre rammentare che la stessa Corte Ue, nella sentenza C-219/13 resa l’11 settembre 2014, nel trattare in via pregiudiziale (e non per infrazione) una vertenza analoga a quella in oggetto, aveva rimesso la soluzione della controversia alla Corte domestica affermando il principio per cui, al fine della legittima applicazione, o meno, dell’aliquota ridotta agli e-book occorre accertare «se i libri pubblicati in formato cartaceo e quelli che sono pubblicati su supporti fisici diversi siano prodotti idonei a essere considerati simili da parte del consumatore medio». In caso positivo, a parere della Corte, l’applicazione dell’aliquota ridotta agli e-book sarebbe legittimo. La Corte, pertanto, non ha escluso tout court la legittimità dell’Iva ridotta, ma ne ha subordinato l’ammissibilità a valutazioni che attengono la funzione dell’e-book agli occhi del consumatore, a prescindere dal supporto. Non è ben chiaro, allora, come la decisione presa nella sentenza di ieri possa essere conciliata con quella di luglio 2014. Di qui qualche residua chance per la difesa del regime nazionale.
“Ok dall’Unesco su Pompei”, di Francesco Prisco – Il Sole 24 Ore – 06 – 03.15
Ma in questi cinque anni, nonostante più di 30 crolli accertati, nell’area archeologica vesuviana qualcosa è cambiato: mai l’Unesco aveva tributato all’Italia un’apertura di credito così ampia per la gestione del dossier Pompei come nel report reso noto ieri, frutto della missione compiuta a novembre scorso dalla delegazione guidata dall’inglese Christopher Young. «Ci sono miglioramenti tangibili e significativi nello stato di conservazione» del sito, si legge nel testo di 68 pagine. «L’Italia ha compiuto sforzi considerevoli nell’adottare le raccomandazioni dell’Unesco World Heritage Committee». E poi un assist importantissimo per lo staff del ministero dei Beni culturali chiamato all’impresa titanica di spendere tutti i 105 milioni del maxi-piano di interventi cofinanziato da Bruxelles entro la scadenza tassativa del 31 gennaio 2015. «Migliori standard di lavoro e supervisione – precisano gli ispettori – sarebbero suscettibili di essere raggiunti se il programma sul sito dovesse essere esteso al 2016». Chissà come reagirà la Commissione europea che ha sempre bocciato qualsiasi ipotesi di proroga. Gli ispettori in ogni caso apprezzano il fatto che si sia «dato il via a gran parte delle iniziative annunciate. Sono state eseguite sostanziali opere di restauro sul sito – scrivono – principalmente nel contesto del Grande progetto, ma anche nell’ambito del programma di manutenzione ordinario. Ci sono lavori in corso in nove delle 13 domus identificate a rischio nel 2013. Invitalia e Ales, entrambi aziende controllate dal Governo, hanno fornito rispettivamente risorse professionali aggiuntive e ulteriore personale di custodia». Per quanto sia considerata una «debolezza» il fatto che i lavoratori dell’Ales «non sembrino essere integrati in alcun modo con i guardiani normali». E «questa rigidità riduce l’efficacia complessiva della disposizione». Gli ispettori apprezzano l’arrivo a Pompei di otto nuovi architetti e 23 archeologi, ma sottolineano con preoccupazione che non si tratta di assunzioni definitive. Quanto alle 13 domus della black list, non tutte possono dirsi fuori pericolo. Per questo, pur sottolineando che «non si tratta di una critica, quanto piuttosto di un incoraggiamento a proseguire secondo lo slancio intrapreso», viene mantenuta la dicitura «a rischio» per cinque di esse: la casa degli Amanti, la Casa delle Nozze d’argento, la Schola Armaturarum, la Casa di Trebius Valens e l’affresco della caccia nella Casa dei Ceii. Il risultato più importante, per ora, è comunque il fatto che possa ritenersi «superata ogni questione riguardo l’iscrizione del sito nella lista del patrimonio mondiale in pericolo». E in più viene sottolineato «un cambiamento profondo nel comportamento della nuova soprintendenza di Pompei». In passato, sottolineano gli ispettori, non si andava oltre le intenzioni, «quest’anno invece abbiamo potuto verificare che ha preso il via un’attività sia efficace che saggiamente programmata in molti luoghi del sito bisognosi di un rapido intervento».
Questi risultati, secondo l’Unesco, dimostrano «chiaramente che quando si stabilisce con correttezza la programmazione, il bilancio è gestito con efficacia e il personale qualificato è disponibile, i lavori di restauro e di valorizzazione di una domus, per quanto sia danneggiata, divengono possibili in tempi ragionevoli». Il ministro Dario Franceschini parla di «giusto riconoscimento di un lavoro intenso, scrupoloso e metodico». Parole di apprezzamento arrivano anche dal presidente della commissione nazionale Unesco, Gianni Puglisi. Da Pompei il direttore generale Giovanni Nistri e il soprintendente Massimo Osanna esultano. «Impegnare i soldi europei entro il 2015 non sarà assolutamente un problema, contiamo anzi di farcela molto prima, forse anche entro la fine di aprile», precisa Osanna che proprio ieri festeggiava il suo primo anno ai piedi del Vesuvio. Il Grande progetto è indiscutibilmente in recupero: porta i suoi frutti il piano d’azione con cui, a luglio scorso, Bruxelles obbligò l’Italia a rispettare una rigida scaletta per impegni e spesa. Ma l’Unesco guarda già oltre: «Siamo preoccupati – si legge nel report – che non vi sia alcuna garanzia che tutte queste risorse continueranno a essere disponibili una volta che il Grande progetto sarà completato». Come dire che la sfida del futuro per Pompei è la stessa che pose, quasi un secolo fa, il grande Amedeo Maiuri: la gestione ordinaria di un sito straordinario.