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” L’ Ue contro gli antisemiti”, di Federica Mogherini – La Repubblica 07.03.15

Caro direttore, i nostri padri usciti dall’orrore della Seconda Guerra mondiale e della Shoah, per decenni hanno tenacemente costruito un’Europa nuova, un continente di pace, di rispetto dei diritti, di tutte le religioni. Eppure i valori per cui tanti si sono battuti sono di nuovo in pericolo.
E tocca alla nostra generazione ora affrontare una sfida, diventata globale, proprio a quei principi. Gli attentati a Bruxelles, a Parigi e a Copenaghen hanno scosso l’Europa, l’hanno messa di fronte al dovere di agire, di non girare la testadall’altra parte.
Siamo davanti a un terrorismo che non conosce confini e ha anzi trovato terreno fertile proprio nel cuore dell’Europa. Sono messi in discussione i valori universali di libertà, di dignità e di rispetto. Sono minacciate le comunità ebraiche e per la prima volta da decenni c’è chi si sente spinto a lasciare il proprio paese per trovare riparo altrove, echi di tempi che credevamo archiviati per sempre. Dietro gli attentati vi è un crescendo di violenza di pensiero, di antisemitismo, un nuovo linguaggio per proseliti di un odio antico.
Non bastano più condanne e attestati di solidarietà, certo doverosi: c’è un destino comune che lega i cittadini europei. Tutti. Come Ue stiamo lavorando dentro e fuori i nostri confini per combattere il radicalismo e il terrorismo. Senza rinunciare ai nostri valori. Per questo puntiamo sul dialogo tra religioni, sulla lotta contro la propaganda antisemita coinvolgendo scuole, università e comunità locali: è alle nuove generazioni che è affidato quel destino comune.
Subito dopo gli attentati di Parigi, a inizio gennaio, ho ricevuto a Strasburgo una delegazione dell’European Jewish Congress guidata dal suo presidente Moshe Kantor. In quella occasione parlai dell’urgenza di accogliere proposte come quella di una task force Ue contro l’antisemitismo, sostenuta in questi giorni anche da un largo numero di parlamentari italiani.
Per questo ho trasmesso la proposta al Vice Presidente della Commissione Europea Franz Timmermans, che ha competenza formale sulla materia e stiamo già lavorando su diverse iniziative. L’Europa è nata sul rispetto delle libertà, delle religioni, sulla passione per il dialogo, sull’apertura al mondo. Sono i nostri valori fondanti. Non sono solo il nostro passato, sono il nostro futuro. E non consentiremo a nessuno di toglierlo ai nostri figli.
L’autore è Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza

“Dall’Africa agli Usa: cambiamo passo o la parità di genere arriverà tra 80 anni”, di Viviana Mazza – Corriere della Sera 07.03.15

«Nessun Paese al mondo ha raggiunto la parità di genere».

Colpisce, alla vigilia dell’8 marzo, questa frase di Phumzile Mlambo-Ngcuka, direttore esecutivo di «UN Women», l’agenzia Onu per l’uguaglianza di genere. Le ragioni sono naturalmente diverse: dall’Africa, dove il 70% del raccolto dipende dalle donne che pure possiedono solo il 2% della terra, agli Stati Uniti, dove Patricia Arquette ha dato voce agli Oscar alla battaglia per la parità di salario. Riconoscerlo non vuol dire negare gli enormi passi avanti fatti negli ultimi vent’anni: molte nazioni sono riuscite aridurre il gender gap nell’istruzione (una sfida che negli ultimi anni ha trovato una nuova icona in Malala); tante più donne sopravvivono alle complicazioni durante il parto nei Paesi in via di sviluppo; nuove istituzioni e nuove leggi sono state create contro le discriminazioni; e questi sono solo alcuni esempi. Ma l’Onu osserva pure che i progressi sono stati «lenti e volubili» e per questo rilancia oggi gli obiettivi individuati nel 1995 da 189 Paesi alla Conferenza mondiale sulle donne di Pechino.

La piattaforma di Pechino indicò 12 «aree di crisi» da affrontare (povertà, istruzione, salute, violenza, conflitti armati, economia, potere, meccanismi istituzionali, media, diritti umani, ambiente, bambine): una roadmap per la parità in tutte le dimensioni della vita. Ora l’appello ai leader mondiali è: impegnatevi per farcela prima del 2030. Uno dei consigli è dicreare ministeri, commissioni e budget specifici per far sì che le buone politiche vengano applicate nei fatti.

«Altrimenti una bambina che nasce oggi dovrà aspettare 80 anni prima di poter vedere un mondo che offra pari opportunità».

“Se lei diventa informatica tra studio e tenacia la classe media è femmina”, di Maurizio Ricci – La Repubblica – 06.03.15

Il mondo è delle donne si dicono fra loro, da sempre, le donne. Nei fatti, poco più di un mantra per tenersi su. Solo che adesso è vero. O, almeno, sta diventando vero. Uno sguardo sul futuro del mondo del lavoro, il teatro per eccellenza dei rapporti sociali, ci dice che le occupazioni che innervano la società, perché su di esse si reggono le famiglie e le gerarchie sociali sono e saranno sempre più a tinte rosa. Qui non si tratta di ricchi, straricchi e di posti di comando, ma della gran massa della gente comune. In due parole, dimenticate il commesso viaggiatore che gira il paese con cappotto e valigia o il caposquadra con la tuta blu stirata di fresco.

In un mondo che va uniformandosi sempre più al modello americano di economia e occupazione, l’America ci indica quasi sempre quello che ci aspetta. E l’America, oggi, dice che la classe media è femmina.

Riflette in questa chiave, le tirate di Patricia Arquette alla cerimonia degli Oscar o di Christine Lagarde sul suo blog da direttore del Fondo monetario internazionale sulla discriminazione di cui sono vittime le donne nel mondo del lavoro centrano il bersaglio, ma sono fuori fase. Capita, quando le società cambiano: le proteste e le rivolte si fanno più rumorose e pressanti, man mano che gli spazi si aprono, non quando si chiudono. La discriminazione, in effetti, è sotto gli occhi di tutti, anche in un paese, come gli Stati Uniti, che di diritti delle donne discute da centocinquant’anni. Troppo poche, rispetto alla presenza nel mondo del lavoro, le donne manager e ancor meno quelle che hanno raggiunto i vertici. Ma, soprattutto, pesa il gap delle buste paga: stesso lavoro, stipendio minore. Un avvocato donna guadagna poco più della metà del suo collega uomo e meno dell’80 per cento se fa la bibliotecaria. Non si salvano neanche le supermanager: un Ceo donna prende il 70 per cento del suo omologo maschio. In media, la busta paga delle donne è più leggera del 15 per cento. Più o meno quanto in Europa, 16,7 per cento (a sorpresa, qui l’Italia fa eccezione: solo 7 per cento in meno). Anche in America, vale la discriminante Sud-Nord. In Louisiana, la paga di una donna è i due terzi di quella del suo collega maschio, a New York è proporzionalmente più alta. Ma non supera l’85 per cento. In più sono soprattutto le donne a ingrossare i ranghi dell’esercito dei precari e dei lavoratori part time.Ma le statistiche ci dicono anche altro, in una chiave diversa. In particolare, se ci preoccupiamo di rispondere alla domanda che inquieta gli studiosi e, ancor più, i politici dell’Occidente di oggi: che fine ha fatto quel possente pilastro su cui si sono rette le società industriali dal dopoguerra ad oggi e, cioè, la classe media? La risposta è che ha cambiato sesso. A reggere una famiglia di classe media sono, sempre più, le donne. Prendiamo le occupazioni che danno una busta paga da classe media. Per gli Stati Uniti, fra i 40 e gli 80 mila dollari (lordi) l’anno. Chi guadagna, oggi, questi soldi? Soprattutto, le infermiere. Nel 1980, solo 19 buste paga da classe media su mille facevano riferimento ad infermiere. Oggi sono 39. In cifre assolute, è il terzo plotone di stipendi da classe media, ma è quello che è cresciuto più in fretta. E il 90 per cento di chi fa questo lavoro, negli Usa, è donna. Subito dopo le infermiere, la categoria che è più cresciuta è quella degli informatici, prevalentemente maschile. Ma poi vengono periti delle assicurazioni, tecnici della sanità, insegnanti, fisioterapisti, contabili, assistenti legali, tutte professione con una preponderanza femminile. All’altro lato, quali sono le professioni che più si sono allontanate dalla dorata forchetta da 40-80 mila dollari? I lavori che sempre meno pagano stipendi da classe media sono quelli delle fabbriche, tradizionalmente maschili: operatori alle macchine, supervisori, elettricisti, trasportatori. Nel 1980, su 1000 stipendi da classe media, più di 50 erano di operatori alle macchine. Trent’anni dopo sono solo 18. A voler fare i conti da vicino, lo stipendio medio di un’infermiera è oltre il 50 per cento più alto di trent’anni fa ed è, oggi, di 9 mila dollari più corposo di quello di un tecnico delle riparazioni telefoniche, classica figura di capofamiglia degli anni ‘80.

Dietro questi riassestamenti delle gerarchie retributive ci sono i grandi mutamenti degli ultimi decenni: la globalizzazione e l’avanzata a macchia d’olio di computer e robot. La fuga delle fabbriche verso la Cina ha svuotato le fabbriche e l’identità professionale di tradizionali figure maschili, ma non ha intaccato occupazioni che richiedono un contatto diretto con l’utente, come infermiere e fisioterapiste. Il numero di operai con uno stipendio da classe media si è dimezzato, quello delle infermiere è triplicato. Anche perché, quando le fabbriche tornano in America, invece di assumere operai, dispiegano robot. Dopo le fabbriche, però, l’informatica ha devastato, in termini di occupazione, gli uffici. Gli archetipi del lavoro femminile moderno — la telefonista, la dattilografa — sono entrati nel museo delle professioni scomparse, anche più rapidamente dell’operaio di linea. Eppure, l’impatto è stato minore: le donne si sono dimostrate più capaci di reagire ai tempi nuovi degli uomini.
Come? Studiando.
Uno dei segnali fondamentali del- l’attuale mercato del lavoro americano è la richiesta generalizzata di qualificazioni sempre più alte per lavori che, fino a ieri, sembravano alla portata di curriculum meno ambiziosi. In altre parole, si chiede la laurea dove, fino a ieri, bastava il diploma. Una ricerca di una società specializzata in analisi del mercato del lavoro, Burning Glass, mostra che il 65 per cento delle offerte di lavoro per segretaria presuppongono oggi, un diploma universitario (l’equivalente della nostra laurea breve) mentre solo il 19 per cento delle segretarie in attività lo hanno. Lo stesso per i periti delle assicurazioni. Solo un quarto dei periti attuali ha una laurea, ma il 50 per cento delle offerte per nuovi posti lo richiede. Vale anche per i topi del computer. Meno del 40 per cento di chi oggi fa assistenza agli utenti dei pc, ha una laurea in tasca, ma Microsoft o Hewlett Packard e simili ne fanno un prerequisito per i neoassunti.
Vero o falso che sia che un buon titolo di studio è la chiave dell’avanzamento professionale, il punto è che senza, oggi, a quanto pare, non si comincia neanche. E le donne, qui, sono largamente in vantaggio. Negli Usa, attualmente, il 38 per cento delle donne a cavallo dei 30 anni ha una laurea. Negli anni ‘80, era solo il 15 per cento. Ma conta il paragone: il tasso di uomini che completano gli studi universitari è del 7 per cento più basso rispetto alle donne, mentre, 40 anni fa, era del 7 per cento più alto. Il sorpasso c’è stato, e pesa. Negli anni ‘80, il 55 per cento dei titolari di uno stipendio da classe media aveva solo il diploma da scuola superiore e i laureati erano appena il 25 per cento. Oggi, i laureati sono il 41 per cento e meno del 31 per cento riesce ad emergere nella classe media con in tasca soltanto il diploma. Incrociate un mercato del lavoro che pretende qualifiche sempre più alte e un gruppo che si qualifica sempre di più rispetto ad un altro che si qualifica meno e il risultato è inevitabile. Nel 1980, solo un quarto delle buste paga da classe media finiva nella borsetta di una donna. Oggi è il 44 per cento.

E in Europa? La traiettoria è simile. Nel 2012, l’83 per cento delle donne nell’Unione europea aveva completato almeno la scuola superiore, contro il 77,6 per cento degli uomini. E il 60 per cento dei laureati festeggerà l’8 marzo. Le linee, insomma, sono tracciate e non è facile vedere come le tendenze possano mutare. Christine Lagarde e Patricia Arquette hanno ragione a protestare perché gli uomini occupano sette posti su 10 che pagano più di 80 mila dollari l’anno e non si schiodano. Ma, 50 anni fa, solo il 6 per cento delle donne guadagnava più dei rispettivi mariti. Oggi, in termini di quattrini portati a casa, il 25 per cento dei capifamiglia, in America, è mamma. Farsene una ragione non è semplice: gli esperti si preoccupano di “una sfasatura fra economia e cultura”. Per i consulenti matrimoniali, il sesso rischia di non essere più il problema numero uno.

“L’Italia può ancora difendere «quota 4%»”, di Matteo Mantovani Benedetto Santacroce – Il Sole 24 Ore – 06.03.15

L’Iva al 4% sugli e-book, introdotta dalla legge di Stabilità 2015, non è compatibile con la normativa comunitaria. È questo l’effetto a livello nazionale della decisione della Corte Ue che ha censurato la normativa francese. Tuttavia, la normativa italiana, ancora non sottoposta a procedura di infrazione, potrebbe essere salvata o, quantomeno, difesa dall’apparente incongruità della sentenza della Corte. I giudici europei hanno risolto la vertenza contro la Francia facendo leva sul fatto che un e-book non è un libro, siccome manca dell’elemento «fisico», bensì un prodotto «intangibile» erogato tramite il web. Pertanto, considerate le sue caratteristiche oggettive, un e-book rientrerebbe nella categoria dei servizi prestati per via elettronica. La Corte non ha fatto alcun cenno alle finalità che tale prodotto è destinato a soddisfare. Infatti, un e-book, dal punto di vista dell’acquirente, è sicuramente un sostituto naturale di un libro stampato. È pacifico che un consumatore, nel momento in cui acquista un e-book, rinuncia ad acquistare un libro tradizionale. Per cui il primo sostituisce il secondo. Il fatto che l’e-book sia veicolato tramite internet e possa essere utilizzato su vari supporti (e-reader, tablet, pc, eccetera) non è decisivo nella scelta. Un lettore, quando compra un libro, concretizza il desiderio di acquistare il “contenuto” del libro, cioè il prodotto letterario, e non il contenitore, cartaceo o elettronico.
Analizzando la questione da questo punto di vista, occorre rammentare che la stessa Corte Ue, nella sentenza C-219/13 resa l’11 settembre 2014, nel trattare in via pregiudiziale (e non per infrazione) una vertenza analoga a quella in oggetto, aveva rimesso la soluzione della controversia alla Corte domestica affermando il principio per cui, al fine della legittima applicazione, o meno, dell’aliquota ridotta agli e-book occorre accertare «se i libri pubblicati in formato cartaceo e quelli che sono pubblicati su supporti fisici diversi siano prodotti idonei a essere considerati simili da parte del consumatore medio». In caso positivo, a parere della Corte, l’applicazione dell’aliquota ridotta agli e-book sarebbe legittimo. La Corte, pertanto, non ha escluso tout court la legittimità dell’Iva ridotta, ma ne ha subordinato l’ammissibilità a valutazioni che attengono la funzione dell’e-book agli occhi del consumatore, a prescindere dal supporto. Non è ben chiaro, allora, come la decisione presa nella sentenza di ieri possa essere conciliata con quella di luglio 2014. Di qui qualche residua chance per la difesa del regime nazionale.

“Ok dall’Unesco su Pompei”, di Francesco Prisco – Il Sole 24 Ore – 06 – 03.15

Nel novembre 2010, all’indomani del crollo della Schola Armatorum, da Parigi arrivarono parole come pietre. A gennaio di due anni fa gli ispettori dell’agenzia culturale delle Nazioni Unite non esitarono a mostrare a Roma il cartellino giallo: o si recupera sulla spesa del Grande progetto e si mettono in sicurezza le 13 domus a rischio o Pompei finisce nella lista dei beni patrimonio dell’umanità «in danger», come fosse un monumento del Medio Oriente esposto alla guerriglia.
Ma in questi cinque anni, nonostante più di 30 crolli accertati, nell’area archeologica vesuviana qualcosa è cambiato: mai l’Unesco aveva tributato all’Italia un’apertura di credito così ampia per la gestione del dossier Pompei come nel report reso noto ieri, frutto della missione compiuta a novembre scorso dalla delegazione guidata dall’inglese Christopher Young. «Ci sono miglioramenti tangibili e significativi nello stato di conservazione» del sito, si legge nel testo di 68 pagine. «L’Italia ha compiuto sforzi considerevoli nell’adottare le raccomandazioni dell’Unesco World Heritage Committee». E poi un assist importantissimo per lo staff del ministero dei Beni culturali chiamato all’impresa titanica di spendere tutti i 105 milioni del maxi-piano di interventi cofinanziato da Bruxelles entro la scadenza tassativa del 31 gennaio 2015. «Migliori standard di lavoro e supervisione – precisano gli ispettori – sarebbero suscettibili di essere raggiunti se il programma sul sito dovesse essere esteso al 2016». Chissà come reagirà la Commissione europea che ha sempre bocciato qualsiasi ipotesi di proroga. Gli ispettori in ogni caso apprezzano il fatto che si sia «dato il via a gran parte delle iniziative annunciate. Sono state eseguite sostanziali opere di restauro sul sito – scrivono – principalmente nel contesto del Grande progetto, ma anche nell’ambito del programma di manutenzione ordinario. Ci sono lavori in corso in nove delle 13 domus identificate a rischio nel 2013. Invitalia e Ales, entrambi aziende controllate dal Governo, hanno fornito rispettivamente risorse professionali aggiuntive e ulteriore personale di custodia». Per quanto sia considerata una «debolezza» il fatto che i lavoratori dell’Ales «non sembrino essere integrati in alcun modo con i guardiani normali». E «questa rigidità riduce l’efficacia complessiva della disposizione». Gli ispettori apprezzano l’arrivo a Pompei di otto nuovi architetti e 23 archeologi, ma sottolineano con preoccupazione che non si tratta di assunzioni definitive. Quanto alle 13 domus della black list, non tutte possono dirsi fuori pericolo. Per questo, pur sottolineando che «non si tratta di una critica, quanto piuttosto di un incoraggiamento a proseguire secondo lo slancio intrapreso», viene mantenuta la dicitura «a rischio» per cinque di esse: la casa degli Amanti, la Casa delle Nozze d’argento, la Schola Armaturarum, la Casa di Trebius Valens e l’affresco della caccia nella Casa dei Ceii. Il risultato più importante, per ora, è comunque il fatto che possa ritenersi «superata ogni questione riguardo l’iscrizione del sito nella lista del patrimonio mondiale in pericolo». E in più viene sottolineato «un cambiamento profondo nel comportamento della nuova soprintendenza di Pompei». In passato, sottolineano gli ispettori, non si andava oltre le intenzioni, «quest’anno invece abbiamo potuto verificare che ha preso il via un’attività sia efficace che saggiamente programmata in molti luoghi del sito bisognosi di un rapido intervento».
Questi risultati, secondo l’Unesco, dimostrano «chiaramente che quando si stabilisce con correttezza la programmazione, il bilancio è gestito con efficacia e il personale qualificato è disponibile, i lavori di restauro e di valorizzazione di una domus, per quanto sia danneggiata, divengono possibili in tempi ragionevoli». Il ministro Dario Franceschini parla di «giusto riconoscimento di un lavoro intenso, scrupoloso e metodico». Parole di apprezzamento arrivano anche dal presidente della commissione nazionale Unesco, Gianni Puglisi. Da Pompei il direttore generale Giovanni Nistri e il soprintendente Massimo Osanna esultano. «Impegnare i soldi europei entro il 2015 non sarà assolutamente un problema, contiamo anzi di farcela molto prima, forse anche entro la fine di aprile», precisa Osanna che proprio ieri festeggiava il suo primo anno ai piedi del Vesuvio. Il Grande progetto è indiscutibilmente in recupero: porta i suoi frutti il piano d’azione con cui, a luglio scorso, Bruxelles obbligò l’Italia a rispettare una rigida scaletta per impegni e spesa. Ma l’Unesco guarda già oltre: «Siamo preoccupati – si legge nel report – che non vi sia alcuna garanzia che tutte queste risorse continueranno a essere disponibili una volta che il Grande progetto sarà completato». Come dire che la sfida del futuro per Pompei è la stessa che pose, quasi un secolo fa, il grande Amedeo Maiuri: la gestione ordinaria di un sito straordinario.