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"Perché votare. Un dilemma italiano", di Ilvo Diamanti

Votare per scegliere chi governerà. Oppure scegliere chi governerà indipendentemente dal voto e dal risultato. Questo è il dilemma. mplificato dalle recenti dichiarazioni di Monti, che ha confermato l’intenzione di non candidarsi come premier, alle prossime elezioni. Ma non ha escluso l’ipotesi di «dare una mano, se fosse richiesto ». Per proseguire nell’impegno avviato da quasi un anno. Un messaggio raccolto, per primo, da Montezemolo. Che ha annunciato, infine, la sua “discesa in campo”. A sostegno di Monti. Con la convinta adesione di Casini e Fini. Che hanno proposto un “cartello elettorale”. Nel nome del Professore. Al quale, però, interessa presentarsi e agire – come premier
al di sopra delle parti e dei partiti.
Dunque, al di sopra e al di fuori della competizione elettorale.
Investito dalla volontà di un’ampia maggioranza del Parlamento. L’idea, d’altronde, non piace neppure ai leader dei partiti maggiori, Pd e Pdl. Per non ridursi a svolgere un ruolo gregario. Non è, quindi, detto che la “disponibilità” annunciata da Monti si traduca in decisione. Ma il fatto stesso che l’ipotesi oggi appaia verosimile è significativo. D’altronde, l’unico leader di cui gli elettori si fidino veramente è lui. Monti. Il cui consenso personale è di nuovo in crescita, nelle ultime settimane. Come il sostegno al governo. In entrambi i casi, superiori alla metà dell’elettorato (dati Ipsos). Gli elettori, dunque, vogliono un governo espresso dalla maggioranza che emergerà alle prossime elezioni. Basta che a guidarlo sia Monti.
Il dilemma della democrazia rappresentativa, in Italia, è tutto qui. Se il voto “non serve” a scegliere chi governa, attraverso i rappresentanti eletti, a che “serve” votare? E com’è possibile, in queste condizioni, parlare ancora di democrazia rappresentativa?
Questo dilemma, però, non è poi tanto paradossale – e neppure inedito. Almeno in Italia. Secondo alcuni osservatori, sarebbe alla base della nostra “anomalia”.
In fondo, per quasi cinquant’anni il sistema politico italiano è apparso “bloccato”. Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, la frattura geopolitica internazionale ha impedito una vera alternativa, per la presenza, in Italia, del più importante partito comunista occidentale. Si è così affermato un “bipartitismo imperfetto”, per citare Giorgio Galli. Dove la competizione elettorale, indipendentemente dal risultato, proponeva un esito comunque scontato. Perché, comunque la Dc avrebbe governato, da sola o in coalizione. Mentre il Pci avrebbe guidato l’opposizione. Lo stesso Pci ne era consapevole. Complice. Coinvolto in un sistema consensuale e consociativo. Dove aveva influenza in tutte le principali scelte. Questa “anomalia” è proseguita, non a caso, fino al crollo del muro di Berlino e della Prima Repubblica. Ma, per quasi cinquant’anni, gli italiani hanno votato pur sapendo che gli equilibri di governo, nonostante i cambiamenti elettorali, peraltro notevoli, non sarebbero mutati in modo sostanziale. Il Capo del governo lo decidevano la Dc, i suoi capicorrente e i suoi alleati. In base ai rapporti di forza interni ai partiti. Che cambiavano spesso, nel corso della legislatura. Senza possibilità, per i cittadini, di reagire e intervenire. Eppure, gli italiani, nonostante tutto, continuarono a votare. In grande numero. Alle politiche: tra il 90% e l’80% degli aventi diritto, fino ad oggi. Un tasso di partecipazione elettorale tra i più alti, nelle democrazie occidentali.
Anche se la fiducia nei partiti non è mai stata troppo alta. Neppure in passato. In Italia, però, si votava egualmente. Pro o contro i comunisti. Pro o contro la Dc e, sullo sfondo, la Chiesa. Per fedeltà. Per fede. Ma anche per sentirsi parte. Per partecipare.
Nella Seconda Repubblica questo modello è cambiato profondamente. Ma non del tutto. Sono crollati i sistemi comunisti, ma in Italia il comunismo, meglio ancora: l’anticomunismo non è mai morto. Evocato e tenuto vivo, per primo, da Berlusconi. Che in questo modo ha cristallizzato il passato a proprio favore. Così gli elettori hanno ripreso a schierarsi. A dividersi come prima. Fra anticomunisti e antiberlusconiani. La novità, semmai, è la personalizzazione. I partiti riassunti nei loro leader e viceversa. Le elezioni trasformate in referendum. Pro o contro Berlusconi. Così il Paese si è presidenzializzato in fretta. Senza riforme istituzionali e costituzionali. Di fatto. Gli italiani: si sono abituati ad affidarsi a un premier espresso dai partiti. O meglio: a leader, di cui i partiti apparivano e appaiono una protesi. Gli elettori: indotti a votare per parlamentari nominati dai partiti e dai loro leader. Fino alla deriva a cui assistiamo oggi. Che ha travolto la credibilità dei partiti. Non qualcuno in particolare. Tutti. I Partiti, nell’insieme. Nessuno dei quali appare credibile. Legittimato a esprimere il Capo (del governo).
Così oggi gli italiani, in maggioranza, tendono a tener separata la partecipazione elettorale dalla scelta del premier. Anzi, pongono i due processi quasi in contrasto. Vogliono votare. E pretendono che il governo venga espresso dalla maggioranza uscita da voto. Ma al governo, vogliono il Tecnico. Monti. Perché non viene dai partiti. Di cui diffidano. Come nella Prima Repubblica, si ripropone il distacco fra voto e rappresentanza. È l’anomalia italiana che si rinnova. Ieri come oggi. In nome del vincolo internazionale. Ieri: per ragioni ideologiche e geopolitiche. Oggi: per ragioni economiche e monetarie. Ieri: in nome dell’anticomunismo; oggi: dello spread. Con una differenza significativa: non ci sono più la “fede” ideologica o religiosa a mobilitare gli elettori. Pro o contro i partiti.
Per questo, dubito che la dissociazione fra i principi della democrazia rappresentativa – partecipazione e governo – possa riprodursi a lungo, senza conseguenze serie, dal punto di vista politico e istituzionale.
Lo suggerisce il successo del M5S. Un soggetto che raccoglie il sentimento “antipartitico” e sostiene, in alternativa all’attuale sistema, la democrazia diretta – attraverso rete.
Lo sottolinea, ancora, il dilatarsi dell’area degli indecisi. Ormai prossima al 50%. Più che per incertezza: per disaffezione verso i “canali” della rappresentanza democratica.
Da ciò il dubbio. Che la dissociazione fra partecipazione – elettorale – e governo dissolva i partiti. Releghi la Politica “in un cerchio chiuso in se stesso”, come ha osservato Edmondo Berselli. Perché, in questo caso, “la democrazia si incarta, come in una partita malriuscita: funziona peggio. Rischia il grippaggio”. E Monti, premier al di sopra delle parti e del verdetto elettorale, si troverebbe a governare da solo in mezzo a tutti. Solo contro tutti.
La Repubblica 01.10.12

"Il Mausoleo della crudeltà", di Gian Antonio Stella

«Mai dormito tanto tranquillamente», scrisse Rodolfo Graziani in risposta a chi gli chiedeva se non avesse gli incubi dopo le mattanze che aveva ordinato, come quella di tutti i preti e i diaconi cristiani etiopi di Debra Libanos, fatti assassinare e sgozzare dalle truppe islamiche in divisa italiana. Dormono tranquilli anche quelli che hanno speso soldi pubblici per erigere in Ciociaria un sacrario a quel macellaio? Se è così non conoscono la storia.
L’11 agosto scorso è stato inaugurato ad Affile (Roma) un sacrario «al Soldato M.llo d’Italia Rodolfo Graziani». L’opera è stata finanziata dalla Regione Lazio, con fondi in principio destinati al completamento del parco in cui l’opera è stata costruita, ed è costata circa 127 mila euro. Il deputato Pd Jean Leonard Touadi ha firmato una interrogazione parlamentare sull’opportunità della costruzione.
Rimuovere il ricordo di un crimine, ha scritto Henry Bernard Levy, vuol dire commetterlo di nuovo: infatti il negazionismo «è, nel senso stretto, lo stadio supremo del genocidio». Ha ragione. È una vergogna che il comune di Affile, dalle parti di Subiaco, abbia costruito un mausoleo per celebrare la memoria di quello che, secondo lo storico Angelo Del Boca, massimo studioso di quel periodo, fu «il più sanguinario assassino del colonialismo italiano». Ed è incredibile che la cosa abbia sollevato scandalizzate reazioni internazionali, con articoli sul New York Times o servizi della Bbc, ma non sia riuscita a sollevare un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica nostrana. Segno che troppi italiani ignorano o continuano a rimuovere le nostre pesanti responsabilità coloniali.
Francesco Storace è arrivato a dettare all’Ansa una notizia intitolata «Non infangare Graziani» e a sostenere che «nel processo che gli fu intentato nel 1948 fu riconosciuto colpevole e condannato a soli due anni di reclusione per la semplice adesione alla Rsi». Falso. Il dizionario biografico Treccani spiega che il 2 maggio 1950 il maresciallo fu condannato a 19 anni di carcere e fu grazie ad una serie di condoni che ne scontò, vergognosamente, molti di meno.
È vero però che anche quella sentenza centrata sul «collaborazionismo militare col tedesco», era figlia di una cultura che ruotava purtroppo intorno al nostro ombelico (il fascismo, il Duce, Salò…) senza curarsi dei nostri misfatti in Africa. Una cultura che spinse addirittura Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti (un errore ulteriore che ci pesa addosso) a negare all’Etiopia l’estradizione di Graziani richiesta per l’uso dei gas vietati da tutte le convenzioni internazionali e per gli eccidi commessi e rivendicati. E più tardi consentì a Giulio Andreotti a incontrare l’anziano ufficiale, in nome della Ciociaria, senza porsi troppi problemi morali.
Allora, però, nella scia di decenni di esaltazione del «buon colono italiano» non erano ancora nitidi i contorni dei crimini di guerra. Gli approfondimenti storici che avrebbero inchiodato il viceré d’Etiopia mussoliniano al suo ruolo di spietato carnefice non erano ancora stati messi a fuoco. Ciò che meraviglia è che ancora oggi il nuovo mausoleo venga contestato ricordando le responsabilità di Graziani solo dentro la «nostra» storia. Perfino Nicola Zingaretti nel suo blog rinfaccia al maresciallo responsabilità soprattutto «casalinghe».
Per non dire dell’indecoroso sito web del Comune di Affile, dove si legge che l’uomo fu una «figura tra le più amate e più criticate, a torto o a ragione» del periodo fra le due guerre e un «interprete di avvenimenti complessi e di scelte spesso dolorose». Che «compì grandiosi lavori pubblici che ancor oggi testimoniano la volontà civilizzante dell’Italia». Che «seppe indirizzare ogni suo agire al bene per la Patria attraverso l’inflessibile rigore morale e la puntigliosa fedeltà al dovere di soldato».
«Inflessibile rigore morale»? «Rodolfo Graziani tornò dall’Etiopia con centinaia di casse rubate e rapinate in giro per le chiese etiopi», racconta Del Boca. «Grazie a lui il più grande serbatoio illegale di quadri e pitture e crocefissi della chiesa etiope è in Italia». Certo, non fu il solo ad avere questo disprezzo per quella antichissima Chiesa cristiana fondata da San Frumenzio intorno al 350 d.C. Basti ricordare le parole, che i cattolici rileggono con imbarazzo, con cui il cardinale di Milano Ildefonso Schuster inaugurò il 26 febbraio 1937 il corso di mistica fascista una settimana dopo la spaventosa ecatombe di Addis Abeba: «Le legioni italiane rivendicano l’Etiopia alla civiltà e bandendone la schiavitù e la barbarie vogliono assicurare a quei popoli e all’intiero civile consorzio il duplice vantaggio della cultura imperiale e della Fede cattolica».
Fu lui, l’«eroe di Affile», a coordinare la deportazione dalla Cirenaica nel 1930 di centomila uomini, donne, vecchi, bambini costretti a marciare per centinaia di chilometri in mezzo al deserto fino ai campi di concentramento allestiti nelle aree più inabitabili della Sirte. Diecimila di questi poveretti morirono in quel viaggio infernale. Altre decine di migliaia nei lager fascisti.
E fu ancora lui a scatenare nel ’37 la rappresaglia in Etiopia per vendicare l’attentato che gli avevano fatto i patrioti. Trentamila morti, secondo gli etiopi. L’inviato del Corriere, Ciro Poggiali, restò inorridito e scrisse nel diario: «Tutti i civili che si trovano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente con i sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada… Inutile dire che lo scempio s’abbatte contro gente ignara e innocente».
I reparti militari e le squadracce fasciste non ebbero pietà neppure per gli infanti. C’era sul posto anche un attore, Dante Galeazzi, che nel libro Il violino di Addis Abeba avrebbe raccontato con orrore: «Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano».
Negli stessi giorni, accusando il clero etiope di essere dalla parte dei patrioti che si ribellavano alla conquista, Graziani ordinò al generale Pietro Maletti di decimare tutti, ma proprio tutti i preti e i diaconi di Debrà Libanòs, quello che era il cuore della chiesa etiope. Una strage orrenda, che secondo gli studiosi Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik autori de La repressione fascista in Etiopia vide il martirio di almeno 1.400 religiosi vittime d’un eccidio affidato, per evitare problemi di coscienza, ai reparti musulmani inquadrati nel nostro esercito.
Lui, il macellaio, quei problemi non li aveva: «Spesso mi sono esaminato la coscienza in relazione alle accuse di crudeltà, atrocità, violenze che mi sono state attribuite. Non ho mai dormito tanto tranquillamente». Di più, se ne vantò telegrafando al generale Alessandro Pirzio Biroli: «Preti e monaci adesso filano che è una bellezza».
C’è chi dirà che eseguiva degli ordini. Che fu Mussolini il 27 ottobre 1935 a dirgli di usare il gas. Leggiamo come Hailé Selassié raccontò gli effetti di quei gas: si trattava di «strani fusti che si rompevano appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un’agonia che durò ore. Fra i colpiti c’erano anche dei contadini che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini».
Saputo del monumento costato 127 mila euro e dedicato al maresciallo con una variante sull’iniziale progetto di erigere un mausoleo a tutti i morti di tutte le guerre, i discendenti dell’imperatore etiope, come ricorda il deputato Jean-Léonard Touadi autore di un’interrogazione parlamentare, hanno scritto a Napolitano sottolineando che quel mausoleo è un «incredibile insulto alla memoria di oltre un milione di vittime africane del genocidio», ma che «ancora più spaventosa» è l’assenza d’una reazione da parte dell’Italia.
Rodolfo Graziani «eseguiva solo degli ordini»? Anche Heinrich Himmler, anche Joseph Mengele, anche Max Simon che macellò gli abitanti di Sant’Anna di Stazzema dicevano la stessa cosa. Ma nessuno ha mai speso soldi della Regione Lazio per erigere loro un infame mausoleo.

Il Corriere della Sera 30.09.12

"Il Mausoleo della crudeltà", di Gian Antonio Stella

«Mai dormito tanto tranquillamente», scrisse Rodolfo Graziani in risposta a chi gli chiedeva se non avesse gli incubi dopo le mattanze che aveva ordinato, come quella di tutti i preti e i diaconi cristiani etiopi di Debra Libanos, fatti assassinare e sgozzare dalle truppe islamiche in divisa italiana. Dormono tranquilli anche quelli che hanno speso soldi pubblici per erigere in Ciociaria un sacrario a quel macellaio? Se è così non conoscono la storia.
L’11 agosto scorso è stato inaugurato ad Affile (Roma) un sacrario «al Soldato M.llo d’Italia Rodolfo Graziani». L’opera è stata finanziata dalla Regione Lazio, con fondi in principio destinati al completamento del parco in cui l’opera è stata costruita, ed è costata circa 127 mila euro. Il deputato Pd Jean Leonard Touadi ha firmato una interrogazione parlamentare sull’opportunità della costruzione.
Rimuovere il ricordo di un crimine, ha scritto Henry Bernard Levy, vuol dire commetterlo di nuovo: infatti il negazionismo «è, nel senso stretto, lo stadio supremo del genocidio». Ha ragione. È una vergogna che il comune di Affile, dalle parti di Subiaco, abbia costruito un mausoleo per celebrare la memoria di quello che, secondo lo storico Angelo Del Boca, massimo studioso di quel periodo, fu «il più sanguinario assassino del colonialismo italiano». Ed è incredibile che la cosa abbia sollevato scandalizzate reazioni internazionali, con articoli sul New York Times o servizi della Bbc, ma non sia riuscita a sollevare un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica nostrana. Segno che troppi italiani ignorano o continuano a rimuovere le nostre pesanti responsabilità coloniali.
Francesco Storace è arrivato a dettare all’Ansa una notizia intitolata «Non infangare Graziani» e a sostenere che «nel processo che gli fu intentato nel 1948 fu riconosciuto colpevole e condannato a soli due anni di reclusione per la semplice adesione alla Rsi». Falso. Il dizionario biografico Treccani spiega che il 2 maggio 1950 il maresciallo fu condannato a 19 anni di carcere e fu grazie ad una serie di condoni che ne scontò, vergognosamente, molti di meno.
È vero però che anche quella sentenza centrata sul «collaborazionismo militare col tedesco», era figlia di una cultura che ruotava purtroppo intorno al nostro ombelico (il fascismo, il Duce, Salò…) senza curarsi dei nostri misfatti in Africa. Una cultura che spinse addirittura Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti (un errore ulteriore che ci pesa addosso) a negare all’Etiopia l’estradizione di Graziani richiesta per l’uso dei gas vietati da tutte le convenzioni internazionali e per gli eccidi commessi e rivendicati. E più tardi consentì a Giulio Andreotti a incontrare l’anziano ufficiale, in nome della Ciociaria, senza porsi troppi problemi morali.
Allora, però, nella scia di decenni di esaltazione del «buon colono italiano» non erano ancora nitidi i contorni dei crimini di guerra. Gli approfondimenti storici che avrebbero inchiodato il viceré d’Etiopia mussoliniano al suo ruolo di spietato carnefice non erano ancora stati messi a fuoco. Ciò che meraviglia è che ancora oggi il nuovo mausoleo venga contestato ricordando le responsabilità di Graziani solo dentro la «nostra» storia. Perfino Nicola Zingaretti nel suo blog rinfaccia al maresciallo responsabilità soprattutto «casalinghe».
Per non dire dell’indecoroso sito web del Comune di Affile, dove si legge che l’uomo fu una «figura tra le più amate e più criticate, a torto o a ragione» del periodo fra le due guerre e un «interprete di avvenimenti complessi e di scelte spesso dolorose». Che «compì grandiosi lavori pubblici che ancor oggi testimoniano la volontà civilizzante dell’Italia». Che «seppe indirizzare ogni suo agire al bene per la Patria attraverso l’inflessibile rigore morale e la puntigliosa fedeltà al dovere di soldato».
«Inflessibile rigore morale»? «Rodolfo Graziani tornò dall’Etiopia con centinaia di casse rubate e rapinate in giro per le chiese etiopi», racconta Del Boca. «Grazie a lui il più grande serbatoio illegale di quadri e pitture e crocefissi della chiesa etiope è in Italia». Certo, non fu il solo ad avere questo disprezzo per quella antichissima Chiesa cristiana fondata da San Frumenzio intorno al 350 d.C. Basti ricordare le parole, che i cattolici rileggono con imbarazzo, con cui il cardinale di Milano Ildefonso Schuster inaugurò il 26 febbraio 1937 il corso di mistica fascista una settimana dopo la spaventosa ecatombe di Addis Abeba: «Le legioni italiane rivendicano l’Etiopia alla civiltà e bandendone la schiavitù e la barbarie vogliono assicurare a quei popoli e all’intiero civile consorzio il duplice vantaggio della cultura imperiale e della Fede cattolica».
Fu lui, l’«eroe di Affile», a coordinare la deportazione dalla Cirenaica nel 1930 di centomila uomini, donne, vecchi, bambini costretti a marciare per centinaia di chilometri in mezzo al deserto fino ai campi di concentramento allestiti nelle aree più inabitabili della Sirte. Diecimila di questi poveretti morirono in quel viaggio infernale. Altre decine di migliaia nei lager fascisti.
E fu ancora lui a scatenare nel ’37 la rappresaglia in Etiopia per vendicare l’attentato che gli avevano fatto i patrioti. Trentamila morti, secondo gli etiopi. L’inviato del Corriere, Ciro Poggiali, restò inorridito e scrisse nel diario: «Tutti i civili che si trovano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente con i sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada… Inutile dire che lo scempio s’abbatte contro gente ignara e innocente».
I reparti militari e le squadracce fasciste non ebbero pietà neppure per gli infanti. C’era sul posto anche un attore, Dante Galeazzi, che nel libro Il violino di Addis Abeba avrebbe raccontato con orrore: «Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano».
Negli stessi giorni, accusando il clero etiope di essere dalla parte dei patrioti che si ribellavano alla conquista, Graziani ordinò al generale Pietro Maletti di decimare tutti, ma proprio tutti i preti e i diaconi di Debrà Libanòs, quello che era il cuore della chiesa etiope. Una strage orrenda, che secondo gli studiosi Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik autori de La repressione fascista in Etiopia vide il martirio di almeno 1.400 religiosi vittime d’un eccidio affidato, per evitare problemi di coscienza, ai reparti musulmani inquadrati nel nostro esercito.
Lui, il macellaio, quei problemi non li aveva: «Spesso mi sono esaminato la coscienza in relazione alle accuse di crudeltà, atrocità, violenze che mi sono state attribuite. Non ho mai dormito tanto tranquillamente». Di più, se ne vantò telegrafando al generale Alessandro Pirzio Biroli: «Preti e monaci adesso filano che è una bellezza».
C’è chi dirà che eseguiva degli ordini. Che fu Mussolini il 27 ottobre 1935 a dirgli di usare il gas. Leggiamo come Hailé Selassié raccontò gli effetti di quei gas: si trattava di «strani fusti che si rompevano appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un’agonia che durò ore. Fra i colpiti c’erano anche dei contadini che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini».
Saputo del monumento costato 127 mila euro e dedicato al maresciallo con una variante sull’iniziale progetto di erigere un mausoleo a tutti i morti di tutte le guerre, i discendenti dell’imperatore etiope, come ricorda il deputato Jean-Léonard Touadi autore di un’interrogazione parlamentare, hanno scritto a Napolitano sottolineando che quel mausoleo è un «incredibile insulto alla memoria di oltre un milione di vittime africane del genocidio», ma che «ancora più spaventosa» è l’assenza d’una reazione da parte dell’Italia.
Rodolfo Graziani «eseguiva solo degli ordini»? Anche Heinrich Himmler, anche Joseph Mengele, anche Max Simon che macellò gli abitanti di Sant’Anna di Stazzema dicevano la stessa cosa. Ma nessuno ha mai speso soldi della Regione Lazio per erigere loro un infame mausoleo.
Il Corriere della Sera 30.09.12

“Questa è la crisi di una classe dirigente subito interventi o trionfa l’antipolitica”, di Alberto d'Argenio

Ministro Riccardi, quanto giudica grave il problema della corruzione nell’Italia di oggi?
«Ai tempi di Mani pulite ero già abbastanza vecchio, come cittadino la mia sensazione è che allora il sistema dei partiti stesse tragicamente implodendo per la perdita della sua forza politica e propulsiva. La corruzione era la conseguenza di una crisi ideologica e di sistema più profonda. Oggi mi sembra diverso, mi sembra che la corruzione sia connessa ad un imperante cattivo gusto, mi sembra rivelatrice di fenomeni antropologici e di costume. Non sminuisco quanto sta accadendo, anzi. Si tratta di fenomeni assurdi ed esibiti in un Paese che sta soffrendo, che non trovano nemmeno una motivazione o una attenuante legate a qualche disegno di politica o di potere ».
Non le sembra una visione troppo ottimista?
«Affatto e sono preoccupato perché i fatti che leggiamo sui giornali screditano le istituzioni di fronte alla gente, fanno crescere
l’antipolitica, portano le persone a dire che non vale più la pena di partecipare, di votare e così i cittadini sono ancora più soli e rabbiosi».
Dice che gli scandali di oggi sono diversi da Tangentopoli, ma è una parte del sistema politico della seconda repubblica ad avere prodotto questa classe di amministratori.
«Siamo di fronte alla crisi di parte di classe dirigente che ha divorziato dalla politica per cui la vita è un gioco mentre per la gente comune la quotidianità è durissima. Ma faccio fatica a individuare in questi casi grotteschi di oggi un disegno machiavellico, un filo ideologico, se non quello di una soddisfazione individuale, segno di una decadenza morale che investe e contagia molte parti del Paese. Con una battuta posso dire che siamo passati dalla “Caduta degli dei” di Visconti a un film dei Vanzina».
Dunque condivide le parole di Napolitano per il quale non bisogna fare di tutta l’erba un fascio?
«Esatto, sono convinto che questa crisi non debba indurre a verticalizzare la politica. Non dobbiamo buttare via le autonomie locali, ce ne sono di virtuose e comunque sono fondamentali per il Paese. Dobbiamo invece risanarle, investire
su una visione di lungo periodo ».
Come dice Passera, punire chi sbaglia e premiare chi è virtuoso?
«Si deve punire, certo, ma non basta, bisogna anche promuovere le idee, i sentimenti, lo spirito di servizio, altrimenti la politica diventa un mestiere pericoloso».
Cosa farà il governo per convincere i cittadini che scandali simili non si ripeteranno?
«Posso dire che ci muoveremo presto e con decisione perché il nostro stile è improntato all’austerità in un Paese che sta facendo grandi sacrifici. E come detto, siamo preoccupati che proprio andando verso le elezioni cresca la disaffezione della gente verso le istituzioni e nel sentirsi parte di una comunità politica. Dunque faremo tutto il necessario. Poi però bisogna anche lavorare alla crescita del tessuto politico. C’è un’Italia pensosa, come dimostrano i tanti festival della cultura e del pensiero, il mondo del volontariato, i quasi duemila partecipanti al Forum della cooperazione e anche le 250mila persone che hanno voluto salutare in duomo il cardinal Martini, un uomo rigoroso che non faceva sconti a nessuno. C’è un’Italia insomma che vuole pesare e non è abbrutita. Ma non sa dove guardare».
Si impegnerà anche dopo le elezioni su questo?
«Non ho ambizioni personali, ma penso che l’esperienza del governo Monti e il suo linguaggio non vadano buttate via. Lavoro in questo senso. È un discorso che va oltre una candidatura. Più che pensare a presentarmi alle elezioni mi muovo a livello di cultura politica. Serve un rinnovamento culturale delle classi dirigenti, altrimenti tutte le riforme di questo mondo non avranno la spinta necessaria per cambiare le cose».
A proposito di elezioni, con le dimissioni della Polverini il suo nome è stato indicato tra quelli dei possibili candidati del centrosinistra alla guida del Lazio. Accetterebbe?
«Penso che il problema non sia un nome da tirare fuori dal cilindro, ma sia un rinnovamento delle classi politiche».
Significa che accetterebbe solo con un progetto serio?
«Far rinascere le classi dirigenti del Lazio è un lavoro lungo e complicato».

La Repubblica 30.09.12

"Salvate la geografia che cambia il sapere", di Franco Farinelli

Lettera aperta al ministro. La globalizzazione impone per la prima volta nella storia dell’umanità di fare i conti con la Terra così come davvero essa è: da qui l’urgenza di pensare nuovi modelli per scendere a patti con il mondo.
Ministro ancora uno sforzo: «Geography is better than divinity», e non vi è alcun bisogno di tradurre. Si legge così nella prefazione alla Cosmographia di Peter Heylin, apparsa a Londra nel 1649 dunque due anni prima del Leviatano di Thomas Hobbes, il libro che fonda il moderno concetto di Stato. E testo, quello di Heylin, di cui ancora si parla nella aule universitarie anglosassoni, le stesse dove i colleghi ascoltano tra l’incredulo ed il divertito le attuali vicende del nostro sistema scolastico, incapaci di credere davvero che da noi ci si ostini a rischiare di dilapidare fino in fondo la nostra straordinaria capacità di manipolazione simbolica, accumulata in millenni di pratica culturale. Anche se semplici «valutazioni personali», come ha spiegato a Giovanni Reale sul Messaggero, le sue osservazioni sulla necessità di revisione dei programmi d’insegnamento di religione e geografia sono assolutamente condivisibili, e davvero urgenti. Si tratta di «stare al passo con il mondo», come ha detto nel corso della cerimonia di Inaugurazione dell’Anno Scolastico. E visitando le nostre scuole lei si è reso conto che un gran numero di alunni sono, almeno per origine, portatori di una cultura differente dalla nostra, perché nati altrove o da genitori nati altrove. Sicché gli scolari apprendono l’uno dall’altro, piuttosto che dall’insegnante, la grande lezione delle diversità di cui il mondo si compone. Molto più delicato per non dire cruciale è però appunto un altro aspetto, che fin qui nessuno ha ritenuto di dover sottolineare ma sul quale le sue parole in qualche maniera spingono ad esercitare la riflessione: dal punto di vista della funzione geografia e religione sono, su piani diversi, sistemi di credenze cui tocca il ruolo fondamentale, cioè originario, nella domesticazione del mondo, nella messa a punto del nostro patto cognitivo ed esistenziale con la realtà. I geografi come me davvero ringraziano. Wittgenstein confessò di ritenere vero tutto quello che è scritto nei manuali di geografia, poiché supponeva che i fatti di cui essi parlano sono stati confermati centinaia e centinaia di volte. Naturalmente, continuava il filosofo, di tale conferma è impossibile per chiunque avere prova, perciò non ci resta che «un’immagine del mondo», che però funziona da substrato di tutto il nostro cercare e di tutte le nostre asserzioni. Non si potrebbe dire meglio, ma mentre l’idea di cambiare l’ora di religione ha suscitato molte critiche, quella di metter mano all’ora di geografia non ha suscitato nessuna reazione. Vale la pena di ricordare che prima dell’invenzione della filosofia, cioè prima di Platone, tutti coloro che pensavano erano geografi: i presocratici, pensatori, come scriveva Giorgio Colli, di cui non sappiamo quasi nulla ma cui dobbiamo quasi tutto, perché furono proprio essi a mettere a punto i modelli con cui l’umanità occidentale fu in grado di entrare in un rapporto costruttivo con la faccia della Terra senza farsi troppo male, e senza fargliene. Oppure si pensi a Tolomeo, il più grande geografo dell’antichità. Ci si illude di non essere più tolemaici soltanto perché non crediamo più che la Terra stia proprio in mezzo all’universo, come in astronomia Tolomeo insegnava. In realtà siamo ancora oggi, senza saperlo, profondamente tolemaici e professiamo la nostra inconsapevole fede ogni volta che guardiamo una mappa, perché fu proprio Tolomeo, due secoli dopo Cristo, a ridurre per primo il mondo ad uno spazio propriamente detto, ad un insieme di punti definiti da un paio di coordinate matematiche calcolate attraverso misure astronomiche. E prima ancora fu proprio Tolomeo, vietando il globo, a fondare i principi epistemologici e strutturali della modernità, quelli che valgono ancora per noi. Che ve ne fate di un modello troppo fedele della realtà? Così egli si chiede. Il globo è scomodo da usare, scrive, perché bisogna continuamente girargli intorno, oppure bisogna continuamente farlo scorrere con la mano. Nel primo caso il soggetto è condannato a muoversi come chi, privo di mappa, si aggiri all’interno di un labirinto. Nel secondo il tatto collabora con la vista nel procedimento conoscitivo. All’opposto, se l’unico modello del mondo diventa la mappa, come Tolomeo spinge ad accettare, il soggetto non ha bisogno di spostarsi perché non ha più bisogno di cercare il centro, potendo riconoscerlo immediatamente a colpo d’occhio. Fu insomma proprio Tolomeo, vietando il globo, a stabilire in via definitiva che il soggetto restasse immobile, e che la conoscenza fosse la funzione di una doppia, connessa stabilità: quella del soggetto e quella dell’oggetto, ambedue risultanti dalla natura fissa ed autocentrata dell’immagine cartografica del mondo. Senza il cui primato lo stesso Stato territoriale centralizzato moderno, il Leviatano cui all’inizio ci si richiamava, mai sarebbe potuto sorgere ed affermarsi. Spiegava l’insegnante Pasolini, e si può ancora leggerlo nelle sue Lettere luterane, che «le fonti educative più immediate sono mute, materiali, oggettuali, inerti, puramente presenti. Eppure ti parlano». Sembra proprio che si stia riferendo alla carte geografiche che silenziosamente ma continuamente hanno parlato e parlano, dai muri della classe, a generazioni di bambini. E spenti ormai anche gli ultimi echi delle recenti celebrazioni dell’unità d’Italia possiamo finalmente confessare che l’Italia è un’espressione geografica, come Metternich sosteneva: esattamente come tutti gli altri centonovantadue Stati che attualmente si spartiscono la superficie terrestre, nel senso che il grande e unico programma della modernità altro non è stato che l’assunzione del modello cartografico come principale modello per la costruzione della realtà. Ma come si chiede la nuova antropologia statunitense: per Hegel la nottola di Minerva, cioè la filosofia, spiccava il volo al crepuscolo. Ma dov’è il crepuscolo se la Terra gira? Per chi e quanti esso vale? In altri termini la globalizzazione impone per la prima volta nella storia dell’umanità di fare i conti con la Terra così come davvero essa è: appunto come un globo, perché per la prima volta l’economia mondiale funziona simultaneamente come un’unica formazione. Ma nessuno per il momento riesce a pensare il globo, perché fin qui la strategia è stata quella di ridurlo ad una infinita serie di mappe. Oggi non basta più. Di qui, da tale urgenza di nuovi modelli per pensare quello che in realtà si è sempre saputo, il prepotente ritorno della geografia, il vecchio archetipico sapere cui si ricorre ogni volta che si tratta di scendere a patti con il mondo su una nuova base, com’è oggi il caso. Proprio perché il mondo è un globo che non si presta a nessun rapido colpo d’occhio non le chiediamo, Ministro, tutto e subito: non chiediamo che i prossimi programmi di geografia siano impostati, come pure sarebbe necessario, sul capovolgimento di quel che oggi si insegna, sull’idea che la faccia della Terra sia la rappresentazione della mappa, e non viceversa. L’unica preghiera è di porre senza paura mano ai programmi, come ci risulta lei abbia già iniziato a fare, e di non scherzare con i fanti, con l’esercito degli insegnanti. Quanto ai santi si possono pure lasciar stare.

L’Unità 30.09.12

"Salvate la geografia che cambia il sapere", di Franco Farinelli

Lettera aperta al ministro. La globalizzazione impone per la prima volta nella storia dell’umanità di fare i conti con la Terra così come davvero essa è: da qui l’urgenza di pensare nuovi modelli per scendere a patti con il mondo.
Ministro ancora uno sforzo: «Geography is better than divinity», e non vi è alcun bisogno di tradurre. Si legge così nella prefazione alla Cosmographia di Peter Heylin, apparsa a Londra nel 1649 dunque due anni prima del Leviatano di Thomas Hobbes, il libro che fonda il moderno concetto di Stato. E testo, quello di Heylin, di cui ancora si parla nella aule universitarie anglosassoni, le stesse dove i colleghi ascoltano tra l’incredulo ed il divertito le attuali vicende del nostro sistema scolastico, incapaci di credere davvero che da noi ci si ostini a rischiare di dilapidare fino in fondo la nostra straordinaria capacità di manipolazione simbolica, accumulata in millenni di pratica culturale. Anche se semplici «valutazioni personali», come ha spiegato a Giovanni Reale sul Messaggero, le sue osservazioni sulla necessità di revisione dei programmi d’insegnamento di religione e geografia sono assolutamente condivisibili, e davvero urgenti. Si tratta di «stare al passo con il mondo», come ha detto nel corso della cerimonia di Inaugurazione dell’Anno Scolastico. E visitando le nostre scuole lei si è reso conto che un gran numero di alunni sono, almeno per origine, portatori di una cultura differente dalla nostra, perché nati altrove o da genitori nati altrove. Sicché gli scolari apprendono l’uno dall’altro, piuttosto che dall’insegnante, la grande lezione delle diversità di cui il mondo si compone. Molto più delicato per non dire cruciale è però appunto un altro aspetto, che fin qui nessuno ha ritenuto di dover sottolineare ma sul quale le sue parole in qualche maniera spingono ad esercitare la riflessione: dal punto di vista della funzione geografia e religione sono, su piani diversi, sistemi di credenze cui tocca il ruolo fondamentale, cioè originario, nella domesticazione del mondo, nella messa a punto del nostro patto cognitivo ed esistenziale con la realtà. I geografi come me davvero ringraziano. Wittgenstein confessò di ritenere vero tutto quello che è scritto nei manuali di geografia, poiché supponeva che i fatti di cui essi parlano sono stati confermati centinaia e centinaia di volte. Naturalmente, continuava il filosofo, di tale conferma è impossibile per chiunque avere prova, perciò non ci resta che «un’immagine del mondo», che però funziona da substrato di tutto il nostro cercare e di tutte le nostre asserzioni. Non si potrebbe dire meglio, ma mentre l’idea di cambiare l’ora di religione ha suscitato molte critiche, quella di metter mano all’ora di geografia non ha suscitato nessuna reazione. Vale la pena di ricordare che prima dell’invenzione della filosofia, cioè prima di Platone, tutti coloro che pensavano erano geografi: i presocratici, pensatori, come scriveva Giorgio Colli, di cui non sappiamo quasi nulla ma cui dobbiamo quasi tutto, perché furono proprio essi a mettere a punto i modelli con cui l’umanità occidentale fu in grado di entrare in un rapporto costruttivo con la faccia della Terra senza farsi troppo male, e senza fargliene. Oppure si pensi a Tolomeo, il più grande geografo dell’antichità. Ci si illude di non essere più tolemaici soltanto perché non crediamo più che la Terra stia proprio in mezzo all’universo, come in astronomia Tolomeo insegnava. In realtà siamo ancora oggi, senza saperlo, profondamente tolemaici e professiamo la nostra inconsapevole fede ogni volta che guardiamo una mappa, perché fu proprio Tolomeo, due secoli dopo Cristo, a ridurre per primo il mondo ad uno spazio propriamente detto, ad un insieme di punti definiti da un paio di coordinate matematiche calcolate attraverso misure astronomiche. E prima ancora fu proprio Tolomeo, vietando il globo, a fondare i principi epistemologici e strutturali della modernità, quelli che valgono ancora per noi. Che ve ne fate di un modello troppo fedele della realtà? Così egli si chiede. Il globo è scomodo da usare, scrive, perché bisogna continuamente girargli intorno, oppure bisogna continuamente farlo scorrere con la mano. Nel primo caso il soggetto è condannato a muoversi come chi, privo di mappa, si aggiri all’interno di un labirinto. Nel secondo il tatto collabora con la vista nel procedimento conoscitivo. All’opposto, se l’unico modello del mondo diventa la mappa, come Tolomeo spinge ad accettare, il soggetto non ha bisogno di spostarsi perché non ha più bisogno di cercare il centro, potendo riconoscerlo immediatamente a colpo d’occhio. Fu insomma proprio Tolomeo, vietando il globo, a stabilire in via definitiva che il soggetto restasse immobile, e che la conoscenza fosse la funzione di una doppia, connessa stabilità: quella del soggetto e quella dell’oggetto, ambedue risultanti dalla natura fissa ed autocentrata dell’immagine cartografica del mondo. Senza il cui primato lo stesso Stato territoriale centralizzato moderno, il Leviatano cui all’inizio ci si richiamava, mai sarebbe potuto sorgere ed affermarsi. Spiegava l’insegnante Pasolini, e si può ancora leggerlo nelle sue Lettere luterane, che «le fonti educative più immediate sono mute, materiali, oggettuali, inerti, puramente presenti. Eppure ti parlano». Sembra proprio che si stia riferendo alla carte geografiche che silenziosamente ma continuamente hanno parlato e parlano, dai muri della classe, a generazioni di bambini. E spenti ormai anche gli ultimi echi delle recenti celebrazioni dell’unità d’Italia possiamo finalmente confessare che l’Italia è un’espressione geografica, come Metternich sosteneva: esattamente come tutti gli altri centonovantadue Stati che attualmente si spartiscono la superficie terrestre, nel senso che il grande e unico programma della modernità altro non è stato che l’assunzione del modello cartografico come principale modello per la costruzione della realtà. Ma come si chiede la nuova antropologia statunitense: per Hegel la nottola di Minerva, cioè la filosofia, spiccava il volo al crepuscolo. Ma dov’è il crepuscolo se la Terra gira? Per chi e quanti esso vale? In altri termini la globalizzazione impone per la prima volta nella storia dell’umanità di fare i conti con la Terra così come davvero essa è: appunto come un globo, perché per la prima volta l’economia mondiale funziona simultaneamente come un’unica formazione. Ma nessuno per il momento riesce a pensare il globo, perché fin qui la strategia è stata quella di ridurlo ad una infinita serie di mappe. Oggi non basta più. Di qui, da tale urgenza di nuovi modelli per pensare quello che in realtà si è sempre saputo, il prepotente ritorno della geografia, il vecchio archetipico sapere cui si ricorre ogni volta che si tratta di scendere a patti con il mondo su una nuova base, com’è oggi il caso. Proprio perché il mondo è un globo che non si presta a nessun rapido colpo d’occhio non le chiediamo, Ministro, tutto e subito: non chiediamo che i prossimi programmi di geografia siano impostati, come pure sarebbe necessario, sul capovolgimento di quel che oggi si insegna, sull’idea che la faccia della Terra sia la rappresentazione della mappa, e non viceversa. L’unica preghiera è di porre senza paura mano ai programmi, come ci risulta lei abbia già iniziato a fare, e di non scherzare con i fanti, con l’esercito degli insegnanti. Quanto ai santi si possono pure lasciar stare.
L’Unità 30.09.12

"All’Italia non serve il Monti bis", di Claudio Sardo

Il governo Monti bis non può diventare l’obiettivo di un grande Paese come l’Italia. Sarebbe anzi una sconfitta, un certificato di minorità, una dichiarazione di impotenza. E, si badi bene, la sconfitta non riguarderebbe soltanto il centrosinistra, come taluni sostengono, ma anche i cittadini, le istituzioni, gli uomini e le imprese che più di altri si trovano ad affrontare la competizione globale e che dell’Italia sono di fatto ambasciatori. Perché il nostro Paese non può avere un governo, nato da una competizione democratica tra alternative legittime ed europee? Perché non può scommettere su un nuovo progetto, per l’Italia e per il Continente, che cerchi di correggere l’inerzia (peraltro drammatica) delle politiche economiche e sociali e, al tempo stesso, dia garanzie sugli impegni assunti come nazione? Perché bisogna cancellare dall’orizzonte ogni speranza di cambiamento e vanificare la partecipazione (persino le elezioni) nel timore di recare fastidio al conducente?
Mario Monti è molto più saggio dei suoi sostenitori, e nel dichiarare la propria disponibilità a restare premier oltre le elezioni del 2013, ha aggiunto: «Speriamo di no». Sa che quella previsione contiene il fallimento politico del suo governo tecnico, perché questo è nato esattamente per ricondurre l’Italia – umiliata dai governi Berlusconi – ad una normalità istituzionale. Sa che per lui sarebbe comunque molto più difficile, perché non si riprodurrebbero le condizioni eccezionali della «strana» intesa politica: non solo i conflitti aumenterebbero nella maggioranza, ma fuori da essa si ingrosserebbe l’area della sfiducia verso la politica, verso l’Europa, verso la stessa democrazia.

Non basta come lezione ciò che è accaduto in Grecia? Se gli elettori si trovano di fronte ad una soluzione obbligata, preconfezionata, per di più priva di ogni autonomia rispetto a mandati e verifiche esterne, il loro potere democratico residuo viene spinto con forza verso opzioni populiste, proteste radicali, contestazioni di sistema.
È vero che l’Europa, come l’intero Occidente, oggi non può permettersi il fallimento neppure della più piccola banca spagnola (e pensare che da noi, qualche professore liberista addirittura esultò il giorno del crack di Lehman Brothers, proclamando la vittoria definitiva del mercato: ancora viene ascoltato come un vate, e ovviamente pontifica sul Monti bis). Ma il collasso democratico di un Paese non avrà un contagio minore sull’economia e la società: soffiare sul fuoco dei populismi vuol dire inceppare le opportunità di sviluppo e spezzare il circuito della fiducia, necessario per il mercato non meno che per la solidarietà sociale.

Siccome Monti sa di aver restituito all’Italia prestigio e credibilità, è consapevole anche che una paralisi post-elettorale sarebbe un pericoloso fattore involutivo. Anche Giorgio Squinzi, neopresidente di Confindustria, si mostra assai più attento e sensibile di molti campioni del capitalismo nostrano. Ieri ha detto di essere pronto a rinunciare agli incentivi alle imprese, in cambio di tagli fiscali a favore del lavoro e delle famiglie. E sul Monti bis ha aggiunto: «Mi auguro che un Paese di 60 milioni di persone, la settima-ottava economia al mondo, sia capace di esprimere con il voto popolare un governo capace di governare». Ancora: «Se Monti si presenta e raccoglie la maggioranza per me va benissimo». Parole normali di un democratico normale. Che però nel nostro dibattito pubblico appaiono quasi rivoluzionarie. Nella borghesia italiana prevale un’altra tendenza: seminare sfiducia nella democrazia, strizzare semmai l’occhio alla protesta di Grillo, trasformare la giusta indignazione per la dilagante corruzione in una opposizione assoluta, indistinta verso tutti i partiti. «Sono tutti uguali» è il motto del disimpegno che porta ad acclamare la soluzione tecnocratica e oligarchica.
Purtroppo, la cecità di parte della classe dirigente è uno degli handicap competitivi più gravi del nostro Paese. Non vogliono i partiti e i corpi intermedi, detestano le autonomie sociali perché pensano così di difendere meglio i loro interessi di fronte al mercato globale e alla progressiva cessione di sovranità verso l’Europa. Ma, così facendo, azzoppano ancor più l’Italia, accelerano il declino e sottraggono opportunità ai loro stessi figli. La partecipazione democratica, la competizione tra alternative è parte essenziale di un Paese che deve, anzitutto, dimostrare al mondo di essere vivo. Non malato, o moribondo.

C’è anche chi dice: se proprio volete fare le elezioni, almeno firmate davanti a Monti un patto che vincoli qualunque governo futuro. La chiamano Agenda Monti, giocando con le parole. Se per Agenda Monti si intende l’impegno europeista, la continuità della presenza italiana nelle sedi internazionali, la tenuta dei conti pubblici nelle condizioni di mercato, non si capisce cosa ci sia da firmare. È ovvio che qualunque alternativa politica parte da lì. E il centrosinistra ha già dimostrato altre volte la propria affidabilità, a cominciare dal primo governo Prodi, che salvò l’Italia agganciandola all’euro e che pagò un prezzo alto di consenso per mantenere la coerenza nelle politiche di bilancio. Semmai è il centrodestra a non essere mai stato capace di tenere insieme i conti pubblici con un minimo di respiro vitale dell’economia reale.
Ma purtroppo l’Agenda Monti è per i più un pretesto per dimostrare l’inevitabilità del Monti-bis. Dal Monti dell’emergenza al Monti dell’impotenza democratica. Evitare questo esito sarà una battaglia politica difficile, non meno di quella che ha portato alla nascita dell’attuale governo Monti. Una battaglia che per il centrosinistra comincia con le primarie.

Diciamo la verità: molti dubitano che siano davvero uno strumento utile. Portano acqua al mulino del dubbio sia coloro che si mostrano indifferenti al rischio di inquinamento del voto, sia coloro che ora declassano le primarie ad una sorta di scampagnata, propedeutica all’«inevitabile» Monti bis. Le primarie devono essere invece l’avvio della sfida per il governo, devono disegnare il profilo della proposta del centrosinistra al Paese e all’Europa. Abbiamo davanti scelte di portata storica. Il cambiamento deve essere una bandiera anzitutto per il Paese. Chi vuole fare delle primarie un congresso di partito, per favore, aspetti un turno perché altrimenti rischia di favorire i Berlusconi e i Grillo che pagherebbero oro per avere un Monti bis da occupare (pro quota) o da contrastare (indicando tutti i partiti come complici). La vera sfida delle primarie consiste in questo: dimostrare che il centrosinistra può offrire all’Italia un progetto di maggiore equità sociale, di maggiore sviluppo, di maggiore riforma rispetto al governo tecnico. E dimostrare al tempo stesso che lo si può fare assicurando i nostri partner europei, anzi consolidando le alleanze con i progressisti d’Europa.

L’Unità 30.09.12