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"Niente scuola, siamo inglesi", di Caterina Soffici

Si dice che solo i treni hanno la strada segnata. Pure certi esseri umani hanno la strada segnata. I bambini inglesi, per esempio, hanno la strada più segnata di quelli italiani. Un’affermazione del genere nella culla della democrazia e della meritocrazia potrebbe sembrare un paradosso. Ma non è così. Il figlio di un idraulico di Tottenham ha meno probabilità di essere ammesso a Oxford di quante ne ha il figlio di un idraulico di Canicattì di entrare alla Bocconi.
Quello della scuola inglese è un mito da sfatare: solo un certo provincialismo italico ci fa pensare che sia un modello imbattibile e da imitare. Non parliamo qui dei curricula e della didattica, ma del sistema scolastico. L’eccellenza inglese molto probabilmente è migliore dell’eccellenza italiana, perché è una scuola più moderna nei contenuti e più agile nei metodi di apprendimento. Ma nel Regno Unito l’istruzione d’eccellenza è quella privata. Nella pubblica il livello è così basso che ogni anno si moltiplicano gli appelli e le campagne per la scolarizzazione: un bambino di 11 anni che esce dalla primaria pubblica ha lo stesso livello di preparazione di un bambino di 7/8 anni della privata. Molti non sono neppure in grado di leggere un libro per intero. E il gap aumenta con il passare ai gradi successivi dell’istruzione. In Gran Bretagna l’istruzione di qualità è un privilegio riservato a pochi e la scuola pubblica non riesce a tenere il passo.
Mentre in Italia lo studio è un diritto garantito a tutti, indistintamente da reddito e classe sociale di appartenenza. Ogni inizio di anno scolastico si assiste a un piagnisteo generale. Sono tante le cose che mancano: spesso anche la carta igienica, per non parlare di aule, soldi, insegnanti, lingue straniere, lavagne elettroniche, computer, eccetera. Chi si lamenta dovrebbe però tenere presente che, nonostante tutte le sue imperfezioni e magagne, la nostra scuola pubblica è un bene unico che all’estero ci invidiano.
È proprio di questi giorni la notizia di una riforma, la più radicale degli ultimi 20 anni hanno scritto i giornali inglesi. Di radicale però ha ben poco, se non il cambio del nome: gli esami non si chiameranno più Gcse (General Certificate of Secondary Education) ma English Baccalaureate. La sostanza di fatto rimane la stessa e i numeri inglesi raccontano una realtà scandalosa: fra i 100 migliori licei nel Regno Unito, 87 sono scuole private e solo 13 pubbliche. Questi 100 migliori licei rappresentano il 3 per cento del totale dei 3.167 istituti superiori britannici. Ma non basta: un terzo delle ammissioni a Oxford e Cambridge, le due migliori università del regno e le migliori europee nella top ten internazionale, vengono proprio da queste 100 scuole. I bambini con la strada segnata che passano da qui sono dei treni super rapidi, con diritto di precedenza acquisito per censo rispetto ai torpedoni dei pendolari, carichi di figli della working class che non può permettersi le rette proibitive dell’educazione privata. Fuori di metafora, la migliore istruzione è riservata alle classi privilegiate e non c’è una pari opportunità di accesso all’istruzione.
Ecco un altro grappolo di numeri che fanno riflettere: negli ultimi tre anni cinque super scuole da sole hanno mandato a Oxbridge (Oxford e Cambridge) più studenti che altri 2.000 istituti meno blasonati tutti messi insieme. Di queste cinque super scuole, quattro sono private (Eton, St Paul’s, Westminster e St Paul’s Girls). La retta di Eton (che è la boarding school più esclusiva del Regno) è sulle 35mila sterline l’anno, 40mila euro. Le altre sono day school di Londra, con tasse scolastiche variabili dalle 19mila alle 25mila sterline annue (da 23mila a 30mila); sport, musica e attività extracurriculari esclusi.
Ma l’elenco delle imperfezioni del sistema scolastico inglese non finisce qui.
Un buono studente con il massimo dei voti alla maturità ha il 58 per cento di entrare in una delle 30 migliori università britanniche se proviene da una scuola statale, mentre con gli stessi voti ha il 78 % di probabilità se proviene da una scuola privata: il binario è già segnato dalle scuole d’infanzia.
Per concludere la nostra metafora dei treni è interessante conoscere anche la destinazione finale. Solo il 7 per cento degli studenti inglesi frequenta una scuola privata. Ma il 68 per cento dei barrister (i grandi avvocati), il 54 per cento dei giornalisti, il 42 per cento dei politici, il 54 per cento dei grandi manager e il 68 per cento dei giudici dell’Alta Corte hanno ricevuto una istruzione privata. La scuola non è aperta, non garantisce mobilità sociale e non è meritocratica. Esistono le eccezioni che confermano la regola. La scrittrice anglo caraibica Zadie Smith, per esempio, ce l’ha fatta. È entrata al King’s College di Cambridge provenendo dalle scuole statali del Brent, sobborgo multietnico e popolare a Nord Ovest di Londra. Un’eccezione che fa notizia, infatti. Come gli altri casi di personaggi educati pubblicamente che diventano famosi o fanno carriera. Cosa faresti se fossi sindaco di Londra per un giorno, hanno chiesto recentemente a Zadie Smith? Ha risposto: «Fornirei gratuitamente consulenza educativa e orientamento alle famiglie che ne hanno bisogno. E cioè: spiegherei cosa devono chiedere ai professori; quale esame è il migliore per i loro figli; quali libri prendere in prestito dalla biblioteca; come iscriversi all’università; come passare i colloqui di ammissione e altre cose del genere». Non per niente Zadie Smith è impegnata in una battaglia per l’educazione pubblica e contro la chiusura delle biblioteche pubbliche di quartiere minacciate dall’austerity imposta dalla coppia Osborne-Cameron.In Italia ci sono uguali opportunità di accesso all’istruzione. Ma non si può dire altrettanto per l’accesso al mondo del lavoro. I problemi vengono dopo.
Perché il figlio del nostro idraulico di Canicattì se è bravo e capace può laurearsi anche alla Bocconi ma poi le sue pari opportunità di vedere riconosciute le sue capacità nel mondo professionale si infrangono contro i vizi della società italiana. Corporazioni, clientele, familismo amorale, bande di potere bloccano l’ascensore sociale rappresentato dall’istruzione pubblica.
Così dopo aver trovato tante porte chiuse, se vorrà avere successo il nostro figlio dell’idraulico di Canicattì probabilmente prenderà un aereo e se ne volerà a Londra. Dove invece il meccanismo della selezione delle classi dirigenti è più meritocratico che da noi. Sulle sponde del Tamigi è ancora valido un vecchio proverbio inglese che recita: There is always room at the top. Vuol dire che c’è sempre posto in alto, perché fa comodo a tutti che i migliori raggiungano i vertici. Fa comodo alla nazione, alla società, alle singole aziende. È una regola generale che grosso modo permette di selezionare i migliori, sia nel pubblico che nel privato.
Anche se scegliere il migliore, come abbiamo visto, non significa dare a tutti la possibilità di diventarlo.

Il Sole 24 Ore 01.10.12

"Niente scuola, siamo inglesi", di Caterina Soffici

Si dice che solo i treni hanno la strada segnata. Pure certi esseri umani hanno la strada segnata. I bambini inglesi, per esempio, hanno la strada più segnata di quelli italiani. Un’affermazione del genere nella culla della democrazia e della meritocrazia potrebbe sembrare un paradosso. Ma non è così. Il figlio di un idraulico di Tottenham ha meno probabilità di essere ammesso a Oxford di quante ne ha il figlio di un idraulico di Canicattì di entrare alla Bocconi.
Quello della scuola inglese è un mito da sfatare: solo un certo provincialismo italico ci fa pensare che sia un modello imbattibile e da imitare. Non parliamo qui dei curricula e della didattica, ma del sistema scolastico. L’eccellenza inglese molto probabilmente è migliore dell’eccellenza italiana, perché è una scuola più moderna nei contenuti e più agile nei metodi di apprendimento. Ma nel Regno Unito l’istruzione d’eccellenza è quella privata. Nella pubblica il livello è così basso che ogni anno si moltiplicano gli appelli e le campagne per la scolarizzazione: un bambino di 11 anni che esce dalla primaria pubblica ha lo stesso livello di preparazione di un bambino di 7/8 anni della privata. Molti non sono neppure in grado di leggere un libro per intero. E il gap aumenta con il passare ai gradi successivi dell’istruzione. In Gran Bretagna l’istruzione di qualità è un privilegio riservato a pochi e la scuola pubblica non riesce a tenere il passo.
Mentre in Italia lo studio è un diritto garantito a tutti, indistintamente da reddito e classe sociale di appartenenza. Ogni inizio di anno scolastico si assiste a un piagnisteo generale. Sono tante le cose che mancano: spesso anche la carta igienica, per non parlare di aule, soldi, insegnanti, lingue straniere, lavagne elettroniche, computer, eccetera. Chi si lamenta dovrebbe però tenere presente che, nonostante tutte le sue imperfezioni e magagne, la nostra scuola pubblica è un bene unico che all’estero ci invidiano.
È proprio di questi giorni la notizia di una riforma, la più radicale degli ultimi 20 anni hanno scritto i giornali inglesi. Di radicale però ha ben poco, se non il cambio del nome: gli esami non si chiameranno più Gcse (General Certificate of Secondary Education) ma English Baccalaureate. La sostanza di fatto rimane la stessa e i numeri inglesi raccontano una realtà scandalosa: fra i 100 migliori licei nel Regno Unito, 87 sono scuole private e solo 13 pubbliche. Questi 100 migliori licei rappresentano il 3 per cento del totale dei 3.167 istituti superiori britannici. Ma non basta: un terzo delle ammissioni a Oxford e Cambridge, le due migliori università del regno e le migliori europee nella top ten internazionale, vengono proprio da queste 100 scuole. I bambini con la strada segnata che passano da qui sono dei treni super rapidi, con diritto di precedenza acquisito per censo rispetto ai torpedoni dei pendolari, carichi di figli della working class che non può permettersi le rette proibitive dell’educazione privata. Fuori di metafora, la migliore istruzione è riservata alle classi privilegiate e non c’è una pari opportunità di accesso all’istruzione.
Ecco un altro grappolo di numeri che fanno riflettere: negli ultimi tre anni cinque super scuole da sole hanno mandato a Oxbridge (Oxford e Cambridge) più studenti che altri 2.000 istituti meno blasonati tutti messi insieme. Di queste cinque super scuole, quattro sono private (Eton, St Paul’s, Westminster e St Paul’s Girls). La retta di Eton (che è la boarding school più esclusiva del Regno) è sulle 35mila sterline l’anno, 40mila euro. Le altre sono day school di Londra, con tasse scolastiche variabili dalle 19mila alle 25mila sterline annue (da 23mila a 30mila); sport, musica e attività extracurriculari esclusi.
Ma l’elenco delle imperfezioni del sistema scolastico inglese non finisce qui.
Un buono studente con il massimo dei voti alla maturità ha il 58 per cento di entrare in una delle 30 migliori università britanniche se proviene da una scuola statale, mentre con gli stessi voti ha il 78 % di probabilità se proviene da una scuola privata: il binario è già segnato dalle scuole d’infanzia.
Per concludere la nostra metafora dei treni è interessante conoscere anche la destinazione finale. Solo il 7 per cento degli studenti inglesi frequenta una scuola privata. Ma il 68 per cento dei barrister (i grandi avvocati), il 54 per cento dei giornalisti, il 42 per cento dei politici, il 54 per cento dei grandi manager e il 68 per cento dei giudici dell’Alta Corte hanno ricevuto una istruzione privata. La scuola non è aperta, non garantisce mobilità sociale e non è meritocratica. Esistono le eccezioni che confermano la regola. La scrittrice anglo caraibica Zadie Smith, per esempio, ce l’ha fatta. È entrata al King’s College di Cambridge provenendo dalle scuole statali del Brent, sobborgo multietnico e popolare a Nord Ovest di Londra. Un’eccezione che fa notizia, infatti. Come gli altri casi di personaggi educati pubblicamente che diventano famosi o fanno carriera. Cosa faresti se fossi sindaco di Londra per un giorno, hanno chiesto recentemente a Zadie Smith? Ha risposto: «Fornirei gratuitamente consulenza educativa e orientamento alle famiglie che ne hanno bisogno. E cioè: spiegherei cosa devono chiedere ai professori; quale esame è il migliore per i loro figli; quali libri prendere in prestito dalla biblioteca; come iscriversi all’università; come passare i colloqui di ammissione e altre cose del genere». Non per niente Zadie Smith è impegnata in una battaglia per l’educazione pubblica e contro la chiusura delle biblioteche pubbliche di quartiere minacciate dall’austerity imposta dalla coppia Osborne-Cameron.In Italia ci sono uguali opportunità di accesso all’istruzione. Ma non si può dire altrettanto per l’accesso al mondo del lavoro. I problemi vengono dopo.
Perché il figlio del nostro idraulico di Canicattì se è bravo e capace può laurearsi anche alla Bocconi ma poi le sue pari opportunità di vedere riconosciute le sue capacità nel mondo professionale si infrangono contro i vizi della società italiana. Corporazioni, clientele, familismo amorale, bande di potere bloccano l’ascensore sociale rappresentato dall’istruzione pubblica.
Così dopo aver trovato tante porte chiuse, se vorrà avere successo il nostro figlio dell’idraulico di Canicattì probabilmente prenderà un aereo e se ne volerà a Londra. Dove invece il meccanismo della selezione delle classi dirigenti è più meritocratico che da noi. Sulle sponde del Tamigi è ancora valido un vecchio proverbio inglese che recita: There is always room at the top. Vuol dire che c’è sempre posto in alto, perché fa comodo a tutti che i migliori raggiungano i vertici. Fa comodo alla nazione, alla società, alle singole aziende. È una regola generale che grosso modo permette di selezionare i migliori, sia nel pubblico che nel privato.
Anche se scegliere il migliore, come abbiamo visto, non significa dare a tutti la possibilità di diventarlo.
Il Sole 24 Ore 01.10.12

"L’insulto via web nuova arma antisemita", di Mario Pirani

Del fenomeno ce ne eravamo accorti ma senza avvertirne la pericolosità. Intendo riferirmi all’antisemitismo attraverso il Web, che ci sembrava ripercorrere sotto nuove forme il solito armamentario negazionista. Quel che era sfuggito ai più, noi compresi, era la potenza diffusiva esponenziale segnata dal passaggio dalla veste cartacea del messaggio antisemita a quella massmediatica. Il salto non è solo quantitativo, ma anche qualitativo. L’ingiuria e la calunnia contro gli ebrei negli immediati decenni postbellici avevano finito per essere considerati un atto biasimevole in sé, un gesto che i cittadini, anche i cattolici fedeli a una interpretazione veterotestamentaria, un tempo portatori dell’antica maledizione, ne avevano non solo rivisto il contenuto ideologico ma anche fatta propria la condanna formale. Persino il revisionismo fascista, ripensando al possibile percorso in fieri di una destra sociale democratica, premetteva ad ogni assunto, il respingimento dichiarato dei propri coinvolgimenti razzisti e antiebraici. La visita al Ghetto e al Gran rabbino era diventato un addentellato formale fisso per i nuovi leader della Destra nazionale.
Ebbene con la scoperta e l’uso di massa del “cyberspazio” ogni resistenza e reticenza sono via via saltate. Il vaccino preventivo che sterilizzava l’antisemitismo attecchiva sulle menti democratiche ed entrava naturalmente a far parte del loro bagaglio culturale. Non così per le giovani generazioni incolte, i gruppi estremistici alla ricerca di un nemico da colpire, i capipopolo delle curve sud, assetati di slogan tanto più aggressivi quanto più disponibili ad un ritorno in uso. Così, “se prima la condanna era automatica e generale, oggi è Internet che ha generato un ambiente atto a fornire una struttura relazionale all’odio, rendendolo socialmente accettabile” (Stefano Gatti da “Shalom” ag.– sett. 2012). Il ministro cattolico per la Cooperazione internazionale, Andrea Riccardi, ha levato molte volte la sua voce contro questa epidemia, la cui diffusione è stata resa possibile dal fatto che il Web è ormai diventato il palcoscenico privilegiato per la trasmissione del razzismo e dell’antisemitismo. La conseguenza di questa denuncia ha portato all’inserimento di Riccardi nella black list del principale sito “suprematista e bianco” dell’antisemitismo italico, “Stormfront”, con un suo quotidiano digitale con migliaia di contatti giornalieri. Da allora Riccardi viene bollato come “servo dei giudei, dei signori nasoni, che agisce agli ordini di Sion”. Dal 2010 la Polizia postale italiana, che è una delle più efficienti al mondo nel lavoro di monitoraggio e scoperta dei fenomeni più aberranti di razzismo e antisemitismo on line, non trova nell’ordinamento giuridico italiano provvedimenti e leggi specifiche per stroncare il diffondersi del fenomeno. Sarebbe già un grande successo se i direttori scolastici nell’ambito delle loro competenze tacitassero quegli insegnanti di animo razzista che hanno trovato nel Web uno strumento di penetrazione tra i giovani. Le calunnie e gli insulti hanno un ventaglio vastissimo: dal negazionismo all’accusa agli ebrei di essere gli organizzatori del commercio clandestino di organi umani. D’altra parte il governo italiano non ha ancora dato la sua ratifica al Protocollo addizionale, relativo agli atti di natura razzista e xenofobica, alla Convenzione di Budapest, promossa dal Consiglio d’Europa per un miglior coordinamento tra le varie polizie impegnate nell’opera di contrasto contro il crimine cybernetico.
Un altro settore è quello delle band dei “Nazirock”, una trentina, che oggi possono ampliare l’ascolto. Eccone un minimo estratto: “C’è una nave nel nostro azzurro mar… piena di negri ma che verranno a far? Voglion lavoro e un po’ di umanità… ma solo troie e droga porteran! No, no, no negri no, questa è la mia terra e la difenderò, no, no, no, negri no, questo paese è nostro e mai vi accetterò! I benpensanti li vogliono ospitar e suore e preti gli danno da mangiar, ma il nostro popolo mai accetterà… la loro puzza che invade le città!”.

La Repubblica 01.10.12

"L’insulto via web nuova arma antisemita", di Mario Pirani

Del fenomeno ce ne eravamo accorti ma senza avvertirne la pericolosità. Intendo riferirmi all’antisemitismo attraverso il Web, che ci sembrava ripercorrere sotto nuove forme il solito armamentario negazionista. Quel che era sfuggito ai più, noi compresi, era la potenza diffusiva esponenziale segnata dal passaggio dalla veste cartacea del messaggio antisemita a quella massmediatica. Il salto non è solo quantitativo, ma anche qualitativo. L’ingiuria e la calunnia contro gli ebrei negli immediati decenni postbellici avevano finito per essere considerati un atto biasimevole in sé, un gesto che i cittadini, anche i cattolici fedeli a una interpretazione veterotestamentaria, un tempo portatori dell’antica maledizione, ne avevano non solo rivisto il contenuto ideologico ma anche fatta propria la condanna formale. Persino il revisionismo fascista, ripensando al possibile percorso in fieri di una destra sociale democratica, premetteva ad ogni assunto, il respingimento dichiarato dei propri coinvolgimenti razzisti e antiebraici. La visita al Ghetto e al Gran rabbino era diventato un addentellato formale fisso per i nuovi leader della Destra nazionale.
Ebbene con la scoperta e l’uso di massa del “cyberspazio” ogni resistenza e reticenza sono via via saltate. Il vaccino preventivo che sterilizzava l’antisemitismo attecchiva sulle menti democratiche ed entrava naturalmente a far parte del loro bagaglio culturale. Non così per le giovani generazioni incolte, i gruppi estremistici alla ricerca di un nemico da colpire, i capipopolo delle curve sud, assetati di slogan tanto più aggressivi quanto più disponibili ad un ritorno in uso. Così, “se prima la condanna era automatica e generale, oggi è Internet che ha generato un ambiente atto a fornire una struttura relazionale all’odio, rendendolo socialmente accettabile” (Stefano Gatti da “Shalom” ag.– sett. 2012). Il ministro cattolico per la Cooperazione internazionale, Andrea Riccardi, ha levato molte volte la sua voce contro questa epidemia, la cui diffusione è stata resa possibile dal fatto che il Web è ormai diventato il palcoscenico privilegiato per la trasmissione del razzismo e dell’antisemitismo. La conseguenza di questa denuncia ha portato all’inserimento di Riccardi nella black list del principale sito “suprematista e bianco” dell’antisemitismo italico, “Stormfront”, con un suo quotidiano digitale con migliaia di contatti giornalieri. Da allora Riccardi viene bollato come “servo dei giudei, dei signori nasoni, che agisce agli ordini di Sion”. Dal 2010 la Polizia postale italiana, che è una delle più efficienti al mondo nel lavoro di monitoraggio e scoperta dei fenomeni più aberranti di razzismo e antisemitismo on line, non trova nell’ordinamento giuridico italiano provvedimenti e leggi specifiche per stroncare il diffondersi del fenomeno. Sarebbe già un grande successo se i direttori scolastici nell’ambito delle loro competenze tacitassero quegli insegnanti di animo razzista che hanno trovato nel Web uno strumento di penetrazione tra i giovani. Le calunnie e gli insulti hanno un ventaglio vastissimo: dal negazionismo all’accusa agli ebrei di essere gli organizzatori del commercio clandestino di organi umani. D’altra parte il governo italiano non ha ancora dato la sua ratifica al Protocollo addizionale, relativo agli atti di natura razzista e xenofobica, alla Convenzione di Budapest, promossa dal Consiglio d’Europa per un miglior coordinamento tra le varie polizie impegnate nell’opera di contrasto contro il crimine cybernetico.
Un altro settore è quello delle band dei “Nazirock”, una trentina, che oggi possono ampliare l’ascolto. Eccone un minimo estratto: “C’è una nave nel nostro azzurro mar… piena di negri ma che verranno a far? Voglion lavoro e un po’ di umanità… ma solo troie e droga porteran! No, no, no negri no, questa è la mia terra e la difenderò, no, no, no, negri no, questo paese è nostro e mai vi accetterò! I benpensanti li vogliono ospitar e suore e preti gli danno da mangiar, ma il nostro popolo mai accetterà… la loro puzza che invade le città!”.
La Repubblica 01.10.12

"Precari, mille euro sono un miraggio", di Flavia Amabile

Essere precari non significa soltanto non avere certezze sul futuro ma anche guadagnare molto meno nel presente. È l’Isfol a denunciarlo sottolineando che per i dipendenti a termine il salario nel 2011 è stato pari a 945 euro, appena un euro in più rispetto all’anno p’recedente e inferiore a mille euro. Rispetto al salario di un lavoratore fisso si tratta del 28% in meno: la media in quel caso è di 1313 euro al mese. La situazione non migliora molto con l’età: chi ha tra i 15 e i 24 anni guadagna 834 euro,. Ma chi ne ha tra i 35 e i 44 non porta molto di più a casa: 996 euro. Mentre quando si ha un lavoro fisso la differenza è molto più evidente: i più giovani guadagnano 926 euro ma con il passare degli anni si arriva quasi a 1500. Oltretutto «il divario risulta in crescita rispetto all’anno precedente (27,2%), come sottolinea il direttore generale dell’Isfol, Aviana Bulgarelli.

I precari sono i più penalizzati, ammette l’Istituto. E questo avviene per diverse ragioni, come spiega Aviana Bulgarelli: «In primo luogo il lavoro a termine evita, con la scadenza dei contratti, l’applicazione delle fasce di anzianità previste dai contratti collettivi; inoltre i dipendenti a termine usufruiscono in misura minore della componente retributiva legata a straordinari e ad altri emolumenti; tra i contratti a termine infine il lavoro a tempo parziale incide in misura decisamente maggiore (25,5% a fronte del 14,9% del lavoro a tempo indeterminato), contribuendo a ridurre il salario medio». Ovviamente, precisa l’Isfol i contratti a tempo prevalgono soprattutto tra le nuove generazioni, anche se in valori assoluti i dipendenti precari sono comunque molto diffusi anche tra i più adulti, con oltre un milione di occupati a termine tra gli chi ha almeno 35 anni. Ma essere precari e per di più giovani vuol dire essere più esposti ad ingiustizie. Come osserva il direttore generale dell’Isfol: «Oltre il 50% dei lavoratori temporanei ha meno di 35 anni a fronte del 24% tra gli occupati permanenti. Il rischio di subire un lavoro a termine mostra un livello elevato nella prima classe di età (poco meno del 50% degli occupati dipendenti tra 15 e 24 anni ha un contratto a termine), per poi diminuire sensibilmente fin dalla classe di età successiva». Quindi il lavoro precario si conferma come lo strumento d’ingresso dei giovani nell’occupazione, «mostrando tuttavia precisa il direttore generale dell’Isfol – incidenze relativamente elevate anche nelle classi di età centrali».

La Stampa 01.10.12

"Precari, mille euro sono un miraggio", di Flavia Amabile

Essere precari non significa soltanto non avere certezze sul futuro ma anche guadagnare molto meno nel presente. È l’Isfol a denunciarlo sottolineando che per i dipendenti a termine il salario nel 2011 è stato pari a 945 euro, appena un euro in più rispetto all’anno p’recedente e inferiore a mille euro. Rispetto al salario di un lavoratore fisso si tratta del 28% in meno: la media in quel caso è di 1313 euro al mese. La situazione non migliora molto con l’età: chi ha tra i 15 e i 24 anni guadagna 834 euro,. Ma chi ne ha tra i 35 e i 44 non porta molto di più a casa: 996 euro. Mentre quando si ha un lavoro fisso la differenza è molto più evidente: i più giovani guadagnano 926 euro ma con il passare degli anni si arriva quasi a 1500. Oltretutto «il divario risulta in crescita rispetto all’anno precedente (27,2%), come sottolinea il direttore generale dell’Isfol, Aviana Bulgarelli.
I precari sono i più penalizzati, ammette l’Istituto. E questo avviene per diverse ragioni, come spiega Aviana Bulgarelli: «In primo luogo il lavoro a termine evita, con la scadenza dei contratti, l’applicazione delle fasce di anzianità previste dai contratti collettivi; inoltre i dipendenti a termine usufruiscono in misura minore della componente retributiva legata a straordinari e ad altri emolumenti; tra i contratti a termine infine il lavoro a tempo parziale incide in misura decisamente maggiore (25,5% a fronte del 14,9% del lavoro a tempo indeterminato), contribuendo a ridurre il salario medio». Ovviamente, precisa l’Isfol i contratti a tempo prevalgono soprattutto tra le nuove generazioni, anche se in valori assoluti i dipendenti precari sono comunque molto diffusi anche tra i più adulti, con oltre un milione di occupati a termine tra gli chi ha almeno 35 anni. Ma essere precari e per di più giovani vuol dire essere più esposti ad ingiustizie. Come osserva il direttore generale dell’Isfol: «Oltre il 50% dei lavoratori temporanei ha meno di 35 anni a fronte del 24% tra gli occupati permanenti. Il rischio di subire un lavoro a termine mostra un livello elevato nella prima classe di età (poco meno del 50% degli occupati dipendenti tra 15 e 24 anni ha un contratto a termine), per poi diminuire sensibilmente fin dalla classe di età successiva». Quindi il lavoro precario si conferma come lo strumento d’ingresso dei giovani nell’occupazione, «mostrando tuttavia precisa il direttore generale dell’Isfol – incidenze relativamente elevate anche nelle classi di età centrali».
La Stampa 01.10.12

"Perché votare. Un dilemma italiano", di Ilvo Diamanti

Votare per scegliere chi governerà. Oppure scegliere chi governerà indipendentemente dal voto e dal risultato. Questo è il dilemma. mplificato dalle recenti dichiarazioni di Monti, che ha confermato l’intenzione di non candidarsi come premier, alle prossime elezioni. Ma non ha escluso l’ipotesi di «dare una mano, se fosse richiesto ». Per proseguire nell’impegno avviato da quasi un anno. Un messaggio raccolto, per primo, da Montezemolo. Che ha annunciato, infine, la sua “discesa in campo”. A sostegno di Monti. Con la convinta adesione di Casini e Fini. Che hanno proposto un “cartello elettorale”. Nel nome del Professore. Al quale, però, interessa presentarsi e agire – come premier
al di sopra delle parti e dei partiti.
Dunque, al di sopra e al di fuori della competizione elettorale.
Investito dalla volontà di un’ampia maggioranza del Parlamento. L’idea, d’altronde, non piace neppure ai leader dei partiti maggiori, Pd e Pdl. Per non ridursi a svolgere un ruolo gregario. Non è, quindi, detto che la “disponibilità” annunciata da Monti si traduca in decisione. Ma il fatto stesso che l’ipotesi oggi appaia verosimile è significativo. D’altronde, l’unico leader di cui gli elettori si fidino veramente è lui. Monti. Il cui consenso personale è di nuovo in crescita, nelle ultime settimane. Come il sostegno al governo. In entrambi i casi, superiori alla metà dell’elettorato (dati Ipsos). Gli elettori, dunque, vogliono un governo espresso dalla maggioranza che emergerà alle prossime elezioni. Basta che a guidarlo sia Monti.
Il dilemma della democrazia rappresentativa, in Italia, è tutto qui. Se il voto “non serve” a scegliere chi governa, attraverso i rappresentanti eletti, a che “serve” votare? E com’è possibile, in queste condizioni, parlare ancora di democrazia rappresentativa?
Questo dilemma, però, non è poi tanto paradossale – e neppure inedito. Almeno in Italia. Secondo alcuni osservatori, sarebbe alla base della nostra “anomalia”.
In fondo, per quasi cinquant’anni il sistema politico italiano è apparso “bloccato”. Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, la frattura geopolitica internazionale ha impedito una vera alternativa, per la presenza, in Italia, del più importante partito comunista occidentale. Si è così affermato un “bipartitismo imperfetto”, per citare Giorgio Galli. Dove la competizione elettorale, indipendentemente dal risultato, proponeva un esito comunque scontato. Perché, comunque la Dc avrebbe governato, da sola o in coalizione. Mentre il Pci avrebbe guidato l’opposizione. Lo stesso Pci ne era consapevole. Complice. Coinvolto in un sistema consensuale e consociativo. Dove aveva influenza in tutte le principali scelte. Questa “anomalia” è proseguita, non a caso, fino al crollo del muro di Berlino e della Prima Repubblica. Ma, per quasi cinquant’anni, gli italiani hanno votato pur sapendo che gli equilibri di governo, nonostante i cambiamenti elettorali, peraltro notevoli, non sarebbero mutati in modo sostanziale. Il Capo del governo lo decidevano la Dc, i suoi capicorrente e i suoi alleati. In base ai rapporti di forza interni ai partiti. Che cambiavano spesso, nel corso della legislatura. Senza possibilità, per i cittadini, di reagire e intervenire. Eppure, gli italiani, nonostante tutto, continuarono a votare. In grande numero. Alle politiche: tra il 90% e l’80% degli aventi diritto, fino ad oggi. Un tasso di partecipazione elettorale tra i più alti, nelle democrazie occidentali.
Anche se la fiducia nei partiti non è mai stata troppo alta. Neppure in passato. In Italia, però, si votava egualmente. Pro o contro i comunisti. Pro o contro la Dc e, sullo sfondo, la Chiesa. Per fedeltà. Per fede. Ma anche per sentirsi parte. Per partecipare.
Nella Seconda Repubblica questo modello è cambiato profondamente. Ma non del tutto. Sono crollati i sistemi comunisti, ma in Italia il comunismo, meglio ancora: l’anticomunismo non è mai morto. Evocato e tenuto vivo, per primo, da Berlusconi. Che in questo modo ha cristallizzato il passato a proprio favore. Così gli elettori hanno ripreso a schierarsi. A dividersi come prima. Fra anticomunisti e antiberlusconiani. La novità, semmai, è la personalizzazione. I partiti riassunti nei loro leader e viceversa. Le elezioni trasformate in referendum. Pro o contro Berlusconi. Così il Paese si è presidenzializzato in fretta. Senza riforme istituzionali e costituzionali. Di fatto. Gli italiani: si sono abituati ad affidarsi a un premier espresso dai partiti. O meglio: a leader, di cui i partiti apparivano e appaiono una protesi. Gli elettori: indotti a votare per parlamentari nominati dai partiti e dai loro leader. Fino alla deriva a cui assistiamo oggi. Che ha travolto la credibilità dei partiti. Non qualcuno in particolare. Tutti. I Partiti, nell’insieme. Nessuno dei quali appare credibile. Legittimato a esprimere il Capo (del governo).
Così oggi gli italiani, in maggioranza, tendono a tener separata la partecipazione elettorale dalla scelta del premier. Anzi, pongono i due processi quasi in contrasto. Vogliono votare. E pretendono che il governo venga espresso dalla maggioranza uscita da voto. Ma al governo, vogliono il Tecnico. Monti. Perché non viene dai partiti. Di cui diffidano. Come nella Prima Repubblica, si ripropone il distacco fra voto e rappresentanza. È l’anomalia italiana che si rinnova. Ieri come oggi. In nome del vincolo internazionale. Ieri: per ragioni ideologiche e geopolitiche. Oggi: per ragioni economiche e monetarie. Ieri: in nome dell’anticomunismo; oggi: dello spread. Con una differenza significativa: non ci sono più la “fede” ideologica o religiosa a mobilitare gli elettori. Pro o contro i partiti.
Per questo, dubito che la dissociazione fra i principi della democrazia rappresentativa – partecipazione e governo – possa riprodursi a lungo, senza conseguenze serie, dal punto di vista politico e istituzionale.
Lo suggerisce il successo del M5S. Un soggetto che raccoglie il sentimento “antipartitico” e sostiene, in alternativa all’attuale sistema, la democrazia diretta – attraverso rete.
Lo sottolinea, ancora, il dilatarsi dell’area degli indecisi. Ormai prossima al 50%. Più che per incertezza: per disaffezione verso i “canali” della rappresentanza democratica.
Da ciò il dubbio. Che la dissociazione fra partecipazione – elettorale – e governo dissolva i partiti. Releghi la Politica “in un cerchio chiuso in se stesso”, come ha osservato Edmondo Berselli. Perché, in questo caso, “la democrazia si incarta, come in una partita malriuscita: funziona peggio. Rischia il grippaggio”. E Monti, premier al di sopra delle parti e del verdetto elettorale, si troverebbe a governare da solo in mezzo a tutti. Solo contro tutti.

La Repubblica 01.10.12