Il governo Monti bis non può diventare l’obiettivo di un grande Paese come l’Italia. Sarebbe anzi una sconfitta, un certificato di minorità, una dichiarazione di impotenza. E, si badi bene, la sconfitta non riguarderebbe soltanto il centrosinistra, come taluni sostengono, ma anche i cittadini, le istituzioni, gli uomini e le imprese che più di altri si trovano ad affrontare la competizione globale e che dell’Italia sono di fatto ambasciatori. Perché il nostro Paese non può avere un governo, nato da una competizione democratica tra alternative legittime ed europee? Perché non può scommettere su un nuovo progetto, per l’Italia e per il Continente, che cerchi di correggere l’inerzia (peraltro drammatica) delle politiche economiche e sociali e, al tempo stesso, dia garanzie sugli impegni assunti come nazione? Perché bisogna cancellare dall’orizzonte ogni speranza di cambiamento e vanificare la partecipazione (persino le elezioni) nel timore di recare fastidio al conducente?
Mario Monti è molto più saggio dei suoi sostenitori, e nel dichiarare la propria disponibilità a restare premier oltre le elezioni del 2013, ha aggiunto: «Speriamo di no». Sa che quella previsione contiene il fallimento politico del suo governo tecnico, perché questo è nato esattamente per ricondurre l’Italia – umiliata dai governi Berlusconi – ad una normalità istituzionale. Sa che per lui sarebbe comunque molto più difficile, perché non si riprodurrebbero le condizioni eccezionali della «strana» intesa politica: non solo i conflitti aumenterebbero nella maggioranza, ma fuori da essa si ingrosserebbe l’area della sfiducia verso la politica, verso l’Europa, verso la stessa democrazia.
Non basta come lezione ciò che è accaduto in Grecia? Se gli elettori si trovano di fronte ad una soluzione obbligata, preconfezionata, per di più priva di ogni autonomia rispetto a mandati e verifiche esterne, il loro potere democratico residuo viene spinto con forza verso opzioni populiste, proteste radicali, contestazioni di sistema.
È vero che l’Europa, come l’intero Occidente, oggi non può permettersi il fallimento neppure della più piccola banca spagnola (e pensare che da noi, qualche professore liberista addirittura esultò il giorno del crack di Lehman Brothers, proclamando la vittoria definitiva del mercato: ancora viene ascoltato come un vate, e ovviamente pontifica sul Monti bis). Ma il collasso democratico di un Paese non avrà un contagio minore sull’economia e la società: soffiare sul fuoco dei populismi vuol dire inceppare le opportunità di sviluppo e spezzare il circuito della fiducia, necessario per il mercato non meno che per la solidarietà sociale.
Siccome Monti sa di aver restituito all’Italia prestigio e credibilità, è consapevole anche che una paralisi post-elettorale sarebbe un pericoloso fattore involutivo. Anche Giorgio Squinzi, neopresidente di Confindustria, si mostra assai più attento e sensibile di molti campioni del capitalismo nostrano. Ieri ha detto di essere pronto a rinunciare agli incentivi alle imprese, in cambio di tagli fiscali a favore del lavoro e delle famiglie. E sul Monti bis ha aggiunto: «Mi auguro che un Paese di 60 milioni di persone, la settima-ottava economia al mondo, sia capace di esprimere con il voto popolare un governo capace di governare». Ancora: «Se Monti si presenta e raccoglie la maggioranza per me va benissimo». Parole normali di un democratico normale. Che però nel nostro dibattito pubblico appaiono quasi rivoluzionarie. Nella borghesia italiana prevale un’altra tendenza: seminare sfiducia nella democrazia, strizzare semmai l’occhio alla protesta di Grillo, trasformare la giusta indignazione per la dilagante corruzione in una opposizione assoluta, indistinta verso tutti i partiti. «Sono tutti uguali» è il motto del disimpegno che porta ad acclamare la soluzione tecnocratica e oligarchica.
Purtroppo, la cecità di parte della classe dirigente è uno degli handicap competitivi più gravi del nostro Paese. Non vogliono i partiti e i corpi intermedi, detestano le autonomie sociali perché pensano così di difendere meglio i loro interessi di fronte al mercato globale e alla progressiva cessione di sovranità verso l’Europa. Ma, così facendo, azzoppano ancor più l’Italia, accelerano il declino e sottraggono opportunità ai loro stessi figli. La partecipazione democratica, la competizione tra alternative è parte essenziale di un Paese che deve, anzitutto, dimostrare al mondo di essere vivo. Non malato, o moribondo.
C’è anche chi dice: se proprio volete fare le elezioni, almeno firmate davanti a Monti un patto che vincoli qualunque governo futuro. La chiamano Agenda Monti, giocando con le parole. Se per Agenda Monti si intende l’impegno europeista, la continuità della presenza italiana nelle sedi internazionali, la tenuta dei conti pubblici nelle condizioni di mercato, non si capisce cosa ci sia da firmare. È ovvio che qualunque alternativa politica parte da lì. E il centrosinistra ha già dimostrato altre volte la propria affidabilità, a cominciare dal primo governo Prodi, che salvò l’Italia agganciandola all’euro e che pagò un prezzo alto di consenso per mantenere la coerenza nelle politiche di bilancio. Semmai è il centrodestra a non essere mai stato capace di tenere insieme i conti pubblici con un minimo di respiro vitale dell’economia reale.
Ma purtroppo l’Agenda Monti è per i più un pretesto per dimostrare l’inevitabilità del Monti-bis. Dal Monti dell’emergenza al Monti dell’impotenza democratica. Evitare questo esito sarà una battaglia politica difficile, non meno di quella che ha portato alla nascita dell’attuale governo Monti. Una battaglia che per il centrosinistra comincia con le primarie.
Diciamo la verità: molti dubitano che siano davvero uno strumento utile. Portano acqua al mulino del dubbio sia coloro che si mostrano indifferenti al rischio di inquinamento del voto, sia coloro che ora declassano le primarie ad una sorta di scampagnata, propedeutica all’«inevitabile» Monti bis. Le primarie devono essere invece l’avvio della sfida per il governo, devono disegnare il profilo della proposta del centrosinistra al Paese e all’Europa. Abbiamo davanti scelte di portata storica. Il cambiamento deve essere una bandiera anzitutto per il Paese. Chi vuole fare delle primarie un congresso di partito, per favore, aspetti un turno perché altrimenti rischia di favorire i Berlusconi e i Grillo che pagherebbero oro per avere un Monti bis da occupare (pro quota) o da contrastare (indicando tutti i partiti come complici). La vera sfida delle primarie consiste in questo: dimostrare che il centrosinistra può offrire all’Italia un progetto di maggiore equità sociale, di maggiore sviluppo, di maggiore riforma rispetto al governo tecnico. E dimostrare al tempo stesso che lo si può fare assicurando i nostri partner europei, anzi consolidando le alleanze con i progressisti d’Europa.
L’Unità 30.09.12
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Errani «Noi i primi a tagliare i vitalizi Ora il governo vari il decreto», di Andrea Carugati
Sono giornate di fuoco per Vasco Errani, governatore dell’Emilia Romagna e presidente della Conferenza delle Regioni, finite nel mirino delle Procure in po’ in tutta Italia per le spese dei gruppi consiliari. Anche a Bologna la Procura ha aperto una indagine sulle spese del consiglio. E il rischio che le Regioni finiscano tutte in un unico calderone di discredito, sulla scia del Lazio dei Batman, è altissimo.
Presidente Errani, che sta succedendo nella sua Emilia Romagna?
«La magistratura ha aperto un’indagine conoscitiva. È giusto che siano fatti tutti gli approfondimenti necessari. La Regione, come sempre, darà piena collaborazione. L’assemblea ha delle regole: si verificherà se queste regole sono state applicate e rispettate. In ogni caso, l’Emilia Romagna è, come dimostrano i fatti, una Regione virtuosa e non può entrare nel frullatore».
Può fare qualche esempio di questa virtù?
«La nostra Regione, negli ultimi anni, ha fatto scelte molto nette in direzione della sobrietà e di una secca riduzione dei costi della politica, a partire dagli emolumenti, che sono di fatto i più bassi insieme a quelli di Toscana e Umbria. Abbiamo anche abrogato i vitalizi: siamo stati tra i primi ad aprire questa strada. Abbiamo cominciato anni fa in una azione coerente con tutta l’assemblea per la riduzione dei costi. E così continuiamo a fare».
In questi ultimi giorni i presidenti di Regione hanno proposto al governo un decreto urgente per tagliare i costi della politica. Da soli non riuscivate a risolvere i problemi?
«Non abbiamo fatto un passo indietro, ma uno in avanti. Non c’è una rinuncia al nostro ruolo ma la volontà, insieme al governo, di dare omogeneità al sistema delle Regioni, affrontando con determinazione la riduzione dei costi, la trasparenza e i controlli. Questo riguarda emolumenti e numero dei consiglieri, tetti e finalità dei contributi ai gruppi politici, riduzione delle commissioni con un massimo di otto. Faccio alcuni esempi: è ovvio che alcune commissioni, come Bilancio, Sanità e Attività produttive siano imprescindibili. Ma ci sono stati vari casi in cui le commissioni si sono moltiplicate e questo è stato un errore. Quanto ai gruppi, le risorse devono esse- re ridotte, definite con chiarezza nelle finalità, trasparenti e controllate dalla Corte dei conti».
Insisto: affidare la partita dei tagli al governo sembra una resa…
«Ribadisco che si tratta di un passo in avanti. Siamo stati noi a proporre il decreto per accelerare i tempi, e a suggerire delle penalità per le Regioni che non si adegueranno agli standard».
Il ministro Passera propone di commissariare gli enti non virtuosi…
«Il ministro sa bene che c’è la Costituzione e ci sono le norme, profili precisi in cui è previsto il commissariamento. E che, in diversi casi, questo è già avvenuto. Mi sembra utile evitare di fare battute su temi così importanti».
Fino a poco tempo fa era lo Stato centrale a essere considerato “sprecone”. Ora sono le Regioni nell’occhio del ciclone come simbolo delle spese inutili. Cosa è successo?
«Innanzitutto non è giusto fare di ogni erba un fascio. Ci sono Regioni che come noi hanno compiuto azioni importanti, ma il problema è certamente più ampio. Nell’ultimo decennio non si è realizzata una riforma piena delle istituzioni, e andare avanti a pezzi non ha portato a risultati veri. Il Paese paga tanti prezzi anche perché c’è stato uno sbandamento populista e propagandistico, un federalismo annunciato ma mai effettivamente compiuto. Non si è fatta la Camera delle autonomie, non si sono efficacemente ridefinite le competenze, il federalismo fiscale si è rivelato una bufala. Per questo ritengo che la prossima debba essere una legislatura costituente per fare una riforma coerente di tutto il sistema istituzionale. Occorre il coraggio di un reale cambiamento per dare un assetto efficace e semplificato al governo dell’Italia. L’esigenza di cambiamento riguarda tutti i livelli istituzionali, a partire delle Regioni, riflettendo sulle stesse dimensioni territoriali».
C’è il rischio che con i Batman oggi si buttino via anche 40 anni di storia del regiona-ismo?
«È un rischio da evitare con tutte le forze, e per questo ringrazio il presidente Napolitano per le sue parole che invitano a non guardare solo i fenomeni negativi. Le Regioni sono un pezzo fondamentale della nostra Costituzione. E tuttavia è evidente che, su temi come i costi della politica, una eccessiva autodeterminazione non ha funzionato. E ora, per salvaguardare la credibilità e l’autonomia delle Regioni, che resta un principio fondamentale, occorre definire parametri e standard a cui tutti si devono riferire».
Nelle ultime Finanziarie le Regioni sono state in prima fila insieme ai Comuni per dire no ai tagli. Alla luce di questi sprechi, non trova che la vostra protesta possa apparire contraddittoria?
«Per poter difendere con autorevolezza la spesa sociale e sanitaria è giusto che le Regioni siano inattaccabili e diano una grande prova di sobrietà. Questo va fatto rapidamente e in modo deciso. Ma deve essere chiaro che i tagli che hanno subito la sanità e il sociale negli ultimi anni hanno una dimensione pari a 21 miliardi di euro, un valore che non è in nessun modo paragonabile a quello dei costi della politica regionale. E che pone il problema della sostenibilità di servizi fondamentali per la coesione sociale che la Repubblica deve garantire. Il sistema sanitario universalistico è un valore irrinunciabile, per il quale siamo disposti a batterci ancora contro tagli che rischiano di danneggiare gli strati più deboli della società».
L’Unità 30.09.12
Trasparenza nuova sfida dei partiti", di Federico Geremicca
Fa certamente sensazione, soprattutto se rapportata alla grandinata di scandali in arrivo da molte Regioni italiane, la nettezza con la quale la quasi totalità dei partiti ha rivendicato – dopo l’annunciata disponibilità di Mario Monti ad un nuovo mandato – il diritto della politica a tornare alla guida del Paese.
Si tratta, infatti, di una rivendicazione che – pur essendo del tutto legittima – fa tuttora a pugni con la condizione in cui versa il sistema politico italiano, con la confusione che regna in materia di leadership e alleanze, e la persistente vaghezza (quando non peggio) sul piano dei programmi e delle cose da fare.
Ciò nonostante, non è affatto da escludere che – dopo il voto della prossima primavera – sia appunto un governo sostenuto da una maggioranza politica a prendere in mano il destino del Paese.
Del resto, stando ai più recenti sondaggi, è quel che chiede una parte non più minoritaria dell’elettorato.
Che invoca, però – e questo è il punto – un rinnovamento profondo di uomini e modi d’agire, la riduzione dei costi e dell’invadenza della politica e il proseguimento nell’opera di risanamento economico del Paese, pena il ritrovarsi di nuovo sull’orlo del baratro sfiorato giusto un anno fa.
Fino a oggi i partiti (tra di loro ed al loro stesso interno) hanno litigato soprattutto sulla cosiddetta Agenda Monti, diventata simbolicamente quasi lo spartiacque tra chi vuole continuare su una linea di rigore e chi, al contrario, immagina sia possibile un ritorno al tempo delle vacche grasse: abolendo – per esempio a partire dall’Imu – alcune delle misure e delle riforme varate dal governo, soprattutto in materia di riduzione del debito.
La discussione – difficile e delicata allo stesso tempo – naturalmente continuerà: ma le previsioni di un lento miglioramento della situazione economica, accompagnate dal contemporaneo esplodere di scandali odiosi e grotteschi, impongono – se non un cambio di obiettivi – certamente l’urgenza di definire con chiarezza i rimedi da mettere in campo contro l’ormai insopportabile andazzo di ruberie, cialtronerie e malaffare. Per esser chiari: all’emergenza economica se ne è aggiunta un’altra che – di fronte al dilagare dello sperpero di danaro pubblico da parte delle forze politiche – si può ormai tranquillamente definire «emergenza democratica».
Il che fare per arginarla sarà uno dei terreni sui quali verranno giudicati i partiti che vogliono riprendere le redini del governo del Paese. E sarebbe dunque ora che, dopo le inadempienze e i ritardi di questi mesi, le forze politiche facessero conoscere con precisione e nel dettaglio le misure che intendono assumere per arrestare l’onda melmosa della corruzione e del malaffare politico. Quel che occorre è che i partiti o le coalizioni che si candidano alla guida del Paese redigano un vero e proprio «manifesto» della trasparenza e della lotta agli sprechi e alla delinquenza politica: con il dettaglio delle spese da tagliare, degli apparati da ridurre, degli enti da abolire o da snellire, nella loro composizione e nei loro costi.
Di fronte a feste in maschera costose e di pessimo gusto, a vacanze pagate da consulenti amici, a spese ingiustificate e a continue ruberie di danaro pubblico, la richiesta della politica di fare un passo avanti non solo non è credibile, ma rischia di diventare non condivisibile in assenza di un nettissimo segnale di cambio rotta: l’«emergenza democratica» determinata dalla decomposizione del sistema dei partiti, insomma, va arrestata prima che sia troppo tardi.
L’antipolitica ha oggi il linguaggio inaccettabile di Beppe Grillo: ma nulla può rassicurare circa il fatto che il peggio sia questo e che il fondo sia stato toccato. E’ per questo motivo – per una forma che potremmo perfino definire di legittima difesa – che occorre una reazione chiara e immediata da parte delle forze politiche. Si mettano nero su bianco, in un «manifesto della buona politica», le cose che si intendono fare: quando, come e con chi. E si chieda su questo il giudizio e il voto degli italiani. In caso contrario, la richiesta di tornare alla guida dell’Italia rischia di essere poco credibile. Di più: rischia di esser considerata inaccettabile e perfino pericolosa. Con buona pace di ogni rivendicazione della regola democratica che vuole che il Paese sia governato da chi vince le elezioni…
La Stampa 30.09.12
Trasparenza nuova sfida dei partiti", di Federico Geremicca
Fa certamente sensazione, soprattutto se rapportata alla grandinata di scandali in arrivo da molte Regioni italiane, la nettezza con la quale la quasi totalità dei partiti ha rivendicato – dopo l’annunciata disponibilità di Mario Monti ad un nuovo mandato – il diritto della politica a tornare alla guida del Paese.
Si tratta, infatti, di una rivendicazione che – pur essendo del tutto legittima – fa tuttora a pugni con la condizione in cui versa il sistema politico italiano, con la confusione che regna in materia di leadership e alleanze, e la persistente vaghezza (quando non peggio) sul piano dei programmi e delle cose da fare.
Ciò nonostante, non è affatto da escludere che – dopo il voto della prossima primavera – sia appunto un governo sostenuto da una maggioranza politica a prendere in mano il destino del Paese.
Del resto, stando ai più recenti sondaggi, è quel che chiede una parte non più minoritaria dell’elettorato.
Che invoca, però – e questo è il punto – un rinnovamento profondo di uomini e modi d’agire, la riduzione dei costi e dell’invadenza della politica e il proseguimento nell’opera di risanamento economico del Paese, pena il ritrovarsi di nuovo sull’orlo del baratro sfiorato giusto un anno fa.
Fino a oggi i partiti (tra di loro ed al loro stesso interno) hanno litigato soprattutto sulla cosiddetta Agenda Monti, diventata simbolicamente quasi lo spartiacque tra chi vuole continuare su una linea di rigore e chi, al contrario, immagina sia possibile un ritorno al tempo delle vacche grasse: abolendo – per esempio a partire dall’Imu – alcune delle misure e delle riforme varate dal governo, soprattutto in materia di riduzione del debito.
La discussione – difficile e delicata allo stesso tempo – naturalmente continuerà: ma le previsioni di un lento miglioramento della situazione economica, accompagnate dal contemporaneo esplodere di scandali odiosi e grotteschi, impongono – se non un cambio di obiettivi – certamente l’urgenza di definire con chiarezza i rimedi da mettere in campo contro l’ormai insopportabile andazzo di ruberie, cialtronerie e malaffare. Per esser chiari: all’emergenza economica se ne è aggiunta un’altra che – di fronte al dilagare dello sperpero di danaro pubblico da parte delle forze politiche – si può ormai tranquillamente definire «emergenza democratica».
Il che fare per arginarla sarà uno dei terreni sui quali verranno giudicati i partiti che vogliono riprendere le redini del governo del Paese. E sarebbe dunque ora che, dopo le inadempienze e i ritardi di questi mesi, le forze politiche facessero conoscere con precisione e nel dettaglio le misure che intendono assumere per arrestare l’onda melmosa della corruzione e del malaffare politico. Quel che occorre è che i partiti o le coalizioni che si candidano alla guida del Paese redigano un vero e proprio «manifesto» della trasparenza e della lotta agli sprechi e alla delinquenza politica: con il dettaglio delle spese da tagliare, degli apparati da ridurre, degli enti da abolire o da snellire, nella loro composizione e nei loro costi.
Di fronte a feste in maschera costose e di pessimo gusto, a vacanze pagate da consulenti amici, a spese ingiustificate e a continue ruberie di danaro pubblico, la richiesta della politica di fare un passo avanti non solo non è credibile, ma rischia di diventare non condivisibile in assenza di un nettissimo segnale di cambio rotta: l’«emergenza democratica» determinata dalla decomposizione del sistema dei partiti, insomma, va arrestata prima che sia troppo tardi.
L’antipolitica ha oggi il linguaggio inaccettabile di Beppe Grillo: ma nulla può rassicurare circa il fatto che il peggio sia questo e che il fondo sia stato toccato. E’ per questo motivo – per una forma che potremmo perfino definire di legittima difesa – che occorre una reazione chiara e immediata da parte delle forze politiche. Si mettano nero su bianco, in un «manifesto della buona politica», le cose che si intendono fare: quando, come e con chi. E si chieda su questo il giudizio e il voto degli italiani. In caso contrario, la richiesta di tornare alla guida dell’Italia rischia di essere poco credibile. Di più: rischia di esser considerata inaccettabile e perfino pericolosa. Con buona pace di ogni rivendicazione della regola democratica che vuole che il Paese sia governato da chi vince le elezioni…
La Stampa 30.09.12
"Quei capannoni nel cratere dell’Emilia", di Rinaldo Gianola
«Adesso è dura. Arriva il freddo, tanta gente vive ancora nelle tende, dobbiamo trovare un’assistenza per le persone anziane. Però noi non ci arrendiamo, abbiamo le spalle larghe. Teniamo botta. Scrivilo, mi raccomando». Certo che lo scriviamo. Teniamo botta è un fior di programma, uno slogan efficace. Andrebbe bene non solo per l’Emilia Romagna colpita, offesa dal terremoto, ma anche per la nostra Italia debole, impaurita, incerta sul futuro.Potremmo prenderlo in prestito da Barbara Anconelli, dipendente della multinazionale delle vernici
Cps, una coraggiosa striscia viola nei capelli e una maglietta assai british punk, che nel salone al piano di sotto della Camera del lavoro di Mirandola racconta i giorni difficili della ricostruzione e della ripresa di una grande comunità di persone, di famiglie, di imprese e di lavoro.
Il sisma ha colpito il nostro cuore industriale, l’Emilia Romagna dei distretti produttivi, quel modello di sviluppo che tanto ha dato al Paese e che è stato ammirato e studiato in tutto il mondo, con i giapponesi che mandavano i loro migliori professori universitari per cercare di carpirne la formula miracolosa. E Romano Prodi, da prof e da politico, ci ha campato una vita a spiegarne segreti, limiti e vantaggi. La lunga fascia di terra tra le province di Modena, Reggio Emilia, Mantova, più colpita e danneggiata dal terremoto è abitata da oltre 100mila abitanti, la forza lavoro è circa la metà e viene impiegata nel polo biomedicale di Mirandola, nel tessile-moda di Carpi e dintorni, nella mec- ++canica di varia natura e specializzazione sull’intero territorio. Qui, da queste centinaia di imprese di diversa dimensione e origine, dalla multinazionale al laboratorio familiare, nasce l’1,7% del Pil italiano. Accanto troviamo le ceramiche di Sassuolo e la Ferrari di Maranello. Più su inizia la food valley. Siamo nel territorio dell’eccellenza industriale nazionale. E lavoratori, sindacati, amministrazioni sono in prima fila per salvare e rilanciare lavoro e imprese dopo il trauma.
Le scosse del 20 e poi quella tremenda del 29 maggio sono piombate su un territorio dove, a macchia di leopardo, era possibile individuare zone di grande salute economica e altre colpite dalla recessione. Il distretto biomedicale, ad esempio, è un gioiello di industria, ricerca e innovazione. Fu il farmacista Veronesi di Mirandola, geniale gentiluomo con la passione della ricerca, a gettare le basi di questo miracolo negli anni Sessanta. Andava in giro per il mondo, in America, studiava e inven- ++tava. Tornava a casa creava un’azienda, la vendeva. E poi ne fondava un’altra. Così il suo esempio e le sue conoscenze hanno fatto germogliare altre aziende, altri innovatori. Le imprese e i lavoratori, pur colpiti gravemente, tanti operai hanno perso la vita, hanno cercato di non perdere nemmeno un giorno, nemmeno una commessa.
Massimo Furgori lavora da 23 anni alla Sorin, 800 dipendenti, un nome importante, una volta era controllata la Fiat attraverso la Snia Bpd, poi siccome era un’azienda con un bel futuro, che faceva profitti e ricerca, è stata ceduta a un pool di fondi di investimento. Racconta: «Sono nel reparto dei semilavoratori. Noi siamo specializzati in prodotti ad alta tecnologia per cuore, polmone, os- sigenazione del sangue, auto- trasfusione. I nostri prodotti sono venduti per il 95% all’estero. Abbiamo patito danni importanti dal terremoto, ma l’azienda ci ha chiesto di poter mantenere comunque la produzione e di recuperare quello che avevamo perso. I sindacati e i lavoratori hanno accettato, in questo mercato se perdi una posizione sei morto. Ci sono concorrenti che aspettano solo di poter prendere il nostro posto. Così ci siamo organizzati per lavorare sul ciclo completo, tutto il giorno, tre turni da otto ore. Un gruppo di quaranta persone è stato trasferito a produrre a Nogare, vicino a Verona. Vanno e vengono con i pullman dell’azienda».
Pure alla Wam, 600 dipendenti, azienda di materiali e macchinari per l’edilizia, i lavoratori hanno concordato nuove condizioni organizzative per mantenere la produzione. Francesca Corcione spiega: «Il terremoto ci ha fatto molti danni. Sono stati danneggiati cinque capannoni su otto, ci sono stati i controlli. Due capannoni sono stati messi in sicurezza, ma probabilmente quattro o cinque dovranno essere abbattuti e ricostruiti. L’azienda ha spostato fuori, nei comuni vicini, alcuni uffici, alcune lavorazioni. Un gruppo di lavoratori ha accettato di andare a lavorare in un impianto in Romania, è andata bene ad alcuni nostri colleghi romeni, così sono tornati a casa. Abbiamo fatto un accordo sindacale per lavorare sei giorni su sette. Su 600 dipendenti c’è stato solo un voto contrario. Insomma, ci siamo detti, se dobbiamo ripartire bisogna tirarsi su le maniche».
Il tessuto produttivo in questo momento tiene, anche se dopo il terremoto alcune multinazionali hanno pensato di chiudere e andarsene, o ridimensionare la presenza industriale, e altre imprese, in settori di bassa congiuntura, hanno esteso o chiesto la cassa integrazione. Cesare Pignatti della Cgil di Mirandola spiega: «Per fortuna la Gambro, una grande impresa biomedicale con 800 dipendenti, ha detto di voler restare qui a produrre, perchè per qualche giorno c’è stata la paura di un disimpegno.
Purtroppo altre imprese soffrivano già prima del terremoto per la recessione e ora rischiano una crisi più profonda e duratura. Noi cerchiamo di garantire la ripresa e la ricostruzione e di assicurare gli ammortizzatori sociali ai lavoratori in difficoltà. Bisogna tener conto, poi, che i più deboli sono i lavoratori stranieri, le cui case sono state distrutte, e sono tutti nelle tende con le loro famiglie».
Silvano Magni lavora in un’azienda di plastiche di Cavezzo. Ecco la sua esperienza: «Il terremoto ci ha dato il colpo di grazia, noi stavamo già in difficoltà, il momento era delicato. L’azienda è controllata da due imprenditori, Valentini ex proprietario di Mercatone Uno, e Corbetta, che produce e vende bordi per mobili. La scossa del 29 maggio ha danneggiato la fabbrica, va abbattuta e ricostruita. I dipendenti hanno un’età media bassa, tra i trenta e i quarant’anni. Abbiamo fatto un accordo sindacale con l’azienda: per un anno i lavoratori sono a casa, coperti al 50-50 da contratti di solidarietà e dalla cassa integrazione straordinaria. Speriamo di poter tornare al lavoro tra dodici mesi, ma le incertezze oggi sono davvero molte».
La situazione dei paesi colpiti dal sisma è in via di cambiamento, anche se dopo il grande sforzo iniziale, dopo gli strappi per riparare quan to possibile, ora i tempi rischiano di allungarsi naturalmente. Abbattere e ricostruire una grande fabbrica, i capannoni o le scuole in condizioni di rinnovata sicurezza non sarà un gioco. Ci vogliono risorse e tempo. Nel “cratere” sono stati stimati danni per 13 miliardi di euro. Sono stati stanziati 6 miliardi e anche se non sono ancora arrivati c’è fiducia che presto si materializzeranno. La nuova urgenza, ora che si avvicina l’inverno, è quella di sistemare le persone che stanno nelle tende in strutture modulari più solide, anche se definite “provvisorie”, ricreare il sistema di assistenza per gli anziani e recuperare gli spazi comuni di socialità che sono andati persi. Lo sforzo può essere più semplice se il tessuto produttivo, l’attività economica non cedono e anzi sostengono la ripresa. Mara Calzolari della Camera del lavoro di Carpi dichiara che «bisogna essere soddisfatti della prima “fase eroica”, come la chiamiano noi, della solidarietà, dell’impegno di tutti, dei volontari, dei medici, degli insegnanti, dei giovani, tutti hanno dato una mano per superare l’emergenza. Le amministrazioni, il presidente Errani ci sono stati vicini e hanno fatto il possibile. Ma ora è forse più difficile». E aggiunge, come un avvertimento: «C’è anche un lato oscuro che non possiamo nascondere e dobbiamo combattere. Vediamo che ci sono imprese, soprattutto dove i dipendenti sono pochi e poco tutelati, che cercano di ricattare, di imporre condizioni penalizzanti e fuori legge, che chiedono esplicitamente il lavoro irregolare. In più sul territorio abbiamo registrato episodi di speculazione sulla casa, gli affitti sono andati alle stelle. Chi ha un appartamento vuoto ha la tentazione di approfittare della situazione. Qui vicino a Novi, dove il 17% della popolazione è straniera, ci sono state tensioni, si sono creati problemi di convivenza. Dobbiamo tenere sotto controllo questi fenomeni perchè il dopo terremoto sarà un periodo lungo, complesso e anche con qualche rischio».
E allora, che fare? Bisogna tener botta, non c’è altra soluzione.
L’Unità 30.09.12
"Quei capannoni nel cratere dell’Emilia", di Rinaldo Gianola
«Adesso è dura. Arriva il freddo, tanta gente vive ancora nelle tende, dobbiamo trovare un’assistenza per le persone anziane. Però noi non ci arrendiamo, abbiamo le spalle larghe. Teniamo botta. Scrivilo, mi raccomando». Certo che lo scriviamo. Teniamo botta è un fior di programma, uno slogan efficace. Andrebbe bene non solo per l’Emilia Romagna colpita, offesa dal terremoto, ma anche per la nostra Italia debole, impaurita, incerta sul futuro.Potremmo prenderlo in prestito da Barbara Anconelli, dipendente della multinazionale delle vernici
Cps, una coraggiosa striscia viola nei capelli e una maglietta assai british punk, che nel salone al piano di sotto della Camera del lavoro di Mirandola racconta i giorni difficili della ricostruzione e della ripresa di una grande comunità di persone, di famiglie, di imprese e di lavoro.
Il sisma ha colpito il nostro cuore industriale, l’Emilia Romagna dei distretti produttivi, quel modello di sviluppo che tanto ha dato al Paese e che è stato ammirato e studiato in tutto il mondo, con i giapponesi che mandavano i loro migliori professori universitari per cercare di carpirne la formula miracolosa. E Romano Prodi, da prof e da politico, ci ha campato una vita a spiegarne segreti, limiti e vantaggi. La lunga fascia di terra tra le province di Modena, Reggio Emilia, Mantova, più colpita e danneggiata dal terremoto è abitata da oltre 100mila abitanti, la forza lavoro è circa la metà e viene impiegata nel polo biomedicale di Mirandola, nel tessile-moda di Carpi e dintorni, nella mec- ++canica di varia natura e specializzazione sull’intero territorio. Qui, da queste centinaia di imprese di diversa dimensione e origine, dalla multinazionale al laboratorio familiare, nasce l’1,7% del Pil italiano. Accanto troviamo le ceramiche di Sassuolo e la Ferrari di Maranello. Più su inizia la food valley. Siamo nel territorio dell’eccellenza industriale nazionale. E lavoratori, sindacati, amministrazioni sono in prima fila per salvare e rilanciare lavoro e imprese dopo il trauma.
Le scosse del 20 e poi quella tremenda del 29 maggio sono piombate su un territorio dove, a macchia di leopardo, era possibile individuare zone di grande salute economica e altre colpite dalla recessione. Il distretto biomedicale, ad esempio, è un gioiello di industria, ricerca e innovazione. Fu il farmacista Veronesi di Mirandola, geniale gentiluomo con la passione della ricerca, a gettare le basi di questo miracolo negli anni Sessanta. Andava in giro per il mondo, in America, studiava e inven- ++tava. Tornava a casa creava un’azienda, la vendeva. E poi ne fondava un’altra. Così il suo esempio e le sue conoscenze hanno fatto germogliare altre aziende, altri innovatori. Le imprese e i lavoratori, pur colpiti gravemente, tanti operai hanno perso la vita, hanno cercato di non perdere nemmeno un giorno, nemmeno una commessa.
Massimo Furgori lavora da 23 anni alla Sorin, 800 dipendenti, un nome importante, una volta era controllata la Fiat attraverso la Snia Bpd, poi siccome era un’azienda con un bel futuro, che faceva profitti e ricerca, è stata ceduta a un pool di fondi di investimento. Racconta: «Sono nel reparto dei semilavoratori. Noi siamo specializzati in prodotti ad alta tecnologia per cuore, polmone, os- sigenazione del sangue, auto- trasfusione. I nostri prodotti sono venduti per il 95% all’estero. Abbiamo patito danni importanti dal terremoto, ma l’azienda ci ha chiesto di poter mantenere comunque la produzione e di recuperare quello che avevamo perso. I sindacati e i lavoratori hanno accettato, in questo mercato se perdi una posizione sei morto. Ci sono concorrenti che aspettano solo di poter prendere il nostro posto. Così ci siamo organizzati per lavorare sul ciclo completo, tutto il giorno, tre turni da otto ore. Un gruppo di quaranta persone è stato trasferito a produrre a Nogare, vicino a Verona. Vanno e vengono con i pullman dell’azienda».
Pure alla Wam, 600 dipendenti, azienda di materiali e macchinari per l’edilizia, i lavoratori hanno concordato nuove condizioni organizzative per mantenere la produzione. Francesca Corcione spiega: «Il terremoto ci ha fatto molti danni. Sono stati danneggiati cinque capannoni su otto, ci sono stati i controlli. Due capannoni sono stati messi in sicurezza, ma probabilmente quattro o cinque dovranno essere abbattuti e ricostruiti. L’azienda ha spostato fuori, nei comuni vicini, alcuni uffici, alcune lavorazioni. Un gruppo di lavoratori ha accettato di andare a lavorare in un impianto in Romania, è andata bene ad alcuni nostri colleghi romeni, così sono tornati a casa. Abbiamo fatto un accordo sindacale per lavorare sei giorni su sette. Su 600 dipendenti c’è stato solo un voto contrario. Insomma, ci siamo detti, se dobbiamo ripartire bisogna tirarsi su le maniche».
Il tessuto produttivo in questo momento tiene, anche se dopo il terremoto alcune multinazionali hanno pensato di chiudere e andarsene, o ridimensionare la presenza industriale, e altre imprese, in settori di bassa congiuntura, hanno esteso o chiesto la cassa integrazione. Cesare Pignatti della Cgil di Mirandola spiega: «Per fortuna la Gambro, una grande impresa biomedicale con 800 dipendenti, ha detto di voler restare qui a produrre, perchè per qualche giorno c’è stata la paura di un disimpegno.
Purtroppo altre imprese soffrivano già prima del terremoto per la recessione e ora rischiano una crisi più profonda e duratura. Noi cerchiamo di garantire la ripresa e la ricostruzione e di assicurare gli ammortizzatori sociali ai lavoratori in difficoltà. Bisogna tener conto, poi, che i più deboli sono i lavoratori stranieri, le cui case sono state distrutte, e sono tutti nelle tende con le loro famiglie».
Silvano Magni lavora in un’azienda di plastiche di Cavezzo. Ecco la sua esperienza: «Il terremoto ci ha dato il colpo di grazia, noi stavamo già in difficoltà, il momento era delicato. L’azienda è controllata da due imprenditori, Valentini ex proprietario di Mercatone Uno, e Corbetta, che produce e vende bordi per mobili. La scossa del 29 maggio ha danneggiato la fabbrica, va abbattuta e ricostruita. I dipendenti hanno un’età media bassa, tra i trenta e i quarant’anni. Abbiamo fatto un accordo sindacale con l’azienda: per un anno i lavoratori sono a casa, coperti al 50-50 da contratti di solidarietà e dalla cassa integrazione straordinaria. Speriamo di poter tornare al lavoro tra dodici mesi, ma le incertezze oggi sono davvero molte».
La situazione dei paesi colpiti dal sisma è in via di cambiamento, anche se dopo il grande sforzo iniziale, dopo gli strappi per riparare quan to possibile, ora i tempi rischiano di allungarsi naturalmente. Abbattere e ricostruire una grande fabbrica, i capannoni o le scuole in condizioni di rinnovata sicurezza non sarà un gioco. Ci vogliono risorse e tempo. Nel “cratere” sono stati stimati danni per 13 miliardi di euro. Sono stati stanziati 6 miliardi e anche se non sono ancora arrivati c’è fiducia che presto si materializzeranno. La nuova urgenza, ora che si avvicina l’inverno, è quella di sistemare le persone che stanno nelle tende in strutture modulari più solide, anche se definite “provvisorie”, ricreare il sistema di assistenza per gli anziani e recuperare gli spazi comuni di socialità che sono andati persi. Lo sforzo può essere più semplice se il tessuto produttivo, l’attività economica non cedono e anzi sostengono la ripresa. Mara Calzolari della Camera del lavoro di Carpi dichiara che «bisogna essere soddisfatti della prima “fase eroica”, come la chiamiano noi, della solidarietà, dell’impegno di tutti, dei volontari, dei medici, degli insegnanti, dei giovani, tutti hanno dato una mano per superare l’emergenza. Le amministrazioni, il presidente Errani ci sono stati vicini e hanno fatto il possibile. Ma ora è forse più difficile». E aggiunge, come un avvertimento: «C’è anche un lato oscuro che non possiamo nascondere e dobbiamo combattere. Vediamo che ci sono imprese, soprattutto dove i dipendenti sono pochi e poco tutelati, che cercano di ricattare, di imporre condizioni penalizzanti e fuori legge, che chiedono esplicitamente il lavoro irregolare. In più sul territorio abbiamo registrato episodi di speculazione sulla casa, gli affitti sono andati alle stelle. Chi ha un appartamento vuoto ha la tentazione di approfittare della situazione. Qui vicino a Novi, dove il 17% della popolazione è straniera, ci sono state tensioni, si sono creati problemi di convivenza. Dobbiamo tenere sotto controllo questi fenomeni perchè il dopo terremoto sarà un periodo lungo, complesso e anche con qualche rischio».
E allora, che fare? Bisogna tener botta, non c’è altra soluzione.
L’Unità 30.09.12
"Il Savonarola degli spot e la pubblicità infelice", di Curzio Maltese
«La pubblicità si basa sull’infelicità della gente, la crea». È una delle tante frasi celebri di Beppe Grillo di un paio d’anni fa. Quando ancora il nostro ricco predicatore invitava i seguaci a boicottare televisioni e giornali, tutti, e a rivolgersi soltanto a fonti d’informazione prive di pubblicità. Per esempio, il suo sito. Poi il blog è esploso, soprattutto grazie alla fondazione del movimenti 5 Stelle, e Grillo-Casaleggio ci hanno ripensato, accettando pubblicità di ogni genere. Compresa questa: “Compro oro”, che campeggiava in testa al sito ieri.
Ora, se la pubblicità si basa sull’infelicità delle persone, quella di “Compro oro” si fonda sulla disperazione delle famiglie.
L’Espresso e Repubblica hanno più volte denunciato i loschi interessi che stanno spesso dietro a questi negozi sorti come funghi dal principio della crisi, i rischi di speculazioni e riciclaggio mafioso, l’evasione fiscale e le truffe. Finalmente il governo Monti si è deciso a mandare la Finanza, che finora ha accertato reati e irregolarità nel 60 per cento degli esercizi.
A parte questo, la pubblicità del sito di Grillo è due volte ingannevole. Intanto per come è messa. L’annuncio figura in una sezione che non è dichiaratamente uno spazio pubblicitario. In alto, ben visibile accanto ai comunicati politici del capo, confusa con altri interventi e informazioni di vario genere. Di sicuro gliel’avranno pagata bene.
Ma soprattutto il sito di Beppe Grillo non è un blog qualsiasi. È il luogo di dibattito unico del secondo o terzo partito d’Italia. Un luogo esclusivo, gelosamente tutelato dal marchio depositato dal proprietario, il quale espelle dal movimento chiunque, come Tavolazzi, abbia osato proporre altri luoghi di discussione. Grillo non solo è dunque padrone del suo partito, ma tratta gli elettori come clienti, audience da vendere agli inserzionisti. Se non è conflitto d’interesse questo, che cosa lo è? Immaginate lo scandalo, la furia e lo scherno dei grillini se sul sito del Pd o durante un comizio di Vendola o Casini o perfino Berlusconi comparissero annunci “Compro oro”.
Non si ha la pretesa di suscitare un dibattito fra i fans di Grillo, che in questi anni hanno dimostrato di seguire dal capo qualsiasi giravolta, e sono un’infinità. Come del resto in passato i fans di altri leader padroni. Rimane il fatto che il Savonarola degli spot, quello che invocava “una Norimberga per i pubblicitari” e denuncia ancora l’assenza di libertà nella stampa “perché non si può fare un’inchiesta su un inserzionista”, oggi prende i soldi da “Compro oro” ed evita di parlare di un fenomeno inquietante. Lui che ha pronta un’invettiva di maniera per tutto e tutti.
Se vi sono categorie già ben rappresentate fra i capi politici sono quelle dei trasformisti e dei portatori di conflitto d’interessi. Beppe Grillo allunga la lista degli uni e degli altri. Si vede che per gli italiani questi non sono difetti gravi in politica. Morto un leader padrone, trasformista con conflitto d’interessi, se ne vota subito un altro, giustificandone ogni contraddizione perché “tanto gli altri sono peggiori”. E allora poi di che cosa ci lamentiamo?
La Repubblica 30.09.12
