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"Insegnanti di sostegno", di Federica Cavadini

Pochi professori e nomine in ritardo. I genitori protestano contro i tagli
MILANO — Le storie sono nei racconti di giornata dei presidi. L’ultima arriva da Milano, scuola elementare Fabio Filzi. «Oggi vengono i tecnici mandati dal Comune per mettere l’impianto di climatizzazione in una classe — racconta il capo d’istituto —. Abbiamo un bambino con una malattia rara, deve stare a una temperatura massima di 24 gradi». La premessa implicita è che la scuola deve saper accogliere tutti. È il modello italiano dell’inclusione degli studenti disabili, introdotta con una legge del ’77. Né classi né istituti speciali, invece scuole aperte pronte all’accoglienza. Per garantirlo servono maestri e professori dedicati, oltre all’aiuto degli educatori. E oggi nelle nostre scuole statali ne abbiamo arruolati quasi centomila.
C’è un insegnante di sostegno ogni due studenti disabili. Ma è una media. Esiste un problema di numeri e di risorse e le associazioni chiedono anche insegnanti più specializzati, preparati sulle diverse patologie.
Questo è il mese degli appelli perché arrivano le segnalazioni dalle famiglie, rischiano di dover tenere a casa i figli, alcune ore o giornate o settimane, perché «a scuola non c’è l’insegnante di sostegno» o «manca l’educatore» o entrambi, perché le nomine sono in ritardo, o insufficienti, e perché gli enti locali non riescono a pagare l’assistenza.
I presidi gestiscono le risorse che arrivano, fanno salti mortali, ma il risultato non è sempre quello sperato. Il sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria ci tiene a sottolineare che «il nostro modello è all’avanguardia, copiato anche dalla città di New York e siamo nei Paesi top five per la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia di New York: siamo a quasi centomila insegnanti di sostegno per duecentomila alunni disabili e il sistema comunque tiene, anche con le certificazioni (di handicap) che nell’ultimo decennio aumentano del 4% all’anno. Certo poi c’è la momentanea difficoltà dei conti publici, anche per gli enti locali». E ci sono le classi sempre più numerose, con lo stesso numero di insegnanti.
Alcune regioni sono in affanno e da tempo. «In Lombardia c’è un sottodimensionamento storico. L’anno scorso mancavano all’appello 3.600 insegnanti di sostegno — dice Giovanni Merlo, presidente della Ledha, associazione lombarda per i diritti dei disabili —. E a questo si somma il taglio sugli educatori. C’è una diatriba sulle competenze che dura da tempo, molti comuni non intendono più fornire il servizio che, per le scuole superiori, toccherebbe alle province. Succede nell’hinterland di Milano, nel Bresciano e nella Bergamasca dove decine di famiglie sono pronte al ricorso. E succede da anni. I ricorsi poi li genitori li vincono, ma intanto i loro ragazzi sono rimasti a casa, o hanno dovuto pagarsela di tasca propria l’assistenza».
Il ministero dell’Istruzione ha comunicato i posti di sostegno per quest’anno. «Si prevede un aumento di oltre quattromila alunni disabili e di almeno duemila posti di sostegno. Da aggiungere ai numeri dello scorso anno: per 197 mila studenti, 97 mila insegnanti». «L’inclusione è un investimento di civiltà da quattro miliardi di euro l’anno», spiega Rossi Doria. Per avere un’idea delle tante buone pratiche leggere le storie premiate sul sito lechiavidiscuola.it, ci sono le esperienze di scuola dell’infanzia, elementari, medie, superiori. Da Cuneo a Savona, da Brescia a Modena.
Ma resta aperto il dibattito sulla figura dell’insegnante di sostegno. «Molti non hanno le competenze necessarie, almeno uno su due. Tanti hanno frequentato solo brevi corsi, e hanno scelto il sostegno come scorciatoia per ottenere una cattedra», sostiene Piero Barbieri, presidente di Fish, che riunisce le associazioni per il superamento dell’handicap.
«Dovrebbe esserci una classe di concorso sul sostegno e per accedervi un corso universitario di due anni». Ma i pareri sono discordi. «Il rischio è formare docenti medicalizzati, specialisti sulle singole patologie», dice Giuseppe Argiolas per il coordinamento insegnanti di sostegno. L’obiettivo finale e comune è una formazione adeguata anche degli insegnanti curriculari, «perché la presa in carico dei disabili è collettiva». «Quelli di sostegno dovrebbero essere soltanto un supporto temporaneo al consiglio di classe e dovrebbero occuparsi dei casi più gravi. Invece diventano l’unico figura di riferimento ma è un errore». Quest’anno è stato introdotto un primo corso breve per 350 mila insegnanti curriculari. «E un inizio — secondo Barbieri — un primo passo nella direzione giusta».
da www.corriere.it

"La politica va cambiata ma è necessaria", di Michele Prospero

Dopo Monti? Non può esserci un altro governo Monti. Anche perché una riedizione dell’esecutivo a guida tecnica avrebbe come principale significato quello di aver fallito il mandato esplicito ricevuto nel novembre scorso. Le consegne che il Capo dello Stato diede allora erano assai trasparenti. Affrontare una emergenza drammatica, con l’autonomia e la sovranità del Paese appese a un filo che diventava sempre più esile, e preparare così la lenta ripresa di una normale dialettica politica.
Soltanto questa delicata e anche terribile missione ha autorizzato l’invenzione di una formula di governo che certo non ha eguali in altre democrazie. In esse continua ad operare il gioco dell’alternanza, anche se però appare svuotato di significato nelle piazze della rivolta con moltitudini disperate dinanzi alla morsa dei sacrifici ad oltranza imposti dai duri vincoli europei. La parentesi tecnica nasceva proprio dalla preoccupazione del Capo dello Stato di risparmiare ad una democrazia fragile, che aveva appena assistito al fallimento storico del ceto di governo berlusconiano, il costo di una alternanza che era sì possibile ma il cui nettare era da assaporarsi solo in prossimità del cupo baratro.
Proprio perché la soluzione tecnica aveva lo scopo di conservare degli equilibri costituzionali destinati ad infrangersi, il Pd, che avrebbe potuto intascare un sicuro successo alle urne, decise di rimandare i preparativi dell’imminente ricambio a Palazzo Chigi. Rinunciò ad un traguardo ormai sicuro per sostenere un esecutivo anomalo le cui sorti erano da condividere con una destra inaffidabile, sleale, priva di ogni senso dello Stato. La strana maggioranza ha significato proprio questo per il Pd: accettare i costi molto elevati, ai limiti del linciaggio mediatico operato da un certo populismo vagamente di sinistra che ha colpito a raffica continua il Quirinale e la leadership di Bersani visti come gli architetti di una democrazia sospesa.
Pur di preservare una esperienza di governo ineludibile per restituire credibilità al Paese, e però minata dalla quotidiana provocazione orchestrata da una imbarazzante destra post-berlusconiana, il Pd ha accettato il rischio di essere coinvolto in una montante campagna antipolitica. Ad alimentarla sono stati proprio i media della grande borghesia italiana (sulla cui lealtà costituzionale e sul cui senso dello Stato è meglio stendere un pietoso velo di silenzio) che propone di mantenere al governo i tecnici in eterno e per questo gioca a distruggere (magari inquinando anche il voto delle primarie) il più grande partito italiano.
Proprio perché l’esecutivo Monti, che il Pd ha sostenuto sfidando il rischio di una emorragia di consenso, ha svolto in maniera positiva la funzione originaria, la sua riedizione nella prossima legislatura non sarebbe più l’espressione di una originale invenzione istituzionale che si accende solo nei tempi di eccezione. Avrebbe piuttosto le sembianze di una autentica sciagura che attesta una irrisolta crisi della democrazia. Infatti, il nodo della questione è semplice.
O il governo Monti ha mantenuto le promesse, e quindi ha sciolto gli enigmi dell’emergenza per poter così finalmente restituire lo scettro ai cittadini, oppure i tecnici hanno fatto fiasco e quindi anche dopo il voto toccherà di nuovo sospendere la democrazia dell’alternanza. Però qui non si sfugge ad una domanda inquietante: se il governo ha fallito nel preparare le condizioni per un ritorno della politica perché mai dovrebbe tornare in sella?
Il governo tecnico avrebbe dovuto eliminare l’emergenza, non perpetuarla come normale. Chi sta costruendo la tenaglia del Monti bis per scongiurare la pretesa minaccia «neosocialdemocratica» ormai alle porte, pecca perciò di irresponsabilità politica, altro che lungimiranza e senso del dovere.
Sinora l’Italia ha gestito le più amare politiche di risanamento senza attraversare le dolorose rivolte di piazza che agitano la Spagna e laGrecia. La compostezza del sindacato e del Pd hanno tenuto sotto vigilanza una polveriera che però è pronta ad esplodere. Il governo tecnico, per la sua struttura, non è attrezzato per risolvere le grandi tensioni sociali e neppure ha i tratti utili per raffreddare i fenomeni che spingono verso una evidente disgregazione politica. Chiunque abbia a cuore le sorti della democrazia non potrà trascurare di cogliere le insidie minacciose di un prolungamento indefinito della esperienza tecnica. Nessuna democrazia accetta di essere imbalsamata per sette anni senza costruire un deserto di valori nel quale ogni eccentricità è pronta ad attecchire. Certo, l’eterno ritorno in scena del Cavaliere, che come Grillo urla contro l’euro, Equitalia, la Gernania, ha i tratti della tragedia. Alla mancanza di una destra normale bisognerà però abituarsi: illusorio è ogni calcolo di sostituirla con altri imprenditori meno avvezzi nel becero lessico del populismo o dai fantasmi di una nuova unità politica dei cattolici. La persistente vocazione populista della destra (che non può essere rimpiazzata con i tecnici o con nuove candidature all’insegna del liberismo preso sul serio) non può essere tuttavia una ragione sufficiente per far saltare tutto il congegno della democrazia liberale.
Con le primarie il Pd deve restituire dignità alla politica avendo la consapevolezza di essere l’unico soggetto rimasto in piedi dopo la deriva. La prova dei gazebo non deve però cedere alle scorciatoie della comunicazione deviante che va alla ricerca di scontati effetti speciali, o indugiare nell’inseguimento delle facili corde del semplicismo antipolitico, cui proprio molti paladini del Monti bis paradossalmente sono assai sensibili. Le primarie devono essere la prova tangibile che un’altra politica è possibile.
Per questa apertura di dialogo della sinistra con una vasta società civile, ogni candidato deve assumere il rigore della proposta e la serietà degli impegni di governo come base irrinunciabile della contesa.
Proprio le primarie devono mostrare che un governo politico della crisi non è solo augurabile, ma è anche la ricetta migliore per vincere la sfida di un risanamento che altrimenti fa cilecca se non è coniugato con l’equità sociale. La sinistra, con un confronto politico elevato nei contenuti ideali e programmatici, può lanciare al Paese un messaggio forte: la politica non è una opzione, è una necessità.

da L’Unità

"La politica va cambiata ma è necessaria", di Michele Prospero

Dopo Monti? Non può esserci un altro governo Monti. Anche perché una riedizione dell’esecutivo a guida tecnica avrebbe come principale significato quello di aver fallito il mandato esplicito ricevuto nel novembre scorso. Le consegne che il Capo dello Stato diede allora erano assai trasparenti. Affrontare una emergenza drammatica, con l’autonomia e la sovranità del Paese appese a un filo che diventava sempre più esile, e preparare così la lenta ripresa di una normale dialettica politica.
Soltanto questa delicata e anche terribile missione ha autorizzato l’invenzione di una formula di governo che certo non ha eguali in altre democrazie. In esse continua ad operare il gioco dell’alternanza, anche se però appare svuotato di significato nelle piazze della rivolta con moltitudini disperate dinanzi alla morsa dei sacrifici ad oltranza imposti dai duri vincoli europei. La parentesi tecnica nasceva proprio dalla preoccupazione del Capo dello Stato di risparmiare ad una democrazia fragile, che aveva appena assistito al fallimento storico del ceto di governo berlusconiano, il costo di una alternanza che era sì possibile ma il cui nettare era da assaporarsi solo in prossimità del cupo baratro.
Proprio perché la soluzione tecnica aveva lo scopo di conservare degli equilibri costituzionali destinati ad infrangersi, il Pd, che avrebbe potuto intascare un sicuro successo alle urne, decise di rimandare i preparativi dell’imminente ricambio a Palazzo Chigi. Rinunciò ad un traguardo ormai sicuro per sostenere un esecutivo anomalo le cui sorti erano da condividere con una destra inaffidabile, sleale, priva di ogni senso dello Stato. La strana maggioranza ha significato proprio questo per il Pd: accettare i costi molto elevati, ai limiti del linciaggio mediatico operato da un certo populismo vagamente di sinistra che ha colpito a raffica continua il Quirinale e la leadership di Bersani visti come gli architetti di una democrazia sospesa.
Pur di preservare una esperienza di governo ineludibile per restituire credibilità al Paese, e però minata dalla quotidiana provocazione orchestrata da una imbarazzante destra post-berlusconiana, il Pd ha accettato il rischio di essere coinvolto in una montante campagna antipolitica. Ad alimentarla sono stati proprio i media della grande borghesia italiana (sulla cui lealtà costituzionale e sul cui senso dello Stato è meglio stendere un pietoso velo di silenzio) che propone di mantenere al governo i tecnici in eterno e per questo gioca a distruggere (magari inquinando anche il voto delle primarie) il più grande partito italiano.
Proprio perché l’esecutivo Monti, che il Pd ha sostenuto sfidando il rischio di una emorragia di consenso, ha svolto in maniera positiva la funzione originaria, la sua riedizione nella prossima legislatura non sarebbe più l’espressione di una originale invenzione istituzionale che si accende solo nei tempi di eccezione. Avrebbe piuttosto le sembianze di una autentica sciagura che attesta una irrisolta crisi della democrazia. Infatti, il nodo della questione è semplice.
O il governo Monti ha mantenuto le promesse, e quindi ha sciolto gli enigmi dell’emergenza per poter così finalmente restituire lo scettro ai cittadini, oppure i tecnici hanno fatto fiasco e quindi anche dopo il voto toccherà di nuovo sospendere la democrazia dell’alternanza. Però qui non si sfugge ad una domanda inquietante: se il governo ha fallito nel preparare le condizioni per un ritorno della politica perché mai dovrebbe tornare in sella?
Il governo tecnico avrebbe dovuto eliminare l’emergenza, non perpetuarla come normale. Chi sta costruendo la tenaglia del Monti bis per scongiurare la pretesa minaccia «neosocialdemocratica» ormai alle porte, pecca perciò di irresponsabilità politica, altro che lungimiranza e senso del dovere.
Sinora l’Italia ha gestito le più amare politiche di risanamento senza attraversare le dolorose rivolte di piazza che agitano la Spagna e laGrecia. La compostezza del sindacato e del Pd hanno tenuto sotto vigilanza una polveriera che però è pronta ad esplodere. Il governo tecnico, per la sua struttura, non è attrezzato per risolvere le grandi tensioni sociali e neppure ha i tratti utili per raffreddare i fenomeni che spingono verso una evidente disgregazione politica. Chiunque abbia a cuore le sorti della democrazia non potrà trascurare di cogliere le insidie minacciose di un prolungamento indefinito della esperienza tecnica. Nessuna democrazia accetta di essere imbalsamata per sette anni senza costruire un deserto di valori nel quale ogni eccentricità è pronta ad attecchire. Certo, l’eterno ritorno in scena del Cavaliere, che come Grillo urla contro l’euro, Equitalia, la Gernania, ha i tratti della tragedia. Alla mancanza di una destra normale bisognerà però abituarsi: illusorio è ogni calcolo di sostituirla con altri imprenditori meno avvezzi nel becero lessico del populismo o dai fantasmi di una nuova unità politica dei cattolici. La persistente vocazione populista della destra (che non può essere rimpiazzata con i tecnici o con nuove candidature all’insegna del liberismo preso sul serio) non può essere tuttavia una ragione sufficiente per far saltare tutto il congegno della democrazia liberale.
Con le primarie il Pd deve restituire dignità alla politica avendo la consapevolezza di essere l’unico soggetto rimasto in piedi dopo la deriva. La prova dei gazebo non deve però cedere alle scorciatoie della comunicazione deviante che va alla ricerca di scontati effetti speciali, o indugiare nell’inseguimento delle facili corde del semplicismo antipolitico, cui proprio molti paladini del Monti bis paradossalmente sono assai sensibili. Le primarie devono essere la prova tangibile che un’altra politica è possibile.
Per questa apertura di dialogo della sinistra con una vasta società civile, ogni candidato deve assumere il rigore della proposta e la serietà degli impegni di governo come base irrinunciabile della contesa.
Proprio le primarie devono mostrare che un governo politico della crisi non è solo augurabile, ma è anche la ricetta migliore per vincere la sfida di un risanamento che altrimenti fa cilecca se non è coniugato con l’equità sociale. La sinistra, con un confronto politico elevato nei contenuti ideali e programmatici, può lanciare al Paese un messaggio forte: la politica non è una opzione, è una necessità.
da L’Unità

"Il risveglio degli onesti", di Carlo Galli

PUÒ apparire strano che il Ministro dell’Economia reputi necessario sancire ora una prassi di attenzione e di vigilanza che avrebbe dovuto essere ovvia da sempre, affermando che se ci sono notizie penalmente rilevanti «su amministratori o altri componenti importanti delle società di cui il Tesoro è azionista, deve essere fatta la massima chiarezza in modo trasparente sui fatti e sulle implicazioni sul funzionamento delle società».
Lo stesso potrebbe valere per le decisioni prese dalla Conferenza delle Regioni e presentate al governo; riduzioni del numero dei consiglieri regionali, delle spese dei gruppi consigliari, pubblicità dei bilanci, aumenti dei controlli della Corte dei conti. Tutte iniziative che ora, nel convulso susseguirsi degli scandali, possono sembrare dettate più dal panico che non invece – come sicuramente sono – da ottime intenzioni. Il che dimostra che le riforme non solo devono andare nella direzione corretta, ma devono anche essere tempestive. La politica ha molto a che fare con il senso dell’opportunità, del momento giusto, dei segni colti per tempo.
Segni che invece le élites non hanno ben messo a fuoco, se non in ritardo: alcuni politici sono presi con le mani nel sacco, smascherati nelle loro pratiche di sperpero del pubblico denaro divenute ormai costume diffuso, e introiettate come normalità, come privilegi di una casta irresponsabile; altri mettono il turbo ad iniziative lodevoli ma che fino a ieri procedevano con tranquillità; mentre la magistratura prende a indagare in tutta fretta, dando rapido inizio a controlli certamente benvenuti e da tempo attesi, o accelera con energia inchieste aperte da tempo.
La verità è che l’Italia, oggi, si sta forse svegliando, e che il risveglio ha colto molti di sorpresa. La dura crisi economica nella quale il Paese si dibatte, i severi tagli alla spesa pubblica – che hanno colpito la società, le famiglie, i ceti più deboli – stanno rendendo i cittadini più attenti alle spese del sistema politico, meno rassegnati a sopportare come un destino, come una inevitabile maledizione, l’essere governati da ceti politici spesso inadeguati. L’Italia costretta a guardarsi nello specchio della recessione, obbligata a una dura dieta dimagrante, a una nuova austerità, non si limita più a sogghignare della politica: chiede i rendiconti, reclama giustizia, esige rigore anche e proprio dai politici che glielo impongono. I quali, appunto, reagiscono come se fossero presi in contropiede, anche quando non sono sorpresi in flagrante. E mancano di lucidità. Basta vedere la reazione assolutamente controproducente della destra, ferma alla posizione che fu già di Craxi, e che lo rovinò – “siamo tutti ugualmente colpevoli” –, e che enumera gli inquisiti di sinistra come se questa fosse una risposta adeguata a chi l’accusa del malaffare del Lazio o della Lombardia; una destra goffamente collocata di traverso rispetto al disegno di legge anticorruzione, necessario sotto il profilo economico e ancora più sotto il profilo etico, che pure è bloccata dalla resistenza di un partito che pare non curarsi di essere finito nell’angolo, a combattere la battaglia sbagliata nel tempo sbagliato. La battaglia contro le tasse, contro l’euro, contro la magistratura, che negli anni passati tante volte fu vinta da Berlusconi; e che invece oggi sta prendendo un’altra piega.
Ciò che sta facendo pendere i piatti della bilancia nella direzione opposta è appunto il ddl anticorruzione, divenuto il punto di coagulo di un nuovo protagonismo dei cittadini, i quali con le loro firme – ormai più di centomila – chiedono che sia approvato al più presto. E si sottraggono così tanto all’inerzia e alla rassegnazione davanti al malcostume politico, quanto alla deriva qualunqui-stica, alla protesta generalizzata, alle tentazioni anti-sistema, consegnando al governo – all’istanza centrale, uscita dalla pesante cappa di compromissione del recente passato – anche questo nuovo compito: riportare alla decenza e alla legge i territori degradati, le autonomie dissipate, le regioni che aprono voragini nei loro conti e nello spirito pubblico degli italiani (non sarà facile, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione; e molto difficile per le regioni a statuto speciale).
Un compito da svolgere con risolutezza, con pochi proclami e con molte iniziative concrete. Un compito, tuttavia che non deve essere interpretato come la lotta del governo e dei cittadini contro i partiti e contro le regioni – sarebbe troppo facile, e anche ingiusto: non tutte le regioni sono uguali, non tutte possono esibire le stesse realizzazioni, non tutte sono segnate dal malaffare – ma come un cammino che un intero Paese e un intero sistema politico, per fuggire il rischio di una crisi sistemica, devono intraprendere verso nuovi costumi pubblici, verso un nuovo incivilimento. Che potrà consistere solo nel risincronizzare i tempi del Paese e i tempi della politica, nel nuovo incontro fra il bisogno di serietà degli italiani con una politica liberata da personaggi inqualificabili e pratiche scandalose, e riportata alla sua dimensione di potere trasparente e di severa responsabilità.

da La Repubblica

"Il risveglio degli onesti", di Carlo Galli

PUÒ apparire strano che il Ministro dell’Economia reputi necessario sancire ora una prassi di attenzione e di vigilanza che avrebbe dovuto essere ovvia da sempre, affermando che se ci sono notizie penalmente rilevanti «su amministratori o altri componenti importanti delle società di cui il Tesoro è azionista, deve essere fatta la massima chiarezza in modo trasparente sui fatti e sulle implicazioni sul funzionamento delle società».
Lo stesso potrebbe valere per le decisioni prese dalla Conferenza delle Regioni e presentate al governo; riduzioni del numero dei consiglieri regionali, delle spese dei gruppi consigliari, pubblicità dei bilanci, aumenti dei controlli della Corte dei conti. Tutte iniziative che ora, nel convulso susseguirsi degli scandali, possono sembrare dettate più dal panico che non invece – come sicuramente sono – da ottime intenzioni. Il che dimostra che le riforme non solo devono andare nella direzione corretta, ma devono anche essere tempestive. La politica ha molto a che fare con il senso dell’opportunità, del momento giusto, dei segni colti per tempo.
Segni che invece le élites non hanno ben messo a fuoco, se non in ritardo: alcuni politici sono presi con le mani nel sacco, smascherati nelle loro pratiche di sperpero del pubblico denaro divenute ormai costume diffuso, e introiettate come normalità, come privilegi di una casta irresponsabile; altri mettono il turbo ad iniziative lodevoli ma che fino a ieri procedevano con tranquillità; mentre la magistratura prende a indagare in tutta fretta, dando rapido inizio a controlli certamente benvenuti e da tempo attesi, o accelera con energia inchieste aperte da tempo.
La verità è che l’Italia, oggi, si sta forse svegliando, e che il risveglio ha colto molti di sorpresa. La dura crisi economica nella quale il Paese si dibatte, i severi tagli alla spesa pubblica – che hanno colpito la società, le famiglie, i ceti più deboli – stanno rendendo i cittadini più attenti alle spese del sistema politico, meno rassegnati a sopportare come un destino, come una inevitabile maledizione, l’essere governati da ceti politici spesso inadeguati. L’Italia costretta a guardarsi nello specchio della recessione, obbligata a una dura dieta dimagrante, a una nuova austerità, non si limita più a sogghignare della politica: chiede i rendiconti, reclama giustizia, esige rigore anche e proprio dai politici che glielo impongono. I quali, appunto, reagiscono come se fossero presi in contropiede, anche quando non sono sorpresi in flagrante. E mancano di lucidità. Basta vedere la reazione assolutamente controproducente della destra, ferma alla posizione che fu già di Craxi, e che lo rovinò – “siamo tutti ugualmente colpevoli” –, e che enumera gli inquisiti di sinistra come se questa fosse una risposta adeguata a chi l’accusa del malaffare del Lazio o della Lombardia; una destra goffamente collocata di traverso rispetto al disegno di legge anticorruzione, necessario sotto il profilo economico e ancora più sotto il profilo etico, che pure è bloccata dalla resistenza di un partito che pare non curarsi di essere finito nell’angolo, a combattere la battaglia sbagliata nel tempo sbagliato. La battaglia contro le tasse, contro l’euro, contro la magistratura, che negli anni passati tante volte fu vinta da Berlusconi; e che invece oggi sta prendendo un’altra piega.
Ciò che sta facendo pendere i piatti della bilancia nella direzione opposta è appunto il ddl anticorruzione, divenuto il punto di coagulo di un nuovo protagonismo dei cittadini, i quali con le loro firme – ormai più di centomila – chiedono che sia approvato al più presto. E si sottraggono così tanto all’inerzia e alla rassegnazione davanti al malcostume politico, quanto alla deriva qualunqui-stica, alla protesta generalizzata, alle tentazioni anti-sistema, consegnando al governo – all’istanza centrale, uscita dalla pesante cappa di compromissione del recente passato – anche questo nuovo compito: riportare alla decenza e alla legge i territori degradati, le autonomie dissipate, le regioni che aprono voragini nei loro conti e nello spirito pubblico degli italiani (non sarà facile, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione; e molto difficile per le regioni a statuto speciale).
Un compito da svolgere con risolutezza, con pochi proclami e con molte iniziative concrete. Un compito, tuttavia che non deve essere interpretato come la lotta del governo e dei cittadini contro i partiti e contro le regioni – sarebbe troppo facile, e anche ingiusto: non tutte le regioni sono uguali, non tutte possono esibire le stesse realizzazioni, non tutte sono segnate dal malaffare – ma come un cammino che un intero Paese e un intero sistema politico, per fuggire il rischio di una crisi sistemica, devono intraprendere verso nuovi costumi pubblici, verso un nuovo incivilimento. Che potrà consistere solo nel risincronizzare i tempi del Paese e i tempi della politica, nel nuovo incontro fra il bisogno di serietà degli italiani con una politica liberata da personaggi inqualificabili e pratiche scandalose, e riportata alla sua dimensione di potere trasparente e di severa responsabilità.
da La Repubblica

"Da Nord a Sud, le inchieste dei magistrati sulle spese gonfiate dei gruppi regionali", da L'Unità

Sarà anche vero, come ha affermato soltanto pochi giorni fa il governatore della Lombardia Formigoni in tv, che «i presidenti di Regione hanno talmente tante competenze che è quasi impossibile non inciampare in una inchiesta della magistratura», ma certo quanto sta succedendo in Italia negli ultimi mesi fa tremare i polsi. Rimborsi spese gonfiati, fatture false e indennità ricchissime ma non solo, perché sono decine le inchieste giudiziarie che stanno travolgendo le amministrazioni regionali da Nord a Sud. Il Piemonte di Cota e l’Emilia Romagna, infatti, sono soltanto gli ultimi due tasselli di un domino che, oltre allo scandalo laziale che spinto alle dimissioni Renata Polverini, stanno scuotendo i palazzi in Lombardia e Campania. Dal canto suo Formigoni è inamovibile e, piuttosto che rispondere alle accuse della stampa sulle sue vacanze di lusso pagate (ma rimborsate, dice lui) dal faccendiere ciellino Pierangelo Daccò arrestato nell’inchiesta sulla clinica Maugeri, attacca querelando e paventando complotti di gruppi industriali. La realtà, però, è che il nome del governatore è stato iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di corruzione con l’aggravante della transnazionalità. Secondo la tesi dei pm, infatti, Formigoni sarebbe stato corrotto con utilità per un valore di circa 7,8 milioni di euro in relazione a 15 delibere regionali con cui sono stati stanziati per la Fondazione Maugeri rimborsi di circa 200 milioni in dieci anni. Uno scandalo che segue da vicino quello che ha coinvolto l’ex presidente del consiglio regionale, il democratico Filippo Penati, indagato per concussione, corruzione e finanziamento illecito ai partiti nell’inchiesta su un presunto giro di tangenti relative alle aree ex Falck e Marelli di Sesto San Giovanni.
Non va meglio in Campania dove una settimana fa la Finanza si è presentata negli uffici del consiglio regionale su mandato della procura che indaga per peculato. Il sospetto, infatti, è che almeno sei milioni di euro siano “drenati” dal bilanci dei gruppi ai conti corrente di alcuni consiglieri. Soldi destinati all’attività politica ma usati per scopi personalissimi, un po’ la fotocopia di quanto scoperto nel Lazio.
Hanno problemi diversi, ma certo l’effetto è simile, anche il Molise, la Calabria, e la Puglia. In Molise il governatore “berlusconissimo” Michele Iorio è sempre Commissario straordinario alla Sanità, incarico mantenuto nonostante l’accusa di abuso di ufficio in relazione all’allargamento della zona colpita dal sisma del 2002 a tutti gli 83 Comuni della Provincia di Campobasso. Atto, questo, commesso quando rivestiva la carica di Commissario straordinario per il sisma. Di inchieste a suo carico, invece, ne ha addirittura due il presidente calabrese Giuseppe Scopelliti, indagato per abuso d’ufficio per la nomina di un dirigente e per tentato abuso d’ufficio in qualità di commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro della sanità.
Ma l’ex sindaco di Reggio Calabria, che invece è già stato rinviato a giudizio per il “caso Fallara” (abuso d’ufficio e falso in atto pubblico) sul buco delle casse comunali e condannato in primo grado a sei mesi per la mancata bonifica della discarica di Longhi Bovetto, nel frattempo ha dovuto anche assistere all’arresto di ben tre consiglieri regionali di maggioranza (Antonio Rappoccio, Santi Zappalà e Franco Morelli, gli ultimi due del Pdl). A processo, del resto, c’andrà presto anche il governatore pugliese Nichi Vendola che ha chiesto il rito abbreviato per la vicenda delle presunte pressioni per nomina di un primario (l’accusa è di abuso d’ufficio) e che, nel frattempo, è ancora indagato nella vicenda dell’ospedaleMiulli. Gli scandali della sanità, del resto, hanno già travolto Alberto tedesco e Tommaso Fiore, entrambi ex assessori regionali alla sanità, dimissionari e indagati dalla procura di Bari.

"Da Nord a Sud, le inchieste dei magistrati sulle spese gonfiate dei gruppi regionali", da L'Unità

Sarà anche vero, come ha affermato soltanto pochi giorni fa il governatore della Lombardia Formigoni in tv, che «i presidenti di Regione hanno talmente tante competenze che è quasi impossibile non inciampare in una inchiesta della magistratura», ma certo quanto sta succedendo in Italia negli ultimi mesi fa tremare i polsi. Rimborsi spese gonfiati, fatture false e indennità ricchissime ma non solo, perché sono decine le inchieste giudiziarie che stanno travolgendo le amministrazioni regionali da Nord a Sud. Il Piemonte di Cota e l’Emilia Romagna, infatti, sono soltanto gli ultimi due tasselli di un domino che, oltre allo scandalo laziale che spinto alle dimissioni Renata Polverini, stanno scuotendo i palazzi in Lombardia e Campania. Dal canto suo Formigoni è inamovibile e, piuttosto che rispondere alle accuse della stampa sulle sue vacanze di lusso pagate (ma rimborsate, dice lui) dal faccendiere ciellino Pierangelo Daccò arrestato nell’inchiesta sulla clinica Maugeri, attacca querelando e paventando complotti di gruppi industriali. La realtà, però, è che il nome del governatore è stato iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di corruzione con l’aggravante della transnazionalità. Secondo la tesi dei pm, infatti, Formigoni sarebbe stato corrotto con utilità per un valore di circa 7,8 milioni di euro in relazione a 15 delibere regionali con cui sono stati stanziati per la Fondazione Maugeri rimborsi di circa 200 milioni in dieci anni. Uno scandalo che segue da vicino quello che ha coinvolto l’ex presidente del consiglio regionale, il democratico Filippo Penati, indagato per concussione, corruzione e finanziamento illecito ai partiti nell’inchiesta su un presunto giro di tangenti relative alle aree ex Falck e Marelli di Sesto San Giovanni.
Non va meglio in Campania dove una settimana fa la Finanza si è presentata negli uffici del consiglio regionale su mandato della procura che indaga per peculato. Il sospetto, infatti, è che almeno sei milioni di euro siano “drenati” dal bilanci dei gruppi ai conti corrente di alcuni consiglieri. Soldi destinati all’attività politica ma usati per scopi personalissimi, un po’ la fotocopia di quanto scoperto nel Lazio.
Hanno problemi diversi, ma certo l’effetto è simile, anche il Molise, la Calabria, e la Puglia. In Molise il governatore “berlusconissimo” Michele Iorio è sempre Commissario straordinario alla Sanità, incarico mantenuto nonostante l’accusa di abuso di ufficio in relazione all’allargamento della zona colpita dal sisma del 2002 a tutti gli 83 Comuni della Provincia di Campobasso. Atto, questo, commesso quando rivestiva la carica di Commissario straordinario per il sisma. Di inchieste a suo carico, invece, ne ha addirittura due il presidente calabrese Giuseppe Scopelliti, indagato per abuso d’ufficio per la nomina di un dirigente e per tentato abuso d’ufficio in qualità di commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro della sanità.
Ma l’ex sindaco di Reggio Calabria, che invece è già stato rinviato a giudizio per il “caso Fallara” (abuso d’ufficio e falso in atto pubblico) sul buco delle casse comunali e condannato in primo grado a sei mesi per la mancata bonifica della discarica di Longhi Bovetto, nel frattempo ha dovuto anche assistere all’arresto di ben tre consiglieri regionali di maggioranza (Antonio Rappoccio, Santi Zappalà e Franco Morelli, gli ultimi due del Pdl). A processo, del resto, c’andrà presto anche il governatore pugliese Nichi Vendola che ha chiesto il rito abbreviato per la vicenda delle presunte pressioni per nomina di un primario (l’accusa è di abuso d’ufficio) e che, nel frattempo, è ancora indagato nella vicenda dell’ospedaleMiulli. Gli scandali della sanità, del resto, hanno già travolto Alberto tedesco e Tommaso Fiore, entrambi ex assessori regionali alla sanità, dimissionari e indagati dalla procura di Bari.