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“Stipendi di manager e politici bisogna dire basta agli abusi”, intervista a Enrico Rossi di Massimo Vanni

Rossi, governatore della Toscana: da Grilli intervento sacrosanto, ma non mettiamo tutti nello stesso sacco

Ribassiamo gli stipendi per decreto e azzeriamo i benefit. Poi parliamo di come cambiare lo Stato. Visto dal governatore Enrico Rossi e dalla Toscana, che domina la bassa classifica dei costi della politica, il ciclone che si è abbattuto sulle Regioni si affronta così.
Presidente Rossi, inchieste e scandali stanno portando le Regioni sul banco degli imputati, che sta accadendo?
«Sarebbe sbagliato mettere tutto nello stesso sacco, ci sono situazioni diverse. Ci sono Regioni che hanno portato la sanità a posto, che hanno i conti in regola. Per queste il regionalismo è stato proficuo. Per altre invece non si può dire la stessa cosa. In alcuni casi l’autonomia statutaria è stata eccessiva».
Stipendi dei consiglieri regionali, benefit, rimborsi.
«Sì, sui costi delle indennità, i costi della politica. Su questo c’è stato un chiaro abuso».
E come si rimette tutto a posto?
«Come Toscana siamo ai livelli più bassi. La mia indennità è meno di 7mila euro, altri presidenti prendono più del doppio. E’ chiaro che così non va. Abbiamo fatto una proposta al governo chiedendo un decreto per mettere in linea questi costi».
Il bello è che quando nacquero, nel 1970, le Regioni furono una speranza di rinnovamento per il Paese.
«Abbiamo alle spalle dieci anni di federalismo leghista, quello anti-nazionale, che pensava che la Regione potesse fare tutto da sola. Un federalismo che si è accompagnato ad un venire meno dello Stato, della sua capacità di indirizzo».
Buttiamo a mare il federalismo?
«Ne serve uno più equilibrato. Non puoi costruire un federalismo se non hai una Camera dedicata alle Regioni e alle autonomie locali. Senza è difficile tenere un quadro d’insieme».
Lei cosa farebbe?
«Aprirei una discussione con le Regioni. Sono pronto a rimettere in discussione il perimetro delle Regioni: 6 hanno meno di 2 milioni di abitanti, 4 addirittura meno di 1 milione».
Dopo le Province, riduciamo anche le Regioni?
«La riduzione delle Province può essere considerata un primo passo in vista del superamento. Poi però ci sono gli 8mila Comuni. Voglio dire, è una riforma generale delle istituzioni quella di cui abbiamo bisogno. Parlamento compreso».
Dopo la bufera di questi giorni però da dove si riparte?
«Togliamo i benefit, togliamo la diaria, allineiamo gli stipendi ai livelli più bassi. Al governo chiediamo un decreto d’urgenza per uscire dal pantano. Ma poi serve anche una riflessione sul federalismo, una riforma delle regioni e del parlamento. Sarà questo un tema della prossima legislatura».
Che le fa pensare quello che è accaduto nel Lazio?
«Che non basta il rinnovamento generazionale. Si devono fare i conti con il decennio berlusconiano, l’arricchimento personale, la difesa dei privilegi. C’è bisogno di un rinnovamento morale. Non condivido molte cose di Monti ma almeno è riuscito a dare l’idea di una politica come servizio. Questo governo, che si può criticare ha impresso una svolta morale».
Il ministro Grilli dice ‘fuori i corrotti dalle società pubbliche’.
«Giusto. Serve anche una legge che regoli la vita dei partiti. Basta il web per fare un partito? E’ poi giusto che le banche salvate dallo Stato non pongano limiti ai benefit dei manager? E che dire delle vacanze pagate da altri?».
Sta parlando di Formigoni?
«Di lui come di altri, a me è stato insegnato che nell’ospitalità deve valere il principio di reciprocità ».

da La Repubblica

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“Via i corrotti dalle aziende pubbliche”, di ALBERTO D’ARGENIO
Grilli all’attacco. Monti: pronto ad agire. Ma il dirigente Eur raddoppia l’incarico

— Derivate del Batmangate, in scia allo scandalo del Pdl Lazio si muove anche il Tesoro. Il ministro dell’Economia Vittorio Grilli scrive al suo direttore generale, Vincenzo La Via, e al Ragioniere dello Stato, Vittorio Canzio, chiedendo di mettere alla porta i manager pubblici corrotti e di attivarsi per il risarcimento causato dalle ruberie. «La mia lettera non si riferisce a nessuno in particolare e a tutti in generale », risponde il ministro a margine di un incontro Aspen a Berlino a chi chiedeva se a spingerlo fossero state le vicende che hanno coinvolto Finmeccanica. I bene informati, piuttosto, rimandano all’inchiesta romana sulla maxi-tangente per l’acquisto di 40 autobus destinati ai trasporti della capitale. E notano con soddisfazione come il sindaco Alemanno dopo la direttiva del Tesoro si sia affrettato ad avviare una verifica sulle società romane. Un passo necessario, indicano ancora fonti governative, visto che proprio ieri l’indagato per la vicenda dell’Ente Eur, l’amministratore delegato Riccardo Mancini, ha bissato il suo incarico con la nomina nella nuova società Eur Congressi Roma. E mentre la società madre è controllata al 90% dal Tesoro, stigmatizzano dal governo, la seconda è del Comune.
Che il caso Lazio allarmi i tecnici guidati da Monti non è un mistero. A maggior ragione con il dilagare degli scandali, con la Finanza che si muove in Piemonte e in Emilia Romagna. In seguito ai quali il ministro Riccardi parla apertamente di «grande preoccupazione nel governo». Monti aveva iniziato a seguire la vicenda dei rimborsi regionali prima di volare a New York, da dove ha continuato a monitorarla. Rientrato ieri mattina a Roma ha trovato uno scandalo che dal Lazio si sta spandendo a macchia d’olio nelle altre regioni. Per questo ha imposto un’accelerazione al dossier, preoccupato non solo dalle ruberie, ma anche da un crollo della politica che lascerebbe un pericoloso vuoto nel Paese. Insieme alla Severino, a Catricalà, Giarda, Patroni Griffi, Bondi e Amato sta studiando il da farsi.
La linea di Palazzo Chigi è quella di non farsi prendere dalla fretta e di non procedere con provvedimenti d’urgenza, ma di scrivere una riforma organica e definitiva sulle Regioni. Tanto che dallo staff del premier dicono che «difficilmente faremo un decreto, più probabile un provvedimento organico». Anche se alla fine l’incombere delle notizie di attualità potrebbe far cambiare i piani del governo, con alcuni ministri che premono per «dare un segnale subito», al momento si pensa dunque di accorpare quel decreto con i tagli dei consiglieri e dei loro emolumenti chiesto per la settimana prossima dai governatori ad una riforma più ampia del Titolo V della Costituzione che ridisegni poteri e competenze delle Regioni. Il tutto da fare il più presto possibile, compatibilmente con la complessità e la portata del tema.
Intanto continua a far discutere il caso Lazio, con il ministro Fornero che dice: «È difficile credere che i consiglieri regionali dell’opposizione non sapessero, non partecipassero. È chiaro poi che ci sono anche Regioni che si comportano bene, ma la crisi della politica è anche una crisi di valori». Fatto sta che al momento l’iniziativa di Grilli è l’unica mossa concreta presa dal governo dopo gli scandali degli ultimi giorni. Se non indica singoli casi, il responsabile di Via XX Settembre lascia trasparire l’idea che i manager coinvolti in vicende giudiziarie facciano da soli un passo indietro. In caso contrario chiede che «gli organi societari effettuino i dovuti approfondimenti, con il coinvolgimento delle strutture di audit interno e degli organismi di vigilanza». Una volta verificato l’illecito, aggiunge, se il manager non si dimette da solo o il Cda non gli toglie le deleghe, ci penserà l’assemblea dei soci a dare il benservito all’amministratore. Ma non basta. «Del pari — conclude la missiva — andrà verificata l’eventuale sussistenza dei presupposti per promuovere da parte degli azionisti l’azione sociale di
responsabilità».

da La Repubblica

"Bersani: Monti fuori da contese «Noi faremo più riforme»", di Marco Mongiello

Il leader Pd al vertice Pse: se Moody’s permette anche l’Italia vorrebbe votare

Per fare le riforme ci vuole la politica, non i governi tecnici, e la dimostrazione è la difficoltà dell’attuale esecutivo a varare le norme sulla corruzione. Parlando da Bruxelles, dove è in corso il congresso dei Socialisti europei, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha ribadito il suo “No” a un nuovo governissimo guidato da Mario Monti e ha spiegato la necessità di una aprire nuova fase costituente in Italia e nell’Ue.
Per Bersani il dibattito in corso in Italia sul Monti-bis è stata l’occasione per ribaltare il pericoloso luogo comune che è nato proprio in Europa, quello secondo cui per riformare i Paesi Ue e salvare l’euro dalla sfiducia dei mercati la politica vada commissariata e i cittadini vadano scavalcati a colpi di lettere della Bce, raccomandazioni delle Troike e memorandumnegoziati a porte chiuse.
«L’Italia è un Paese come gli altri», ha detto il leader del Pd e «se Moody’s e Standard&Poor’s consentono, noi vorremmo fare le elezioni come si fanno in tutto il mondo». Noi, ha chiesto, «siamo figli di un Diominore? Se non facessimo le elezioni avremmo più credibilità?»
No, per Bersani anche mettendosi nei panni di un investitore estero che deve decidere se scommettere i suoi soldi sull’Italia un «governissimo, magari con Monti» nato dalla «balcanizzazione del Parlamento» e con personaggi come Berlusconi o Grillo non sarebbe affatto rassicurante. Basta guardare a questo governo che dopo essere ricorso tante volte al voto di fiducia esita ad utilizzare lo stesso strumento per la legge sulla corruzione.
«Non è vero che la politica non fa riforme», ha protestato Bersani, ricordando gli anni del governo Prodi quando «ci siamo andati giù più duri» su tanti temi. E l’obiettivo del Pd, quello che definisce «punto di fondo» è una maggioranza che sia in grado di fare le riforme. Non meno di quelle di Monti, ma più di quelle di Monti. «Più riforme rispetto a Monti – insiste – questo è l’obiettivo che dobbiamo darci».
Per il ritorno della politica però secondo il segretario dei democratici è necessaria una legge elettorale che fin dalla sera in cui si chiudono le urne faccia capire chiaramente chi è che governeràil Paese, altrimenti sarà «un mezzo disastro».Ei quattro punti inderogabili di qualsiasi riforma elettorale, secondo il leader Pd, sono: un minimo di premialità per chi arriva primo, niente preferenze come quelle che hanno permesso l’elezione de «er Batman» nel Lazio, parità di genere col 50% di donne nelle liste elettorali e rimborsi ai partiti sul principio «meno donne, meno soldi» e, quarto e ultimo punto, un sistema anti-Scilipoti: «Puoi fare un gruppo parlamentare solo se ti presenti alle elezioni». Al momento le proposte presentate dal Pdl non rispondono a nessuno di questi punti. Il Partito di Berlusconi, ha ricordato Bersani, con il Porcellum aveva introdotto “un premio di maggioranza iper-uranico” e ora ha cambiato idea: vogliono un proporzionale puro che consegnerebbe al mondo un’Italia ingovernabile.
In nome del riavvicinamento della politica ai cittadini poi Bersani ha ribadito anche il suo sostegno a delle elezioni primarie aperte perché, ha detto, «pensare di mettersi nel fortino sarebbe la rovina del Pd». La consultazione però non deve essere aperta agli elettori di destra, ha precisato, «piuttosto chiedano a Berlusconi, alla Lega e a Grillo di fare le primarie».
Bersani, che nel 2009 vinse le primarie contro il segretario uscente Dario Franceschini e lo sfidante Ignazio Marino, ieri si è detto «fiducioso» per l’appuntamento di novembre e convinto di uscirne più forte per poter fare «il giorno dopo la nostra proposta politica all’Italia».
Nella prossima legislatura secondo il leader del Pd bisognerà mettere mano alla Legge fondamentale italiana con «uno strumento di rango costituzionale che abbia il compito di fare riforme in tempi dati» per modificare «un impianto istituzionale che si è deteriorato ». Le Regioni, ad esempio, che oggi sono al centro dell’attenzione, per Bersani vanno ridisegnate perché ce ne sono alcune che hanno 380 mila abitanti e altri che ne hanno 10 milioni.
Il nuovo governo dovrà poi «introdurre qualche elemento di equità e redistribuzione perché stiamo diventando uno dei Paesi più diseguali del mondo » e ritornare ad occuparsi di diritti, a partire di quello dei figli degli immigrati nati in Italia. Allo stesso modo Bersani, che ieri sera ha a partecipato alla cena dei leader europei socialisti, è convinto che i progressisti dell’Ue debbano spingere per l’apertura di una fase costituente a livello europeo che culmini con la consultazione dei cittadini europei, perché non si può lasciare i temi della democrazia e dei referendum in mano agli euroscettici e ai populisti. I socialisti europei, ha concluso, devono allargare l’orizzonte politico al di là delle proprie famiglie politiche e avviare «una grande battaglia culturale» per superare sia il pragmatismo dei piccoli passi proposto dalla Cancelliera Angela Merkel che l’immobilismo delle road map di riforme che trascurano le urgenze della recessione in corso.

da L’Unità

"Bersani: Monti fuori da contese «Noi faremo più riforme»", di Marco Mongiello

Il leader Pd al vertice Pse: se Moody’s permette anche l’Italia vorrebbe votare
Per fare le riforme ci vuole la politica, non i governi tecnici, e la dimostrazione è la difficoltà dell’attuale esecutivo a varare le norme sulla corruzione. Parlando da Bruxelles, dove è in corso il congresso dei Socialisti europei, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha ribadito il suo “No” a un nuovo governissimo guidato da Mario Monti e ha spiegato la necessità di una aprire nuova fase costituente in Italia e nell’Ue.
Per Bersani il dibattito in corso in Italia sul Monti-bis è stata l’occasione per ribaltare il pericoloso luogo comune che è nato proprio in Europa, quello secondo cui per riformare i Paesi Ue e salvare l’euro dalla sfiducia dei mercati la politica vada commissariata e i cittadini vadano scavalcati a colpi di lettere della Bce, raccomandazioni delle Troike e memorandumnegoziati a porte chiuse.
«L’Italia è un Paese come gli altri», ha detto il leader del Pd e «se Moody’s e Standard&Poor’s consentono, noi vorremmo fare le elezioni come si fanno in tutto il mondo». Noi, ha chiesto, «siamo figli di un Diominore? Se non facessimo le elezioni avremmo più credibilità?»
No, per Bersani anche mettendosi nei panni di un investitore estero che deve decidere se scommettere i suoi soldi sull’Italia un «governissimo, magari con Monti» nato dalla «balcanizzazione del Parlamento» e con personaggi come Berlusconi o Grillo non sarebbe affatto rassicurante. Basta guardare a questo governo che dopo essere ricorso tante volte al voto di fiducia esita ad utilizzare lo stesso strumento per la legge sulla corruzione.
«Non è vero che la politica non fa riforme», ha protestato Bersani, ricordando gli anni del governo Prodi quando «ci siamo andati giù più duri» su tanti temi. E l’obiettivo del Pd, quello che definisce «punto di fondo» è una maggioranza che sia in grado di fare le riforme. Non meno di quelle di Monti, ma più di quelle di Monti. «Più riforme rispetto a Monti – insiste – questo è l’obiettivo che dobbiamo darci».
Per il ritorno della politica però secondo il segretario dei democratici è necessaria una legge elettorale che fin dalla sera in cui si chiudono le urne faccia capire chiaramente chi è che governeràil Paese, altrimenti sarà «un mezzo disastro».Ei quattro punti inderogabili di qualsiasi riforma elettorale, secondo il leader Pd, sono: un minimo di premialità per chi arriva primo, niente preferenze come quelle che hanno permesso l’elezione de «er Batman» nel Lazio, parità di genere col 50% di donne nelle liste elettorali e rimborsi ai partiti sul principio «meno donne, meno soldi» e, quarto e ultimo punto, un sistema anti-Scilipoti: «Puoi fare un gruppo parlamentare solo se ti presenti alle elezioni». Al momento le proposte presentate dal Pdl non rispondono a nessuno di questi punti. Il Partito di Berlusconi, ha ricordato Bersani, con il Porcellum aveva introdotto “un premio di maggioranza iper-uranico” e ora ha cambiato idea: vogliono un proporzionale puro che consegnerebbe al mondo un’Italia ingovernabile.
In nome del riavvicinamento della politica ai cittadini poi Bersani ha ribadito anche il suo sostegno a delle elezioni primarie aperte perché, ha detto, «pensare di mettersi nel fortino sarebbe la rovina del Pd». La consultazione però non deve essere aperta agli elettori di destra, ha precisato, «piuttosto chiedano a Berlusconi, alla Lega e a Grillo di fare le primarie».
Bersani, che nel 2009 vinse le primarie contro il segretario uscente Dario Franceschini e lo sfidante Ignazio Marino, ieri si è detto «fiducioso» per l’appuntamento di novembre e convinto di uscirne più forte per poter fare «il giorno dopo la nostra proposta politica all’Italia».
Nella prossima legislatura secondo il leader del Pd bisognerà mettere mano alla Legge fondamentale italiana con «uno strumento di rango costituzionale che abbia il compito di fare riforme in tempi dati» per modificare «un impianto istituzionale che si è deteriorato ». Le Regioni, ad esempio, che oggi sono al centro dell’attenzione, per Bersani vanno ridisegnate perché ce ne sono alcune che hanno 380 mila abitanti e altri che ne hanno 10 milioni.
Il nuovo governo dovrà poi «introdurre qualche elemento di equità e redistribuzione perché stiamo diventando uno dei Paesi più diseguali del mondo » e ritornare ad occuparsi di diritti, a partire di quello dei figli degli immigrati nati in Italia. Allo stesso modo Bersani, che ieri sera ha a partecipato alla cena dei leader europei socialisti, è convinto che i progressisti dell’Ue debbano spingere per l’apertura di una fase costituente a livello europeo che culmini con la consultazione dei cittadini europei, perché non si può lasciare i temi della democrazia e dei referendum in mano agli euroscettici e ai populisti. I socialisti europei, ha concluso, devono allargare l’orizzonte politico al di là delle proprie famiglie politiche e avviare «una grande battaglia culturale» per superare sia il pragmatismo dei piccoli passi proposto dalla Cancelliera Angela Merkel che l’immobilismo delle road map di riforme che trascurano le urgenze della recessione in corso.
da L’Unità

“Ci mancava solo la Bce!”, di Tonia Mastrobuoni

Del Boca: perché quella delle donne continua ad essere una rivoluzione interrotta

Ventidue uomini su ventitré nel Consiglio direttivo della Bce sono un po’ difficili da nascondere. Soprattutto mentre la Commissione Ue sta tentando di superare le resistenze dei paesi membri perché adottino l’obbligo del 30% di donne ai vertici delle aziende quotate. E se la Bce non è quotata, è senza dubbio la banca delle banche e dovrebbe dare l’esempio. Così il Parlamento europeo ha finalmente battuto un colpo e sta ritardando in questi giorni la ratifica del ventitreesimo membro del direttorio. Un po’ poco, ma è un inizio.

Per noi italiani non c’è neanche bisogno di andare a Francoforte per rattristarsi della deplorevole «rarefazione femminile nei luoghi di comando», per usare un’espressione di Daniela Del Boca. Anche in questo ambito siamo terra di primati tristi. Prendete la Banca d’Italia: Anna Maria Tarantola è stata per anni l’unica presenza rosa in un consesso rigorosamente maschile. Appena ha lasciato il suo posto nel direttorio per assumere la presidenza della Rai, è stata prontamente sostituita da un uomo.

Inoltre, le donne nei consigli di amministrazione delle società, come ricorda Del Boca, economista del Collegio Carlo Alberto e dell’università di Torino, nel 2011 erano il 7% del totale contro il 20% della media europea. «Ci mancava solo la Bce! È un peccato – osserva – visto che studi recenti dimostrano che gruppi di lavoro misti sono più produttivi di quelli monogenere». Non ditelo ai diciassette governi dell’Eurozona che continuano a scelgiere candidati uomini per il timoniere della crisi, la Bce

Questa settimana il secondo appuntamento del convegno Segnavie di Padova è stata l’occasione per l’economista non solo per ricordare che la totale assenza di donne ai vertici è «il sintomo evidente della scarsa fiducia che continua ad essere riposta nelle donne – e non solo in Italia». Ma ha offerto anche l’opportunità per un aggiornamento sulla «rivoluzione interrotta», quella delle donne in Italia, della quale Del Boca è tra le massime esperte. Un cambiamento inibito del quale parlano anche i suoi ultimi libri editi dal Mulino, “Famiglie sole” e “Valorizzare le donne conviene”.

Dovrebbe allarmarci anzitutto che la crisi abbia aggravato un fenomeno che già ci colloca da sempre in fondo alle classifiche europee, ora anche dietro la Grecia. Il tasso di occupazione femminile è tornato ai livelli del 2006, attorno al 46%. Nello stesso periodo è rimasto invece stabile in Francia e in Germania è addirittura aumentato. Altro dato preoccupante: aumenta il divario salariale, cresciuto dal 10,3% del 1995 al 13,8% del 2010. Oltretutto, spiega Del Boca, «la carriera delle donne è ancora molto segregata verticalmente».

Ma non bastasse la scarsa rappresentanza femminile agli apici delle aziende, l’economista ricorda che anche per le lavoratrici normali, insomma per chi non ricopre ruoli di responsabilità, conciliare il lavoro e la famiglia continua ad essere un’impresa titanica. Per dirla con Maurizio Ferrera, continuiamo ad essere un paese del «donne a casa, culle vuote». L’Italia ha notoriamente un bassissimo tasso demografico ma anche un alto numero di donne che abbandonano il lavoro dopo il primo figlio. Sono un quarto del totale, una cifra agghiacciante. Oltretutto, scandisce Del Boca, «due terzi di esse affermano di aver abbandonato il lavoro per difficoltà di conciliare lavoro e vita familiare, per la scarsa flessibilità concessa nel lavoro o anche per la mancanza di aiuti da parte dei familiari». E la probabilità, comunque, che non tornino al lavoro per 18-21 mesi raggiunge quasi il 50%. Invece, come dimostrano molti studi, facilitare la partecipazione delle donne al lavoro fa bene all’economia: l’Italia potrebbe guadagnare ben 7 punti di Pil se raggiungesse l’obiettivo di Lisbona del 60% di occupazione femminile. Cosa fare, dunque?

Del Boca ha calcolato che congedi part time e una maggiore disponibilità di nidi farebbero crescere l’offerta di lavoro del 7%; un aumento degli asili, fra l’altro, «ha anche un impatto positivo sui voti a scuola dei bambini». Quanto a un altro tipico problema delle donne, quello della scarsa remunerazione rispetto agli uomini (a 5 anni dalla laurea gli uomini guadagnano in media 1.500 euro contro i 1.100 euro delle donne), l’economista sottolinea che influisce anche un problema del quale si dibatte troppo poco. «Le donne scelgono troppo poco le facoltà scientifiche». Per incoraggiarle di più» occorrerebbe introdurre degli incentivi», osserva.

Per ora, insomma, la strada delle donne italiane verso una vita più felice, che conceda loro di conciliare il desiderio di avere figli e quello di realizzarsi professionalmente, è ancora lunghissima e in salita.

da www.lastampa.it

Vicenza – Convegno: oncologia al femminile

Palazzo Bonin Longare, Vicenza

SESSIONE III
LA PROFESSIONALIzzAzIONE IN SANITà COME MOTORE DI EquITà DI GENERE Introduce: L. Fioretto
9.00 Tavola rotonda: R. Berardi, S. Cascinu, M. Ghizzoni, S. Gori, R. Guglielmi, A. Righi
SESSIONE Iv
STRATEGIE DI PREvENzIONE
Moderatori: T. Gamucci, M. Guaraldi
10.40 Prevenzione e trattamento dei tumori nelle donne HIv positive
E. Vaccher
11.00 La donna e le sindromi neoplastiche ereditarie gastrointestinali
C. Oliani
11.20 La sorveglianza nelle donne ad alto rischio di carcinoma mammario
D. Barana, L. Cortesi, M. Ghizzoni
12.20 L’esperienza di Cascina Rosa: principi nutrizionali nell’attività di prevenzione oncologica
P. Pasanisi
13.00 Note conclusive e verifica degli obiettivi formativi raggiunti
13.15 Compilazione modulistica ECM 13.30 Light lunc

Università: Ghizzoni, subito istruzione e conoscenza nell'agenda politica

“La politica deve affrontare di petto e con urgenza i problemi dell’accesso alla formazione superiore. Tali problemi stanno rendendo, di fatto, inesigibile il diritto allo studio universitario: così si tradisce il dettato costituzionale e si mortificano le aspettative degli studenti che dovrebbero essere i protagonisti del sistema di istruzione terziaria. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera dei Deputati, nel giorno delle proteste studentesche contro gli sbarramenti all’accesso universitario – Lo sbarramento allo studio superiore è sempre più ascrivibile da una parte alle condizioni sociali e geografiche e dall’altra alle difficoltà del sistema della conoscenza che non può che arrancare di fronte al progressivo definanziamento e alle inadeguate politiche scolastiche e universitarie degli ultimi anni.

Non si può non vedere che investire nelle persone, nelle loro abilità e competenze, è la chiave per crescita e lavoro, quindi una chiave per il successo delle economie, delle società e dei loro cittadini. Gli ultimi dati OCSE mostrano, infatti, che anche durante questa fase recessiva un livello maggiore di formazione assicura garanzie di lavoro e redditi più alti, e non è solo questione economica, ma anche sociale: maggiori livelli formativi – spiega Ghizzoni – significano vite medie più lunghe e più estesi diritti democratici. Istruzione e conoscenza devono stare nell’agenda politica con la stessa urgenza e peso quanto i temi del lavoro e dell’occupazione, solo così – conclude la Presidente Ghizzoni – potremo consentire a coloro che sono giovani oggi di essere uomini e donne con piena cittadinanza domani”

"Il gotha delle riviste scientifiche italiane? 'Barche', 'Suinicoltura', 'Etruria Oggi'…", di Corrado Zunino

La lista pazza delle riviste scientifiche è l’ultimo B-movie girato al ministero dell’Istruzione (e dell’Università e della Ricerca, più appropriatamente nel caso). Dopo i test casuali per il concorso per presidi, i quiz scandalo sui tirocini formativi, il ponderoso dibattito sulla bontà delle mediane dei titoli necessari per accedere al ruolo di commissario universitario, i bandi pecorecci dell’Università di Firenze, ecco le “riviste scientifiche patinate”. Un nuovo cult, un inedito nel mondo. Le riviste scientifiche danno punteggio a chi riesce a pubblicarvi sopra articoli (scientifici), concorrono a far ottenere una cattedra, aiutano a inclinare i finanziamenti verso i singoli atenei.

Dopo anni di mucchio selvaggio in cui ci si affidava – di fatto – alle “autocertificazioni” dei ricercatori e dei professori che inserivano nel grande archivio Cineca i loro lavori e alle singole valutazioni delle singole commissioni d’esame, l’Anvur, che è l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, ha provato a fare il primo censimento delle riviste. Si è affidata a una commissione esterna (28 membri, un centinaio di esperti coinvolti) e sotto la pressione del mondo accademico ha lavorato in velocità. Troppa. Dei 42 mila testi inseriti nel Cineca, lo scorso 20 settembre l’Agenzia di valutazione ha reso pubbliche le 16 mila riviste scelte (alcune replicate in diverse aree tematiche). E i risultati, subito sottolineati dalla controinformazione online (Roars), sono apparsi esilaranti.

Già, uno sente “rivista scientifica” e pensa a Science, a Nature, al Journal of medicine dove da anni futuri premi Nobel appoggiano i loro lavori per farli conoscere ad addetti ai lavori, studenti, curiosi consapevoli. Aprendo il gigantesco file prodotto dal nostro Anvur, invece, si scopre che fra quelle riviste c’è Yacht Capital, che nell’ultima copertina offre un sorridente Flavio Briatore in camicia nera e occhialini fumè per fargli raccontare “la mia estate in pole position”. Yacht Capital è inserita nell’area 8, “Ingegneria civile e architettura”, come d’altronde la rivista consanguinea Barche. Nell’area 10, “Scienze dell’antichità filologico-letterarie e storico-artistiche”, c’è Airone, un tempo settimanale turistico-ambientale che oggi si è evoluto offrendo in copertina una gnocca svestita: serve a illustrare il titolo “I misteri della sessualità femminile (orgasmo, tradimento, fantasie, coppia”). Difficile comprendere l’accostamento di Airone con le scienze dell’antichità e con le riviste scientifiche.

Nell’elenco c’è il Touring club italiano e pure Etruria oggi. Dovrebbe parlare di arte e filologia, ma stavolta dedica la copertina alle Olimpiadi di Federica Pellegrini. Ecco un settimanale che ha cessato di esistere, Diario, peraltro pluripremiato da giurie internazionali, e poi una teoria di riviste politiche. L’online Libertiamo diretto da Benedetto Della Vedova, Fli, è inserita nel ramo Scienze giuridiche. Il bimestrale Alternative per il socialismo, diretto da Fausto Bertinotti, è inserito in Scienze delle antichità. Anche qui, in area politica, alcuni periodici presi in considerazione dall’Anvur in verità sono stati chiusi.

Facile l’ironia sull’impatto culturale di Suinicoltura, “punto di riferimento imprescindibile per gli allevatori di suini, per i tecnici e per le imprese impegnate nell’indotto della filiera suinicola nazionale”. Difficile spiegare la quantità di riviste confessionali presenti nel file: Evangelizzare del clero italiano, la Vita cattolica dell’arcidiocesi di Udine, Insegnare religione per docenti del ciclo scolastico, Animazione sociale del Gruppo Abele, L’aldilà (dedicata a Santa Zita). Poi ci sono alcuni quotidiani, e qui il mistero si fa fitto: Il Sole 24 ore, Il Mattino di Padova. C’è, ed è considerata scienza, la rivista dei presidi, Autonomia e dirigenza, così il trimestrale del municipio di Livorno, Comune notizie. Nell’area filosofica è stata inserita Ingegneria sismica mentre riconosciute riviste di filosofia sono state considerate scientifiche in tutti i campi universitari fuorché in quello filosofico.
Professori e ricercatori, indignati dal florilegio ministeriale, attaccano: “Svergogniamo gli accademici da quattro soldi che si nascondono dietro le segnalazioni di queste riviste”. Uno degli accademici, Andrea Graziosi, tra gli esperti chiamati dall’Anvur (per 3 mila euro lordi) a definire che cosa è rivista di ricerca e cosa no, si è difeso così: “Sono orgoglioso di questo lavoro, siamo partiti dagli inferi. Da anni troppi professori pubblicano qualsiasi cosa e lo mettono nell’archivio Cineca, li abbiamo fermati. Abbiamo scartato riviste spazzatura, l’Anvur andrebbe premiata per aver portato questo enorme scandalo alla luce”.

Il ministro Francesco Profumo ha la questione “riviste pazze” in bella vista sulla scrivania e ha già chiesto al presidente dell’Anvur un rapido cambio di rotta: “Ci vogliono regole precise per far sì che il sistema diventi virtuoso, pubblicare su riviste di nessuna rilevanza e nessuna attinenza deve dare all’autore un punteggio uguale a zero”, è il concetto passato a Stefano Fantoni. Sì, Fantoni, il presidente dell’Anvur, un fisico. È in difficoltà: “Stiamo lavorando sulla questione proprio in queste ore”, dice. “Gli errori materiali in realtà sono pochi. Abbiamo tolto dalla lista i quotidiani, per il resto le riviste indicate resteranno tutte, le hanno volute mettere i nostri esperti”. Yacht capital? “Per gli architetti che si occupano di barche è un riferimento. Su alcuni titoli anch’io sono perplesso, ma la nostra commissione è fatta di personalità insigni”. D’altro canto, dice, “è il primo lavoro del genere in Italia, le pubblicazioni sono un diluvio e i docenti e i ricercatori universitari dovrebbero smetterla di pubblicare i loro scritti su riviste fuori misura e fuori standard. Assicuro, non abbiamo ceduto ad alcuna pressione editoriale, né politica né ecclesiastica”.

La Repubblica 27.09.12