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"Quella crisi del libro senza sconti", di Maria Galluzzo

Il mondo editoriale fa il punto sulla legge Levi: è servita davvero? «Io non vendo sconti, vendo libri». Alla fine dell’Ottocento Ulrico Hoepli, fondatore dell’omonima casa editrice, replicava così a chi gli chiedeva un occhio di riguardo sul prezzo di un volume. L’editore, che era anche libraio, conosceva in profondità il lavoro che stava dietro la nascita di un libro e il valore speciale che lo caratterizzava. Una merce non qualunque e quindi non svendibile. Un episodio rievocato ieri dall’attuale presidente della casa editrice, Giovanni Ulrico Hoepli, in occasione di un convegno organizzato alla camera dalla commissione cultura per fare un bilancio sulla legge Levi, che appunto regolamenta i prezzi dei libri, a un anno dalla sua entrata in vigore (1 settembre 2011). A discuterne sono state convocate tutte le voci degli addetti al settore – editori grandi, medi e piccoli, distributori, librai indipendenti, di catena e online – insieme ai più alti riferimenti istituzionali della materia: Lorenzo Ornaghi, ministro per i beni e le attività culturali, Paolo Peluffo, sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega all’informazione e all’editoria, e Manuela Ghizzoni, presidente della commissione cultura.
Un giro di orizzonte che parte da un punto da tutti condiviso: l’obiettivo che si pone la legge Levi, e che è riassunto nel primo articolo del provvedimento («Contribuire allo sviluppo del settore librario, al sostegno della creatività letteraria, alla promozione del libro e della lettura, alla diffusione della cultura, alla tutela del pluralismo dell’informazione ») è da tutti ampiamente condiviso. Nessuno mette in dubbio che la bibliodiversità sia un bene che va difeso dalle politiche aggressive degli sconti e dalle strategie dei grandi gruppi editoriali.
Tutti d’accordo sulla necessità che il settore dovesse essere regolamentato, come accade in altri paesi europei. Leader in materia la Francia, dove dal 1981, secondo la legge che porta il nome dell’allora ministro della cultura Jack Lang, nessun libraio può scontare libri più del 5 per cento rispetto al prezzo dell’editore. Oltralpe le librerie sono il cuore del paese. A seguire Inghilterra e Germania.
E non potrebbe essere diversamente in Italia, fa notare il rappresentante di uno dei colossi del nostro mondo editoriale, Alessandro Bompieri, ad di Rcs libri: «In un paese in cui all’incirca metà della popolazione non legge nemmeno un libro all’anno, in cui una percentuale perfino più alta non ha dimestichezza con i testi scritti, in cui l’abbandono scolastico raggiunge livelli sconosciuti alle altre grandi nazioni europee, è cruciale diffondere i libri e la lettura: in qualunque forma, grazie alle piccole librerie o ai centri commerciali o al commercio online o al successo degli ebook. Fallire in questa missione significa minare alle basi ogni tentativo di ripresa, ogni miglioramento della competitività, ogni speranza di rinascita».
Le opinioni, però, si modulano diversamente quando si passa all’analisi dei dati e la domanda diventa: la legge Levi ha contribuito allo sviluppo del settore? Lo sconto sui libri di “varia” consentito per tutto l’anno ai librai fino al 15 per cento, e fino al 25 per cento agli editori nelle quattro settimane di campagne promozionali previste dalla legge, hanno aiutato il mercato librario in tempo di crisi? E ancora, l’aver escluso dicembre dai periodi di queste campagne è stata una buona scelta?
A comparare i dati dell’anno pre e post legge Levi prodotti da Nielsen per il Centro per il libro e la lettura e dall’Associazione italiana editori, l’analisi diventa critica: si comprano meno libri, si legge di meno, si spende meno.
Colpa della crisi o della legge? Più probabile la prima causa. La cosiddetta legge anti-Amazon «ha messo ordine negli sconti mettendo in condizioni di parità la grande e la piccola distribuzione ma è stata fatta durante una gravissima crisi economica e finanziaria e quindi è difficile valutarne l’impatto», nota il sottosegretario Peluffo. In effetti, osserva Stefano Mauri di GeMS, «è stata paracadutata su una foresta in fiamme», ed è quindi molto difficile distinguere gli effetti. Ma ad esame obiettivo è lecito pensare che la nuova disciplina abbia evitato il peggio calmierando i prezzi e sostenendo i fragili editori indipendenti. Mauri però, in compagnia di molti altri colleghi, sostiene che tra le modifiche alla legge sarebbe necessario allungare la durata delle promozioni editoriali che fino ad oggi sono state «segmentate, dispendiose e inefficienti». Soprattutto, aggiunge Bompieri, occorre «eliminare il divieto di sconti a dicembre ». Perché «ridurre il potenziale promozionale proprio nel periodo di maggiore vendita?».
Tra le tante, un’ulteriore domanda: la legge Levi ha perseguito il suo obiettivo di promuovere il libro e la lettura? Stefano Parise, presidente dell’Associazione italiana biblioteche, esprime qualche perplessità: «L’impossibilità di accedere a sconti superiori al 20 per cento ha avuto come inevitabile conseguenza la riduzione del volume di acquisti». Le biblioteche sono considerate «utenti finali».
Un anno dopo la legge Levi dunque si discute. E questo è un segnale molto positivo. La legge per ora ha fatto un buon lavoro, osserva il ministro Ornaghi, trovando «un punto di equilibrio tra esigenze diversificate». Il capitolo è tutto aperto: incombe la digitalizzazione e sulle biblioteche, anello centrale della catena della promozione della lettura, il ministero è pronto al confronto. In ballo c’è il futuro dello sviluppo del paese.

da Europa Quotidiano 26.09.12

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“E UNO SCONTO FA BENE A CHI LEGGE”, di SIMONETTA FIORI

Per i più critici è stata «una bomba», per molti altri «una salvezza». A un anno dalla sua approvazione, è difficile mettere tutti d’accordo sugli effetti della legge Levi, il provvedimento che pone un tetto agli sconti sul prezzo di copertina. Se i colossi editoriali lamentano “una perdita secca di ricchezza”, i piccoli e medi marchi sostengono di ricavarne più vantaggi che svantaggi. E mentre le librerie indipendenti la difendono, le biblioteche ne denunciano il danno, spalleggiate dal ministro Ornaghi che chiede di togliere il limite alle promozioni. Tutti o quasi, però, concordano su un fatto: sarebbe disonesto attribuire alla legge Levi il tracollo nelle vendite dei libri, riconducibile alla crisi economica più grande. E riconducibile anche a cambiamenti profondi nelle abitudini dei lettori.
È una sorta di “stati generali dell’editoria” la platea raccolta dalla Com-
missione Cultura della Camera nella sala del Mappamondo dove sollecitati da Marino Sinibaldi – si sfidano di sciabola e fioretto minuscoli cavalieri e grandi armate del mondo librario italiano. Un mercato fragile, condizionato dai bestseller. E può essere significativo, per la storia dell’editoria italiana, che i pochi raggi di sole provengano oggi dal porno soft di E.L. James. Le cifre complessive sono nere, nerissime (nel 2012 meno 8,7% del fatturato secondo l’Aie, meno 9% dei lettori forti secondo il Centro del Libro, numeri da raffrontare al 2011 già segnato dalla crisi). E se Giovanni Peresson cerca di mitigare il crollo paragonando il cattivo andamento dei libri agli altri consumi culturali (meno 8,8% per la musica e meno 10% per il cinema di
sala), rimane il dato di fondo: il mercato editoriale diventa per la prima volta ciclico, ossia inverte la tendenza che lo ha sempre visto in crescita nelle stagioni recessive.
La crisi colpisce ovunque, ma soprattutto le grandi aziende. Dario Giambelli, amministratore delegato di Feltrinelli, squaderna le rilevazioni di GFK, secondo il quale «tra l’agosto del 2011 e l’agosto del 2012 il mercato complessivo della varia ha perduto 8 milioni di copie e circa 110 milioni di fatturato; di questi ultimi, 90 milioni provengono dalle casse dei primi cinque grandi gruppi». Quanto alla legge Levi, Giambelli la giudica un danno per i lettori: «Solo nelle librerie Feltrinelli abbiamo sottratto ai consumatori sconti per 3 milioni di euro». Non è meno lieve Riccardo Cavallero, gran capo della Mondadori, che definisce il provvedimento «una bomba caduta sul mercato librario». E tutto questo
«in odio al liberismo, e in nome di una malintesa idea di statalismo». Ma che cos’è il liberismo? E cosa lo statalismo? Provvede a correggere i termini Antonio Sellerio, capofila insieme a Ginevra Bompiani del partito (molto applaudito) della “bibliodiversità”. «È statalismo invocare una regolamentazione in un mercato così importante come quello culturale?». In molti, tra editori e librai, si domandano ragionevolmente che cosa sarebbe accaduto se, di fronte a una crisi spaventosa come questa, non ci fosse stata una legge a tutela del prezzo di copertina. E Teresa Cremisi, alla guida di Flammarion, ha buon gioco nell’elencare gli effetti benefici della legge francese (tetto del 5%). Nessuno, aggiunge, protesta per cambiarla. Da noi, invece, più d’uno vorrebbe modificare la legge. In direzione opposta. Tutti d’accordo nel definire troppo debole la forbice tra lo sconto autorizzato (15%) e lo sconto previsto per campagne (25%). Ma se per i marchi medi-piccoli bisogna abbassare il primo, per i colossi bisogna elevare lo sconto delle campagne. La conclusione spetta a Giuseppe Laterza, promotore di una legge sul libro di iniziativa popolare, che ricorda come la crisi culturale in atto non sia solo questione di prezzo di copertina («Ma avete visto come parlano Marchionne e Della Valle?»). Occorre in sostanza una riflessione più ampia, che non si limiti al costo dei libri. Basterà per indurre alla lettura le nostre classi dirigenti? Il dubbio rimane legittimo.

La Repubblica 26.09.12

"Quella crisi del libro senza sconti", di Maria Galluzzo

Il mondo editoriale fa il punto sulla legge Levi: è servita davvero? «Io non vendo sconti, vendo libri». Alla fine dell’Ottocento Ulrico Hoepli, fondatore dell’omonima casa editrice, replicava così a chi gli chiedeva un occhio di riguardo sul prezzo di un volume. L’editore, che era anche libraio, conosceva in profondità il lavoro che stava dietro la nascita di un libro e il valore speciale che lo caratterizzava. Una merce non qualunque e quindi non svendibile. Un episodio rievocato ieri dall’attuale presidente della casa editrice, Giovanni Ulrico Hoepli, in occasione di un convegno organizzato alla camera dalla commissione cultura per fare un bilancio sulla legge Levi, che appunto regolamenta i prezzi dei libri, a un anno dalla sua entrata in vigore (1 settembre 2011). A discuterne sono state convocate tutte le voci degli addetti al settore – editori grandi, medi e piccoli, distributori, librai indipendenti, di catena e online – insieme ai più alti riferimenti istituzionali della materia: Lorenzo Ornaghi, ministro per i beni e le attività culturali, Paolo Peluffo, sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega all’informazione e all’editoria, e Manuela Ghizzoni, presidente della commissione cultura.
Un giro di orizzonte che parte da un punto da tutti condiviso: l’obiettivo che si pone la legge Levi, e che è riassunto nel primo articolo del provvedimento («Contribuire allo sviluppo del settore librario, al sostegno della creatività letteraria, alla promozione del libro e della lettura, alla diffusione della cultura, alla tutela del pluralismo dell’informazione ») è da tutti ampiamente condiviso. Nessuno mette in dubbio che la bibliodiversità sia un bene che va difeso dalle politiche aggressive degli sconti e dalle strategie dei grandi gruppi editoriali.
Tutti d’accordo sulla necessità che il settore dovesse essere regolamentato, come accade in altri paesi europei. Leader in materia la Francia, dove dal 1981, secondo la legge che porta il nome dell’allora ministro della cultura Jack Lang, nessun libraio può scontare libri più del 5 per cento rispetto al prezzo dell’editore. Oltralpe le librerie sono il cuore del paese. A seguire Inghilterra e Germania.
E non potrebbe essere diversamente in Italia, fa notare il rappresentante di uno dei colossi del nostro mondo editoriale, Alessandro Bompieri, ad di Rcs libri: «In un paese in cui all’incirca metà della popolazione non legge nemmeno un libro all’anno, in cui una percentuale perfino più alta non ha dimestichezza con i testi scritti, in cui l’abbandono scolastico raggiunge livelli sconosciuti alle altre grandi nazioni europee, è cruciale diffondere i libri e la lettura: in qualunque forma, grazie alle piccole librerie o ai centri commerciali o al commercio online o al successo degli ebook. Fallire in questa missione significa minare alle basi ogni tentativo di ripresa, ogni miglioramento della competitività, ogni speranza di rinascita».
Le opinioni, però, si modulano diversamente quando si passa all’analisi dei dati e la domanda diventa: la legge Levi ha contribuito allo sviluppo del settore? Lo sconto sui libri di “varia” consentito per tutto l’anno ai librai fino al 15 per cento, e fino al 25 per cento agli editori nelle quattro settimane di campagne promozionali previste dalla legge, hanno aiutato il mercato librario in tempo di crisi? E ancora, l’aver escluso dicembre dai periodi di queste campagne è stata una buona scelta?
A comparare i dati dell’anno pre e post legge Levi prodotti da Nielsen per il Centro per il libro e la lettura e dall’Associazione italiana editori, l’analisi diventa critica: si comprano meno libri, si legge di meno, si spende meno.
Colpa della crisi o della legge? Più probabile la prima causa. La cosiddetta legge anti-Amazon «ha messo ordine negli sconti mettendo in condizioni di parità la grande e la piccola distribuzione ma è stata fatta durante una gravissima crisi economica e finanziaria e quindi è difficile valutarne l’impatto», nota il sottosegretario Peluffo. In effetti, osserva Stefano Mauri di GeMS, «è stata paracadutata su una foresta in fiamme», ed è quindi molto difficile distinguere gli effetti. Ma ad esame obiettivo è lecito pensare che la nuova disciplina abbia evitato il peggio calmierando i prezzi e sostenendo i fragili editori indipendenti. Mauri però, in compagnia di molti altri colleghi, sostiene che tra le modifiche alla legge sarebbe necessario allungare la durata delle promozioni editoriali che fino ad oggi sono state «segmentate, dispendiose e inefficienti». Soprattutto, aggiunge Bompieri, occorre «eliminare il divieto di sconti a dicembre ». Perché «ridurre il potenziale promozionale proprio nel periodo di maggiore vendita?».
Tra le tante, un’ulteriore domanda: la legge Levi ha perseguito il suo obiettivo di promuovere il libro e la lettura? Stefano Parise, presidente dell’Associazione italiana biblioteche, esprime qualche perplessità: «L’impossibilità di accedere a sconti superiori al 20 per cento ha avuto come inevitabile conseguenza la riduzione del volume di acquisti». Le biblioteche sono considerate «utenti finali».
Un anno dopo la legge Levi dunque si discute. E questo è un segnale molto positivo. La legge per ora ha fatto un buon lavoro, osserva il ministro Ornaghi, trovando «un punto di equilibrio tra esigenze diversificate». Il capitolo è tutto aperto: incombe la digitalizzazione e sulle biblioteche, anello centrale della catena della promozione della lettura, il ministero è pronto al confronto. In ballo c’è il futuro dello sviluppo del paese.
da Europa Quotidiano 26.09.12
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“E UNO SCONTO FA BENE A CHI LEGGE”, di SIMONETTA FIORI
Per i più critici è stata «una bomba», per molti altri «una salvezza». A un anno dalla sua approvazione, è difficile mettere tutti d’accordo sugli effetti della legge Levi, il provvedimento che pone un tetto agli sconti sul prezzo di copertina. Se i colossi editoriali lamentano “una perdita secca di ricchezza”, i piccoli e medi marchi sostengono di ricavarne più vantaggi che svantaggi. E mentre le librerie indipendenti la difendono, le biblioteche ne denunciano il danno, spalleggiate dal ministro Ornaghi che chiede di togliere il limite alle promozioni. Tutti o quasi, però, concordano su un fatto: sarebbe disonesto attribuire alla legge Levi il tracollo nelle vendite dei libri, riconducibile alla crisi economica più grande. E riconducibile anche a cambiamenti profondi nelle abitudini dei lettori.
È una sorta di “stati generali dell’editoria” la platea raccolta dalla Com-
missione Cultura della Camera nella sala del Mappamondo dove sollecitati da Marino Sinibaldi – si sfidano di sciabola e fioretto minuscoli cavalieri e grandi armate del mondo librario italiano. Un mercato fragile, condizionato dai bestseller. E può essere significativo, per la storia dell’editoria italiana, che i pochi raggi di sole provengano oggi dal porno soft di E.L. James. Le cifre complessive sono nere, nerissime (nel 2012 meno 8,7% del fatturato secondo l’Aie, meno 9% dei lettori forti secondo il Centro del Libro, numeri da raffrontare al 2011 già segnato dalla crisi). E se Giovanni Peresson cerca di mitigare il crollo paragonando il cattivo andamento dei libri agli altri consumi culturali (meno 8,8% per la musica e meno 10% per il cinema di
sala), rimane il dato di fondo: il mercato editoriale diventa per la prima volta ciclico, ossia inverte la tendenza che lo ha sempre visto in crescita nelle stagioni recessive.
La crisi colpisce ovunque, ma soprattutto le grandi aziende. Dario Giambelli, amministratore delegato di Feltrinelli, squaderna le rilevazioni di GFK, secondo il quale «tra l’agosto del 2011 e l’agosto del 2012 il mercato complessivo della varia ha perduto 8 milioni di copie e circa 110 milioni di fatturato; di questi ultimi, 90 milioni provengono dalle casse dei primi cinque grandi gruppi». Quanto alla legge Levi, Giambelli la giudica un danno per i lettori: «Solo nelle librerie Feltrinelli abbiamo sottratto ai consumatori sconti per 3 milioni di euro». Non è meno lieve Riccardo Cavallero, gran capo della Mondadori, che definisce il provvedimento «una bomba caduta sul mercato librario». E tutto questo
«in odio al liberismo, e in nome di una malintesa idea di statalismo». Ma che cos’è il liberismo? E cosa lo statalismo? Provvede a correggere i termini Antonio Sellerio, capofila insieme a Ginevra Bompiani del partito (molto applaudito) della “bibliodiversità”. «È statalismo invocare una regolamentazione in un mercato così importante come quello culturale?». In molti, tra editori e librai, si domandano ragionevolmente che cosa sarebbe accaduto se, di fronte a una crisi spaventosa come questa, non ci fosse stata una legge a tutela del prezzo di copertina. E Teresa Cremisi, alla guida di Flammarion, ha buon gioco nell’elencare gli effetti benefici della legge francese (tetto del 5%). Nessuno, aggiunge, protesta per cambiarla. Da noi, invece, più d’uno vorrebbe modificare la legge. In direzione opposta. Tutti d’accordo nel definire troppo debole la forbice tra lo sconto autorizzato (15%) e lo sconto previsto per campagne (25%). Ma se per i marchi medi-piccoli bisogna abbassare il primo, per i colossi bisogna elevare lo sconto delle campagne. La conclusione spetta a Giuseppe Laterza, promotore di una legge sul libro di iniziativa popolare, che ricorda come la crisi culturale in atto non sia solo questione di prezzo di copertina («Ma avete visto come parlano Marchionne e Della Valle?»). Occorre in sostanza una riflessione più ampia, che non si limiti al costo dei libri. Basterà per indurre alla lettura le nostre classi dirigenti? Il dubbio rimane legittimo.
La Repubblica 26.09.12

"Più candidati, un solo programma", di Cesare Damiano e Giorgio Merlo

Il Pd è un partito di governo. È il più grande partito riformista del paese e, attraverso la sua concreta esperienza, ha cambiato in profondità la geografia politica. Un’esperienza e un ruolo che possono essere determinanti con l’avvio della prossima legislatura. Lo snodo delle primarie non sarà indifferente per il futuro del partito e molto dipenderà da come esse verranno gestite, con quale profilo di governo.
È noto, infatti, che il dopo Monti si giocherà prevalentemente sul versante programmatico. Ora, al di là delle ipotesi regolamentari e delle prassi procedurali, pur importanti (noi chiediamo che venga istituito l’albo degli elettori almeno una settimana prima del voto delle primarie), dovrebbe essere chiaro che il Pd non può presentarsi alle elezioni con una pluralità di progetti di governo. Un conto sono le diverse sensibilità culturali che hanno contribuito a fondare il partito e che competono legittimamente alla leadership quando si celebra il congresso nazionale. Altra cosa, radicalmente diversa, è la competizione per la guida politica del paese. In questo caso la ricetta di governo non può che essere unitaria e compatta.
Com’è possibile, al di là di ogni valutazione di merito sulle molte candidature che emergono tra i nostri dirigenti a sostituire Monti, che nel Pd ci siano molti, troppi, progetti di governo? Com’è pensabile trasmettere fiducia e credibilità nell’elettorato di riferimento, e non solo, quando emerge una babele di lingue programmatiche? Il rischio concreto è quello di generare disorientamento e confusione tra i militanti e gli iscritti e nell’intero elettorato. Perché delle due l’una: o il Pd è un soggetto plurale ma si riconosce, attraverso un paziente confronto interno, nella stessa sintesi programmatica, oppure questa “pluralità” culturale è solo fonte di divisione, spaccatura e radicalizzazione delle posizioni. Un epilogo francamente inaccettabile e difficilmente sostenibile anche nel rapporto con l’opinione pubblica, pena la progressiva perdita di credibilità e di immagine. Su questo fronte, dunque, è decisivo indicare le alleanze che si vogliono perseguire e il programma di governo che si vuol costruire. Cosa significa, ad esempio come fa il sindaco di Firenze, sostenere che il candidato premier deve fare le alleanze solo con i cittadini che vede e ascolta e non con i partiti che dovrebbero interpretare e tradurre in proposte concrete quelle istanze? Cosa significa che la costruzione del programma di governo del nostro partito, e quindi del centrosinistra, deve avvenire cammin facendo?
Mentre per la conquista della leadership e nel messaggio della rottamazione qualunque slogan, anche demagogico e populista, può essere ritenuto ammissibile (anche se questo non dovrebbe avvenire tra compagni dello stesso partito), sul fronte programmatico un partito deve essere credibile e chiaro ed i cittadini devono sapere con esattezza ciò che pensa e propone.
Se la sostituzione di Mario Monti è così popolare ed attira molte candidature del Pd, si tratta di capire se siamo di fronte soltanto ad una ambizione personale o se, al contrario, esse sono accompagnate da un organico progetto di governo. Altrimenti il rischio di un dissolvimento è dietro l’angolo. Perché una comunità politica, seppure plurale come la nostra, può implodere se al suo interno permane un confronto tra progetti incompatibili tra di loro. Occorre arrivare rapidamente ad una sintesi. Il progetto è di identità. Ecco perché la campagna per le primarie non può essere ridotta ad un puro fatto mediatico o ad una passerella. Ormai è in gioco il futuro del paese e il profilo del governo. Servono chiarezza, serietà e trasparenza. Per il bene del Pd e per la credibilità della coalizione di centrosinistra.

da Europa Quotidiano 26.09.12

"Più candidati, un solo programma", di Cesare Damiano e Giorgio Merlo

Il Pd è un partito di governo. È il più grande partito riformista del paese e, attraverso la sua concreta esperienza, ha cambiato in profondità la geografia politica. Un’esperienza e un ruolo che possono essere determinanti con l’avvio della prossima legislatura. Lo snodo delle primarie non sarà indifferente per il futuro del partito e molto dipenderà da come esse verranno gestite, con quale profilo di governo.
È noto, infatti, che il dopo Monti si giocherà prevalentemente sul versante programmatico. Ora, al di là delle ipotesi regolamentari e delle prassi procedurali, pur importanti (noi chiediamo che venga istituito l’albo degli elettori almeno una settimana prima del voto delle primarie), dovrebbe essere chiaro che il Pd non può presentarsi alle elezioni con una pluralità di progetti di governo. Un conto sono le diverse sensibilità culturali che hanno contribuito a fondare il partito e che competono legittimamente alla leadership quando si celebra il congresso nazionale. Altra cosa, radicalmente diversa, è la competizione per la guida politica del paese. In questo caso la ricetta di governo non può che essere unitaria e compatta.
Com’è possibile, al di là di ogni valutazione di merito sulle molte candidature che emergono tra i nostri dirigenti a sostituire Monti, che nel Pd ci siano molti, troppi, progetti di governo? Com’è pensabile trasmettere fiducia e credibilità nell’elettorato di riferimento, e non solo, quando emerge una babele di lingue programmatiche? Il rischio concreto è quello di generare disorientamento e confusione tra i militanti e gli iscritti e nell’intero elettorato. Perché delle due l’una: o il Pd è un soggetto plurale ma si riconosce, attraverso un paziente confronto interno, nella stessa sintesi programmatica, oppure questa “pluralità” culturale è solo fonte di divisione, spaccatura e radicalizzazione delle posizioni. Un epilogo francamente inaccettabile e difficilmente sostenibile anche nel rapporto con l’opinione pubblica, pena la progressiva perdita di credibilità e di immagine. Su questo fronte, dunque, è decisivo indicare le alleanze che si vogliono perseguire e il programma di governo che si vuol costruire. Cosa significa, ad esempio come fa il sindaco di Firenze, sostenere che il candidato premier deve fare le alleanze solo con i cittadini che vede e ascolta e non con i partiti che dovrebbero interpretare e tradurre in proposte concrete quelle istanze? Cosa significa che la costruzione del programma di governo del nostro partito, e quindi del centrosinistra, deve avvenire cammin facendo?
Mentre per la conquista della leadership e nel messaggio della rottamazione qualunque slogan, anche demagogico e populista, può essere ritenuto ammissibile (anche se questo non dovrebbe avvenire tra compagni dello stesso partito), sul fronte programmatico un partito deve essere credibile e chiaro ed i cittadini devono sapere con esattezza ciò che pensa e propone.
Se la sostituzione di Mario Monti è così popolare ed attira molte candidature del Pd, si tratta di capire se siamo di fronte soltanto ad una ambizione personale o se, al contrario, esse sono accompagnate da un organico progetto di governo. Altrimenti il rischio di un dissolvimento è dietro l’angolo. Perché una comunità politica, seppure plurale come la nostra, può implodere se al suo interno permane un confronto tra progetti incompatibili tra di loro. Occorre arrivare rapidamente ad una sintesi. Il progetto è di identità. Ecco perché la campagna per le primarie non può essere ridotta ad un puro fatto mediatico o ad una passerella. Ormai è in gioco il futuro del paese e il profilo del governo. Servono chiarezza, serietà e trasparenza. Per il bene del Pd e per la credibilità della coalizione di centrosinistra.
da Europa Quotidiano 26.09.12

"“Cambiamo l’ora di religione” Profumo fa infuriare i cattolici", di Corrado Zunino

«Volevo includere, non escludere». È stupito il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, per le reazioni a effetto ritardato alla sua frase «bisogna rivedere i programmi di religione». L’ha pronunciata sabato scorso a Torino, con il solito stile colloquiale, all’inaugurazione del nuovo campus universitario Luigi Einaudi, l’ha ripetuta ieri mattina all’apertura della biblioteca del Miur, e adesso ne è pentito. L’ex rettore, il tecnico, ancora una volta non ha compreso l’ampiezza della giacca che adesso porta.
Profumo ha osservato come «nelle scuole ci sono studenti che vengono da culture, religioni e Paesi diversi. Credo che debba cambiare il modo di fare scuola, che debba essere più aperto. Ci vuole una revisione dei nostri programmi in questa direzione». E insieme alla religione, che il ministro preferirebbe sostituire con una più moderna scuola delle religioni o scuola dell’etica, Profumo ha immaginato la rottamazione della geografia classica: «La scuola è più aperta e multietnica e deve sapersi correlare al mondo di oggi». D’altro canto, in molte classi italiane «metà degli studenti è straniero». In tutto il Paese la media è di uno studente ognidieci.
Di fronte al montare delle polemiche, il ministro Profumo ricorda come a fine giugno abbia firmato, all’interno del rinnovo del Concordato Stato-Chiesa, le due intese riguardanti l’insegnamento della religione cattolica nelle
scuole pubbliche e le indicazioni didattiche e che, in verità, nei pochi mesi di governo che restano non intenda mettere mano a una materia così articolata e scivolosa. Le reazioni, però, sono state davvero molte. Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura, ha detto: «È importante il rinnovamento della didattica nel metodo, ma il messaggio evangelico e i grandi insegnamenti cristiani vanno sempre insegnati». Monsignor Gianni Ambrosio, presidente della commissione Cei per la scuola, ha aggiunto: «L’insegnamento della religione cattolica non è una lezione di catechismo, bensì un’introduzione a quei valori fondanti della nostra realtà culturale che trovano la loro radice nel cristianesimo».
Il centro e la destra hanno accusato Profumo di varie cose, soprattutto di essere uscito dai binari. Il capogruppo alla Camera del Pdl, Maurizio Gasparri: «Non spetta a un governo tecnico la revisione dei programmi scolastici.
È bene chiarire che in Italia il cattolicesimo nelle scuole non è semplicemente una materia, ma rappresenta l’identificazione e la riaffermazione delle nostre radici storiche e culturali». Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera (Pdl): «Capisco la preoccupazione del ministro Profumo sulla necessità che la scuola non ghettizzi chi viene da altri Paesi, ma questa attenzione non deve scadere nel relativismo». Per Paola Binetti (Udc), «oggi abbiamo più bisogno di religione, una religione insegnata meglio e testimoniata prima di tutto con l’esempio degli insegnanti. Chi non vuole, d’altro canto, può sempre restare fuori dall’aula». Davide Cavallotto per la Lega Nord ha riassunto tranchant: «Dopo la personale crociata contro il Nord, adesso il ministro Profumo dichiara guerra all’ora di religione».
Le parole non controllate dal ministro hanno provocato una ola nel mondo dei Radicali. La giovane senatrice Donatella Poretti: «In Italia non si insegna storia delle religioni, si fa catechismo con i soldi pubblici». Pierfelice Zazzera (Idv), vicepresidente della Commissione cultura della Camera, ha detto che rivedere l’ora di religione è giusto ma non sufficiente: «Bisogna procedere al taglio dei fondi stanziati per le scuole private e confessionali». La Rete degli studenti medi ha ribadito il concetto e così la Cgil: «L’aumento degli alunni stranieri deve essere una grande opportunità per un nuovo approccio all’educazione interculturale». Molti nel Partito democratico sono favorevoli alla revisione, ma la responsabile scuola Francesca Puglisi ora ricorda: «Profumo dovrebbe assegnare alle scuole gli insegnanti necessari per poter svolgere l’ora di alternativa alla religione invece di costringere gli studenti ad abbandonare la classe o studiare in palestra».

La Repubblica 26.09.12

"“Cambiamo l’ora di religione” Profumo fa infuriare i cattolici", di Corrado Zunino

«Volevo includere, non escludere». È stupito il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, per le reazioni a effetto ritardato alla sua frase «bisogna rivedere i programmi di religione». L’ha pronunciata sabato scorso a Torino, con il solito stile colloquiale, all’inaugurazione del nuovo campus universitario Luigi Einaudi, l’ha ripetuta ieri mattina all’apertura della biblioteca del Miur, e adesso ne è pentito. L’ex rettore, il tecnico, ancora una volta non ha compreso l’ampiezza della giacca che adesso porta.
Profumo ha osservato come «nelle scuole ci sono studenti che vengono da culture, religioni e Paesi diversi. Credo che debba cambiare il modo di fare scuola, che debba essere più aperto. Ci vuole una revisione dei nostri programmi in questa direzione». E insieme alla religione, che il ministro preferirebbe sostituire con una più moderna scuola delle religioni o scuola dell’etica, Profumo ha immaginato la rottamazione della geografia classica: «La scuola è più aperta e multietnica e deve sapersi correlare al mondo di oggi». D’altro canto, in molte classi italiane «metà degli studenti è straniero». In tutto il Paese la media è di uno studente ognidieci.
Di fronte al montare delle polemiche, il ministro Profumo ricorda come a fine giugno abbia firmato, all’interno del rinnovo del Concordato Stato-Chiesa, le due intese riguardanti l’insegnamento della religione cattolica nelle
scuole pubbliche e le indicazioni didattiche e che, in verità, nei pochi mesi di governo che restano non intenda mettere mano a una materia così articolata e scivolosa. Le reazioni, però, sono state davvero molte. Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura, ha detto: «È importante il rinnovamento della didattica nel metodo, ma il messaggio evangelico e i grandi insegnamenti cristiani vanno sempre insegnati». Monsignor Gianni Ambrosio, presidente della commissione Cei per la scuola, ha aggiunto: «L’insegnamento della religione cattolica non è una lezione di catechismo, bensì un’introduzione a quei valori fondanti della nostra realtà culturale che trovano la loro radice nel cristianesimo».
Il centro e la destra hanno accusato Profumo di varie cose, soprattutto di essere uscito dai binari. Il capogruppo alla Camera del Pdl, Maurizio Gasparri: «Non spetta a un governo tecnico la revisione dei programmi scolastici.
È bene chiarire che in Italia il cattolicesimo nelle scuole non è semplicemente una materia, ma rappresenta l’identificazione e la riaffermazione delle nostre radici storiche e culturali». Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera (Pdl): «Capisco la preoccupazione del ministro Profumo sulla necessità che la scuola non ghettizzi chi viene da altri Paesi, ma questa attenzione non deve scadere nel relativismo». Per Paola Binetti (Udc), «oggi abbiamo più bisogno di religione, una religione insegnata meglio e testimoniata prima di tutto con l’esempio degli insegnanti. Chi non vuole, d’altro canto, può sempre restare fuori dall’aula». Davide Cavallotto per la Lega Nord ha riassunto tranchant: «Dopo la personale crociata contro il Nord, adesso il ministro Profumo dichiara guerra all’ora di religione».
Le parole non controllate dal ministro hanno provocato una ola nel mondo dei Radicali. La giovane senatrice Donatella Poretti: «In Italia non si insegna storia delle religioni, si fa catechismo con i soldi pubblici». Pierfelice Zazzera (Idv), vicepresidente della Commissione cultura della Camera, ha detto che rivedere l’ora di religione è giusto ma non sufficiente: «Bisogna procedere al taglio dei fondi stanziati per le scuole private e confessionali». La Rete degli studenti medi ha ribadito il concetto e così la Cgil: «L’aumento degli alunni stranieri deve essere una grande opportunità per un nuovo approccio all’educazione interculturale». Molti nel Partito democratico sono favorevoli alla revisione, ma la responsabile scuola Francesca Puglisi ora ricorda: «Profumo dovrebbe assegnare alle scuole gli insegnanti necessari per poter svolgere l’ora di alternativa alla religione invece di costringere gli studenti ad abbandonare la classe o studiare in palestra».
La Repubblica 26.09.12

"Il «concorsone» non è roba per giovani", di Luciana Cimino

I neo laureati dovranno aspettare ancora. Per lo meno di finire i Tfa (Tirocinio formativo attivo, l’abilitazione). Come anticipato nei giorni scorsi il concorso per l’insegnamento nella scuola pubblica è riservato a docenti già abilitati. L’antitesi giovani/vecchi che aveva scatenato il dibattito nei giorni scorsi sembra concludersi. Alle prove possono iscriversi i precari che stanno nelle graduatorie a esaurimento (e dunque che hanno frequentato le Siss o superato i concorsi del 90 o del 99) e i laureati con il vecchio ordinamento, quindi fino all’anno accademico 2003/2004. Ei giovani? Profumo aveva manifestato più volte la necessità di “svecchiare” il corpo docente e quella di dare una opportunità ai ragazzi appena laureati. Il turno per loro però non arriverà prima del prossimo anno. Il Miur ha intenzione infatti di indire un nuovo concorso per la prossima primavera, stavolta riservato solo a coloro che avranno concluso il primo ciclo del Tfa (le cui lezioni stanno cominciando in questi giorni). PAURA Ma tra gli ammessi cresce la paura che la prima selezione (che costerà all’Erario circa un milione di euro) possa esaurire i posti a disposizione. Anche per anni. E dunque che alla fine si crei un’altra imponente mole di precari ad aggiungersi ai «bocciati» del prima tanche di concorso. E intanto arriva anche il parere del Cnpi (Consiglio nazionale pubblica istruzione): pur esprimendo una valutazione positiva per parti relative ai programmi d’esame, alle prove e alla valutazione dei titoli, il consiglio ritiene nel complesso «inopportuno» bandire un concorso in una fase di grande disagio per i precari della scuola, nel contesto di una riforma pensionistica che contribuisce a ridurre ulteriormente i posti disponibili e mentre è appena iniziato il percorso abilitante attraverso i Tfa. Per il Cnpi il concorso troverebbe «la sua giusta collocazione» solo dopo aver programmato un organico funzionale, dopo la completa l’attivazione delle procedure abilitanti e dopo la revisione delle classi di concorso. Il ministro Profumo è però ottimista: «credo che il concorso sia per gli insegnanti una grande opportunità – ha dichiarato ieri in occasione dell’apertura della biblioteca del Miur e che le persone con grande saggezza parteciperanno, perché sarà data loro la possibilità indipendentemente dalla loro posizione in graduatoria, di accelerare il loro percorso e di entrare in ruolo prima di altri». Ma i sindacati minacciano battaglia. L’Anief annuncia una pioggia di ricorsi. «È illegittimo escludere i laureati degli ultimi dieci anni o i soli dipendenti della scuola. Sbagliata la soglia dei quesiti della prova preselettiva. Manca una nuova graduatoria di merito per i prossimi tre anni». Così, dicono, si lasciano «fuori i giovani e i più esperti». E mentre sui social network i professori si chiedono perché fra i requisiti richiesti non ci sia alcun modo per indicare la propria esperienze nelle classi, la FlcCgil chiede di nuovo «un piano di investimenti nella scuola che coniughi il dato occupazionale con la qualità della scuola pubblica» e convoca i docenti e il personale scuola per il 12 ottobre, giorno di sciopero «per rivendicare quell’inversione di tendenza richiesta da tempo e che aprirebbe a un sano progetto di reclutamento».

L’Unità 26.09.12

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Due ragioni opposte si trasformano in due torti”, di Mario Castagna

Nessun giovane appena uscito dalle aule universitarie potrà parteciparvi e sarà solamente una seconda via per i tanti precari che in questi anni hanno faticato e accumulato posizioni in graduatoria per ottenere finalmente una cattedra: Purtroppo le indiscrezioni sul concorso per gli insegnanti voluto dal Ministro Profumo sono state confermate.
Nessun giovane appena uscito dalle aule universitarie potrà parteciparvi e sarà solamente una seconda via per i tanti precari che in questi anni hanno faticato e accumulato posizioni in graduatoria per ottenere finalmente una cattedra. Viene confermato così il teorema tipico della seconda Repubblica, in base al quale dietro ogni grande proclama si nasconde sempre una mezza misura. Ma le ansie mediatiche prevedono solo compromessi al ribasso e non veri processi di riforma. L’apertura ai giovani si è rilevata l’ennesimo grimaldello per ottenere un titolo sui giornali, e non per scardinare la segregazione generazionale che vede i nostri giovani fuori da ogni porta. Se il concorso si rileva solamente un rimescolamento delle graduatorie degli insegnanti precari, non è troppo lontano dal vero chiamarlo concorso truffa. Se è così è inutile farlo, meglio risparmiare qualche soldo da utilizzare per ristrutturare una scuola o assumere qualche insegnante di sostegno in più. L’esigenza di aprire la porta alla nuova generazione e di portarla finalmente dietro le cattedre era sacrosanta così come quella di riconoscere le esperienze di chi dietro una cattedra ci sta già da tanti anni senza nessuna garanzia. Ma il ministro Profumo rischia così di trasformare le due ragioni in due torti: la beffa per i precari, la pacca sulle spalle per i giovani. Due categorie sempre al centro di ogni impegno, tanto nominati quanto penalizzati. Questo concorso non valorizza l’insegnante italiano, demotivato, malpagato, abbandonato seppur pieno di buona volontà. L’onda di entusiasmo e di impegno con cui il mondo della scuola sempre ci sorprende, andrebbe invece sostenuta. Potrà capitare che rompa qualche argine, ma renderà fertile il terreno di un’Italia che fatica a ritrovare la speranza.

L’Unità 26.09.12