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"Anni per avere un bimbo. Quanto è difficile adottare", di Gioia Salvatori

Un percorso burocratico ad ostacoli per le coppie che decidono di adottare un bambino. Colloqui, analisi, carte, incontri con gli psicologi, con i carabinieri e il giudice. Il racconto di Sonia e Gianluca che ora hanno un piccolo cinese: «Da una parte è doveroso sottoporsi a quanto richiesto dalla legge perché si tratta di un figlio. Dall’altra è un iter che logora anche i più volenterosi». E adottare in Italia è ancora più difficile.Sonia e Gianluca hanno 42 e 43 anni, vivono a Legnano e loro figlio è un bimbo nato in Cina che mentre parliamo gioca col cane di casa Camillo e chiama la mamma. Attira l’attenzione in perfetto italiano, è sereno, va all’asilo e ha colmato in fretta una distanza che pareva siderale. Il piccolo di casa viene dalla città di Zhengzhou, a sud di Pechino, provincia dell’Henan. Sonia e Gianluca volevano una bambina cinese, l’hanno cercata, nell’iter dell’adozione, pensando alle bimbe che in quella parte di mondo vengono uccise solo perché femmine.
Tempi lunghi
Sono stati fortunati: dopo tre anni di domande, certificati, colloqui al vaglio di assistenti sociali e giudici, davanti a loro si è materializzata una creatura cinquenne sorridente e ben predisposta, che aveva torturato tra le mani per giorni l’album fotografico dei futuri genitori, che li aspettava, li ha riconosciuti subito e subito si è fatta coccolare. Non femmina ma maschio, come il caso e la disponibilità del momento hanno voluto, tuttavia affettuosissimo, abituato ai baci e alle carezze dalla famiglia affidataria.
Ma iniziamo da capo, perché la gioia di avere un figlio adottivo non è mai gratis: si paga con complicazioni burocratiche e psicologiche, paure, ansie, soldi. L’adozione è una corsa a ostacoli: vince chi è più solido per tutto il tempo necessario a prepararsi all’arrivo del figlio, mai meno di due anni e mezzo, anche cinque, per un’adozione internazionale. Sonia, che ha atteso dal 2009 al 2012, lo definisce un tempo lungo ma «Un tempo necessario per abituarsi all’idea di essere genitori adottivi». Lei e Gianluca sono arrivati saldi di fronte alle difficoltà che l’iter per l’adozione presenta. Sonia, impiegata, aveva superato il lutto per il figlio che non arriva, le lacrime e quel sottile senso di scoramento davanti a una donna incinta. Gianluca, che tre anni fa era disoccupato, ha dovuto dimostrare che si dava da fare per trovare lavoro, che sapeva reagire davanti ai problemi. «I colloqui con gli assistenti sociali sono stati come un’analisi», raccontano, «hanno sviscerato tutto della coppia, risalendo fino alla nostra conoscenza».
Lavoro doveroso perché «prima di tutto c’è il futuro del bambino» ma per i due adulti è una prova pesante tra senso di invasività e timore di non essere compresi, scartati. Dopo gli assistenti sociali arriva il giudice onorario che vaglia la relazione. Sonia e Gianluca sono forti, ma davanti a quel giudice che decide se potrai essere genitore, tremano le gambe: «In 45 minuti ti giochi un anno passato tra uffici, corsi e colloqui con gli assistenti sociali, se ti bocciano puoi ricorrere ma i tempi si allungano alla grande».
Finito il colloquio tremano ancora per un mese e mezzo, un periodo vissuto in un limbo di ansia finché con arriva il responso: il certificato di idoneità che ti diploma genitore adottivo, via libera all’adozione internazionale. Per Sonia e Gianluca è arrivano nel 2010, a un anno dalla presentazione della domanda al tribunale dei minori di Milano. Duplice istanza, la loro, per adottare in Italia e all’estero.
Come i più, per il territorio nazionale non sono mai stati chiamati «nonostante ci siano ragazzi che restano in orfanotrofio fino a 18 anni, in Italia…», denunciano. Sono idonei ad adottare un bimbo straniero, però. Il peggio pare passato: «I cinque colloqui con gli assistenti sociali, con la paura delle incomprensioni, il senso di intrusività che ti danno, sono stati il periodo più stressante di tutto l’iter», racconta Sonia. Peggio di quando fai la prima domanda e devi presentare mille carte, compresi esami diagnostici, peggio di quando vai a colloquio coi carabinieri e ci vogliono sei mesi prima che la loro nota arrivi al tribunale minorile, «peggio di quando ti hanno già detto che c’è un bimbo per te ma ci vogliono nove mesi perché nel fascicolo cinese venga allegato il certificato di lavoro di tuo marito».
Il peggio pare passato e invece sono solo all’inizio. Ora c’è la fase due, in cui una delle scelte più difficili è quella dell’associazione a cui affidarsi: deve essere autorizzata e cooperare nel Paese a cui aspiri. «Abbiamo visitato sei enti: i tre più grandi che lavorano con la Cina e tre minori. A settembre del 2010 siamo tornati da uno dei tre maggiori, il C.i.f.a. e abbiamo conferito il mandato» racconta Sonia.
Si paga in questo momento la prima parte di una cifra che si aggira sui 20mila euro, compreso viaggio e tre settimane di permanenza in Cina. Dopo il mandato arrivano i mesi dell’attesa della chiamata «quelli in cui non devi pensare al tempo che passa», quelli in cui ti prepari ancora con corsi, incontri, confronti. Per Sonia e Gianluca c’era l’associazione il Filo di Arianna di Milano che avevano frequentato fin da prima di fare domanda al tribunale.
Si occupa anche di assistere i genitori adottivi nella fase del post-adozione, quella per cui nessuno, se non l’associazionismo, prevede servizi ad hoc. La presidente Nicoletta Belfanti racconta di ricevere e-mail da tutta Italia da parte di genitori adottivi che hanno problemi coi figli adolescenti e che non sanno a chi rivolgersi. Passa altro tempo e si fa giugno 2011, quando a casa squilla il telefono e all’altro capo ti dicono che c’è un bimbo adottabile che risponde alle tue disponibilità «Quando ci hanno convocato mi sono tremate le gambe, pensavamo di avercela fatta, finalmente».
Ma anche stavolta non si può dire l’ultima parola: bisogna comunicare alla Cina che Gianluca ha trovato lavoro e ci vogliono quasi nove mesi per avere il certificato, tradurlo, spedirlo e validarlo dall’altro capo del mondo. Gianluca e Sonia volano in Cina solo a febbraio del 2012, dopo tre anni dalla presentazione della domanda. Quel bimbo che gli avevano “abbinato” ha quasi un anno in più e lo ha passato con la famiglia affidataria.
Solo nei giorni appena precedenti l’arrivo dei nuovi genitori viene portato in un orfanotrofio dove Sonia e Gianluca lo incontrano con le lacrime agli occhi. Non una femmina ma comunque un figlio del popolo che avevano deciso di aiutare. Ora gioca, va all’asilo e ha fatto di una coppia una nuova famiglia. Sonia e Gianluca, ora, attendono solo che cresca.
L’Unità 26.09.12

"Dai finanziamenti ai partiti alle spese per cene e amici le tre bugie della Polverini", di Paolo Boccacci e Carlo Bonini

I manifesti con cui è stata incartata la città («Questa gente la mando a casa io. Ora Pulizia»). Gigantografie per lo più affisse in modo abusivo (come denunciato dai radicali) e pagate dalla sua fondazione “Città Nuove”, i cui bilanci, donatori, disponibilità, sono un altro di quei segreti ben custoditi alla voce “finanziamento della politica”. Il messaggio veicolato dagli avventurosi spin doctors della ex governatrice suona così: «Non sono complice ma vittima di un consiglio abitato da codardi, malfattori, ipocriti, avvelenato da una faida interna al Pdl, che ha manomesso le casse della Regione e abusato di denaro pubblico a mia insaputa. Fino a quando non ho smascherato questa vergogna». È un paradigma della manipolazione che abbiamo imparato a conoscere in questi anni e in cui non si ravvisa, se solo lo si sottopone alla prova dei fatti, un solo
elemento di verità. Vediamo.
1. «NON MI OCCUPAVO DEI FONDI»
Dice la Polverini: «La Giunta ha solo stanziato 35 milioni per il finanziamento del Consiglio. E comunque ho chiesto più volte al Presidente dell’Assemblea regionale Mario Abbruzzese che avviasse una spending review. Gli ho inviato
lettere molto dure».
Almeno sette circostanze documentali svelano l’inconsistenza di questo argomento che vorrebbe la governatrice dispensatrice passiva e politicamente inerme di denaro pubblico.
Tra il 2010 e il 2011, l’ufficio di Presidenza del Consiglio regionale corregge infatti, con cinque successive delibere, le iniziali dotazioni di bilancio (1 milione) destinate al finanziamento dei gruppi gonfiandole prima di 5 milioni e 400 mila euro, quindi di 3, ancora di 3 e infine di 2 milioni e 700 mila. Sono provvedimenti presi con il voto unanime dell’ufficio di Presidenza in cui siedono i rappresentanti di maggioranza e opposizione. Dunque, anche con il voto della “Lista Polverini”, di cui la governatrice, per altro, è consigliere eletto. Ma non basta. Quelle delibere, per ottenere ciò che chiedono, devono necessariamente passare per uno stanziamento di denaro da parte della giunta. Che infatti arriva nel 2011. Anche qui, con due delibere (febbraio e dicembre 2011) firmate da Luca Fegatelli, direttore del Dipartimento istituzionale e territorio, ufficio alle dirette dipendenze della Polverini. Ora, se la Polverini dice il vero, dobbiamo immaginare un Abruzzese frenato da quelle “dure lettere” in cui gli si chiede di chiudere i cordoni della borsa. Peccato che, nell’anno in corso – 2012 – non solo la dotazione dei fondi ai gruppi non venga ridotta, ma, al contrario, cresca ancora. Con il placet della Giunta e della Lista Polverini che, come candidamente ammette il suo capogruppo Mario Brozzi, al luglio scorso, si è già visto accreditare 2 milioni e 200 mila euro.
2. «IGNORAVO COME IL PDL SPENDESSE I SOLDI»
Risponde sarcastica la Polverini a chi le chiede come facesse a ignorare come spendesse il denaro pubblico quell’allegra combriccola del Pdl che si ritrovava alla Pisana: «Ragazzi, ragazzi, dovete studiare. Non è compito né mio, né della Giunta sapere come quei fondi venivano spesi».
Vittima della sua foga assertiva, la Polverini inciampa in un argomento logico, prima ancora che in un’obiezione fattuale. Se non sapeva, se non era suo compito non diciamo controllare, ma almeno informarsi, non si capisce allora perché avesse scritto quelle «dure lettere» ad Abruzzese. Ma, soprattutto, non si capisce perché abbia memoria solo delle lettere che ha spedito e non di quelle che ha ricevuto. Come quella del 18 luglio scorso a firma Franco Fiorito (ora
agli atti dell’inchiesta della Procura). Una paginetta senza perifrasi cui l’ex governatrice non diede mai risposta e in cui si legge: «Sollecitato da alcuni zelanti colleghi ho proceduto ad una serie di controlli su documenti giustificativi delle spese effettuate per il mantenimento del rapporto con gli elettori. Trovando una situazione assolutamente insostenibile, con assenza totale di documenti in alcuni casi e con giustificazioni, diciamo così, da approfondire, eccessivamente generiche e prive di riscontri effettivi (…) Come certo concorderà, è impossibile tollerare. E per questo, per i casi più evidenti, attendo risposta, in assenza della quale agirò, ove necessario, a mia e nostra tutela, secondo quanto previsto dalla legge».
3. «NOI SIAMO TRASPARENTI»
Ripete da 14 giorni l’ex governatrice che lei «non ha nulla da nascondere». Che i finanziamenti della sua lista sono trasparenti come acqua di fonte.
Lunedì 17 settembre, quando la tempesta perfetta sta per inghiottire la Pisana, uscendo a passo svelto da casa, ammansisce chi prova a farle delle domande con l’annuncio che, di lì «a due ore» i conti della sua lista saranno on-line. A disposizione dei cittadini. Le 2 ore diventano 7 giorni e solo domenica scorsa appaiono 3 file sul sito del Gruppo. Alcune voci appaiono incongrue, come, per dirne alcune, i costi sostenuti per i manifesti (886 mila euro), quello per «pasti in ristoranti e bar» (poco meno di 200 mila euro). È ancora Brozzi a rassicurare che «è tutto in regola». Che «non c’è una sola spesa ingiustificata o ingiustificabile ». Affermazioni a cui ieri, l’Espresso, con un documentato servizio sul suo sito, fa le bucce. Per scoprire che anche quella mossa di apparente trasparenza è solo «un’ultima furbata». «Quanto pubblicato on-line dalla Polverini documenta solo la metà delle spese sostenute dalla lista nel 2011». E anche in quel modesto scatafascio c’è di che interrogarsi. Per dirne un paio, fondi destinati a bocciofile con sede a Novi Sad e contributi al consigliere Pdl Andrea Bernaudo, quello cui Fiorito pagava le ostriche con soldi nostri.

La Repubblica 26.09.12

"Dai finanziamenti ai partiti alle spese per cene e amici le tre bugie della Polverini", di Paolo Boccacci e Carlo Bonini

I manifesti con cui è stata incartata la città («Questa gente la mando a casa io. Ora Pulizia»). Gigantografie per lo più affisse in modo abusivo (come denunciato dai radicali) e pagate dalla sua fondazione “Città Nuove”, i cui bilanci, donatori, disponibilità, sono un altro di quei segreti ben custoditi alla voce “finanziamento della politica”. Il messaggio veicolato dagli avventurosi spin doctors della ex governatrice suona così: «Non sono complice ma vittima di un consiglio abitato da codardi, malfattori, ipocriti, avvelenato da una faida interna al Pdl, che ha manomesso le casse della Regione e abusato di denaro pubblico a mia insaputa. Fino a quando non ho smascherato questa vergogna». È un paradigma della manipolazione che abbiamo imparato a conoscere in questi anni e in cui non si ravvisa, se solo lo si sottopone alla prova dei fatti, un solo
elemento di verità. Vediamo.
1. «NON MI OCCUPAVO DEI FONDI»
Dice la Polverini: «La Giunta ha solo stanziato 35 milioni per il finanziamento del Consiglio. E comunque ho chiesto più volte al Presidente dell’Assemblea regionale Mario Abbruzzese che avviasse una spending review. Gli ho inviato
lettere molto dure».
Almeno sette circostanze documentali svelano l’inconsistenza di questo argomento che vorrebbe la governatrice dispensatrice passiva e politicamente inerme di denaro pubblico.
Tra il 2010 e il 2011, l’ufficio di Presidenza del Consiglio regionale corregge infatti, con cinque successive delibere, le iniziali dotazioni di bilancio (1 milione) destinate al finanziamento dei gruppi gonfiandole prima di 5 milioni e 400 mila euro, quindi di 3, ancora di 3 e infine di 2 milioni e 700 mila. Sono provvedimenti presi con il voto unanime dell’ufficio di Presidenza in cui siedono i rappresentanti di maggioranza e opposizione. Dunque, anche con il voto della “Lista Polverini”, di cui la governatrice, per altro, è consigliere eletto. Ma non basta. Quelle delibere, per ottenere ciò che chiedono, devono necessariamente passare per uno stanziamento di denaro da parte della giunta. Che infatti arriva nel 2011. Anche qui, con due delibere (febbraio e dicembre 2011) firmate da Luca Fegatelli, direttore del Dipartimento istituzionale e territorio, ufficio alle dirette dipendenze della Polverini. Ora, se la Polverini dice il vero, dobbiamo immaginare un Abruzzese frenato da quelle “dure lettere” in cui gli si chiede di chiudere i cordoni della borsa. Peccato che, nell’anno in corso – 2012 – non solo la dotazione dei fondi ai gruppi non venga ridotta, ma, al contrario, cresca ancora. Con il placet della Giunta e della Lista Polverini che, come candidamente ammette il suo capogruppo Mario Brozzi, al luglio scorso, si è già visto accreditare 2 milioni e 200 mila euro.
2. «IGNORAVO COME IL PDL SPENDESSE I SOLDI»
Risponde sarcastica la Polverini a chi le chiede come facesse a ignorare come spendesse il denaro pubblico quell’allegra combriccola del Pdl che si ritrovava alla Pisana: «Ragazzi, ragazzi, dovete studiare. Non è compito né mio, né della Giunta sapere come quei fondi venivano spesi».
Vittima della sua foga assertiva, la Polverini inciampa in un argomento logico, prima ancora che in un’obiezione fattuale. Se non sapeva, se non era suo compito non diciamo controllare, ma almeno informarsi, non si capisce allora perché avesse scritto quelle «dure lettere» ad Abruzzese. Ma, soprattutto, non si capisce perché abbia memoria solo delle lettere che ha spedito e non di quelle che ha ricevuto. Come quella del 18 luglio scorso a firma Franco Fiorito (ora
agli atti dell’inchiesta della Procura). Una paginetta senza perifrasi cui l’ex governatrice non diede mai risposta e in cui si legge: «Sollecitato da alcuni zelanti colleghi ho proceduto ad una serie di controlli su documenti giustificativi delle spese effettuate per il mantenimento del rapporto con gli elettori. Trovando una situazione assolutamente insostenibile, con assenza totale di documenti in alcuni casi e con giustificazioni, diciamo così, da approfondire, eccessivamente generiche e prive di riscontri effettivi (…) Come certo concorderà, è impossibile tollerare. E per questo, per i casi più evidenti, attendo risposta, in assenza della quale agirò, ove necessario, a mia e nostra tutela, secondo quanto previsto dalla legge».
3. «NOI SIAMO TRASPARENTI»
Ripete da 14 giorni l’ex governatrice che lei «non ha nulla da nascondere». Che i finanziamenti della sua lista sono trasparenti come acqua di fonte.
Lunedì 17 settembre, quando la tempesta perfetta sta per inghiottire la Pisana, uscendo a passo svelto da casa, ammansisce chi prova a farle delle domande con l’annuncio che, di lì «a due ore» i conti della sua lista saranno on-line. A disposizione dei cittadini. Le 2 ore diventano 7 giorni e solo domenica scorsa appaiono 3 file sul sito del Gruppo. Alcune voci appaiono incongrue, come, per dirne alcune, i costi sostenuti per i manifesti (886 mila euro), quello per «pasti in ristoranti e bar» (poco meno di 200 mila euro). È ancora Brozzi a rassicurare che «è tutto in regola». Che «non c’è una sola spesa ingiustificata o ingiustificabile ». Affermazioni a cui ieri, l’Espresso, con un documentato servizio sul suo sito, fa le bucce. Per scoprire che anche quella mossa di apparente trasparenza è solo «un’ultima furbata». «Quanto pubblicato on-line dalla Polverini documenta solo la metà delle spese sostenute dalla lista nel 2011». E anche in quel modesto scatafascio c’è di che interrogarsi. Per dirne un paio, fondi destinati a bocciofile con sede a Novi Sad e contributi al consigliere Pdl Andrea Bernaudo, quello cui Fiorito pagava le ostriche con soldi nostri.
La Repubblica 26.09.12

Napolitano: “Episodi vergognosi questa corruzione è inaccettabile”, di Umberto Rosso

«Inimmaginabili». «Vergognosi». «Inaccettabili». L’indignazione di Giorgio Napolitano, sull’onda dello scandalo Lazio, per «i fenomeni di corruzione » in politica ha raggiunto forse il punto più alto. Il presidente della Repubblica, per rompere il silenzio che fin qui si era imposto sulla tempesta che ha spazzato via il consiglio regionale, sceglie l’incontro al Quirinale con i giovani per l’apertura dell’anno scolastico. Che ha voluto celebrare perciò sotto il segno del «valore della legalità». Pronunciando parole durissime, e che sembrano anche spingere in direzione di una approvazione urgente della legge anticorruzione. Sono parole rivolte a tutti: «Nel disprezzo della legalità si moltiplicano malversazioni e fenomeni di corruzione vergognosi, inimmaginabili. Non è questo accettabile. Chi si preoccupa dell’antipolitica, deve saper risanare in profondità la politica». È possibile, mentre ogni giorno di
più frana la credibilità a colpi di scandali? Napolitano pensa ancora di sì, ma a condizione di una svolta senza precedenti. E fa questo paragone: «Risanare la politica, far vincere la legge si può, così come si può far vincere la legge contro la mafia: ce lo hanno dimostrato venti anni fa, e li abbiamo ricordati, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino». Insomma, per il capo dello Stato siamo di fronte ad una vera e propria emergenza sul terreno della moralità in politica, e servono una battaglia e strumenti eccezionali come quella messa in campo contro la mafia. Così come sconcertato per la bufera Lazio si dice il presidente del Senato Schifani, che chiede di far saltare ogni vincolo di segretezza sulla situazione economica di tutti gli eletti, ad ogni livello, «non ci si trinceri dietro la privacy: lo scandalo ormai, nel nostro paese, è andato oltre ogni limite di previsione». E il segretario del Pd Bersani invoca una iniziativa urgente sui costi delle regioni: «Ci sono disparità evidenti, eclatanti, non è più tollerabile che una spenda due e un’altra otto, costi non giustificabili in nome dell’autonomia. È necessario prendere un’iniziativa urgente sui costi delle Regioni.
Da subito bisogna ridurre e riformare i costi e mettere online tutte le spese».
Fra i valori che la scuola ha cercato di promuovere, ricorda napolitano, «con costanza e impegno » in questi anni, sottolinea il capo dello Stato, spicca il valore della legalità. Ma purtroppo emergono fenomeni di illegalità «inaccettabili» per «persone sensibili al bene comune, per cittadini onesti, né per chi voglia avviare un’impresa». Il riferimento è al peso di tangenti e mazzette, al condizionamento anche economico che la corruzione produce sull’attività delle aziende.
Una legalità da praticare a tutti i livelli, anche «anche nel nostro piccolo mondo quotidiano ». E nella vita scolastica vuole dire rispetto delle sue regole, rispetto dei compagni, specie di quelli più deboli, e «soprattutto degli insegnanti». La crisi resta difficile ma i progressi compiuti dimostrano come l’Italia possa farcela, «possa migliorare quando si impegna con sforzi collettivi
e condivisi».

La Repubblica 26.09.12

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“CAMBIARE SUBITO”, di EZIO MAURO

Ormai è una questione di decenza, e anche di sopravvivenza. La legge anti corruzione non può rimanere ostaggio di una destra allo sbando, arroccata nelle paure personali del suo leader, politicamente suicida al punto da non avvertire l’urgenza assoluta di mettere il nostro sistema al passo con l’Europa: ma anche, e soprattutto, con la sensibilità acutissima del Paese, che non tollera più abusi e furbizie.
La cintura di illegalità corruttiva che soffoca l’Italia e la sua libertà tiene lontani gli investimenti stranieri, penalizza le imprese, altera il mercato. Ma soprattutto pesa sul sistema per 60 miliardi all’anno, una cifra enorme che è il segno dell’arretratezza del Paese e del condizionamento di una diffusa criminalità quotidiana.
A tutto ciò si aggiungono l’uso disinvolto del denaro pubblico e gli sprechi del sistema politico. Lo scandalo della Lombardia, con le vacanze pagate al presidente Formigoni da un faccendiere della sanità, e la vergogna del Lazio, con cifre da capogiro intascate dai consiglieri regionali per spese private, fanno ormai traboccare il vaso. Ieri Napolitano ha definito la corruzione “vergognosa”, il giorno prima Monti aveva denunciato “l’inerzia” della destra.
Ora non ci sono più alibi. Il governo non può fare il notaio delle inerzie altrui: vada avanti con forza e il Premier chieda al Parlamento di approvare subito la legge. Chi non la vuole, se ne assuma la responsabilità. E l’opinione pubblica faccia sentire la sua voce. Il cambiamento può cominciare qui, oggi.

La Repubblica 26.09.12

"Non sprechiamo i sacrifici degli italiani", di Luigi La Spina

I tre presidenti italiani di maggior prestigio internazionale, quello della Repubblica, Giorgio Napolitano, quello del Consiglio, Mario Monti e quello della Banca europea, Mario Draghi, condividono, in questi giorni, la stessa forte preoccupazione per il nostro Paese. Il timore che, dopo la cospicua riduzione del divario di interessi tra i bond italiani e quelli tedeschi e il varo deciso a Francoforte dello scudo antispread, in Italia, ci si possa illudere su un definitivo superamento della crisi finanziaria dello Stato. Una eventualità che non è totalmente scomparsa, invece, sull’orizzonte del nostro futuro. Così, tra l’altro, si spiegano i tre contemporanei allarmi che, da Roma, da New York e da Berlino, oggi, hanno lanciato i tre presidenti.

La Stampa 26.09.12

Napolitano ha espresso una condanna durissima per i vergognosi esempi di corruzione e di immoralità pubblica che alimentano, con la giustificata indignazione dei cittadini, la cosiddetta «antipolitica». Monti, sia pure con il suo tipico linguaggio sobrio e allusivo, ha sollecitato l’aiuto dell’opinione pubblica perché esiga una diversa «qualità» dei loro governanti.

Draghi ha ricordato che, senza l’impegno concreto e persistente al risanamento e alla riforme delle classi politiche nazionali, non sarà sufficiente l’opera della Bce per salvare sia l’unità dell’Europa, sia la sorte dell’euro.

Le diverse responsabilità istituzionali, certamente, hanno indotto i tre presidenti a manifestare la loro apprensione con forme differenti, ma il fondamento dei timori è identico: il rischio che l’Italia, dopo aver faticosamente risalito la china della credibilità internazionale, dopo aver recuperato la stessa dignità della sua immagine sul palcoscenico del mondo, dopo aver di nuovo riscosso la fiducia sulla serietà dei suoi impegni, possa ripiombare nel discredito e nel disprezzo dei suoi partner continentali e d’oltreoceano.

Si coglie con evidenza, in questi giorni, l’amarezza e, persino, un certo disorientamento di Monti e dei ministri del suo governo. Come se lo scandalo della Regione Lazio, con i terribili danni mediatici di quelle squallide foto di festini, col contorno di maschere umane e suine, avesse reso, di colpo, vani tutti gli sforzi che, da mesi, si stanno facendo, in tutte le sedi del potere internazionale, per convincere i nostri interlocutori che l’Italia ha compiuto una svolta definitiva, irreversibile e profonda nei suoi comportamenti pubblici. Come se tutti i dubbi sul «dopo Monti», l’interrogativo che all’estero pongono con trepidazione al presidente del Consiglio, avessero avuto una risposta improvvisa ed eloquente. Come se il futuro italiano si fosse svelato ai loro occhi, dietro quelle maschere ridanciane e spudorate, diffuse, con malizioso compiacimento, sui giornali, le tv e gli schermi di Internet in tutto il mondo.

A quasi un anno dall’inizio della durissima prova a cui è stato sottoposto il nostro Paese, si è ormai capito che l’immagine dell’Italia, la percezione che in Europa si ha del nostro paese e dei nostri governanti, condizioni pesantemente sia i mercati finanziari, sia le istituzioni europee. E’ quell’immagine che rende credibili gli impegni di risanamento dei nostri conti pubblici. Quell’immagine fa sperare che le riforme approvate o solo annunciate abbiano veramente effetti concreti sull’economia italiana. Quell’immagine garantisce che anche le parti sociali abbiano compreso l’esigenza di rinunciare alle difese corporative e accettino di cambiare passo, per salvare il futuro dei giovani, le vere vittime di anni di dissipazione pubblica e di egoismo privato.

Le preoccupazioni di Monti e del suo grande «lord protettore», Giorgio Napolitano, sono condivise anche dal presidente della Bce, il quale le inserisce pure in un quadro europeo che mostra sintomi di inquietante allentamento degli impegni promessi. Draghi nota le titubanze e gli affannosi negoziati del premier spagnolo, Mariano Rajoy, soprattutto con la Merkel, per evitare di chiedere quegli aiuti all’Europa che lo costringerebbero a imporre ai suoi connazionali una medicina ben più amara di quella che già stanno sorbendo. Ma ha accolto, con allarme, pure le sparate propagandistiche di Berlusconi sull’abolizione dell’Imu, in caso di una nuova vittoria elettorale del centrodestra italiano. Un segnale di come l’imminenza della campagna elettorale nel nostro paese possa spezzare il precario accordo della «strana maggioranza» che sostiene Monti sulla necessità di non abbandonare la strada del rigore finanziario.

I timori dei tre presidenti sono fondati sull’esperienza di chi sa come la fiducia si conquisti con molta fatica e la si perda con molta facilità. I sacrifici che in questi mesi stanno facendo gli italiani non meritano di essere sprecati.

La Stampa 26.09.12

"Non sprechiamo i sacrifici degli italiani", di Luigi La Spina

I tre presidenti italiani di maggior prestigio internazionale, quello della Repubblica, Giorgio Napolitano, quello del Consiglio, Mario Monti e quello della Banca europea, Mario Draghi, condividono, in questi giorni, la stessa forte preoccupazione per il nostro Paese. Il timore che, dopo la cospicua riduzione del divario di interessi tra i bond italiani e quelli tedeschi e il varo deciso a Francoforte dello scudo antispread, in Italia, ci si possa illudere su un definitivo superamento della crisi finanziaria dello Stato. Una eventualità che non è totalmente scomparsa, invece, sull’orizzonte del nostro futuro. Così, tra l’altro, si spiegano i tre contemporanei allarmi che, da Roma, da New York e da Berlino, oggi, hanno lanciato i tre presidenti.
La Stampa 26.09.12
Napolitano ha espresso una condanna durissima per i vergognosi esempi di corruzione e di immoralità pubblica che alimentano, con la giustificata indignazione dei cittadini, la cosiddetta «antipolitica». Monti, sia pure con il suo tipico linguaggio sobrio e allusivo, ha sollecitato l’aiuto dell’opinione pubblica perché esiga una diversa «qualità» dei loro governanti.
Draghi ha ricordato che, senza l’impegno concreto e persistente al risanamento e alla riforme delle classi politiche nazionali, non sarà sufficiente l’opera della Bce per salvare sia l’unità dell’Europa, sia la sorte dell’euro.
Le diverse responsabilità istituzionali, certamente, hanno indotto i tre presidenti a manifestare la loro apprensione con forme differenti, ma il fondamento dei timori è identico: il rischio che l’Italia, dopo aver faticosamente risalito la china della credibilità internazionale, dopo aver recuperato la stessa dignità della sua immagine sul palcoscenico del mondo, dopo aver di nuovo riscosso la fiducia sulla serietà dei suoi impegni, possa ripiombare nel discredito e nel disprezzo dei suoi partner continentali e d’oltreoceano.
Si coglie con evidenza, in questi giorni, l’amarezza e, persino, un certo disorientamento di Monti e dei ministri del suo governo. Come se lo scandalo della Regione Lazio, con i terribili danni mediatici di quelle squallide foto di festini, col contorno di maschere umane e suine, avesse reso, di colpo, vani tutti gli sforzi che, da mesi, si stanno facendo, in tutte le sedi del potere internazionale, per convincere i nostri interlocutori che l’Italia ha compiuto una svolta definitiva, irreversibile e profonda nei suoi comportamenti pubblici. Come se tutti i dubbi sul «dopo Monti», l’interrogativo che all’estero pongono con trepidazione al presidente del Consiglio, avessero avuto una risposta improvvisa ed eloquente. Come se il futuro italiano si fosse svelato ai loro occhi, dietro quelle maschere ridanciane e spudorate, diffuse, con malizioso compiacimento, sui giornali, le tv e gli schermi di Internet in tutto il mondo.
A quasi un anno dall’inizio della durissima prova a cui è stato sottoposto il nostro Paese, si è ormai capito che l’immagine dell’Italia, la percezione che in Europa si ha del nostro paese e dei nostri governanti, condizioni pesantemente sia i mercati finanziari, sia le istituzioni europee. E’ quell’immagine che rende credibili gli impegni di risanamento dei nostri conti pubblici. Quell’immagine fa sperare che le riforme approvate o solo annunciate abbiano veramente effetti concreti sull’economia italiana. Quell’immagine garantisce che anche le parti sociali abbiano compreso l’esigenza di rinunciare alle difese corporative e accettino di cambiare passo, per salvare il futuro dei giovani, le vere vittime di anni di dissipazione pubblica e di egoismo privato.
Le preoccupazioni di Monti e del suo grande «lord protettore», Giorgio Napolitano, sono condivise anche dal presidente della Bce, il quale le inserisce pure in un quadro europeo che mostra sintomi di inquietante allentamento degli impegni promessi. Draghi nota le titubanze e gli affannosi negoziati del premier spagnolo, Mariano Rajoy, soprattutto con la Merkel, per evitare di chiedere quegli aiuti all’Europa che lo costringerebbero a imporre ai suoi connazionali una medicina ben più amara di quella che già stanno sorbendo. Ma ha accolto, con allarme, pure le sparate propagandistiche di Berlusconi sull’abolizione dell’Imu, in caso di una nuova vittoria elettorale del centrodestra italiano. Un segnale di come l’imminenza della campagna elettorale nel nostro paese possa spezzare il precario accordo della «strana maggioranza» che sostiene Monti sulla necessità di non abbandonare la strada del rigore finanziario.
I timori dei tre presidenti sono fondati sull’esperienza di chi sa come la fiducia si conquisti con molta fatica e la si perda con molta facilità. I sacrifici che in questi mesi stanno facendo gli italiani non meritano di essere sprecati.
La Stampa 26.09.12

"L’amore perduto per l’Europa", di Barbara Spinelli

Gli italiani non hanno fiducia nel proprio Stato, nelle proprie istituzioni, ancor meno nei partiti. La cosa era nota da tempo – basta vedere come i partiti governano le regioni, a dispetto di tante promesse di rigenerazione – ma nel frattempo diffidano anche dell’Europa. Nell’articolo pubblicato lunedì su questo giornale, Ilvo Diamanti descrive la progressiva erosione dell’europeismo italiano: la più spettacolare, nell’Unione dei Ventisette. La grande illusione del dopoguerra stinge, vicina a spegnersi. Era una sorta di polizza d’assicurazione («gli italiani preferivano farsi commissariare da Bruxelles piuttosto che farsi governare da Roma ») ma evidentemente non funziona più visto che le istituzioni europee si son fatte arcigne, asservite agli Stati più potenti, abituate a chiamarci, quasi fossimo degenerati in banlieue di traffici illeciti e tumulti, periferia Sud.
Non è euroscetticismo, perché lo scettico è filosofo che interroga, mette in questione i misteri di chiese o ideologie. L’avversione italiana è meno argomentativa, meno incalzante, e come vedremo è bellicosa. Somiglia più all’accartocciarsi di un’illusione che era stata troppo supina, troppo poco politica, pervasa da sotterranea apatia. All’ombra dell’Europa ci si sentiva protetti ma si poteva coltivare il vizio antico del «chi me lo fa fare»: tanto c’era lassù qualcuno che ci amava. L’avversione s’estende e sospetta ormai di ogni istituzione, nazionale o sovranazionale. Aborre il principio stesso della rappresentanza, e in Italia diffida dei politici e specialmente dei partiti, che vorrebbe sostituire con i movimenti. Ma davvero vorrebbe? Un movimento europeista
probabilmente risanerebbe le istituzioni dell’Unione, ma siccome né i partiti né Grillo immaginano che il potere vada oggi preso in Europa, la discriminante non è la forma della politica ma la politica stessa.
Se dunque la stragrande maggioranza degli italiani ha smesso di fare assegnamento su istituzioni e partiti (in Italia, in Europa), in chi ripone la sua fiducia? Se tutti i poteri e corpi intermedi sono esecrati, se ogni delega è truffa:
cosa vogliamo precisamente? Forse una sorta di democrazia diretta, che faccia a meno di corpi intermedi e rappresentanze, come nelle parole di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio.
Ogni persona vale uno, senza delega alcuna, e le grandi e piccole decisioni sono i cittadini a prenderle, tramite la Rete: nuova agorà pubblica dove il popolo – ecco la democrazia – non seleziona i migliori ma governa se stesso.
Non va sottovalutata la potenza educativa del messaggio: se ogni cittadino diventa compos sui, padrone di sé, vuol dire che si sveglia. Non si chiude a riccio, non si china come giunco in attesa che la piena passi, ma s’impegna, scopre che la cosa pubblica lo concerne. Movimenti simili fanno pedagogia: l’Italia era una nazione passiva, non diversamente dalla Germania ovest che dopo il crollo del ’45 era un paese non sovrano, mutilato, smemorato. Passare dalla passività alla partecipazione è una rivoluzione benefica.
Ma anche qui s’annida l’illusione, alimentata da nuovi vizi come il disprezzo delle istituzioni e perfino della Costituzione, giudicata insopportabilmente immobile, non malleabile. S’annida anche la disinformazione. Casaleggio cita spesso l’esempio islandese, i cittadini che sul web «ridiscutono la Costituzione ogni volta che sarà ritenuto necessario»: lo ripropone nel libro che ha scritto con Grillo nel 2011 (Siamo in guerra, Chiarelettere). Ma le cose non stanno così. Non solo l’Islanda è un paese piccolissimo (poco più di 300.000 abitanti), ma quel che è accaduto dopo il 2008, quando il paese sfiorò la bancarotta, è un’innovazione senza precedenti che preserva, tuttavia, l’idea della delega e della rappresentanza.
La costituzione islandese (è copiata dalla Danimarca, da cui l’-I-slanda s’emancipò nel ’44), si è rivelata insufficiente – lo sono quasi tutte, nell’Unione europea – e la revisione in effetti è cominciata online. Ma lo scopo era di eleggere un’assemblea costituente, selezionando 25 cittadini fra 522 candidati. I Venticinque preferiscono dirsi portavoce, non essendo capi di partito, ma per forza diventano un corpo intermedio, una rappresentanza in cui il popolo web decide di avere fiducia. Non solo: il progetto costituzionale è stato presentato in Parlamento, e l’iter si concluderà con un referendum, questo 20 ottobre, che voterà sulla Carta approvata sia dai 25 sia dai parlamentari. Un referendum non vincolante, che «servirà da guida al governo e al Parlamento». Il modello di Grillo non è un’ininterrotta assemblea online, che fa e disfa istituzioni a seconda delle opinioni vincenti. L’idea di istituzioni che durino indipendentemente da maggioranze e governi, permane.
Rivoluzionaria è la discussione preliminare in rete. Ma l’approdo è solo in parte democrazia diretta, e le istituzioni esistenti non sono considerate in Islanda ingombri, zavorra. Se hanno fallito, facilitando il tracollo finanziario del 2008, è perché mancava un efficace sistema di controlli e contrappesi (
checks and balances).
Un sistema che presuppone istituzioni e rappresentanze forti. Altrimenti di chi è il contropotere? Chi frena l’arbitrio di lobby, di chiese, garantendo la laicità dello Stato? Di zavorra si parla molto in questi giorni: troppo. Sono ingombrante zavorra i diritti, le responsabilità delle imprese, le regole, le rappresentanze, le regioni votate per loro stessa natura a sprofondare nella corruzione (Lazio e Lombardia, ma nella lista ci sono anche Calabria, Campania, Molise). L’ex Presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida non ha torto quando mette in guardia contro il desiderio diffuso «di cercare il colpevole di tutto in una o altra istituzione, (…) senza mai domandarsi quali siano le vere cause dei nostri guai: e se non si debba chiedere conto di ciò che ci scandalizza non a questa o a quella istituzione della Repubblica, ma ai nostri concittadini elettori, i quali, col loro voto, hanno mandato in Parlamento e al Governo i famosi «nominati» che hanno approvato e difeso le peggiori leggi ad personam. (…) I «politici» contro cui si inveisce non sono piovuti dal cielo, sono quelli che gli elettori, al centro e in periferia, hanno scelto e premiato. Non c’entra la Costituzione» ( Corriere della sera, 24-9).
Il libro di Casaleggio e Grillo denuncia rappresentanze inconfutabilmente corrotte. È la soluzione che non convince: l’orizzonte di guerra e di zavorra gettata da una superiore intelligenza digitale. Sono zavorra i cittadini che non si connettono (son parecchi, in un Paese che invecchia)? E saranno corretti i difetti dei movimenti online, criticati da Enrico Sassoon che si è appena dimesso dalla Casaleggio Associati? (La Rete è «luogo democratico per eccellenza, al quale chiunque può accedere per dare voce alle proprie opinioni, (ma) può diventare arena di violenza incontenibile, diffamazione incontrastabile, vera e propria delinquenza mediatica», Corriere 23-9). Il film Gaia, concepito da Casaleggio Associati, annuncia una guerra batteriologica fra democrazie dirette a ovest e Russia-Cina-Medio Oriente, che inizierà nel 2020 e finirà nel 2040 con il nostro palingenetico trionfo, facendo circa 6 miliardi di morti. Il miliardo che resta «eliminerà i partiti, la politica, le ideologie, le religioni» (la zavorra), e istituirà un governo mondiale in mano a un’intelligenza
sociale collettiva: Gaia, appunto.
Un parto fobico della mente, Gaia. Fortuna che esiste l’esempio islandese, dove la Rete ha riformato senza liquidare istituzioni, partiti, giornali, religioni. Gaia è una distopia (non un’utopia): indesiderabile sotto tutti i punti di vista. In essa non regnerebbero che corporazioni, lobby, opache sette integraliste. Come nello stato di natura di Hobbes, sarebbe guerra di tutti contro tutti.

La Repubblica 26.09.12