Il Lazio dopo la Lombardia. Frana l’antipolitica di destra che vent’anni fa ha preso il potere in nome della società civile, dell’azienda, del mercato. Con la decadenza di ogni minimale anticorpo etico-politico, il Lazio è la metafora di cosa diventa un governo personale che agisce senza il contenimento svolto dai partiti e dal principio di legalità. Al potere si insediano schiere di anti-politici di professione che maneggiano i fondi senza ritegno. Ciò che è pubblico diventa faccenda privata perché il privato è il veicolo per la occupazione del pubblico visto come il prolungamento del calcolo economico del singolo politicante. Cos’è infatti la politica per tanta destra amministratrice? È un agglomerato di potenze private che racimolano media e denaro per dare l’assalto all’amministrazione, luogo ghiotto in cui nell’omertà si intrecciano affari, influenze, scambi. Singoli consiglieri regionali che si spartiscono i finanziamenti sono la versione caricaturale dei partiti personali egemoni nella seconda Repubblica. Ogni eletto sensibile all’odore dei soldi fa partito a sé, e quindi intesta ai propri conti le quote pubbliche. Servono per pagare una vita dorata e per preservare una macchina personale con la quale gestire gli spazi di potere.
La destra, che ha occupato il potere agitando i miti dell’antipolitica, non dispone di alcun antidoto alla decomposizione etica del governo locale. Ha selezionato un ceto politico la cui molla per l’impegno non era il desiderio del potere, come occasione di onore, prestigio ma l’avidità di ricchezza. L’intreccio di potere e denaro determina fenomeni infernali: la regione o il municipio sono visti come una azienda produttiva da usare per accumulare soldi. Con quale autorevolezza i vertici del Pdl possono censurare la commistione di pubblico e privato, di azienda e potere, che a Roma assume vesti grottesche ma che è comunque l’essenza del berlusconismo? Un partito azienda, che si scalda soltanto quando sono in gioco le concessioni televisive, o gli introiti pubblicitari, che rampogna può mai fare a un ceto politico locale che prende sul serio la privatizzazione del potere? La destra non ha gli strumenti per reagire alle malefatte perché il partito è solo una sigla di comodo che consente a cordate prive di scrupolo di dare la scalata alla carica elettiva per fare denaro. Questo scenario chiama in causa anche il rendimento del presidenzialismo regionale. Dove, nonostante il diluvio, permangono le condizioni minimali di una vitalità della società civile (associazionismo, partecipazione collettiva nei sindacati, nelle cooperative, nei circoli) e si incrociano residui di partito, anche il funzionamento delle autonomie rimane accettabile.
Nelle regioni rosse il duello tra presidente e partito non ha raggiunto i picchi di degrado che altrove sono associati alle tendenze leaderistiche. Dove l’elezione plebiscitaria del governatore interviene nella profonda carenza di strutture organizzative, nella cronica assenza di canali di civismo, le discontinuità visibili nella forma di governo passano senza alcun significativo miglioramento nelle prestazioni dei pubblici poteri. In Calabria, in Campania o in Sicilia il deserto di partito e la mancanza di una solida società civile incrementano le spinte verso l’allestimento di poteri personali (d’ogni colore) sorretti dallo scambio occulto tra consenso e risorse.
La micidiale accoppiata tra elezione diretta del governatore e uso delle preferenze accentuano gli aspetti deflagranti di un disegno istituzionale in cui accanto alla macropersonalizzazione (del governatore) marcia la micropersonalizzazione (dei consiglieri eletti con dispendiose gare competitive e con deliranti manifesti 6 per 6). Il caso del Lazio è la massima estensione di un fenomeno di personalizzazione connesso al perverso circolo denaro-sostegno-denaro che spezza alla radice ogni autonomia delle classi politiche. Una organica contaminazione affaristica sembra accompagnare le disavventure di ogni destra di governo.
La differenza tra destra e sinistra conta ancora molto nella misurazione delle diverse velocità raggiunte dalle esperienze regionalistiche. Ma se la strada prescelta è quella del partito degli eletti, sarà difficile anche a sinistra contenere le organiche tendenze alla degenerazione che restringono gli spazi della militanza e alimentano le illusioni dell’antipolitica, cioè l’attesa di un crollo repentino di un intero ceto dominante da sostituire in condizioni di emergenza con uno nuovo personale che avrà la stessa sorte dinanzi ad una ennesima ondata di discredito. La forma del partito degli eletti ha in sé il virus della lenta decadenza etico-politica.
Gli eletti devono contare su risorse autonome, devono accumularne tante per essere investiti nel ruolo di governo. La conquista della carica diventa poi il fulcro per attività in cui potere e denaro si intrecciano, sullo sfondo di deboli partiti mai più rinati. Nei territori singoli imprenditori vanno a caccia di arene istituzionali e giocano in proprio la loro battaglia con un cinismo nichilista. Nel vuoto di società civile, nel deserto di agenzie di partito ogni mossa pare lecita per edificare un feudo impenetrabile. Quasi a nulla sono valse le sperimentazioni dell’ingegneria amministrativa (mutato reclutamento dei direttori generali, nuovi meccanismi delle nomine, separazione di gestione e indirizzo politico).
Se si vuole arginare l’antipolitica non servono solo leggi, regole nuove ma occorre dare continuità all’invenzione organizzativa per disegnare il modello di partito radicato nella società. Le primarie incentivano la partecipazione, accorciano per un po’ il distacco tra società e politica. Hanno però il difetto di registrare lo status quo con cui ogni leader deve stabilire un compromesso. Esse non mutano gli equilibri consolidati nei territori dove la politica ha una difficoltà di accesso, di decisione. Data la decadenza di uno spirito di partito che si avverte in talune realtà territoriali, solo da un centro nazionale forte possono pervenire gli impulsi del mutamento che diano spazio ai nuovi quadri politici e amministrativi, altrimenti destinati ad essere soffocati dalle cordate inamovibili che si riproducono senza intralci. Un partito vero, con dei militanti presenti che nei circoli controllano gli eletti da vicino e riconoscono le capacità dei nuovi quadri è il principale antidoto alla corruzione. Per una più elevata levatura etica delle classi dirigenti ci vogliono militanti e partiti rigenerati dalla abitudine alla partecipazione e dalla selezione della classe politica con la battaglia delle idee. Tocca al Pd insistere con coeren- za su scelte già avviate e che vanno ora consoli- date perché la ricomparsa di un partito solido occupa il tempo di un intero ciclo politico.
L’Unità 24.09.12
Latest Posts
"A Roma disabili senza sostegno. E il Lazio avrebbe diritto a 1.900 docenti in più. Sono mal distribuiti sul territorio", da Tuttoscuola
Accade a Roma in questi giorni. Numerosi alunni disabili hanno iniziato la scuola senza docenti di sostegno, i dirigenti scolastici si trovano costretti a coprire i posti mancanti con AEC (assistenti educativi comunali) e i genitori di alunni disabili vanno su tutte le furie, spaccando vasi e suppellettili degli uffici davanti agli impiegati dell’ex-provveditorato, che allargano le braccia impotenti.
Eppure posti di sostegno per alunni disabili in Italia ce ne sono. L’anno scorso ce n’erano 97.636; forse quest’anno sfioreranno le 100 mila unità. Da dove nasce allora il problema? Sono mal distribuiti sul territorio.
Teoricamente dovrebbe esserci un docente ogni due alunni disabili. La media nazionale nel 2011-12 è stata di un docente ogni 2,03 alunni, sostanzialmente in linea con quanto prevede la legge (Finanziaria 2008).
Ma, come per i polli di Trilussa, mentre la media nazionale è conforme alla legge, quella di molti territori proprio no: vi sono regioni con tanti docenti di sostegno (dove quindi il rapporto è inferiore a uno ogni due), e regioni con pochi docenti di sostegno (dove in media ogni docente deve seguire più di 2 alunni disabili).
Eppure, quando circa cinque anni fa quella legge fu approvata, dispose che tutti i territori si adeguassero gradualmente al rapporto di un docente ogni due alunni, mediante una operazione di compensazione: chi aveva più docenti del dovuto avrebbe dovuto cederli a chi ne aveva meno.
All’Amministrazione scolastica l’ingrato compito di portare in porto questa operazione, complessa e antipatica. Ma si sa, chi ha avuto ha avuto e chi non ha avuto … s’arrangia e protesta.
Il Lazio (e Roma in particolare) è uno di quei territori che a tutt’oggi non ha avuto ancora la quantità di posti di sostegno che gli spetterebbe in base al rapporto uno a due, perché ha uno dei rapporti più elevati in assoluto (2,45 anziché il 2,03 della media nazionale).
L’anno scorso (ma la situazione di oggi non dovrebbe essere molto diversa) con 23.196 alunni disabili il Lazio ha avuto assegnati 9.464 docenti di sostegno (rapporto 2,45), ma con il rapporto 2,03 avrebbe avuto diritto a 11.400 docenti, cioè 1.936 in più!
Qualcuno dirà: ma non ci sono soldi per nominare quasi 2mila altri docenti. È vero, ma non c’è bisogno di nuove assunzioni: applicando la legge basterebbe spostare i posti dalle regioni che ne hanno di più, senza modificare di una unità il numero complessivo dei docenti. In tutto bisognerebbe spostare 6.296 posti dalle regioni che sono sotto il rapporto medio a quelle che stanno sopra. Dove?
In Campania, dove il rapporto è di 1,72, ci sono 2.024 docenti in più per allinearsi al rapporto medio nazionale di uno a due. In Puglia (rapporto 1,69) ce ne sono 1.398 in più, in Sicilia (rapporto 1,80) 1.357 in più.
Sul fronte opposto peggio del Lazio sta la Lombardia (anch’essa ferma ad un rapporto di 2,45) che avrebbe diritto ad avere 2.596 posti in più; il Veneto 723… Le famiglie laziali, lombarde, venete che restano senza docente di sostegno o che lo devono condividere con più alunni del previsto, lo sanno? Potrebbero chiederne conto al Miur.
Se e quando l’operazione compensazione dovesse andare in porto (Tuttoscuola denuncia da anni il problema), la situazione potrebbe essere meno critica, oltre che più equa… Chissà quando!
da Tuttoscuola 24.09.12
"A Roma disabili senza sostegno. E il Lazio avrebbe diritto a 1.900 docenti in più. Sono mal distribuiti sul territorio", da Tuttoscuola
Accade a Roma in questi giorni. Numerosi alunni disabili hanno iniziato la scuola senza docenti di sostegno, i dirigenti scolastici si trovano costretti a coprire i posti mancanti con AEC (assistenti educativi comunali) e i genitori di alunni disabili vanno su tutte le furie, spaccando vasi e suppellettili degli uffici davanti agli impiegati dell’ex-provveditorato, che allargano le braccia impotenti.
Eppure posti di sostegno per alunni disabili in Italia ce ne sono. L’anno scorso ce n’erano 97.636; forse quest’anno sfioreranno le 100 mila unità. Da dove nasce allora il problema? Sono mal distribuiti sul territorio.
Teoricamente dovrebbe esserci un docente ogni due alunni disabili. La media nazionale nel 2011-12 è stata di un docente ogni 2,03 alunni, sostanzialmente in linea con quanto prevede la legge (Finanziaria 2008).
Ma, come per i polli di Trilussa, mentre la media nazionale è conforme alla legge, quella di molti territori proprio no: vi sono regioni con tanti docenti di sostegno (dove quindi il rapporto è inferiore a uno ogni due), e regioni con pochi docenti di sostegno (dove in media ogni docente deve seguire più di 2 alunni disabili).
Eppure, quando circa cinque anni fa quella legge fu approvata, dispose che tutti i territori si adeguassero gradualmente al rapporto di un docente ogni due alunni, mediante una operazione di compensazione: chi aveva più docenti del dovuto avrebbe dovuto cederli a chi ne aveva meno.
All’Amministrazione scolastica l’ingrato compito di portare in porto questa operazione, complessa e antipatica. Ma si sa, chi ha avuto ha avuto e chi non ha avuto … s’arrangia e protesta.
Il Lazio (e Roma in particolare) è uno di quei territori che a tutt’oggi non ha avuto ancora la quantità di posti di sostegno che gli spetterebbe in base al rapporto uno a due, perché ha uno dei rapporti più elevati in assoluto (2,45 anziché il 2,03 della media nazionale).
L’anno scorso (ma la situazione di oggi non dovrebbe essere molto diversa) con 23.196 alunni disabili il Lazio ha avuto assegnati 9.464 docenti di sostegno (rapporto 2,45), ma con il rapporto 2,03 avrebbe avuto diritto a 11.400 docenti, cioè 1.936 in più!
Qualcuno dirà: ma non ci sono soldi per nominare quasi 2mila altri docenti. È vero, ma non c’è bisogno di nuove assunzioni: applicando la legge basterebbe spostare i posti dalle regioni che ne hanno di più, senza modificare di una unità il numero complessivo dei docenti. In tutto bisognerebbe spostare 6.296 posti dalle regioni che sono sotto il rapporto medio a quelle che stanno sopra. Dove?
In Campania, dove il rapporto è di 1,72, ci sono 2.024 docenti in più per allinearsi al rapporto medio nazionale di uno a due. In Puglia (rapporto 1,69) ce ne sono 1.398 in più, in Sicilia (rapporto 1,80) 1.357 in più.
Sul fronte opposto peggio del Lazio sta la Lombardia (anch’essa ferma ad un rapporto di 2,45) che avrebbe diritto ad avere 2.596 posti in più; il Veneto 723… Le famiglie laziali, lombarde, venete che restano senza docente di sostegno o che lo devono condividere con più alunni del previsto, lo sanno? Potrebbero chiederne conto al Miur.
Se e quando l’operazione compensazione dovesse andare in porto (Tuttoscuola denuncia da anni il problema), la situazione potrebbe essere meno critica, oltre che più equa… Chissà quando!
da Tuttoscuola 24.09.12
"Concorso. Parere favorevole del CNPI a denti stretti", da Tuttoscuola
Dopo aver riaffermato la positività dello strumento concorsuale ai fini del reclutamento del personale, ha voluto sottolineare la situazione, consolidatasi nel tempo, già carica di attese e di troppe tensioni. Considerate le pressioni del ministro per ottenere il parere del CNPI sul bando di concorso in tempi rapidissimi, il Consiglio Nazionale non poteva sottrarsi al compito e venerdì scorso, anticipando i tempi ordinari, ha consegnato il parere al Ministro con tre ok: parere favorevole ai programmi d’esame, parere favorevole alle prove d’esame, parere favorevole alla tabella dei titoli. Ma…
Ma in premessa, dopo aver riaffermato la positività dello strumento concorsuale ai fini del reclutamento del personale, ha voluto sottolineare la situazione, consolidatasi nel tempo, già carica di attese e di troppe tensioni, rilevando che la decisone penalizza i precari i giovani laureati privi di abilitazione:
“Il CNPI – recita la premessa – considera innanzi tutto che il concorso prospettato, nonostante l’impiego di risorse significative a fronte, talvolta, di un numero di posti estremamente limitato, penalizzi sia gli insegnanti precari abilitati con anni di servizio che hanno subito le conseguenze di una serie di interventi restrittivi in materia di organici e di previdenza, sia i più giovani che, perdurando le attuali regole di accesso, risultano esclusi in quanto nell’ultimo decennio, nonostante il possesso del titolo di laurea, in molti casi, non hanno avuto l’opportunità di conseguire l’abilitazione”.
Nella pronuncia il CNPI critica anche i tempi di indizione del bando per la conseguente esclusione dei laureati che stanno per frequentare i corsi TFA:
“Il CNPI considera inoltre non condivisibile la scelta di bandire il concorso in un momento in cui non sono stati ancora attivati il TFA che coinvolge le istituzioni AFAM e i percorsi relativi alla scuola dell’infanzia e primaria (cfr. art 15, comma 16, DM 249/2010) e non è stato ancora completato l’iter per l’indizione del TFA riservato a coloro che hanno determinati requisiti di servizio”.
Prima di esprimersi sui tempi proposti dal ministro, il CNPI, ha aggiunto altri elementi critici:
“Il CNPI ritiene, quindi, che l’attuale procedura concorsuale troverebbe una giusta collocazione solo con il contestuale realizzarsi di alcune condizioni necessarie, peraltro già previste dalla normativa: definizione dell’organico funzionale, attivazione di tutte le procedure abilitanti, revisione delle classi di concorso, nuovo regolamento sulle modalità di reclutamento come da delega ex lege 244/2007.
Solo in tal modo è possibile coniugare qualità del servizio scolastico e aspettative di chi vuole intraprendere la professione dell’insegnamento”.
da Tuttoscuola 24.09.12
"Concorso. Parere favorevole del CNPI a denti stretti", da Tuttoscuola
Dopo aver riaffermato la positività dello strumento concorsuale ai fini del reclutamento del personale, ha voluto sottolineare la situazione, consolidatasi nel tempo, già carica di attese e di troppe tensioni. Considerate le pressioni del ministro per ottenere il parere del CNPI sul bando di concorso in tempi rapidissimi, il Consiglio Nazionale non poteva sottrarsi al compito e venerdì scorso, anticipando i tempi ordinari, ha consegnato il parere al Ministro con tre ok: parere favorevole ai programmi d’esame, parere favorevole alle prove d’esame, parere favorevole alla tabella dei titoli. Ma…
Ma in premessa, dopo aver riaffermato la positività dello strumento concorsuale ai fini del reclutamento del personale, ha voluto sottolineare la situazione, consolidatasi nel tempo, già carica di attese e di troppe tensioni, rilevando che la decisone penalizza i precari i giovani laureati privi di abilitazione:
“Il CNPI – recita la premessa – considera innanzi tutto che il concorso prospettato, nonostante l’impiego di risorse significative a fronte, talvolta, di un numero di posti estremamente limitato, penalizzi sia gli insegnanti precari abilitati con anni di servizio che hanno subito le conseguenze di una serie di interventi restrittivi in materia di organici e di previdenza, sia i più giovani che, perdurando le attuali regole di accesso, risultano esclusi in quanto nell’ultimo decennio, nonostante il possesso del titolo di laurea, in molti casi, non hanno avuto l’opportunità di conseguire l’abilitazione”.
Nella pronuncia il CNPI critica anche i tempi di indizione del bando per la conseguente esclusione dei laureati che stanno per frequentare i corsi TFA:
“Il CNPI considera inoltre non condivisibile la scelta di bandire il concorso in un momento in cui non sono stati ancora attivati il TFA che coinvolge le istituzioni AFAM e i percorsi relativi alla scuola dell’infanzia e primaria (cfr. art 15, comma 16, DM 249/2010) e non è stato ancora completato l’iter per l’indizione del TFA riservato a coloro che hanno determinati requisiti di servizio”.
Prima di esprimersi sui tempi proposti dal ministro, il CNPI, ha aggiunto altri elementi critici:
“Il CNPI ritiene, quindi, che l’attuale procedura concorsuale troverebbe una giusta collocazione solo con il contestuale realizzarsi di alcune condizioni necessarie, peraltro già previste dalla normativa: definizione dell’organico funzionale, attivazione di tutte le procedure abilitanti, revisione delle classi di concorso, nuovo regolamento sulle modalità di reclutamento come da delega ex lege 244/2007.
Solo in tal modo è possibile coniugare qualità del servizio scolastico e aspettative di chi vuole intraprendere la professione dell’insegnamento”.
da Tuttoscuola 24.09.12
"Se anche il mercato si riprendesse FIAT arriverebbe in ritardo", di Oreste Pivetta
Forse era tutto scritto nell’accordo Fiat-Chrysler: tecnologie agli americani, soldi agli azionisti italiani, cioè alla famiglia Agnelli, stabilimenti storici, da Mirafiori a Pomigliano, in vita finché la domanda di mercato avesse retto. Le promesse di Marchionne, il progetto Italia, i venti miliardi di investimenti, un libro dei sogni che politica e buona parte del sindacato hanno letto, con malizia o con ingenuità, come un modo per tirare a campare, illudendo se stessi e illudendo buona parte di quanti nelle fabbriche Fiat si sono guadagnati da vivere e ci contavano ancora. «Chi ha mai letto commenta Luciano Gallino, sociologo e grande studioso dell’industria e del lavoro in Italia una pagina di quel programma. Nelle mani di chi è mai stato consegnato un volume di centinaia di pagine in cui si dettagliassero progetti per la Fiat e conseguenze per l’indotto, in un quadro di enorme complicazione: basti dire che il futuro Fiat si sarebbe dovuto misurare con la realtà di ottocento fornitori. Niente. Quanto ci è stato riferito adesso, quanto siamo venuti a sapere, non aggiunge nulla, se non ancora una promessa, la promessa di Marchionne di investire quando il mercato riprenderà quota. Vaghe e soprattutto strane parole. Perché se davvero le vendite prima o poi dovessero riprendere, la Fiat arriverebbe inevitabilmente in ritardo, seguendo la strada indicata da Marchionne. Sappiamo bene quanto tempo sia necessario per progettare e mettere in produzione un nuovo modello. Due, tre anni? In un mercato ipoteticamente in rilancio, Marchionne si ripresenterebbe con modelli vecchi? Per perdere un altro giro? Siamo alla ripetizione di una scena già vista: non abbiamo ascoltato null’altro che dichiarazioni generiche, senza una prospettiva, senza una novità, senza una invenzione. Faccio un esempio: una grande impresa automobilistica non è detto debba produrre solo proprie automobili, potrebbe realizzare anche parti per altre imprese, motori o pianali. Non mi sembra che Marchionne abbia mai esplorato una possibilità del genere». Il manager italiano più americano, come lo hanno definito alcuni, o il solerte funzionario di un dipartimento Usa, come lo hanno definito altri, probabilmente sa di finanza, molto meno di auto. Ma, allora, professor Gallino, dobbiamo rassegnarci al ridimensionamento e al declino della Fiat in Italia? «Ridimensionamento e declino appartengono alla storia degli ultimi decenni. Negli anni novanta la Fiat produceva due milioni di vetture, che sono diventate un milione, ottocentomila, mezzo milione. Adesso siamo a quattrocentomila. Queste sono cifre che dicono tutto. A proposito del passato e a proposito del futuro. Pensiamo al calo degli occupati, anche se in questo caso entrano in gioco nuove tecnologie che hanno consentito di ridurre pesantemente il numero degli addetti». Il governo deve accontentarsi di ascoltare Marchionne o ha strumenti per intervenire? Ammesso che abbia i soldi%% «È difficile immaginare nuovi incentivi. In passato si usò l’arma della rottamazione. Adesso si finirebbe con il favorire i produttori stranieri più che la Fiat. Se la Fiat non avesse chiuso Irisbus, si sarebbe potuto pensare a un intervento di Stato e Regioni per rinnovare un parco autobus obsoleto, inquinante. Sarebbe stato un bel modo per favorire una mobilità sostenibile e collettiva, alternativa al mezzo privato. Ma non s’è mosso lo Stato, non si sono mosse le Regioni e non c’è più Irisbus. Peraltro costruire autobus non prevede l’automazione in atto nella produzione di auto. L’operazione è più complicata, chiede manodopera specializzata, vi sarebbe stato un bel vantaggio anche per l’impiego. Un autobus, a bilancio, pesa come cinque o dieci auto». Le chiedo di nuovo: dobbiamo rassegnarci a perdere l’auto italiana? «Non si può pensare di produrre all’infinito e con la stessa intensità di un tempo macchine, frigoriferi, elettrodomestici o altri tradizionali beni di consumo. Nell’auto non si tornerà mai ai livelli di produzione del 2007. Bisogna immaginare altri modelli di sviluppo, con il realismo di chi sa che non si cambia con un clic e sa che cosa significa dal punto di vista dell’occupazione l’auto, rampo di attività produttiva che riguarda chi costruisce, chi fornisce, chi (dai gommisti ai benzinai) garantisce la funzionalità del sistema. Detto questo bisogna pensare ad altro%%». Ma ci sono le idee? Soprattutto ci sono i soldi? «Le idee ci sono. Dove intervenire: il dissesto idrogeologico, la scuola, i beni culturali, l’energia%% Settori ad alta intensità e qualità professionale. I soldi? Quanti miliardi di euro ha consumato l’Unione europea per tenere in piedi banche e finanza? Poi ci si dice che non si può spendere per rilanciare l’industria». L’ultima fotografia è quella di un governo che assiste impotente%% «Come sempre, quando non si sa che cosa, si istituisce una commissione che studierà oppure si apre un tavolo di trattativa. Politica industriale non se n’è fatta da tempo. Il governo dei professori è preda di una cultura neoliberale: aspettano che siano gli imprenditori e il mercato ad aggiustare le cose. Considerano lo Stato come il nemico e in frangenti come questi ritengono che lo Stato non debba far nulla. Salvo, appunto, pagare le banche».
L’Unità 24.09.12
******
Stefano Fassina: “Quante fabbriche resteranno aperte?”
Stefano Fassina, responsabile economico del Partito democratico. Lei ieri era sembrato un po’ scettico sull’incontro tra Fiat e governo.
Abbiamo capito male?
«Guardi: Fiat è entrata a Palazzo Chigi con un deficit di credibilità. Quando aveva annunciato Fabbrica Italia aveva presentato un piano che, oggettivamente, già allora sembrava improbabile. Tant’è che poi è andato a finire come sappiamo. Ora, capisce bene, che l’opinione pubblica si aspetta una parola di chiarezza. Tutto qui».
Quindi lei non sarà convinto finché non vedrà dei fatti?
«Io dico che il governo ha fatto bene a incontrare Fiat (anzi, mi faccia dire Fiat-Chrysler che è più corretto), ma avrebbe dovuto farlo prima. Perché nel precedente incontro, quello tenuto in primavera, si era usciti da palazzo Chigi con poco più di una pacca sulla spalla. Ora il contesto mi sembra diverso, il paese chiede chiarezza e il governo fa bene ad esigerla. Tant’è che si è deciso di aprire un tavolo e so che su Fiat-Chrysler ci sono ormai punti chiari e ben definiti da affrontare, e a questi l’azienda non può sottrarsi».
E quali sarebbero questi punti?
«Intanto osserviamo che in questa fase di ristrutturazione globale del comparto auto, Fiat ha deciso di fare una scelta passiva: vediamo come va e poi ci muoviamo. Non mi pare una posizione rassicurante. Secondo, la crisi per intanto si scarica sui lavoratori con la cassa integrazione, e anche questo mi lascia perplesso, a dir poco. Terzo, l’azienda ha detto che resterà in Italia, ma questo ci può tranquillizzare? Resterà con tutti i suoi stabilimenti attuali? Ecco, questi punti, in sede di tavolo al ministero, vanno chiariti».
Ammetterà che un governo non può chiedere ad una azienda privata di investire solo perché lo chiede la politica.
«Ovviamente. Non può imporre una linea ad un soggetto privato, ma deve sapere quali sono le strategie, quali sono le prospettive e, beninteso, cercare una via comune di interventi che facciano incrociare l’interesse del paese con quello dell’azienda».
Insomma, secondo lei, questa azienda dovrebbe venire allo scoperto con maggiore chiarezza?
«Assolutamente sì. Sui punti che dicevamo sopra, ma anche su una questione di grande rilevanza politica, rispetto alla quale il governo deve avere delle risposte. Mi riferisco al fatto che Fiat deve sanare un vulnus democratico all’interno dei suoi stabilimenti. Su questo il governo deve avere delle assicurazioni: le regole ci sono e valgono per tutti».
Si è parlato di sostegno, alla ricerca, all’export… che ne pensa?
«Ho il timore che eventuali risorse, in questa fase, possano essere assorbite soprattutto dagli ammortizzatori sociali e dalla cassa integrazione in deroga».
Lei insiste molto sul fatto che Fiat deve assumersi degli impegni. E il governo?
«Ripeto quanto detto all’inizio: un deficit di credibilità c’è. Ciò detto, e dato che il settore dell’automobile ha un peso rilevante nella costruzione del nostro Pil, è importante che il governo sappia esattamente cosa vuole fare o cosa non vuole fare Fiat in Italia. Altrimenti ha il dovere di non lasciare l’Italia sguarnita di una propria industria automobilistica. In concreto penso che non si debba far cadere l’ipotesi di un interesse di Volkswagen per il marchio Alfa e i relativi stabilimenti italiani. Semmai dovesse servire, si capisce».
La Stampa 24.09.12
"Se anche il mercato si riprendesse FIAT arriverebbe in ritardo", di Oreste Pivetta
Forse era tutto scritto nell’accordo Fiat-Chrysler: tecnologie agli americani, soldi agli azionisti italiani, cioè alla famiglia Agnelli, stabilimenti storici, da Mirafiori a Pomigliano, in vita finché la domanda di mercato avesse retto. Le promesse di Marchionne, il progetto Italia, i venti miliardi di investimenti, un libro dei sogni che politica e buona parte del sindacato hanno letto, con malizia o con ingenuità, come un modo per tirare a campare, illudendo se stessi e illudendo buona parte di quanti nelle fabbriche Fiat si sono guadagnati da vivere e ci contavano ancora. «Chi ha mai letto commenta Luciano Gallino, sociologo e grande studioso dell’industria e del lavoro in Italia una pagina di quel programma. Nelle mani di chi è mai stato consegnato un volume di centinaia di pagine in cui si dettagliassero progetti per la Fiat e conseguenze per l’indotto, in un quadro di enorme complicazione: basti dire che il futuro Fiat si sarebbe dovuto misurare con la realtà di ottocento fornitori. Niente. Quanto ci è stato riferito adesso, quanto siamo venuti a sapere, non aggiunge nulla, se non ancora una promessa, la promessa di Marchionne di investire quando il mercato riprenderà quota. Vaghe e soprattutto strane parole. Perché se davvero le vendite prima o poi dovessero riprendere, la Fiat arriverebbe inevitabilmente in ritardo, seguendo la strada indicata da Marchionne. Sappiamo bene quanto tempo sia necessario per progettare e mettere in produzione un nuovo modello. Due, tre anni? In un mercato ipoteticamente in rilancio, Marchionne si ripresenterebbe con modelli vecchi? Per perdere un altro giro? Siamo alla ripetizione di una scena già vista: non abbiamo ascoltato null’altro che dichiarazioni generiche, senza una prospettiva, senza una novità, senza una invenzione. Faccio un esempio: una grande impresa automobilistica non è detto debba produrre solo proprie automobili, potrebbe realizzare anche parti per altre imprese, motori o pianali. Non mi sembra che Marchionne abbia mai esplorato una possibilità del genere». Il manager italiano più americano, come lo hanno definito alcuni, o il solerte funzionario di un dipartimento Usa, come lo hanno definito altri, probabilmente sa di finanza, molto meno di auto. Ma, allora, professor Gallino, dobbiamo rassegnarci al ridimensionamento e al declino della Fiat in Italia? «Ridimensionamento e declino appartengono alla storia degli ultimi decenni. Negli anni novanta la Fiat produceva due milioni di vetture, che sono diventate un milione, ottocentomila, mezzo milione. Adesso siamo a quattrocentomila. Queste sono cifre che dicono tutto. A proposito del passato e a proposito del futuro. Pensiamo al calo degli occupati, anche se in questo caso entrano in gioco nuove tecnologie che hanno consentito di ridurre pesantemente il numero degli addetti». Il governo deve accontentarsi di ascoltare Marchionne o ha strumenti per intervenire? Ammesso che abbia i soldi%% «È difficile immaginare nuovi incentivi. In passato si usò l’arma della rottamazione. Adesso si finirebbe con il favorire i produttori stranieri più che la Fiat. Se la Fiat non avesse chiuso Irisbus, si sarebbe potuto pensare a un intervento di Stato e Regioni per rinnovare un parco autobus obsoleto, inquinante. Sarebbe stato un bel modo per favorire una mobilità sostenibile e collettiva, alternativa al mezzo privato. Ma non s’è mosso lo Stato, non si sono mosse le Regioni e non c’è più Irisbus. Peraltro costruire autobus non prevede l’automazione in atto nella produzione di auto. L’operazione è più complicata, chiede manodopera specializzata, vi sarebbe stato un bel vantaggio anche per l’impiego. Un autobus, a bilancio, pesa come cinque o dieci auto». Le chiedo di nuovo: dobbiamo rassegnarci a perdere l’auto italiana? «Non si può pensare di produrre all’infinito e con la stessa intensità di un tempo macchine, frigoriferi, elettrodomestici o altri tradizionali beni di consumo. Nell’auto non si tornerà mai ai livelli di produzione del 2007. Bisogna immaginare altri modelli di sviluppo, con il realismo di chi sa che non si cambia con un clic e sa che cosa significa dal punto di vista dell’occupazione l’auto, rampo di attività produttiva che riguarda chi costruisce, chi fornisce, chi (dai gommisti ai benzinai) garantisce la funzionalità del sistema. Detto questo bisogna pensare ad altro%%». Ma ci sono le idee? Soprattutto ci sono i soldi? «Le idee ci sono. Dove intervenire: il dissesto idrogeologico, la scuola, i beni culturali, l’energia%% Settori ad alta intensità e qualità professionale. I soldi? Quanti miliardi di euro ha consumato l’Unione europea per tenere in piedi banche e finanza? Poi ci si dice che non si può spendere per rilanciare l’industria». L’ultima fotografia è quella di un governo che assiste impotente%% «Come sempre, quando non si sa che cosa, si istituisce una commissione che studierà oppure si apre un tavolo di trattativa. Politica industriale non se n’è fatta da tempo. Il governo dei professori è preda di una cultura neoliberale: aspettano che siano gli imprenditori e il mercato ad aggiustare le cose. Considerano lo Stato come il nemico e in frangenti come questi ritengono che lo Stato non debba far nulla. Salvo, appunto, pagare le banche».
L’Unità 24.09.12
******
Stefano Fassina: “Quante fabbriche resteranno aperte?”
Stefano Fassina, responsabile economico del Partito democratico. Lei ieri era sembrato un po’ scettico sull’incontro tra Fiat e governo.
Abbiamo capito male?
«Guardi: Fiat è entrata a Palazzo Chigi con un deficit di credibilità. Quando aveva annunciato Fabbrica Italia aveva presentato un piano che, oggettivamente, già allora sembrava improbabile. Tant’è che poi è andato a finire come sappiamo. Ora, capisce bene, che l’opinione pubblica si aspetta una parola di chiarezza. Tutto qui».
Quindi lei non sarà convinto finché non vedrà dei fatti?
«Io dico che il governo ha fatto bene a incontrare Fiat (anzi, mi faccia dire Fiat-Chrysler che è più corretto), ma avrebbe dovuto farlo prima. Perché nel precedente incontro, quello tenuto in primavera, si era usciti da palazzo Chigi con poco più di una pacca sulla spalla. Ora il contesto mi sembra diverso, il paese chiede chiarezza e il governo fa bene ad esigerla. Tant’è che si è deciso di aprire un tavolo e so che su Fiat-Chrysler ci sono ormai punti chiari e ben definiti da affrontare, e a questi l’azienda non può sottrarsi».
E quali sarebbero questi punti?
«Intanto osserviamo che in questa fase di ristrutturazione globale del comparto auto, Fiat ha deciso di fare una scelta passiva: vediamo come va e poi ci muoviamo. Non mi pare una posizione rassicurante. Secondo, la crisi per intanto si scarica sui lavoratori con la cassa integrazione, e anche questo mi lascia perplesso, a dir poco. Terzo, l’azienda ha detto che resterà in Italia, ma questo ci può tranquillizzare? Resterà con tutti i suoi stabilimenti attuali? Ecco, questi punti, in sede di tavolo al ministero, vanno chiariti».
Ammetterà che un governo non può chiedere ad una azienda privata di investire solo perché lo chiede la politica.
«Ovviamente. Non può imporre una linea ad un soggetto privato, ma deve sapere quali sono le strategie, quali sono le prospettive e, beninteso, cercare una via comune di interventi che facciano incrociare l’interesse del paese con quello dell’azienda».
Insomma, secondo lei, questa azienda dovrebbe venire allo scoperto con maggiore chiarezza?
«Assolutamente sì. Sui punti che dicevamo sopra, ma anche su una questione di grande rilevanza politica, rispetto alla quale il governo deve avere delle risposte. Mi riferisco al fatto che Fiat deve sanare un vulnus democratico all’interno dei suoi stabilimenti. Su questo il governo deve avere delle assicurazioni: le regole ci sono e valgono per tutti».
Si è parlato di sostegno, alla ricerca, all’export… che ne pensa?
«Ho il timore che eventuali risorse, in questa fase, possano essere assorbite soprattutto dagli ammortizzatori sociali e dalla cassa integrazione in deroga».
Lei insiste molto sul fatto che Fiat deve assumersi degli impegni. E il governo?
«Ripeto quanto detto all’inizio: un deficit di credibilità c’è. Ciò detto, e dato che il settore dell’automobile ha un peso rilevante nella costruzione del nostro Pil, è importante che il governo sappia esattamente cosa vuole fare o cosa non vuole fare Fiat in Italia. Altrimenti ha il dovere di non lasciare l’Italia sguarnita di una propria industria automobilistica. In concreto penso che non si debba far cadere l’ipotesi di un interesse di Volkswagen per il marchio Alfa e i relativi stabilimenti italiani. Semmai dovesse servire, si capisce».
La Stampa 24.09.12
