Latest Posts

"I soldi per una scuola di musica", di Stefano Morselli

Una carica di energia positiva, che ci aiuta a superare i momenti di sconforto, a volte ancora presenti. Gli artisti, gli organizzatori, l’entusiasmo del pubblico ci hanno regalato un evento unico, non solo di musica, anche di unione, di socialità, di solidarietà. Per me è stata una cosa emozionante e un incoraggiamento». Barbara Bernardelli, 39enne sindaco di Reggiolo, era tra gli oltre 150mila che, al campo volo di Reggio Emilia, hanno partecipato al concertone per la raccolta di fondi a favore delle comunità colpite dal terremoto della primavera scorsa. Lei non era una semplice spettatrice, bensì uno dei destinatari, in qualità di sindaco, dei soldi che il concerto e le attività collaterali (merchandising di magliette e accessori vari, diretta Sky, cd e dvd…) metteranno insieme per finanziare progetti di ripristino delle strutture scolastiche in dieci comuni tra le province di Reggio, Modena, Bologna, Ferrara.

Nel territorio reggiano, Reggiolo è il paese che ha subito i danni maggiori. Le ripetute scosse hanno reso inagibili gli edifici pubblici, centinaia di abitazioni e di negozi. Hanno trasformato il centro storico in «zona rossa» inaccessibile. A distanza di alcuni mesi, la situazione è migliorata, una settimana fa ha chiuso il campo di accoglienza, che era arrivato ad ospitare oltre 800 persone e a servire 1.300 pasti al giorno. «Tutti gli sfollati – dice Bernardelli – hanno trovato una sistemazione, almeno provvisoria, presso parenti, amici o in alloggi messi a disposizioni dagli enti pubblici. Ma circa mille persone, più del dieci per cento degli abitanti, non possono ancora rientrare nelle loro case. E gli uffici municipali sono tuttora ospitati da container in piazza, al pari di numerose attività commerciali».

Quanto alle scuole, si è lavorato sodo per consentire un avvio regolare del nuovo anno scolastico. «Asili nido, materne ed elementari stanno riaprendo in questi giorni. La scuola media ha danni troppo gravi, quindi la Regione ci ha fornito un prefabbricato, che inaugureremo all’inizio di ottobre con il presidente Vasco Errani». I fondi provenienti dal concertone serviranno invece al recupero della scuola di musica, gestita dalla locale Filarmonica. L’idea che la solidarietà di grandi musicisti potesse servire a salvare una piccola scuola di musica è piaciuta ai promotori di «Italia Loves Emilia», che hanno quindi inserito il progetto nell’elenco di quelli da finanziare.

«Alla scuola di musica – spiega il sindaco – erano iscritti 250 tra ragazzi e adulti, un numero in crescita da alcuni anni. L’edificio ospitava anche la protezione civile e altre associazioni di pubblica utilità, per ristrutturarlo c’è già l’impegno della Pro Loco e del Conad, con il contributo del concerto potremo farcela in tempi brevi».

A Reggiolo sono andati anche quaranta del migliaio di inviti – gli unici in omaggio – che lo staff di «Italia Loves Emilia» ha offerto ai comuni colpiti dal terremoto. «Io ho pagato – tiene a precisare Barbara Bernardelli – Li abbiamo regalati ai volontari che hanno gestito il campo di accoglienza, o almeno a una parte di loro, dato che durante l’emergenza si sono impegnati tanti cittadini». Sabato, al campo volo, Barbara ha accantonato per qualche ora le preoccupazioni quotidiane: «Ho cantato pure io, sono tornata a casa senza voce. È stato davvero uno spettacolo bellissimo». Qualche preferenza, tra i cantanti? «A me piacciono molto Ligabue, Jovanotti, Fiorella Mannoia, Elisa… Ma non è il caso di fare graduatorie, sono stati tutti bravissimi e meritano un grandissimo ringraziamento».

L’Unità 24.09.12

"I soldi per una scuola di musica", di Stefano Morselli

Una carica di energia positiva, che ci aiuta a superare i momenti di sconforto, a volte ancora presenti. Gli artisti, gli organizzatori, l’entusiasmo del pubblico ci hanno regalato un evento unico, non solo di musica, anche di unione, di socialità, di solidarietà. Per me è stata una cosa emozionante e un incoraggiamento». Barbara Bernardelli, 39enne sindaco di Reggiolo, era tra gli oltre 150mila che, al campo volo di Reggio Emilia, hanno partecipato al concertone per la raccolta di fondi a favore delle comunità colpite dal terremoto della primavera scorsa. Lei non era una semplice spettatrice, bensì uno dei destinatari, in qualità di sindaco, dei soldi che il concerto e le attività collaterali (merchandising di magliette e accessori vari, diretta Sky, cd e dvd…) metteranno insieme per finanziare progetti di ripristino delle strutture scolastiche in dieci comuni tra le province di Reggio, Modena, Bologna, Ferrara.
Nel territorio reggiano, Reggiolo è il paese che ha subito i danni maggiori. Le ripetute scosse hanno reso inagibili gli edifici pubblici, centinaia di abitazioni e di negozi. Hanno trasformato il centro storico in «zona rossa» inaccessibile. A distanza di alcuni mesi, la situazione è migliorata, una settimana fa ha chiuso il campo di accoglienza, che era arrivato ad ospitare oltre 800 persone e a servire 1.300 pasti al giorno. «Tutti gli sfollati – dice Bernardelli – hanno trovato una sistemazione, almeno provvisoria, presso parenti, amici o in alloggi messi a disposizioni dagli enti pubblici. Ma circa mille persone, più del dieci per cento degli abitanti, non possono ancora rientrare nelle loro case. E gli uffici municipali sono tuttora ospitati da container in piazza, al pari di numerose attività commerciali».
Quanto alle scuole, si è lavorato sodo per consentire un avvio regolare del nuovo anno scolastico. «Asili nido, materne ed elementari stanno riaprendo in questi giorni. La scuola media ha danni troppo gravi, quindi la Regione ci ha fornito un prefabbricato, che inaugureremo all’inizio di ottobre con il presidente Vasco Errani». I fondi provenienti dal concertone serviranno invece al recupero della scuola di musica, gestita dalla locale Filarmonica. L’idea che la solidarietà di grandi musicisti potesse servire a salvare una piccola scuola di musica è piaciuta ai promotori di «Italia Loves Emilia», che hanno quindi inserito il progetto nell’elenco di quelli da finanziare.
«Alla scuola di musica – spiega il sindaco – erano iscritti 250 tra ragazzi e adulti, un numero in crescita da alcuni anni. L’edificio ospitava anche la protezione civile e altre associazioni di pubblica utilità, per ristrutturarlo c’è già l’impegno della Pro Loco e del Conad, con il contributo del concerto potremo farcela in tempi brevi».
A Reggiolo sono andati anche quaranta del migliaio di inviti – gli unici in omaggio – che lo staff di «Italia Loves Emilia» ha offerto ai comuni colpiti dal terremoto. «Io ho pagato – tiene a precisare Barbara Bernardelli – Li abbiamo regalati ai volontari che hanno gestito il campo di accoglienza, o almeno a una parte di loro, dato che durante l’emergenza si sono impegnati tanti cittadini». Sabato, al campo volo, Barbara ha accantonato per qualche ora le preoccupazioni quotidiane: «Ho cantato pure io, sono tornata a casa senza voce. È stato davvero uno spettacolo bellissimo». Qualche preferenza, tra i cantanti? «A me piacciono molto Ligabue, Jovanotti, Fiorella Mannoia, Elisa… Ma non è il caso di fare graduatorie, sono stati tutti bravissimi e meritano un grandissimo ringraziamento».
L’Unità 24.09.12

"Il peso dei fondi Usa nel Lingotto", di Massimo Giannini

“LA FIAT resterà in Italia” è una promessa scritta sull’acqua. Solo un governo che non vuole sentire e un sindacato che non vuole vedere possono credere all’impegno generico assunto da Sergio Marchionne a Palazzo Chigi. Il “Lingotto americano” è già oggi una realtà. E lo sarà sempre di più nei prossimi mesi. Per capirlo, non serve un’esegesi maliziosa delle parole pensate e scritte nel comunicato di sabato scorso. «Fiat vuole riorientare il modello di business in una logica che privilegi le esportazioni, in particolare extra-europee »: questo passaggio dice già molto. Ma non dice ancora tutto. Il resto che c’è da sapere, e che conferma il graduale ma ineluttabile abbandono delle radici italiane del gruppo, lo dicono i fatti di questi ultime settimane, e soprattutto i numeri dei prossimi mesi.
Tra i fatti, ce n’è uno che testimonia concretamente, e per certi versi anche simbolicamente, il processo di “americanizzazione” di quella che fu la grande Fabbrica Italiana di Automobili. Un fatto che è passato inosservato, ma che non è sfuggito alla Consob, dove le vicende Fiat vengono seguite con particolare attenzione già dall’ottobre 2011, quando i vertici furono sollecitati da Giuseppe Vegas a chiarire l’evoluzione del piano industriale ai sensi dell’articolo 114 del Testo Unico della finanza. Tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, proprio negli stessi giorni in cui l’amministratore delegato comunicava al Paese e ai suoi stakeholders il definitivo tramonto del faraonico piano “Fabbrica Italia” da 20 miliardi, due grandi fondi di investimento americani hanno rafforzato la propria presenza azionaria nel capitale Fiat.
La prima operazione è stata comunicata il 30 agosto alla Vigilanza di Borsa: il Vanguard International Growth Fund ha acquistato una quota del 2,006% di Fiat Spa. Se si sommano i pacchetti di Vanguard a quelli già posseduti da Baillie Gifford, Capital Research e Blackrock, i fondi esteri possiedono ormai il 10% del capitale della casa madre. La seconda operazione è stata notificata all’Authority di Piazza Affari il 7 settembre: l’Harris Associates Lp, grande fondo d’investimenti di Chicago che gestisce asset per 75 miliardi di dollari, ha rilevato il 5,027% di Fiat Industrial Spa. Se si sommano i pacchetti di Harris a quelli già posseduti da Fmr Llc, dal Fondo sovrano di Singapore e da Blackrock, i fondi esteri possiedono ormai oltre il 13% di Fiat Industrial. Movimenti giudicati “interessanti” in Consob. Non perché siano di per sé negativi: è anzi importante che grandi istituzioni finanziarie internazionali investano sul “brand” Fiat-Chrysler. Ma è il segnale di un definitivo “cambio di fase”, che acquista ancor più significato perché cade proprio nei giorni in cui Marchionne archivia per sempre la pratica di “Fabbrica Italia”.
La Fiat è ormai una multinazionale, con un cuore e un portafoglio ormai irreversibilmente trasferiti oltre-oceano. Il capo-azienda può ripetere all’infinito che nulla è ancora perduto e che la “testa” del gruppo resterà qui, nonostante la “liquidazione” del piano miracolistico fatto bere nel 2010 a un governo inesistente (quello di Berlusconi, il cui unico obiettivo era tutelare gli affari del Cavaliere) e a un sindacato compiacente (Cisl e Uil, il cui unico assillo era isolare la nemica Cgil). Marchionne e John Elkann, di fronte a Monti e ai suoi ministri, possono ribadire fino alla noia che gli sforzi dei prossimi mesi saranno comunque orientati a valorizzare «ricerca e innovazione, peculiarità delle strutture italiane». Non è quello che sta accadendo. E non è quello che accadrà. In questo caso, sono i numeri a parlare. Soprattutto quelli del disastro produttivo dei quattro stabilimenti italiani, che dicono molto di più delle cifre sulla crisi globale del settore e della perdita di quote di mercato Fiat in Europa.
Sono numeri che arrivano dallo stesso Lingotto, e che sono sintetizzati nei “Piani operativi 09”, messi a punto dal management del gruppo proprio ai primi di settembre. Marchionne ne ha snocciolato qualcuno, anche nell’incontro a Palazzo Chigi di sabato. Ma leggerli tutti, nel documento previsionale riservato e aggiornato pochi giorni fa dai tecnici del gruppo (pubblicato senza smentite dal sito Linkiesta), fa un effetto disarmante. Nel 2009 gli impianti italiani di Mirafiori, Melfi, Pomigliano, Cassino e Termini Imerese (allora ancora in funzione), più quello polacco di Tichy e quello serbo di Kragujevac, avevano sfornato più di 1,24 milioni di automobili. A gennaio primo segnale inquietante: la stima era stata rivista in ribasso, a 1.027.900 vetture. Ora siamo all’allarme rosso. Alla fine di questo rovinoso 2012 da queste fabbriche usciranno quasi la metà delle vetture rispetto a tre anni fa: solo 734 mila. E l’encefalogramma resterà sostanzialmente piatto anche nel 2013, quando le previsioni parlano di una produzione di circa 826 mila vetture.
Nessuno degli stabilimenti Fiat si salva da questa disfatta. Mirafiori, che nel 2009 produceva 172 mila auto, a fine anno ne sfornerà se va bene 44.200. E nel 2013, per l’impianto che fu il fiore all’occhiello italiano e l’orgoglio della sapienza industriale di Torino, è notte fonda: i Piani operativi non prevedono altro se non 29.700 esemplari della MiTo. Dovrebbero partire la 500X e la 500L Long, ma nessuno ne sa niente. Melfi, che doveva produrre 223.700 vetture, ne confezionerà meno di 150 mila: dovrebbero diventare 157.500 nel 2013, ma non c’è altro oltre la produzione della Grande Punto Serie 6. Pomigliano, “laboratorio” delle nuove relazioni industriali forgiate nel fuoco degli accordi separati che piacciono a Bonanni e Angeletti, doveva essere la culla della Nuova Panda, con 202.700 modelli nel 2012. Saranno 119.200, che lieviterebbero a 177.500 nel 2013, a condizione che si sblocchino gli intoppi sulle linee di produzione. Cassino, un tempo gioiello dell’automazione Fiat, segue il trend in picchiata: 102.300 vetture previste a fine 2012 (contro una stima iniziale di 139.800) e 111.700 nel 2013.
Nei due impianti europei, sussidiati dai governi di Polonia e di Serbia, le cose non vanno meglio. Da Tichy usciranno 347 mila auto nel 2012 (erano 588 mila nel 2009 e dovevano essere 389.100 secondo le stime di gennaio) e appena 262 mila nel 2013. Da Kragujevac, “fucina” della nuova 500L, usciranno quest’anno 27.300 modelli (contro gli oltre 33 mila previsti), e 138 mila l’anno prossimo (sempre che partano regolarmente le produzioni della 500L Usa e della 500L Long). Queste cifre pessime sull’andamento dei due siti produttivi esteri finanziati dai Paesi in cui sono collocati fanno giustizia della reazione stizzita di Marchionne, che tre giorni fa, a un Corrado Passera che da San Paolo chiedeva perché la Fiat è leader in America del Sud e solo la produzione italiana va così male, rispondeva «al ministro non sarà sfuggito che il governo brasiliano è particolarmente attento alle problematiche dell’industria dell’auto». Per lo stabilimento nello Stato di Pernambuco, in effetti, la Fiat riceverà finanziamenti fino all’85% su un investimento complessivo di 2,3 milioni di euro.
Il ragionamento è capzioso, quasi ricattatorio. A dispetto delle smentite, il Lingotto sembra ancora incline a battere cassa (integrazione) e a pretendere sgravi fiscali “dedicati” all’export. E’ sempre facile fare impresa, quando paga Pantalone. Ma al di là di questo, la paradossale logica neo-statalista dell’altrimenti ultra-liberista Marchionne è smentita proprio dai risultati di Tichy (foraggiato generosamente dal governo di Varsavia) e da quello di Kragujevac (appena rifinanziato dalla Bei con 500 milioni di euro). Non solo: l’ultimo “bailout” industriale concesso da un governo italiano (non a caso quello di Giulio Andreotti) risale ai primi Anni Novanta, e si riferisce alla costruzione del polo Fiat a Melfi. Ebbene, anche in questo caso i pessimi risultati previsionali indicati nei “Piani operativi 09” per lo stabilimento in Basilicata dimostrano che le risorse pubbliche servono a poco, se manca un solido disegno industriale e un forte impegno strategico sull’innovazione di prodotto, oltre che di processo.
Oggi, è esattamente questo che manca alla Fiat. Dal 1977 ha drenato dal contribuente italiano 7,6 miliardi di sussidi e ha “restituito” 6,2 miliardi di nuovi investimenti. Checchè ne dica il suo ammini-stratore delegato, il Lingotto è ancora in debito con l’Italia. A saldarlo non basterà una promessa improbabile, basata su una ripresa ipotetica. Il 2014 è ancora molto lontano. Solo l’America è sempre più vicina.

La Repubblica 24.09.12

******

Fiat, nessun nuovo piano al cda Bersani e Camusso: “Caso irrisolto”, di ROBERTO MANIA

Navigare a vista. Questo è ritornato ad essere il motto della Fiat dopo il vertice di sabato a Palazzo Chigi. Tradotto vuol dire: nessuna sostituzione del defunto progetto “Fabbrica Italia” da 20 miliardi di investimenti. Insomma il Consiglio di amministrazione del gruppo convocato per il prossimo 30 ottobre esaminerà i conti del terzo trimestre del 2012 ma non dirà quale potrà essere il futuro produttivo dei cinque stabilimenti italiani. Tutto fermo fino almeno al 2014 quando il mercato — secondo l’amministratore delegato di Fiat-Chrysler, Sergio Marchionne — potrebbe dare segnali di ripresa.
D’altra parte nessuno crede a un cambio di prospettiva. «Non è cambiato nulla», ha commentato il leader della Cgil, Susanna Camusso. «Il caso resta aperto», ha detto il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. E dubbi sono arrivati da Angelino Alfano (Pdl) e da Pier Ferdinando Casini (Udc). Freddo Luigi Angeletti (Uil). Unica eccezione Raffaele Bonanni (Cisl): «I gufi sono stati smentiti ».
Da oggi i tecnici del ministero dello Sviluppo apriranno il dossier incentivi all’export. Perché Marchionne ha detto che non chiuderà le fabbriche ma le userà per produrre per il mercato americano dove solo la Chrysler ad agosto ha segnato un + 14 per cento rispetto ad un anno prima. Dalle piattaforme italiane usciranno auto per gli americani: la Fiat chiede una riduzione dei costi di produzione per compensare i dazi doganali che dovrà sostenere Oltreoceano. Non è ancora chiaro quali saranno le carte che potranno essere giocate e che siano anche compatibili sia con le regole europee sia con quelle del Wto (l’organizzazione mondiale del commercio). Il Lingotto ha ipotizzato, tra l’altro,
una riduzione del cuneo fiscale magari facendo leva su un taglio dell’Irap per i prodotti destinati all’export. Si studiano anche facilitazioni sul credito. Va da sé che non potrà essere un pacchetto tagliato su misura per la Fiat. E serviranno risorse. Anche per sostenere l’eventuale patto per la produttività tra sindacati e Confindustria di cui potrebbe beneficiare la stessa Fiat, con gli sgravi sulla retribuzione collegata ai risultati aziendali così come sugli straordinari. Per mantenere gli impianti fermi (le agevolazioni per l’export sono ancora tutte da scrivere) ci sarà bisogno ancora di tanta cassa integrazione. Il sostegno al reddito dei lavoratori, non può che essere il corollario del patto di collaborazione tra il governo di Monti e il manager del Lingotto. Ha detto Pier Luigi Bersani, segretario del Pd. «Nonostante gli sforzi del governo, mi pare che il problema Fiat rimanga tutto aperto. Al tavolo c’era un convitato di pietra e cioè una nuova stagione di ammortizzatori sociali costosi per i lavoratori e per lo Stato, senza una prospettiva sicura».

La Repubblica 24.09.12

"Il peso dei fondi Usa nel Lingotto", di Massimo Giannini

“LA FIAT resterà in Italia” è una promessa scritta sull’acqua. Solo un governo che non vuole sentire e un sindacato che non vuole vedere possono credere all’impegno generico assunto da Sergio Marchionne a Palazzo Chigi. Il “Lingotto americano” è già oggi una realtà. E lo sarà sempre di più nei prossimi mesi. Per capirlo, non serve un’esegesi maliziosa delle parole pensate e scritte nel comunicato di sabato scorso. «Fiat vuole riorientare il modello di business in una logica che privilegi le esportazioni, in particolare extra-europee »: questo passaggio dice già molto. Ma non dice ancora tutto. Il resto che c’è da sapere, e che conferma il graduale ma ineluttabile abbandono delle radici italiane del gruppo, lo dicono i fatti di questi ultime settimane, e soprattutto i numeri dei prossimi mesi.
Tra i fatti, ce n’è uno che testimonia concretamente, e per certi versi anche simbolicamente, il processo di “americanizzazione” di quella che fu la grande Fabbrica Italiana di Automobili. Un fatto che è passato inosservato, ma che non è sfuggito alla Consob, dove le vicende Fiat vengono seguite con particolare attenzione già dall’ottobre 2011, quando i vertici furono sollecitati da Giuseppe Vegas a chiarire l’evoluzione del piano industriale ai sensi dell’articolo 114 del Testo Unico della finanza. Tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, proprio negli stessi giorni in cui l’amministratore delegato comunicava al Paese e ai suoi stakeholders il definitivo tramonto del faraonico piano “Fabbrica Italia” da 20 miliardi, due grandi fondi di investimento americani hanno rafforzato la propria presenza azionaria nel capitale Fiat.
La prima operazione è stata comunicata il 30 agosto alla Vigilanza di Borsa: il Vanguard International Growth Fund ha acquistato una quota del 2,006% di Fiat Spa. Se si sommano i pacchetti di Vanguard a quelli già posseduti da Baillie Gifford, Capital Research e Blackrock, i fondi esteri possiedono ormai il 10% del capitale della casa madre. La seconda operazione è stata notificata all’Authority di Piazza Affari il 7 settembre: l’Harris Associates Lp, grande fondo d’investimenti di Chicago che gestisce asset per 75 miliardi di dollari, ha rilevato il 5,027% di Fiat Industrial Spa. Se si sommano i pacchetti di Harris a quelli già posseduti da Fmr Llc, dal Fondo sovrano di Singapore e da Blackrock, i fondi esteri possiedono ormai oltre il 13% di Fiat Industrial. Movimenti giudicati “interessanti” in Consob. Non perché siano di per sé negativi: è anzi importante che grandi istituzioni finanziarie internazionali investano sul “brand” Fiat-Chrysler. Ma è il segnale di un definitivo “cambio di fase”, che acquista ancor più significato perché cade proprio nei giorni in cui Marchionne archivia per sempre la pratica di “Fabbrica Italia”.
La Fiat è ormai una multinazionale, con un cuore e un portafoglio ormai irreversibilmente trasferiti oltre-oceano. Il capo-azienda può ripetere all’infinito che nulla è ancora perduto e che la “testa” del gruppo resterà qui, nonostante la “liquidazione” del piano miracolistico fatto bere nel 2010 a un governo inesistente (quello di Berlusconi, il cui unico obiettivo era tutelare gli affari del Cavaliere) e a un sindacato compiacente (Cisl e Uil, il cui unico assillo era isolare la nemica Cgil). Marchionne e John Elkann, di fronte a Monti e ai suoi ministri, possono ribadire fino alla noia che gli sforzi dei prossimi mesi saranno comunque orientati a valorizzare «ricerca e innovazione, peculiarità delle strutture italiane». Non è quello che sta accadendo. E non è quello che accadrà. In questo caso, sono i numeri a parlare. Soprattutto quelli del disastro produttivo dei quattro stabilimenti italiani, che dicono molto di più delle cifre sulla crisi globale del settore e della perdita di quote di mercato Fiat in Europa.
Sono numeri che arrivano dallo stesso Lingotto, e che sono sintetizzati nei “Piani operativi 09”, messi a punto dal management del gruppo proprio ai primi di settembre. Marchionne ne ha snocciolato qualcuno, anche nell’incontro a Palazzo Chigi di sabato. Ma leggerli tutti, nel documento previsionale riservato e aggiornato pochi giorni fa dai tecnici del gruppo (pubblicato senza smentite dal sito Linkiesta), fa un effetto disarmante. Nel 2009 gli impianti italiani di Mirafiori, Melfi, Pomigliano, Cassino e Termini Imerese (allora ancora in funzione), più quello polacco di Tichy e quello serbo di Kragujevac, avevano sfornato più di 1,24 milioni di automobili. A gennaio primo segnale inquietante: la stima era stata rivista in ribasso, a 1.027.900 vetture. Ora siamo all’allarme rosso. Alla fine di questo rovinoso 2012 da queste fabbriche usciranno quasi la metà delle vetture rispetto a tre anni fa: solo 734 mila. E l’encefalogramma resterà sostanzialmente piatto anche nel 2013, quando le previsioni parlano di una produzione di circa 826 mila vetture.
Nessuno degli stabilimenti Fiat si salva da questa disfatta. Mirafiori, che nel 2009 produceva 172 mila auto, a fine anno ne sfornerà se va bene 44.200. E nel 2013, per l’impianto che fu il fiore all’occhiello italiano e l’orgoglio della sapienza industriale di Torino, è notte fonda: i Piani operativi non prevedono altro se non 29.700 esemplari della MiTo. Dovrebbero partire la 500X e la 500L Long, ma nessuno ne sa niente. Melfi, che doveva produrre 223.700 vetture, ne confezionerà meno di 150 mila: dovrebbero diventare 157.500 nel 2013, ma non c’è altro oltre la produzione della Grande Punto Serie 6. Pomigliano, “laboratorio” delle nuove relazioni industriali forgiate nel fuoco degli accordi separati che piacciono a Bonanni e Angeletti, doveva essere la culla della Nuova Panda, con 202.700 modelli nel 2012. Saranno 119.200, che lieviterebbero a 177.500 nel 2013, a condizione che si sblocchino gli intoppi sulle linee di produzione. Cassino, un tempo gioiello dell’automazione Fiat, segue il trend in picchiata: 102.300 vetture previste a fine 2012 (contro una stima iniziale di 139.800) e 111.700 nel 2013.
Nei due impianti europei, sussidiati dai governi di Polonia e di Serbia, le cose non vanno meglio. Da Tichy usciranno 347 mila auto nel 2012 (erano 588 mila nel 2009 e dovevano essere 389.100 secondo le stime di gennaio) e appena 262 mila nel 2013. Da Kragujevac, “fucina” della nuova 500L, usciranno quest’anno 27.300 modelli (contro gli oltre 33 mila previsti), e 138 mila l’anno prossimo (sempre che partano regolarmente le produzioni della 500L Usa e della 500L Long). Queste cifre pessime sull’andamento dei due siti produttivi esteri finanziati dai Paesi in cui sono collocati fanno giustizia della reazione stizzita di Marchionne, che tre giorni fa, a un Corrado Passera che da San Paolo chiedeva perché la Fiat è leader in America del Sud e solo la produzione italiana va così male, rispondeva «al ministro non sarà sfuggito che il governo brasiliano è particolarmente attento alle problematiche dell’industria dell’auto». Per lo stabilimento nello Stato di Pernambuco, in effetti, la Fiat riceverà finanziamenti fino all’85% su un investimento complessivo di 2,3 milioni di euro.
Il ragionamento è capzioso, quasi ricattatorio. A dispetto delle smentite, il Lingotto sembra ancora incline a battere cassa (integrazione) e a pretendere sgravi fiscali “dedicati” all’export. E’ sempre facile fare impresa, quando paga Pantalone. Ma al di là di questo, la paradossale logica neo-statalista dell’altrimenti ultra-liberista Marchionne è smentita proprio dai risultati di Tichy (foraggiato generosamente dal governo di Varsavia) e da quello di Kragujevac (appena rifinanziato dalla Bei con 500 milioni di euro). Non solo: l’ultimo “bailout” industriale concesso da un governo italiano (non a caso quello di Giulio Andreotti) risale ai primi Anni Novanta, e si riferisce alla costruzione del polo Fiat a Melfi. Ebbene, anche in questo caso i pessimi risultati previsionali indicati nei “Piani operativi 09” per lo stabilimento in Basilicata dimostrano che le risorse pubbliche servono a poco, se manca un solido disegno industriale e un forte impegno strategico sull’innovazione di prodotto, oltre che di processo.
Oggi, è esattamente questo che manca alla Fiat. Dal 1977 ha drenato dal contribuente italiano 7,6 miliardi di sussidi e ha “restituito” 6,2 miliardi di nuovi investimenti. Checchè ne dica il suo ammini-stratore delegato, il Lingotto è ancora in debito con l’Italia. A saldarlo non basterà una promessa improbabile, basata su una ripresa ipotetica. Il 2014 è ancora molto lontano. Solo l’America è sempre più vicina.
La Repubblica 24.09.12
******
Fiat, nessun nuovo piano al cda Bersani e Camusso: “Caso irrisolto”, di ROBERTO MANIA
Navigare a vista. Questo è ritornato ad essere il motto della Fiat dopo il vertice di sabato a Palazzo Chigi. Tradotto vuol dire: nessuna sostituzione del defunto progetto “Fabbrica Italia” da 20 miliardi di investimenti. Insomma il Consiglio di amministrazione del gruppo convocato per il prossimo 30 ottobre esaminerà i conti del terzo trimestre del 2012 ma non dirà quale potrà essere il futuro produttivo dei cinque stabilimenti italiani. Tutto fermo fino almeno al 2014 quando il mercato — secondo l’amministratore delegato di Fiat-Chrysler, Sergio Marchionne — potrebbe dare segnali di ripresa.
D’altra parte nessuno crede a un cambio di prospettiva. «Non è cambiato nulla», ha commentato il leader della Cgil, Susanna Camusso. «Il caso resta aperto», ha detto il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. E dubbi sono arrivati da Angelino Alfano (Pdl) e da Pier Ferdinando Casini (Udc). Freddo Luigi Angeletti (Uil). Unica eccezione Raffaele Bonanni (Cisl): «I gufi sono stati smentiti ».
Da oggi i tecnici del ministero dello Sviluppo apriranno il dossier incentivi all’export. Perché Marchionne ha detto che non chiuderà le fabbriche ma le userà per produrre per il mercato americano dove solo la Chrysler ad agosto ha segnato un + 14 per cento rispetto ad un anno prima. Dalle piattaforme italiane usciranno auto per gli americani: la Fiat chiede una riduzione dei costi di produzione per compensare i dazi doganali che dovrà sostenere Oltreoceano. Non è ancora chiaro quali saranno le carte che potranno essere giocate e che siano anche compatibili sia con le regole europee sia con quelle del Wto (l’organizzazione mondiale del commercio). Il Lingotto ha ipotizzato, tra l’altro,
una riduzione del cuneo fiscale magari facendo leva su un taglio dell’Irap per i prodotti destinati all’export. Si studiano anche facilitazioni sul credito. Va da sé che non potrà essere un pacchetto tagliato su misura per la Fiat. E serviranno risorse. Anche per sostenere l’eventuale patto per la produttività tra sindacati e Confindustria di cui potrebbe beneficiare la stessa Fiat, con gli sgravi sulla retribuzione collegata ai risultati aziendali così come sugli straordinari. Per mantenere gli impianti fermi (le agevolazioni per l’export sono ancora tutte da scrivere) ci sarà bisogno ancora di tanta cassa integrazione. Il sostegno al reddito dei lavoratori, non può che essere il corollario del patto di collaborazione tra il governo di Monti e il manager del Lingotto. Ha detto Pier Luigi Bersani, segretario del Pd. «Nonostante gli sforzi del governo, mi pare che il problema Fiat rimanga tutto aperto. Al tavolo c’era un convitato di pietra e cioè una nuova stagione di ammortizzatori sociali costosi per i lavoratori e per lo Stato, senza una prospettiva sicura».
La Repubblica 24.09.12

"Dat: perché sarebbe meglio evitare la legge", di Stefano Semplici

Solo con una robusta dose di ingenuità si poteva immaginare che questa legislatura si sarebbe conclusa senza che si tornasse a discutere del disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Non si tratta, a questo punto, di dare ragione a chi sostiene che tanto lavoro non merita di andare sprecato piuttosto che a coloro che denunciano il significato tutto strumentale ed elettorale della pretesa di approvare definitivamente il testo. Gli uni e gli altri recitano la loro parte in un copione scontato. È meglio allora restare sui contenuti del disegno di legge, per capire cosa accadrebbe davvero e trarne un sommesso suggerimento. Il testo contiene una incongruenza palese, che rende impossibile la chiara identificazione della platea dei destinatari. Nell’art. 1 e nel comma 1 dell’art. 3 ci si riferisce ai soggetti incapaci di intendere e di volere e dunque, per citare solo l’esempio più facile, alle centinaia di migliaia di malati di Alzheimer che si trovino in uno stato avanzato della loro malattia. Ma nel comma 5 dello stesso art. 3 si specifica che «la dichiarazione anticipata di trattamento assume rilievo nel momento in cui il soggetto si trovi nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze per accertata assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale». Questa definizione risulta di difficile interpretazione e applicazione, perfino per molti specialisti, e preferisco allora assumerla nel significato ribadito da Paola Binetti nel dibattito alla Camera: si intendono i soggetti in stato vegetativo, gli stessi ai quali si riferiva il testo originariamente approvato dal Senato. E dunque si parla di una piccolissima percentuale dei pazienti incapaci di intendere e di volere. Per tutti gli altri, che nel pieno rispetto della norma avranno affidato alle dat la loro volontà, esse, semplicemente, non assumeranno rilievo. Trasformando in legge questo pasticcio si aprirà una volta di più la strada ad avvocati, giudici e tribunali.
Tutta questa faticosa discussione non sarebbe mai nata se non ci fosse stata la dolorosa vicenda di Eluana Englaro. La premessa ha condizionato il risultato. Non siamo davanti a un testo che affronta davvero, in tutta la sua complessità, la sfida della attualizzazione della volontà di un paziente che non è più in grado di esprimerla, bilanciando in una situazione per questo delicatissima il principio del rispetto dell’autonomia con quello della tutela del bene della vita. Il vero problema che la legge vuole risolvere, l’unica chiara indicazione prescrittiva, è quella che riguarda l’alimentazione e l’idratazione artificiali. Questo obbligo così formulato è insostenibile, perché introduce un regime differenziato per un trattamento sanitario al quale non possono che applicarsi le regole che valgono per tutti gli altri. E dunque cadrà rapidamente. Si tornerà così al punto di partenza: l’interrogativo sulla possibilità di considerare una volontà espressa in un momento lontano come una volontà vincolante nella stessa misura in cui lo è, dal punto di vista della deontologia professionale e giuridico, quella attuale.
L’ultima riflessione è anche la più semplice. È giusto che nel disegno di legge si affermi esplicitamente che «l’assistenza ai soggetti in stato vegetativo rappresenta livello essenziale di assistenza», ma non è chiaro in che modo saranno finalmente reperite le risorse per accompagnare concretamente le famiglie nelle quali vivono persone colpite da questa come da altre disabilità. I cittadini che non hanno altra sanità possibile che quella pubblica hanno probabilmente buoni motivi per temere che questo livello essenziale non sarà garantito meglio di tanti altri. Sarebbe bello se di queste polemiche rimanesse almeno un impegno concreto e condiviso a non allargare ulteriormente nel nostro Paese le faglie di una disuguaglianza odiosa, perché incide sul primo di tutti i diritti. In caso contrario, la bioetica continuerà ad essere ciò che è stata in questi ultimi anni: un modo per piantare bandiere e consolidare gli schieramenti, se non addirittura un comodo diversivo «senza oneri per lo Stato».
Sarebbe bene rinunciare a questa legge. Meglio però, in caso contrario, andare subito in aula e votare. L’argomento, almeno, sarà tolto dalla campagna elettorale e se ne riparlerà fra qualche mese. Pochi cittadini ne sentiranno la mancanza. E si rispetterà di più la sofferenza delle persone.

L’Unità 23.09.12

"Dat: perché sarebbe meglio evitare la legge", di Stefano Semplici

Solo con una robusta dose di ingenuità si poteva immaginare che questa legislatura si sarebbe conclusa senza che si tornasse a discutere del disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Non si tratta, a questo punto, di dare ragione a chi sostiene che tanto lavoro non merita di andare sprecato piuttosto che a coloro che denunciano il significato tutto strumentale ed elettorale della pretesa di approvare definitivamente il testo. Gli uni e gli altri recitano la loro parte in un copione scontato. È meglio allora restare sui contenuti del disegno di legge, per capire cosa accadrebbe davvero e trarne un sommesso suggerimento. Il testo contiene una incongruenza palese, che rende impossibile la chiara identificazione della platea dei destinatari. Nell’art. 1 e nel comma 1 dell’art. 3 ci si riferisce ai soggetti incapaci di intendere e di volere e dunque, per citare solo l’esempio più facile, alle centinaia di migliaia di malati di Alzheimer che si trovino in uno stato avanzato della loro malattia. Ma nel comma 5 dello stesso art. 3 si specifica che «la dichiarazione anticipata di trattamento assume rilievo nel momento in cui il soggetto si trovi nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze per accertata assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale». Questa definizione risulta di difficile interpretazione e applicazione, perfino per molti specialisti, e preferisco allora assumerla nel significato ribadito da Paola Binetti nel dibattito alla Camera: si intendono i soggetti in stato vegetativo, gli stessi ai quali si riferiva il testo originariamente approvato dal Senato. E dunque si parla di una piccolissima percentuale dei pazienti incapaci di intendere e di volere. Per tutti gli altri, che nel pieno rispetto della norma avranno affidato alle dat la loro volontà, esse, semplicemente, non assumeranno rilievo. Trasformando in legge questo pasticcio si aprirà una volta di più la strada ad avvocati, giudici e tribunali.
Tutta questa faticosa discussione non sarebbe mai nata se non ci fosse stata la dolorosa vicenda di Eluana Englaro. La premessa ha condizionato il risultato. Non siamo davanti a un testo che affronta davvero, in tutta la sua complessità, la sfida della attualizzazione della volontà di un paziente che non è più in grado di esprimerla, bilanciando in una situazione per questo delicatissima il principio del rispetto dell’autonomia con quello della tutela del bene della vita. Il vero problema che la legge vuole risolvere, l’unica chiara indicazione prescrittiva, è quella che riguarda l’alimentazione e l’idratazione artificiali. Questo obbligo così formulato è insostenibile, perché introduce un regime differenziato per un trattamento sanitario al quale non possono che applicarsi le regole che valgono per tutti gli altri. E dunque cadrà rapidamente. Si tornerà così al punto di partenza: l’interrogativo sulla possibilità di considerare una volontà espressa in un momento lontano come una volontà vincolante nella stessa misura in cui lo è, dal punto di vista della deontologia professionale e giuridico, quella attuale.
L’ultima riflessione è anche la più semplice. È giusto che nel disegno di legge si affermi esplicitamente che «l’assistenza ai soggetti in stato vegetativo rappresenta livello essenziale di assistenza», ma non è chiaro in che modo saranno finalmente reperite le risorse per accompagnare concretamente le famiglie nelle quali vivono persone colpite da questa come da altre disabilità. I cittadini che non hanno altra sanità possibile che quella pubblica hanno probabilmente buoni motivi per temere che questo livello essenziale non sarà garantito meglio di tanti altri. Sarebbe bello se di queste polemiche rimanesse almeno un impegno concreto e condiviso a non allargare ulteriormente nel nostro Paese le faglie di una disuguaglianza odiosa, perché incide sul primo di tutti i diritti. In caso contrario, la bioetica continuerà ad essere ciò che è stata in questi ultimi anni: un modo per piantare bandiere e consolidare gli schieramenti, se non addirittura un comodo diversivo «senza oneri per lo Stato».
Sarebbe bene rinunciare a questa legge. Meglio però, in caso contrario, andare subito in aula e votare. L’argomento, almeno, sarà tolto dalla campagna elettorale e se ne riparlerà fra qualche mese. Pochi cittadini ne sentiranno la mancanza. E si rispetterà di più la sofferenza delle persone.
L’Unità 23.09.12

"Montessori: l’infanzia liberata. Ventimila le sue scuole nel mondo ma in Italia ce ne sono soltanto 136", di Pietro Greco

Nel 1913 “la bella italiana” sbarca in America, salutata dal New York Tribune come “the most interesting woman of Europe”, la donna più interessante del Vecchio Continente. Venti anni dopo «la bella italiana» deve lasciare definitivamente l’Italia, perché come scrive Roberta Passione nel ricco Dizionario biografico delle scienziate italiane (secoli XVIII-XX), curato da Miriam Focaccia e Sandra Linguerri, appena uscito nelle edizioni Pendragon «l’”educazione alla libertà” che (… ) propugna poco collima con l’orientamento sempre più autoritario della scuola fascista».
Con 22.000 scuole di ogni ordine e grado a lei dedicate e a lei ispirate in tutto il mondo, Maria Montessori è la donna italiana che ha avuto e ha tuttora più influenza nel mondo. È dunque con lei che vogliamo chiudere questa breve carrellata che, nel corso dell’estate, ci ha portato a conoscere alcuni dei grandi scienziati italiani che nel XX secolo hanno «fatto politica», indicando al Paese un percorso di crescita culturale, di progresso civile e di sviluppo economico che l’Italia non ha voluto seguire. Scelta per la quale, oggi, paghiamo conseguenze piuttosto salate.
Maria Montessori nacque a Chiaravalle, un tiro di schioppo da Ancona, il 31 agosto 1870. Era nipote, per parte di madre, di quell’abate e naturalista, Antonio Stoppani, autore di un libro di gran successo, Il Bel Paese, che non poco ha contribuito a costruire la nostra identità nazionale. Stoppani era un uomo di scienza e individuò una vena scientifica anche nella sua nipotina. Sta di fatto che Maria, dopo aver seguito tutto il percorso delle scuole elementari e medie a Roma, dove la famiglia si è intanto trasferita, a 20 anni si iscrive all’università La Sapienza di Roma. Quando nel 1896 termina gli studi, è la prima donna ad essersi laureata in medicina a Roma.
In un primo momento si occupa di psichiatria e inizia a frequentare quelli che lei chiama i «bambini deficienti», malati psichici. Scoprendo almeno tre cose. Che questi bambini hanno una straordinaria umanità e anche una creatività che può esplodere quando li si lascia liberi, appunto, di esprimersi. La seconda è che la scienza la scienza positiva è uno strumento non solo di progresso culturale ma anche un strumento politico di emancipazione dei deboli. Un fattore di democrazia, che può fornire un contributo forse non sufficiente, ma assolutamente necessario per restituire dignità e piena cittadinanza a questi bambini. E che, infine, come nota ancora Roberta Passione, è proprio dai bambini, dalla loro protezione e dalla loro educazione che è possibile avviare «la rigenerazione del mondo».
Non abbiamo lo spazio per ricostruire in dettaglio la storia del rapporto di Maria Montessori con i bambini. Ma è anche vero che non possiamo trascurare due fatti. Il primo è che Maria Montessori con questo quadro di riferimento opera a tutto campo. Nella cura dei bambini malati come nella lotta per l’emancipazione femminile. E infatti in un medesimo anno, il 1896, da un lato fonda con il patrocinio del Ministro e suo ex maestro Guido Baccelli e con l’aiuto di Giuseppe Ferruccio Montesano, l’amato collega e compagno di vita da cui, fuori dal matrimonio, avrà un figlio la Lega nazionale per la cura e l’educazione dei deficienti; e dall’altro contribuisce a fondare l’Associazione femminile di Roma, con un preciso scopo: avvicinare le donne alla scienza. E viceversa. In quel medesimo anno si reca a Berlino per partecipare al Congresso Femminile. In quella assise internazionale, la «bella italiana» non passa inosservata. Non solo per la sua grazia, ma anche per la veemenza con cui denuncia la condizione delle lavoratrici in Italia e chiede sia un più facile accesso al sistema educativo sia la parità di diritti e di salario tra maschi e femmine. È chiaro che sta nascendo una scienziata con una marcata «visione politica»: un autentico prototipo. E non solo in Italia.
Altro anno fondamentale nella vita di questa donna, che da psichiatra si è ormai trasformata in esperta pedagogista, con una solida formazione antropologica e filosofica, è il 1906. Quando crea la Casa dei bambini nel quartiere romano di San Lorenzo, dove inizia a sperimentare la sua «pedagogia scientifica» e inizia ad applicare ai «bambini normali» ciò che ha capito prendendosi cura dei «bambini deficienti»: la libertà come fonte di creatività e, insieme, di disciplina. Il rispetto dell’individualità come condizione per uno sviluppo armonico della socialità.
È un modo di fare scuola del tutto nuovo. I bambini che a San Lorenzo sono figli di famiglie alquanto povere non sono irreggimentati nei banchi, classe di età per classe di età, ma si muovo in spazi liberi, seguendo percorsi di apprendimento in cui componente fondamentale è la propria autodeterminazione. L’insegnante aiuta i suoi studenti a seguire il percorso migliore, che è il percorso di apprendimento preferito.
Non saremo noi ad approfondire i contenuti della pedagogia di Maria Montessori, che trovano espressione nel 1909 in un libro, Manuale della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei bambini, che viene scritto in pochi giorni mentre è ospite dei conti Franchetti a Città di Castello ma che presto ottiene fama planetaria. Trasformandola, nel giro di pochi anni, nella «donna più interessante» e in una delle più note d’Europa.
I SUOI LIBRI BRUCIATI DAI NAZISTI
In breve nascono scuole che si ispirano direttamente al «metodo Montessori» un po’ ovunque, ma soprattutto in Germania e negli Stati Uniti. È per questo che, una decina di anni dopo, quando arriva al potere, il maestro elementare Benito Mussolini cerca un qualche appeasement una qualche diplomazia dell’accordo con Maria Montessori, i cui principi positivistici non incontrano certo l’idealismo che informa di sé la scuola di Giovanni Gentile. Per molti anni le scuole Montessori vengono tollerate e persino protette dal Duce. Ma alla fine i principi di libertà su cui si fondano entrano definitivamente in collisione con l’autoritarismo fascista. Maria e il figlio Mario lasciano l’Italia. Intanto le sue scuole vengono chiuse anche da Adolf Hitler in Germania e i suoi libri bruciati dai nazisti.
Maria Montessori ripara prima in Olanda e poi nel corso della Seconda guerra mondiale, in India, dove riprende con forza immutata la battaglia per il valore educativo della libertà e il valore emancipativo dell’educazione. È dall’India che inizia la sua battaglia contro l’«analfabetismo mondiale», convinta com’è che la mancanza di cultura cristallizza le condizioni di povertà e solo l’educazione consente l’emancipazione dei poveri. A guerra finita torna in Italia, ma sporadicamente. La sua terra adottiva è, ormai, l’Olanda. Dove, il 6 maggio1952, a Noordwijk muore.
Non è certo «profeta in patria». Delle oltre ventimila scuole che oggi esplicitamente fanno riferimento al «metodo Montessori» solo 136 secondo un censimento realizzato dall’Università di Roma Tre e aggiornato al 2003 sono in Italia. Contro le 4.000, circa, negli Usa; le 1.140 in Germania, le 800 in Gran Bretagna, le 375 in Irlanda, la 220 in Olanda, le 163 in Svezia, le 150 in Giappone e le 200 in India. La «bella italiana» e il suo progetto di riscatto sociale attraverso la scienza appartengono, ormai, al mondo. Ma, come troppo spesso accade a molti geni italiani e a molte idee di italiani, non appartengono più al loro
distratto e irriconoscente Paese.

L’Unità 23.09.12