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"Le macerie della destra", di Massimo Giannini

Le dimissioni di Renata Polverini, forse le più lunghe della storia repubblicana, non sono solo l’ultimo atto di una gigantesca ruberia regionale. Nell’uscita di scena della governatrice c’è il tramonto di una carriera personale. C’è il tracollo di un sistema di potere fondato sul saccheggio del denaro pubblico. C’è la tragedia di una destra italiana che consuma la fase terminale della sua balcanizzazione, e di un Pdl che di fatto cessa di esistere come soggetto politico. Sono tutti colpevoli, in questo pecoreccio lupanare romano, metafora solo più rozza e plebea di un verminaio che è anche italiano.
Colpevole è la Polverini. Se non sul piano giudiziario (almeno fino a prova contraria) sicuramente sul piano politico. Ha avuto bisogno di una settimana per capire ciò che era chiaro fin dall’inizio. Di fronte all’enormità dello scandalo che ha travolto la sua Regione, il suo partito e la sua lista, resistere non era solo impossibile. Era prima di tutto irresponsabile. Lei l’ha fatto. Per sette giorni ha tentato di difendere l’indifendibile. La Grande Abbuffata della Pisana e i Toga party alla vaccinara, gli stipendi gonfiati fino a 50 mila euro al mese e gli «ad personam» da 200 mila euro all’anno dei consiglieri, il Suv del Batman di Anagni e le ostriche dei Battistoni e degli Abruzzese.
Davanti alle tre delibere regionali che hanno fatto lievitare da 1 a 14 milioni i fondi pubblici «rubati» dai partiti nel corso dei tre anni della sua consiliatura, non ha capito che non avrebbe potuto recitare (anche lei, come a suo tempo Scajola e poi persino Bossi) la parte della governatrice «a sua insaputa». O forse lo ha capito, ma proprio per questo non ha voluto e potuto fare altrimenti, cioè scaricare su altri colpe che, se non erano sue dal punto di vista soggettivo, lo erano senz’altro dal punto vista oggettivo. Ora parla di «consiglio indegno». Dice di aver aspettato proprio per vedere «fino a che punto il consiglio era vile». La verità è un’altra. Si è illusa che quella patetica sforbiciata ai trasferimenti e alle auto blu, votata in tutta fretta sabato scorso, fosse il colpetto di spugna sufficiente a mondare la Regione di tutti i suoi peccati. Si è lasciata addomesticare da Berlusconi, che le ha chiesto di restare al suo posto per non aprire nel Lazio una faglia che avrebbe finito per inghiottire quel che resta del Popolo delle Libertà. In ogni caso, lei non poteva e non può tuttora chiamarsi fuori, perché è stata ed è parte di quel «consiglio indegno ». Perché dal 2010 ne ha di fatto coperto gli atti e i misfatti. Per colpa (non ha vigilato). O per dolo (ha condiviso). Il risultato politico non cambia. Le sue dimissioni non sanano niente. Al contrario, amplificano lo scandalo.
Colpevoli, sia pure in forma e in misura totalmente diverse, sono i partiti dell’opposizione. In questi anni sono stati testimoni dello scempio, e invece di farlo esplodere lo hanno silenziato, mettendo anche la loro firma sulle delibere spartitorie della maggioranza. Certo (anche qui, fino a prova contraria) non hanno usato quei soldi dei contribuenti per festini in maschera e scorpacciate pantagrueliche da Pepenero. Giurano di averli impiegati per stampare manifesti e organizzare convegni. Insomma, per fare normale attività politica. Ma la quantità anomala di denaro che hanno comunque contribuito a drenare, mentre la Regione triplicava la sovrattassa Irpef e tagliava i posti letto negli ospedali, meritava un altro impiego. E comunque una denuncia pubblica, indignata e fragorosa, che invece non c’è stata. O è arrivata troppo tardi, con le dimissioni in massa annunciate dai consiglieri Pd, Idv e Sel. O è arrivata in modo ambiguo e omertoso, come nel caso dell’Udc.
Ma il vero colpevole di questa devastante catastrofe etica e politica è la destra italiana. Una destra che dà il peggio di sé, da Belsito a Fiorito. Che va in frantumi, da Palermo a Milano. E lascia deflagrare, al centro e in periferia, l’inevitabile diaspora tra le sue «culture » mai fuse perché inconciliabili o inesistenti: il populismo autocratico del Cavaliere, il moderatismo irenico degli ex democristiani, l’affarismo famelico dei cacicchi post-missini. Persi per strada prima Casini, poi Fini e da ultimo Bossi, Silvio Berlusconi non ha riunito queste «anime perse» sotto le insegne del conservatorismo europeo, ma le ha impastate con il fango dei rispettivi interessi (economici e affaristici). Le ha plasmate a sua immagine e somiglianza, secondo i «principi» dell’azzardo morale, dell’arricchimento individuale, dell’impunità penale. Le ha indottrinate di ideologismi demagogici su scala nazionale, ma gli ha lasciato mani libere scala locale. Il risultato è questo. Oggi, con l’ammaina bandiera nel Lazio, il Pdl viaggia a grandi passi verso la dissoluzione finale. Un destino irreversibile, per un partito «personale» che è nato e che morirà insieme all’improbabile maieuta che l’ha creato in pochi mesi e con molti miliardi. Che l’ha dotato di cuore, l’ha nutrito di pancia ma non ha voluto o saputo dargli una testa e due gambe per camminare. Non ha voluto o saputo dargli un’identità e una struttura. Sono penosi, in questi giorni, i conciliaboli a Palazzo Grazioli tra il Cavaliere e Angelino Alfano, i soliti coordinatori e gli impresentabili capigruppo. Ed è ancora più penoso sentire Gianni Letta che sdottoreggia alla Luiss contro «i gruppi di interessi particolari che frenano il sistema» (lui, che di quei «gruppi» è da vent’anni il garante supremo) o Gianni Alemanno che invoca «l’azzeramento totale e la rifondazione del centrodestra » (lui, che da sindaco della Capitale ha assunto plotoni di famigli e di ex picchiatori fascisti
e all’Atac.
C’è questa destra italiana, oggi, sotto le macerie fumanti della Pisana. Ma i miasmi spurgano ovunque. Per una Polverini che fa un passo indietro nel Lazio, c’è uno Scopelliti che resiste in Calabria, un Caldoro che resiste in Campania. E soprattutto c’è un Formigoni che continua inopinatamente a «regnare» in Lombardia. La sua Vacanzopoli ambrosiana può apparire forse un po’ più raffinata nella forma, ma nella sostanza non è meno grave della Sprecopoli ciociara. Sarebbe ora che anche il Celeste ne prendesse atto.

La Repubblica 25.09.12

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“IL PDL E LA POLITICA DEL SI SALVI CHI PUÒ”, di PIERO IGNAZI

I neo-furbetti pidiellini del quartierino laziale vengono da lontano perché sono il prodotto di un modo di intendere la politica che si è affermato negli ultimi vent’anni. Una politica disinvolta e affaristica? In parte sì, ma solo in piccola parte.
C’è qualcosa di più profondo nelle vicende di malversazione del finanziamento pubblico che attraversa tutte le regioni d’Italia, dalla Sicilia alla Lombardia, infangando il “buon nome” del PdL. Tutto ciò è il prodotto di una scelta strategica operata agli albori di Forza Italia e poi accettata da An: lasciare mano libera agli eletti di gestire la politica nelle assemblee rappresentative senza alcun legame, coordinamento o controllo da parte del partito. All’inizio sembrò una salutare rivoluzione rispetto alle antiche prassi di dominio dei dirigenti di partito sugli eletti. Finalmente i rappresentanti rispondevano direttamente agli elettori e da questi soltanto erano controllati. Il PdL ne fece una bandiera: dichiarava di essere un partito “leggero” senza strutture, tutto incardinato sugli eletti nelle varie assemblee. Questa modalità organizzativa consentiva alti livelli di autonomia decisionale in periferia, a meno ché non intervenisse il leader, il quale, comunque, per garantirsi, nominava suoi fiduciari nel ruolo di segretario regionale. Autonomia sì, ma fino ad un certo punto. L’impalcatura ha retto finché il partito andava a gonfie vele.
I benefit di vario genere garantiti dagli uomini del Cavaliere, dall’esposizione mediatica alle prospettive di carriera, ad altro ancora, mantenevano un po’ di ordine. Spento il carisma di Silvio Berlusconi ognuno ha incominciato a preoccuparsi per sé. L’autonomia degli eletti si è trasformata in assalto alla diligenza. Lo scollamento del partito ha fatto scatenare gli appetiti. Le spese folli in feste e cene, che hanno un alone più da Satyricon che da Dolce Vita, proiettano l’immagine di una classe politica dissoluta e dissipatrice. Ma dietro questa immagine c’è la realtà di una ricerca affannosa di relazioni, di consensi, di finanziamenti. Per rimanere a galla è necessario intessere e infittire la rete dei rapporti. Uno stile del far politica che i giovani di Forza Italia avevano già assorbito qualche anno fa: quando vennero intervistati da una ricercatrice francese ammisero candidamente che si erano iscritti perché potevano conoscere persone utili alla loro carriera professionale.
Il mitico partito leggero degli eletti, un modello al quale ben presto si era acconciato anche An, si è rivelato un partito incontrollabile, andato allo sbando alla prima seria difficoltà. La classe politica locale pidiellina ha approfittato più di quelle di altri partiti delle ingenti, esorbitanti risorse messe a disposizione dei gruppi politici dalle regioni (e, seppure in misura minore, dalle province e dai grandi comuni). Lo ha fatto per due ragioni: perché nella sua cultura politica prevale la corsa individuale, il farsi da sé, il ritagliarsi il proprio spazio disdegnando la dimensione collettiva dell’azione politica; e perché la sigla PdL, senza Silvio Berlusconi, rimane un guscio vuoto. Potrà resistere come tante altre organizzazioni sopravvissute al fondatore e capo carismatico (pensiamo al gollismo) ma nessuna di queste era precipitata nello stabbio dello sperpero di denaro pubblico, per di più in una situazione di crisi economica così stringente. I soldi spesi in cene luculliane e festini trimalcioneschi sono in schiaffo alla fatica del vivere di tanti cittadini. Altro che partito degli eletti a contatto con l’opinione pubblica. Il Pdl è ormai un partito alla deriva, incontrollato e autoreferenziale, e con una sola bandiera: si salvi chi può.

La Repubblica 25.09.12

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“Ascesa e caduta di Renata Cenerentola della Magliana diventata regina dei talk show”, di FILIPPO CECCARELLI

PERCHÉ la politica mediatica vive di fiamme e di fumo – con il che un’intera classe dirigente appare in via soffocamento e carbonizzazione. Così adesso è quasi inutile sforzarsi di riconoscere nella cenere ciò che aveva fatto di lei, ex ragazza della Magliana, Cenerentola di un sindacatino quasi inesistente, poi principessa dei talk-show, la Regina del Lazio. E per giunta dopo una specie di miracolo elettorale, «perché i miracoli sono possibili» annunciava lei e il gruppo cattolico tradizionalista di Lepanto, sulla scorta di un fervido rosario anti-Bonino, aveva addirittura individuato nella Madonna del pozzo di Sant’Andrea delle Fratte la sacra icona della vittoria polveriniana.
Chissà oggi a quale (ulteriore) Madonna si potrebbe far risalire la responsabilità di queste dimissioni che di colpo oscurano le obiettive virtù della ex governatrice: simpatia, cioè spontaneità comunicativa, ed energia, cuore, prodigiosa attitudine a farsi sentire «con te» (il suo slogan) a figurare una del popolo, l’«una come tutti» dei manuali di marketing applicato alla corsa elettorale.
Che corsa! Ma quanto terribilmente invecchiati ora, quei ricordi: lei che a Corviale indossa i guantoni da boxe, lei sulla biga elettrica, lei sotto un enorme crocifisso, lei che durante un comizio a un certo punto si era tolta la maglietta per indossarne una di propaganda, restando con il body, tra gli applausi. Una sera Berlusconi, che non sempre è un signore, le disse in pubblico qualcosa del tipo: «Ma lo sai che non sei male?». Polverini anche allora piaceva parecchio alla sinistra, ma almeno alle donne di quella parte dispiacque che al comizio di chiusura fosse rimasta in silenzio quando il Cavaliere le aveva tributato il solito numeraccio sullo jus primae noctis, e insomma: che cosa non si fa per farsi votare!
Polverini era in effetti una creatura di Fini, che però al momento della verità se ne era del tutto disinteressato; al contrario di Berlusconi, che adora forgiare le vite delle persone che gli sono simpatiche. Ecco, la ragioniera Polverini, entrata alla Cisnal come centralinista e nel giro di quattro-cinque anni divenuta segretaria generale, era senza dubbio una di queste persone, e perciò si era generosamente speso per lei, fino a farla vincere.
Come in altre occasioni, l’esito sembrava una favola.
«Quando la mattina mi guardo allo specchio per pettinarmi confessava lei – mi guardo e dico: sei la presidente del Lazio! ». E aggiungeva, almeno nella versione ufficiale: «Non ci si crede!». La lectio più autentica sarebbe: «Non ce se po’ crede!». Polverini infatti, oltre a praticare una certa modestia allora solo in parte auto-promozionale, non sorveglia il suo accento, anche ieri gli è scappato «mejo», «vojo» e anche «sordi ». E’ parte della sua autenticità.
Ma da che mondo è mondo, gli specchi sono molto pericolosi.
Perché l’auto-riflessione richiede costosi parrucchieri, vestiti di lusso, espressioni non sempre sincere e soprattutto aiutano a montarsi la testa. E poi, come ampiamente capito da chi non coltiva la vanità, una cosa è vincere le elezioni, altra cosa è governare. E qui, proprio qui, esattamente qui cadde l’asinello di Poverini che invece, figlia di questo tempo di apparenze, pensava che l’amministrazione coincidesse con la bella figura, la bella immagine, il protagonismo, la visibilità, gli abitucci sempre più pensati, i ristoranti alla moda, i servi, pure alla moda, i salotti, la prima al cinema e al teatro, il festival, il red carpet, la festa, la mondanità, il Cafonal e via dicendo.
Intanto la sanità, che dipende dalla regione, faceva sempre più pietà, per non dire schifo; e le cose serie dell’amministrazione, quelle noiose e complicate da spiegare, rimanevano lì, anzi peggioravano, come il bilancio; e i politicanti del Pdl scalpitavano; e lei furbamente, vista la malaparata di Berlusconi, si rendeva autonoma, arruolava gente, si faceva la fondazione e per festeggiare il primo anno – che francamente è un po’ poco – prenotava Villa Miani per una
gran festa.
A ripensarci nel giorno in cui baldanzosamente e con la dovuta claque ha reso noto di sentire il suo incarico come una gabbia, si è colti da un potente scetticismo dinanzi a questa pretesa liberazione. Il sospetto, per dirla tutta, è che nel gioco demoniaco del potere lei ci fosse caduta con tutte le scarpe, come si dice; e che per far scintillare ancora di più la sua figura nemmeno aveva dovuto mettere da parte il suo carattere, le sue debolezze, le sue passioni: Hitchcock, la carbonara, il solito Battisti, i giubbotti un po’ coatti, i piedi gonfi, le salvifiche ciavatte, l’amore grandissimo per la madre, la gomma americana. Solo che quando doveva togliersela di bocca per andare incontro alle telecamere, c’era una assistente della governatrice che apriva il palmo della mano e, tìc, la buttava dentro il cestino.
E così piano piano, anzi forte forte, continuava a stagliarsi sulla scena pubblica un indefesso, costrittivo, forse inevitabile e straniante espressionismo. Alla festona di Ulisse, sia pure in borghese, e alla Via Crucis di Lourdes, con l’imitatrice alla mensa regionale, nelle pubblicità istituzionali sugli autobus, dentro presepe napoletano, al Gay village,
con i sorcini di Renato Zero, nelle baracche di Auschwitz, leggerezza e piombo, primavera e neve, allegria e dramma, la Todini e i piccoli rom, insomma tutto e il contrario di tutto pur di esserci, figurare, farsi accettare come governante capace, fattiva, di cuore.
Il punto è che nel carnevale elettorale il «popolo» si beve quasi tutto, ma poi gli utenti molto meno, anzi per niente, e se la crisi economica comincia davvero a mordere ecco che il regime del «personaggismo» prima suscita nausea, poi rabbia, poi ti saluto e buonanotte al secchio. E se tanto tanto i cittadini del Lazio erano disposti a comprendere che la loro presidentessa aiutava Califano in difficoltà, beh, quando la videro che con entusiasmo degno di ben altra causa si precipitava a imboccare Bossi, e a sua volta essere imboccata; quando seppero che trovava il tempo di salpare con i «Tevere rangers» («Salutatemi i tunisini!»), o la videro raggiungere in elicottero Rieti, «cuore piccante d’Italia», o lessero che Polverini aveva vietato Facebbok agli impiegati della regione, beh, è ovvio che si andavano allineando tutte le condizioni per sperare che si levasse al più presto di torno, quella lì seguitava a farsi bella in televisione.
Così va il mondo, non solo in politica. Il potere è una bestiaccia che ti fa pure ammalare. Un giorno tentarono di enrarle in casa; poi ci riprovarono. Un altro giorno arrivò in ufficio e scoprì che le avevano messo tre pulci e una micro-telecamera. Hai voglia a proclamarsi «Meglio bulla che nulla»; hai voglia a fare la bulla nei comizi con le «zecche» che dovevano farsi «una cazzo di ragione » della democrazia. Tutto in realtà si faceva scivoloso, avvolgente, scuro, crudele.
Era la vendetta dell’immagine, dei lustrini, della forma, dei salottini tv. Il telepopulismo che prendeva a puzzare di bruciato, l’autombustione del sistema degli spettacoli e di una classe dirigente che nemmeno si accorge di aver preso fuoco. E tra il fumo e la cenere non c’è più nemmeno da rovistare, perché di perle non ce n’è più, anzi forse nemmeno ce ne sono mai state.

La Repubblica 25.09.12

"Le macerie della destra", di Massimo Giannini

Le dimissioni di Renata Polverini, forse le più lunghe della storia repubblicana, non sono solo l’ultimo atto di una gigantesca ruberia regionale. Nell’uscita di scena della governatrice c’è il tramonto di una carriera personale. C’è il tracollo di un sistema di potere fondato sul saccheggio del denaro pubblico. C’è la tragedia di una destra italiana che consuma la fase terminale della sua balcanizzazione, e di un Pdl che di fatto cessa di esistere come soggetto politico. Sono tutti colpevoli, in questo pecoreccio lupanare romano, metafora solo più rozza e plebea di un verminaio che è anche italiano.
Colpevole è la Polverini. Se non sul piano giudiziario (almeno fino a prova contraria) sicuramente sul piano politico. Ha avuto bisogno di una settimana per capire ciò che era chiaro fin dall’inizio. Di fronte all’enormità dello scandalo che ha travolto la sua Regione, il suo partito e la sua lista, resistere non era solo impossibile. Era prima di tutto irresponsabile. Lei l’ha fatto. Per sette giorni ha tentato di difendere l’indifendibile. La Grande Abbuffata della Pisana e i Toga party alla vaccinara, gli stipendi gonfiati fino a 50 mila euro al mese e gli «ad personam» da 200 mila euro all’anno dei consiglieri, il Suv del Batman di Anagni e le ostriche dei Battistoni e degli Abruzzese.
Davanti alle tre delibere regionali che hanno fatto lievitare da 1 a 14 milioni i fondi pubblici «rubati» dai partiti nel corso dei tre anni della sua consiliatura, non ha capito che non avrebbe potuto recitare (anche lei, come a suo tempo Scajola e poi persino Bossi) la parte della governatrice «a sua insaputa». O forse lo ha capito, ma proprio per questo non ha voluto e potuto fare altrimenti, cioè scaricare su altri colpe che, se non erano sue dal punto di vista soggettivo, lo erano senz’altro dal punto vista oggettivo. Ora parla di «consiglio indegno». Dice di aver aspettato proprio per vedere «fino a che punto il consiglio era vile». La verità è un’altra. Si è illusa che quella patetica sforbiciata ai trasferimenti e alle auto blu, votata in tutta fretta sabato scorso, fosse il colpetto di spugna sufficiente a mondare la Regione di tutti i suoi peccati. Si è lasciata addomesticare da Berlusconi, che le ha chiesto di restare al suo posto per non aprire nel Lazio una faglia che avrebbe finito per inghiottire quel che resta del Popolo delle Libertà. In ogni caso, lei non poteva e non può tuttora chiamarsi fuori, perché è stata ed è parte di quel «consiglio indegno ». Perché dal 2010 ne ha di fatto coperto gli atti e i misfatti. Per colpa (non ha vigilato). O per dolo (ha condiviso). Il risultato politico non cambia. Le sue dimissioni non sanano niente. Al contrario, amplificano lo scandalo.
Colpevoli, sia pure in forma e in misura totalmente diverse, sono i partiti dell’opposizione. In questi anni sono stati testimoni dello scempio, e invece di farlo esplodere lo hanno silenziato, mettendo anche la loro firma sulle delibere spartitorie della maggioranza. Certo (anche qui, fino a prova contraria) non hanno usato quei soldi dei contribuenti per festini in maschera e scorpacciate pantagrueliche da Pepenero. Giurano di averli impiegati per stampare manifesti e organizzare convegni. Insomma, per fare normale attività politica. Ma la quantità anomala di denaro che hanno comunque contribuito a drenare, mentre la Regione triplicava la sovrattassa Irpef e tagliava i posti letto negli ospedali, meritava un altro impiego. E comunque una denuncia pubblica, indignata e fragorosa, che invece non c’è stata. O è arrivata troppo tardi, con le dimissioni in massa annunciate dai consiglieri Pd, Idv e Sel. O è arrivata in modo ambiguo e omertoso, come nel caso dell’Udc.
Ma il vero colpevole di questa devastante catastrofe etica e politica è la destra italiana. Una destra che dà il peggio di sé, da Belsito a Fiorito. Che va in frantumi, da Palermo a Milano. E lascia deflagrare, al centro e in periferia, l’inevitabile diaspora tra le sue «culture » mai fuse perché inconciliabili o inesistenti: il populismo autocratico del Cavaliere, il moderatismo irenico degli ex democristiani, l’affarismo famelico dei cacicchi post-missini. Persi per strada prima Casini, poi Fini e da ultimo Bossi, Silvio Berlusconi non ha riunito queste «anime perse» sotto le insegne del conservatorismo europeo, ma le ha impastate con il fango dei rispettivi interessi (economici e affaristici). Le ha plasmate a sua immagine e somiglianza, secondo i «principi» dell’azzardo morale, dell’arricchimento individuale, dell’impunità penale. Le ha indottrinate di ideologismi demagogici su scala nazionale, ma gli ha lasciato mani libere scala locale. Il risultato è questo. Oggi, con l’ammaina bandiera nel Lazio, il Pdl viaggia a grandi passi verso la dissoluzione finale. Un destino irreversibile, per un partito «personale» che è nato e che morirà insieme all’improbabile maieuta che l’ha creato in pochi mesi e con molti miliardi. Che l’ha dotato di cuore, l’ha nutrito di pancia ma non ha voluto o saputo dargli una testa e due gambe per camminare. Non ha voluto o saputo dargli un’identità e una struttura. Sono penosi, in questi giorni, i conciliaboli a Palazzo Grazioli tra il Cavaliere e Angelino Alfano, i soliti coordinatori e gli impresentabili capigruppo. Ed è ancora più penoso sentire Gianni Letta che sdottoreggia alla Luiss contro «i gruppi di interessi particolari che frenano il sistema» (lui, che di quei «gruppi» è da vent’anni il garante supremo) o Gianni Alemanno che invoca «l’azzeramento totale e la rifondazione del centrodestra » (lui, che da sindaco della Capitale ha assunto plotoni di famigli e di ex picchiatori fascisti
e all’Atac.
C’è questa destra italiana, oggi, sotto le macerie fumanti della Pisana. Ma i miasmi spurgano ovunque. Per una Polverini che fa un passo indietro nel Lazio, c’è uno Scopelliti che resiste in Calabria, un Caldoro che resiste in Campania. E soprattutto c’è un Formigoni che continua inopinatamente a «regnare» in Lombardia. La sua Vacanzopoli ambrosiana può apparire forse un po’ più raffinata nella forma, ma nella sostanza non è meno grave della Sprecopoli ciociara. Sarebbe ora che anche il Celeste ne prendesse atto.
La Repubblica 25.09.12
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“IL PDL E LA POLITICA DEL SI SALVI CHI PUÒ”, di PIERO IGNAZI
I neo-furbetti pidiellini del quartierino laziale vengono da lontano perché sono il prodotto di un modo di intendere la politica che si è affermato negli ultimi vent’anni. Una politica disinvolta e affaristica? In parte sì, ma solo in piccola parte.
C’è qualcosa di più profondo nelle vicende di malversazione del finanziamento pubblico che attraversa tutte le regioni d’Italia, dalla Sicilia alla Lombardia, infangando il “buon nome” del PdL. Tutto ciò è il prodotto di una scelta strategica operata agli albori di Forza Italia e poi accettata da An: lasciare mano libera agli eletti di gestire la politica nelle assemblee rappresentative senza alcun legame, coordinamento o controllo da parte del partito. All’inizio sembrò una salutare rivoluzione rispetto alle antiche prassi di dominio dei dirigenti di partito sugli eletti. Finalmente i rappresentanti rispondevano direttamente agli elettori e da questi soltanto erano controllati. Il PdL ne fece una bandiera: dichiarava di essere un partito “leggero” senza strutture, tutto incardinato sugli eletti nelle varie assemblee. Questa modalità organizzativa consentiva alti livelli di autonomia decisionale in periferia, a meno ché non intervenisse il leader, il quale, comunque, per garantirsi, nominava suoi fiduciari nel ruolo di segretario regionale. Autonomia sì, ma fino ad un certo punto. L’impalcatura ha retto finché il partito andava a gonfie vele.
I benefit di vario genere garantiti dagli uomini del Cavaliere, dall’esposizione mediatica alle prospettive di carriera, ad altro ancora, mantenevano un po’ di ordine. Spento il carisma di Silvio Berlusconi ognuno ha incominciato a preoccuparsi per sé. L’autonomia degli eletti si è trasformata in assalto alla diligenza. Lo scollamento del partito ha fatto scatenare gli appetiti. Le spese folli in feste e cene, che hanno un alone più da Satyricon che da Dolce Vita, proiettano l’immagine di una classe politica dissoluta e dissipatrice. Ma dietro questa immagine c’è la realtà di una ricerca affannosa di relazioni, di consensi, di finanziamenti. Per rimanere a galla è necessario intessere e infittire la rete dei rapporti. Uno stile del far politica che i giovani di Forza Italia avevano già assorbito qualche anno fa: quando vennero intervistati da una ricercatrice francese ammisero candidamente che si erano iscritti perché potevano conoscere persone utili alla loro carriera professionale.
Il mitico partito leggero degli eletti, un modello al quale ben presto si era acconciato anche An, si è rivelato un partito incontrollabile, andato allo sbando alla prima seria difficoltà. La classe politica locale pidiellina ha approfittato più di quelle di altri partiti delle ingenti, esorbitanti risorse messe a disposizione dei gruppi politici dalle regioni (e, seppure in misura minore, dalle province e dai grandi comuni). Lo ha fatto per due ragioni: perché nella sua cultura politica prevale la corsa individuale, il farsi da sé, il ritagliarsi il proprio spazio disdegnando la dimensione collettiva dell’azione politica; e perché la sigla PdL, senza Silvio Berlusconi, rimane un guscio vuoto. Potrà resistere come tante altre organizzazioni sopravvissute al fondatore e capo carismatico (pensiamo al gollismo) ma nessuna di queste era precipitata nello stabbio dello sperpero di denaro pubblico, per di più in una situazione di crisi economica così stringente. I soldi spesi in cene luculliane e festini trimalcioneschi sono in schiaffo alla fatica del vivere di tanti cittadini. Altro che partito degli eletti a contatto con l’opinione pubblica. Il Pdl è ormai un partito alla deriva, incontrollato e autoreferenziale, e con una sola bandiera: si salvi chi può.
La Repubblica 25.09.12
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“Ascesa e caduta di Renata Cenerentola della Magliana diventata regina dei talk show”, di FILIPPO CECCARELLI
PERCHÉ la politica mediatica vive di fiamme e di fumo – con il che un’intera classe dirigente appare in via soffocamento e carbonizzazione. Così adesso è quasi inutile sforzarsi di riconoscere nella cenere ciò che aveva fatto di lei, ex ragazza della Magliana, Cenerentola di un sindacatino quasi inesistente, poi principessa dei talk-show, la Regina del Lazio. E per giunta dopo una specie di miracolo elettorale, «perché i miracoli sono possibili» annunciava lei e il gruppo cattolico tradizionalista di Lepanto, sulla scorta di un fervido rosario anti-Bonino, aveva addirittura individuato nella Madonna del pozzo di Sant’Andrea delle Fratte la sacra icona della vittoria polveriniana.
Chissà oggi a quale (ulteriore) Madonna si potrebbe far risalire la responsabilità di queste dimissioni che di colpo oscurano le obiettive virtù della ex governatrice: simpatia, cioè spontaneità comunicativa, ed energia, cuore, prodigiosa attitudine a farsi sentire «con te» (il suo slogan) a figurare una del popolo, l’«una come tutti» dei manuali di marketing applicato alla corsa elettorale.
Che corsa! Ma quanto terribilmente invecchiati ora, quei ricordi: lei che a Corviale indossa i guantoni da boxe, lei sulla biga elettrica, lei sotto un enorme crocifisso, lei che durante un comizio a un certo punto si era tolta la maglietta per indossarne una di propaganda, restando con il body, tra gli applausi. Una sera Berlusconi, che non sempre è un signore, le disse in pubblico qualcosa del tipo: «Ma lo sai che non sei male?». Polverini anche allora piaceva parecchio alla sinistra, ma almeno alle donne di quella parte dispiacque che al comizio di chiusura fosse rimasta in silenzio quando il Cavaliere le aveva tributato il solito numeraccio sullo jus primae noctis, e insomma: che cosa non si fa per farsi votare!
Polverini era in effetti una creatura di Fini, che però al momento della verità se ne era del tutto disinteressato; al contrario di Berlusconi, che adora forgiare le vite delle persone che gli sono simpatiche. Ecco, la ragioniera Polverini, entrata alla Cisnal come centralinista e nel giro di quattro-cinque anni divenuta segretaria generale, era senza dubbio una di queste persone, e perciò si era generosamente speso per lei, fino a farla vincere.
Come in altre occasioni, l’esito sembrava una favola.
«Quando la mattina mi guardo allo specchio per pettinarmi confessava lei – mi guardo e dico: sei la presidente del Lazio! ». E aggiungeva, almeno nella versione ufficiale: «Non ci si crede!». La lectio più autentica sarebbe: «Non ce se po’ crede!». Polverini infatti, oltre a praticare una certa modestia allora solo in parte auto-promozionale, non sorveglia il suo accento, anche ieri gli è scappato «mejo», «vojo» e anche «sordi ». E’ parte della sua autenticità.
Ma da che mondo è mondo, gli specchi sono molto pericolosi.
Perché l’auto-riflessione richiede costosi parrucchieri, vestiti di lusso, espressioni non sempre sincere e soprattutto aiutano a montarsi la testa. E poi, come ampiamente capito da chi non coltiva la vanità, una cosa è vincere le elezioni, altra cosa è governare. E qui, proprio qui, esattamente qui cadde l’asinello di Poverini che invece, figlia di questo tempo di apparenze, pensava che l’amministrazione coincidesse con la bella figura, la bella immagine, il protagonismo, la visibilità, gli abitucci sempre più pensati, i ristoranti alla moda, i servi, pure alla moda, i salotti, la prima al cinema e al teatro, il festival, il red carpet, la festa, la mondanità, il Cafonal e via dicendo.
Intanto la sanità, che dipende dalla regione, faceva sempre più pietà, per non dire schifo; e le cose serie dell’amministrazione, quelle noiose e complicate da spiegare, rimanevano lì, anzi peggioravano, come il bilancio; e i politicanti del Pdl scalpitavano; e lei furbamente, vista la malaparata di Berlusconi, si rendeva autonoma, arruolava gente, si faceva la fondazione e per festeggiare il primo anno – che francamente è un po’ poco – prenotava Villa Miani per una
gran festa.
A ripensarci nel giorno in cui baldanzosamente e con la dovuta claque ha reso noto di sentire il suo incarico come una gabbia, si è colti da un potente scetticismo dinanzi a questa pretesa liberazione. Il sospetto, per dirla tutta, è che nel gioco demoniaco del potere lei ci fosse caduta con tutte le scarpe, come si dice; e che per far scintillare ancora di più la sua figura nemmeno aveva dovuto mettere da parte il suo carattere, le sue debolezze, le sue passioni: Hitchcock, la carbonara, il solito Battisti, i giubbotti un po’ coatti, i piedi gonfi, le salvifiche ciavatte, l’amore grandissimo per la madre, la gomma americana. Solo che quando doveva togliersela di bocca per andare incontro alle telecamere, c’era una assistente della governatrice che apriva il palmo della mano e, tìc, la buttava dentro il cestino.
E così piano piano, anzi forte forte, continuava a stagliarsi sulla scena pubblica un indefesso, costrittivo, forse inevitabile e straniante espressionismo. Alla festona di Ulisse, sia pure in borghese, e alla Via Crucis di Lourdes, con l’imitatrice alla mensa regionale, nelle pubblicità istituzionali sugli autobus, dentro presepe napoletano, al Gay village,
con i sorcini di Renato Zero, nelle baracche di Auschwitz, leggerezza e piombo, primavera e neve, allegria e dramma, la Todini e i piccoli rom, insomma tutto e il contrario di tutto pur di esserci, figurare, farsi accettare come governante capace, fattiva, di cuore.
Il punto è che nel carnevale elettorale il «popolo» si beve quasi tutto, ma poi gli utenti molto meno, anzi per niente, e se la crisi economica comincia davvero a mordere ecco che il regime del «personaggismo» prima suscita nausea, poi rabbia, poi ti saluto e buonanotte al secchio. E se tanto tanto i cittadini del Lazio erano disposti a comprendere che la loro presidentessa aiutava Califano in difficoltà, beh, quando la videro che con entusiasmo degno di ben altra causa si precipitava a imboccare Bossi, e a sua volta essere imboccata; quando seppero che trovava il tempo di salpare con i «Tevere rangers» («Salutatemi i tunisini!»), o la videro raggiungere in elicottero Rieti, «cuore piccante d’Italia», o lessero che Polverini aveva vietato Facebbok agli impiegati della regione, beh, è ovvio che si andavano allineando tutte le condizioni per sperare che si levasse al più presto di torno, quella lì seguitava a farsi bella in televisione.
Così va il mondo, non solo in politica. Il potere è una bestiaccia che ti fa pure ammalare. Un giorno tentarono di enrarle in casa; poi ci riprovarono. Un altro giorno arrivò in ufficio e scoprì che le avevano messo tre pulci e una micro-telecamera. Hai voglia a proclamarsi «Meglio bulla che nulla»; hai voglia a fare la bulla nei comizi con le «zecche» che dovevano farsi «una cazzo di ragione » della democrazia. Tutto in realtà si faceva scivoloso, avvolgente, scuro, crudele.
Era la vendetta dell’immagine, dei lustrini, della forma, dei salottini tv. Il telepopulismo che prendeva a puzzare di bruciato, l’autombustione del sistema degli spettacoli e di una classe dirigente che nemmeno si accorge di aver preso fuoco. E tra il fumo e la cenere non c’è più nemmeno da rovistare, perché di perle non ce n’è più, anzi forse nemmeno ce ne sono mai state.
La Repubblica 25.09.12

"La ballata dei precari salvati dalle mamme", di Bruno Ugolini

Una recente indagine Coldiretti-Censis ha reso noto che il 60,7% dei giovani tra i 18 e i 29 anni coabita con la mamma e il 26,4 abita a meno di 30 minuti da lei. Sono dati che testimoniano come la maggioranza delle nuove generazioni che avrebbero dovuto essere benificate dalla riforma Fornero, sono spesso costrette a tornare al grembo materno. Ovverosia a cercare di trovare nella famiglia un sostegno alle proprie esistenze ballerine. Sono i protagonisti di una vera e propria «ballata». Prendo il termine da un libro e da un film prodotti proprio per loro e che portano proprio il titolo «La ballata dei precari». L’autrice, Silvia Lombardo, ha raccolto testimonianze reali e ha messo insieme una serie di episodi spesso esiliranti, rafforzati dalle riflessioni riportate nel volume. Qui possiamo «rubare» alcuni spunti. Ad esempio sulle partite Iva, quelle a cui oggi molti, proprio spinti dalla riforma Fornero, sono costretti a rifugiarsi. Scrive la Lombardo: «La forma di tortura più raffinata perpretata al giovane lavoratore del Ventunesimo secolo. Ti passa sotto il naso una bella somma di denaro. Alla quale sottrai l’Iva. Alla quale sottrai l’Inps (26,7% grazie). Alla quale sottrai le tasse. Alla quale sottrai la parcella del commercialista. Alla quale sottrai il costo del panino a pranzo perché il lavoratore dipendente ha la mensa gratis o i buoni pasto, siccome tu sei un libero professionista e quindi guadagni, cacchio, puoi pagartelo da solo. Ciò che resta è il 50% di ciò che ti è passato sotto il naso. Se non è sadismo questo». C’è anche l’amara constatazione di come sarebbe stato meglio conquistare invece di una laurea una seria capacità di lavoro manuale: «Sapete cosa servirebbe sul serio adesso per avere uno stipendio decente? Un bel manuale di bricolage e sei mesi di praticantato presso un idraulico%% ». Il gusto del paradosso percorre la creatività dell’autrice. Così, nel film, l’episodio «L’ammortizzatore» racconta di due genitori, i settantenni coniugi Rita e Giorgio Parini, che decidono di stipulare una polizza sulla vita e «uscire di scena» lasciando l’intero risarcimento assicurativo al loro unico figlio Francesco, 34enne precario. Anche se poi scopriranno che non è facile%% Mentre in «Ninna Nanna Ninna No» la giovane coppia di precari Irene e Riccardo decidono di avere un bambino. Ma come far coincidere le loro scadenze contrattuali col parto? Ed ecco un ginecologo compiacente che inventa un surreale «taglio cesareo programmato» onde ritardare il parto fino a un contratto piu stabile con gravidanze che arrivano fino a 42 mesi. Qui tra i protagonisti c’è una star televisiva Geppi Cucciari, conduttrice di uno show popolare sulla Sette. Storie autoironiche, come un prendere in giro se stessi. La «ballata dei precari» svolazza sugli schermi, l’abbiamo incrociata alla Festa del lavoro del Pd a Piombino. Speriamo che serva a coinvolgere i politici. Per il dopo Monti e anche per il dopo-Fornero. Per fare in modo che non si debba tornare dalle mamme. Perche anche loro, come i papà, sentono il morso della crisi.

L’Unità 24.09.12

"La ballata dei precari salvati dalle mamme", di Bruno Ugolini

Una recente indagine Coldiretti-Censis ha reso noto che il 60,7% dei giovani tra i 18 e i 29 anni coabita con la mamma e il 26,4 abita a meno di 30 minuti da lei. Sono dati che testimoniano come la maggioranza delle nuove generazioni che avrebbero dovuto essere benificate dalla riforma Fornero, sono spesso costrette a tornare al grembo materno. Ovverosia a cercare di trovare nella famiglia un sostegno alle proprie esistenze ballerine. Sono i protagonisti di una vera e propria «ballata». Prendo il termine da un libro e da un film prodotti proprio per loro e che portano proprio il titolo «La ballata dei precari». L’autrice, Silvia Lombardo, ha raccolto testimonianze reali e ha messo insieme una serie di episodi spesso esiliranti, rafforzati dalle riflessioni riportate nel volume. Qui possiamo «rubare» alcuni spunti. Ad esempio sulle partite Iva, quelle a cui oggi molti, proprio spinti dalla riforma Fornero, sono costretti a rifugiarsi. Scrive la Lombardo: «La forma di tortura più raffinata perpretata al giovane lavoratore del Ventunesimo secolo. Ti passa sotto il naso una bella somma di denaro. Alla quale sottrai l’Iva. Alla quale sottrai l’Inps (26,7% grazie). Alla quale sottrai le tasse. Alla quale sottrai la parcella del commercialista. Alla quale sottrai il costo del panino a pranzo perché il lavoratore dipendente ha la mensa gratis o i buoni pasto, siccome tu sei un libero professionista e quindi guadagni, cacchio, puoi pagartelo da solo. Ciò che resta è il 50% di ciò che ti è passato sotto il naso. Se non è sadismo questo». C’è anche l’amara constatazione di come sarebbe stato meglio conquistare invece di una laurea una seria capacità di lavoro manuale: «Sapete cosa servirebbe sul serio adesso per avere uno stipendio decente? Un bel manuale di bricolage e sei mesi di praticantato presso un idraulico%% ». Il gusto del paradosso percorre la creatività dell’autrice. Così, nel film, l’episodio «L’ammortizzatore» racconta di due genitori, i settantenni coniugi Rita e Giorgio Parini, che decidono di stipulare una polizza sulla vita e «uscire di scena» lasciando l’intero risarcimento assicurativo al loro unico figlio Francesco, 34enne precario. Anche se poi scopriranno che non è facile%% Mentre in «Ninna Nanna Ninna No» la giovane coppia di precari Irene e Riccardo decidono di avere un bambino. Ma come far coincidere le loro scadenze contrattuali col parto? Ed ecco un ginecologo compiacente che inventa un surreale «taglio cesareo programmato» onde ritardare il parto fino a un contratto piu stabile con gravidanze che arrivano fino a 42 mesi. Qui tra i protagonisti c’è una star televisiva Geppi Cucciari, conduttrice di uno show popolare sulla Sette. Storie autoironiche, come un prendere in giro se stessi. La «ballata dei precari» svolazza sugli schermi, l’abbiamo incrociata alla Festa del lavoro del Pd a Piombino. Speriamo che serva a coinvolgere i politici. Per il dopo Monti e anche per il dopo-Fornero. Per fare in modo che non si debba tornare dalle mamme. Perche anche loro, come i papà, sentono il morso della crisi.
L’Unità 24.09.12

"Stupido, non è l'economia", di Francesco Guerrera

«E’ l’economia, stupido». Lo slogan coniato da James Carville, il grande stratega del partito democratico, per un candidato presidenziale dal nome di William J. Clinton nel 1992 è una delle pietre miliari della politica americana. Clinton fece il resto. Con l’economia Usa in grave crisi e la disoccupazione alle stelle, il giovane governatore dell’Arkansas combinò i suoi talenti oratori con l’intuizione di Carville per distruggere George Bush padre e conquistare la Casa Bianca.

Vent’anni dopo è il partito repubblicano a sperare che la storia si ripeta.

La crescita economica è anemica, la disoccupazione a livelli altissimi e salari, redditi e patrimoni della classe media sono al ristagno ormai da anni. Mitt Romney, il businessman diventato politico, si presenta agli elettori come un manager competente ed industrioso, capace di risolvere una situazione difficilissima meglio di Obama.

Per i fan di Romney, la prova c’è già: Mittpresidente farebbe al paese quello che fece nel 2002 quando salvò le Olimpiadi invernali di Salt Lake City dalla bancarotta e dal ridicolo.

«In questo frangente, chi volete: uno che il business l’ha vissuto in prima persona, o un professore di legge di Chicago?» e’ stata la domanda, retorica, di uno dei tanti capi di Wall Street che è passato dall’amore spassionato per Obama al sostegno, finanziario e politico, per Romney.

In teoria, Romney è in una situazione ideale per attaccare il Presidente.

Uno su dodici americani in cerca di lavoro è disoccupato: più di dodici milioni di persone. Ed ormai lo sanno pure i bambini dell’asilo che nessun Presidente americano del dopoguerra è stato rieletto con un tasso di disoccupazione così alto.

L’economia sta crescendo più di zone disastrate come l’Unione Europea, ma è lontanissima dai livelli di ripresa che ci si aspetta quattro anni dopo una recessione e crisi finanziaria. Ed i consumatori, il tradizionale polmone dell’economia americana, sono ancora in fase di choc dopo il crollo rovinoso del mercato immobiliare nel 2007-2009.

Le ultime statistiche hanno rivelato che, nel 2011, i redditi medi delle famiglie americane sono diminuiti o rimasti uguali in quasi tutti gli Stati dell’Unione. Il reddito di una famiglia «tipica» è intorno ai 50.000 dollari l’anno – un livello bassissimo che non si vedeva dalla metà degli Anni 90, proprio quando Clinton sconfisse Bush.

Perquellocheriguardaleimprese,adifferenza di altre fasi di crisi, questa volta gli imprenditori non possono contare su mercati esterni. Con l’Europa in crisi, la Cina in fase di rallentamento e il «miracolo economico» dell’America Latina sempre meno miracoloso, la domanda per le esportazioni made in Usa è flaccida.

Le società ne soffrono perché dopo anni di tagli di costi e diete drastiche, «corporate America» non ha più molto peso da perdere. Tra giugno e settembre, gli utili delle società Usa sono calati – la prima volta in tre anni che il grande motore dell’industria americana non è riuscito a fare più soldi che nei tre mesi precedenti.

«Se tagli e tagli, alla fine arrivi all’osso», mi ha detto, con una smorfia amara, l’amministratore delegato di una società manifatturiera la settimana scorsa.

Se fosse «l’economia, stupido», Romney dovrebbe vincere a mani basse. Ed invece è lì che arranca dietro ad Obama nei sondaggi d’opinione, nonostante i tentativi dei suoi consiglieri di portare il dibattito sullo stato di bilancio dell’impresa-Usa. «Sappiamo tutti quello che ha fatto Obama negli ultimi quattro anni», ha intonato Romney questa settimana in Florida. «Ha creato un’economia che è alla frutta».

Parole che, una volta purificate dalla retorica elettorale, dovrebbero essere musica per le orecchie delle classi medie americane.

Invece sembra quasi che gli elettori stiano guardando ad un’economia diversa da quella criticata da Romney.

Quando il Wall Street Journal e la Nbc hanno chiesto a cittadini di tre Stati chiave nelle elezioni del 6 novembre – il Colorado, il Wisconsin e l’Iowa – chi fosse il candidato migliore per l’economia, Obama ha «vinto» in tutti e tre. A livello nazionale, Obama e Romney sono testa a testa su chi sarebbe meglio per l’economia (43 per cento l’uno). Due mesi fa, Romney era preferito da quasi metà dell’elettorato.

Cosa sta succedendo? Il grande pubblico americano sembra convinto che la traiettoria dell’economia americana sia in crescita e ripresa, che la situazione sia in via di miglioramento, un miglioramento per cui il merito, al momento, va ad Obama.

La realtà è diversa: è vero che il mercato immobiliare sta dando segnali di vita ma il progresso del sistema-Usa è lento e quasi impercettibile ed, in ogni caso, il merito andrebbe non all’amministrazione ma alla Federal Reserve di Ben Bernanke che ha pompato miliardi di dollari nell’economia.

Ma, a meno di due mesi dalle elezioni, la verità conta poco. Come mi ha spiegato un consigliere di Obama, «la realtà è nella mente degli elettori». E la mente degli elettori pensa che siamo sulla via del recupero. Nello stesso sondaggio del Wsj e della Nbc, più del 40% dei votanti ha predetto che l’economia migliorerà, mentre solo il 18% ha detto che peggiorerà.

Sono numeri difficili da digerire per un candidato repubblicano che ha fatto della competenza economica la sua arma più potente.

Nelle prossime sette settimane – tra dibattiti presidenziali, spot pubblicitari e una campagna elettorale forsennata intorno agli Usa – tutto è possibile.

Ma se il manager Romney venisse sconfitto dal professor Obama, la lezione per candidati presenti e futuri sarà che non è tanto «l’economia, stupido», ma «la direzione dell’economia, stupido».

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.

La Stampa 24.09.12

"Stupido, non è l'economia", di Francesco Guerrera

«E’ l’economia, stupido». Lo slogan coniato da James Carville, il grande stratega del partito democratico, per un candidato presidenziale dal nome di William J. Clinton nel 1992 è una delle pietre miliari della politica americana. Clinton fece il resto. Con l’economia Usa in grave crisi e la disoccupazione alle stelle, il giovane governatore dell’Arkansas combinò i suoi talenti oratori con l’intuizione di Carville per distruggere George Bush padre e conquistare la Casa Bianca.
Vent’anni dopo è il partito repubblicano a sperare che la storia si ripeta.
La crescita economica è anemica, la disoccupazione a livelli altissimi e salari, redditi e patrimoni della classe media sono al ristagno ormai da anni. Mitt Romney, il businessman diventato politico, si presenta agli elettori come un manager competente ed industrioso, capace di risolvere una situazione difficilissima meglio di Obama.
Per i fan di Romney, la prova c’è già: Mittpresidente farebbe al paese quello che fece nel 2002 quando salvò le Olimpiadi invernali di Salt Lake City dalla bancarotta e dal ridicolo.
«In questo frangente, chi volete: uno che il business l’ha vissuto in prima persona, o un professore di legge di Chicago?» e’ stata la domanda, retorica, di uno dei tanti capi di Wall Street che è passato dall’amore spassionato per Obama al sostegno, finanziario e politico, per Romney.
In teoria, Romney è in una situazione ideale per attaccare il Presidente.
Uno su dodici americani in cerca di lavoro è disoccupato: più di dodici milioni di persone. Ed ormai lo sanno pure i bambini dell’asilo che nessun Presidente americano del dopoguerra è stato rieletto con un tasso di disoccupazione così alto.
L’economia sta crescendo più di zone disastrate come l’Unione Europea, ma è lontanissima dai livelli di ripresa che ci si aspetta quattro anni dopo una recessione e crisi finanziaria. Ed i consumatori, il tradizionale polmone dell’economia americana, sono ancora in fase di choc dopo il crollo rovinoso del mercato immobiliare nel 2007-2009.
Le ultime statistiche hanno rivelato che, nel 2011, i redditi medi delle famiglie americane sono diminuiti o rimasti uguali in quasi tutti gli Stati dell’Unione. Il reddito di una famiglia «tipica» è intorno ai 50.000 dollari l’anno – un livello bassissimo che non si vedeva dalla metà degli Anni 90, proprio quando Clinton sconfisse Bush.
Perquellocheriguardaleimprese,adifferenza di altre fasi di crisi, questa volta gli imprenditori non possono contare su mercati esterni. Con l’Europa in crisi, la Cina in fase di rallentamento e il «miracolo economico» dell’America Latina sempre meno miracoloso, la domanda per le esportazioni made in Usa è flaccida.
Le società ne soffrono perché dopo anni di tagli di costi e diete drastiche, «corporate America» non ha più molto peso da perdere. Tra giugno e settembre, gli utili delle società Usa sono calati – la prima volta in tre anni che il grande motore dell’industria americana non è riuscito a fare più soldi che nei tre mesi precedenti.
«Se tagli e tagli, alla fine arrivi all’osso», mi ha detto, con una smorfia amara, l’amministratore delegato di una società manifatturiera la settimana scorsa.
Se fosse «l’economia, stupido», Romney dovrebbe vincere a mani basse. Ed invece è lì che arranca dietro ad Obama nei sondaggi d’opinione, nonostante i tentativi dei suoi consiglieri di portare il dibattito sullo stato di bilancio dell’impresa-Usa. «Sappiamo tutti quello che ha fatto Obama negli ultimi quattro anni», ha intonato Romney questa settimana in Florida. «Ha creato un’economia che è alla frutta».
Parole che, una volta purificate dalla retorica elettorale, dovrebbero essere musica per le orecchie delle classi medie americane.
Invece sembra quasi che gli elettori stiano guardando ad un’economia diversa da quella criticata da Romney.
Quando il Wall Street Journal e la Nbc hanno chiesto a cittadini di tre Stati chiave nelle elezioni del 6 novembre – il Colorado, il Wisconsin e l’Iowa – chi fosse il candidato migliore per l’economia, Obama ha «vinto» in tutti e tre. A livello nazionale, Obama e Romney sono testa a testa su chi sarebbe meglio per l’economia (43 per cento l’uno). Due mesi fa, Romney era preferito da quasi metà dell’elettorato.
Cosa sta succedendo? Il grande pubblico americano sembra convinto che la traiettoria dell’economia americana sia in crescita e ripresa, che la situazione sia in via di miglioramento, un miglioramento per cui il merito, al momento, va ad Obama.
La realtà è diversa: è vero che il mercato immobiliare sta dando segnali di vita ma il progresso del sistema-Usa è lento e quasi impercettibile ed, in ogni caso, il merito andrebbe non all’amministrazione ma alla Federal Reserve di Ben Bernanke che ha pompato miliardi di dollari nell’economia.
Ma, a meno di due mesi dalle elezioni, la verità conta poco. Come mi ha spiegato un consigliere di Obama, «la realtà è nella mente degli elettori». E la mente degli elettori pensa che siamo sulla via del recupero. Nello stesso sondaggio del Wsj e della Nbc, più del 40% dei votanti ha predetto che l’economia migliorerà, mentre solo il 18% ha detto che peggiorerà.
Sono numeri difficili da digerire per un candidato repubblicano che ha fatto della competenza economica la sua arma più potente.
Nelle prossime sette settimane – tra dibattiti presidenziali, spot pubblicitari e una campagna elettorale forsennata intorno agli Usa – tutto è possibile.
Ma se il manager Romney venisse sconfitto dal professor Obama, la lezione per candidati presenti e futuri sarà che non è tanto «l’economia, stupido», ma «la direzione dell’economia, stupido».
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.
La Stampa 24.09.12

"L’antidoto alla corruzione", di Michele Prospero

Il Lazio dopo la Lombardia. Frana l’antipolitica di destra che vent’anni fa ha preso il potere in nome della società civile, dell’azienda, del mercato. Con la decadenza di ogni minimale anticorpo etico-politico, il Lazio è la metafora di cosa diventa un governo personale che agisce senza il contenimento svolto dai partiti e dal principio di legalità. Al potere si insediano schiere di anti-politici di professione che maneggiano i fondi senza ritegno. Ciò che è pubblico diventa faccenda privata perché il privato è il veicolo per la occupazione del pubblico visto come il prolungamento del calcolo economico del singolo politicante. Cos’è infatti la politica per tanta destra amministratrice? È un agglomerato di potenze private che racimolano media e denaro per dare l’assalto all’amministrazione, luogo ghiotto in cui nell’omertà si intrecciano affari, influenze, scambi. Singoli consiglieri regionali che si spartiscono i finanziamenti sono la versione caricaturale dei partiti personali egemoni nella seconda Repubblica. Ogni eletto sensibile all’odore dei soldi fa partito a sé, e quindi intesta ai propri conti le quote pubbliche. Servono per pagare una vita dorata e per preservare una macchina personale con la quale gestire gli spazi di potere.

La destra, che ha occupato il potere agitando i miti dell’antipolitica, non dispone di alcun antidoto alla decomposizione etica del governo locale. Ha selezionato un ceto politico la cui molla per l’impegno non era il desiderio del potere, come occasione di onore, prestigio ma l’avidità di ricchezza. L’intreccio di potere e denaro determina fenomeni infernali: la regione o il municipio sono visti come una azienda produttiva da usare per accumulare soldi. Con quale autorevolezza i vertici del Pdl possono censurare la commistione di pubblico e privato, di azienda e potere, che a Roma assume vesti grottesche ma che è comunque l’essenza del berlusconismo? Un partito azienda, che si scalda soltanto quando sono in gioco le concessioni televisive, o gli introiti pubblicitari, che rampogna può mai fare a un ceto politico locale che prende sul serio la privatizzazione del potere? La destra non ha gli strumenti per reagire alle malefatte perché il partito è solo una sigla di comodo che consente a cordate prive di scrupolo di dare la scalata alla carica elettiva per fare denaro. Questo scenario chiama in causa anche il rendimento del presidenzialismo regionale. Dove, nonostante il diluvio, permangono le condizioni minimali di una vitalità della società civile (associazionismo, partecipazione collettiva nei sindacati, nelle cooperative, nei circoli) e si incrociano residui di partito, anche il funzionamento delle autonomie rimane accettabile.

Nelle regioni rosse il duello tra presidente e partito non ha raggiunto i picchi di degrado che altrove sono associati alle tendenze leaderistiche. Dove l’elezione plebiscitaria del governatore interviene nella profonda carenza di strutture organizzative, nella cronica assenza di canali di civismo, le discontinuità visibili nella forma di governo passano senza alcun significativo miglioramento nelle prestazioni dei pubblici poteri. In Calabria, in Campania o in Sicilia il deserto di partito e la mancanza di una solida società civile incrementano le spinte verso l’allestimento di poteri personali (d’ogni colore) sorretti dallo scambio occulto tra consenso e risorse.

La micidiale accoppiata tra elezione diretta del governatore e uso delle preferenze accentuano gli aspetti deflagranti di un disegno istituzionale in cui accanto alla macropersonalizzazione (del governatore) marcia la micropersonalizzazione (dei consiglieri eletti con dispendiose gare competitive e con deliranti manifesti 6 per 6). Il caso del Lazio è la massima estensione di un fenomeno di personalizzazione connesso al perverso circolo denaro-sostegno-denaro che spezza alla radice ogni autonomia delle classi politiche. Una organica contaminazione affaristica sembra accompagnare le disavventure di ogni destra di governo.

La differenza tra destra e sinistra conta ancora molto nella misurazione delle diverse velocità raggiunte dalle esperienze regionalistiche. Ma se la strada prescelta è quella del partito degli eletti, sarà difficile anche a sinistra contenere le organiche tendenze alla degenerazione che restringono gli spazi della militanza e alimentano le illusioni dell’antipolitica, cioè l’attesa di un crollo repentino di un intero ceto dominante da sostituire in condizioni di emergenza con uno nuovo personale che avrà la stessa sorte dinanzi ad una ennesima ondata di discredito. La forma del partito degli eletti ha in sé il virus della lenta decadenza etico-politica.

Gli eletti devono contare su risorse autonome, devono accumularne tante per essere investiti nel ruolo di governo. La conquista della carica diventa poi il fulcro per attività in cui potere e denaro si intrecciano, sullo sfondo di deboli partiti mai più rinati. Nei territori singoli imprenditori vanno a caccia di arene istituzionali e giocano in proprio la loro battaglia con un cinismo nichilista. Nel vuoto di società civile, nel deserto di agenzie di partito ogni mossa pare lecita per edificare un feudo impenetrabile. Quasi a nulla sono valse le sperimentazioni dell’ingegneria amministrativa (mutato reclutamento dei direttori generali, nuovi meccanismi delle nomine, separazione di gestione e indirizzo politico).

Se si vuole arginare l’antipolitica non servono solo leggi, regole nuove ma occorre dare continuità all’invenzione organizzativa per disegnare il modello di partito radicato nella società. Le primarie incentivano la partecipazione, accorciano per un po’ il distacco tra società e politica. Hanno però il difetto di registrare lo status quo con cui ogni leader deve stabilire un compromesso. Esse non mutano gli equilibri consolidati nei territori dove la politica ha una difficoltà di accesso, di decisione. Data la decadenza di uno spirito di partito che si avverte in talune realtà territoriali, solo da un centro nazionale forte possono pervenire gli impulsi del mutamento che diano spazio ai nuovi quadri politici e amministrativi, altrimenti destinati ad essere soffocati dalle cordate inamovibili che si riproducono senza intralci. Un partito vero, con dei militanti presenti che nei circoli controllano gli eletti da vicino e riconoscono le capacità dei nuovi quadri è il principale antidoto alla corruzione. Per una più elevata levatura etica delle classi dirigenti ci vogliono militanti e partiti rigenerati dalla abitudine alla partecipazione e dalla selezione della classe politica con la battaglia delle idee. Tocca al Pd insistere con coeren- za su scelte già avviate e che vanno ora consoli- date perché la ricomparsa di un partito solido occupa il tempo di un intero ciclo politico.

L’Unità 24.09.12