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"Montessori: l’infanzia liberata. Ventimila le sue scuole nel mondo ma in Italia ce ne sono soltanto 136", di Pietro Greco

Nel 1913 “la bella italiana” sbarca in America, salutata dal New York Tribune come “the most interesting woman of Europe”, la donna più interessante del Vecchio Continente. Venti anni dopo «la bella italiana» deve lasciare definitivamente l’Italia, perché come scrive Roberta Passione nel ricco Dizionario biografico delle scienziate italiane (secoli XVIII-XX), curato da Miriam Focaccia e Sandra Linguerri, appena uscito nelle edizioni Pendragon «l’”educazione alla libertà” che (… ) propugna poco collima con l’orientamento sempre più autoritario della scuola fascista».
Con 22.000 scuole di ogni ordine e grado a lei dedicate e a lei ispirate in tutto il mondo, Maria Montessori è la donna italiana che ha avuto e ha tuttora più influenza nel mondo. È dunque con lei che vogliamo chiudere questa breve carrellata che, nel corso dell’estate, ci ha portato a conoscere alcuni dei grandi scienziati italiani che nel XX secolo hanno «fatto politica», indicando al Paese un percorso di crescita culturale, di progresso civile e di sviluppo economico che l’Italia non ha voluto seguire. Scelta per la quale, oggi, paghiamo conseguenze piuttosto salate.
Maria Montessori nacque a Chiaravalle, un tiro di schioppo da Ancona, il 31 agosto 1870. Era nipote, per parte di madre, di quell’abate e naturalista, Antonio Stoppani, autore di un libro di gran successo, Il Bel Paese, che non poco ha contribuito a costruire la nostra identità nazionale. Stoppani era un uomo di scienza e individuò una vena scientifica anche nella sua nipotina. Sta di fatto che Maria, dopo aver seguito tutto il percorso delle scuole elementari e medie a Roma, dove la famiglia si è intanto trasferita, a 20 anni si iscrive all’università La Sapienza di Roma. Quando nel 1896 termina gli studi, è la prima donna ad essersi laureata in medicina a Roma.
In un primo momento si occupa di psichiatria e inizia a frequentare quelli che lei chiama i «bambini deficienti», malati psichici. Scoprendo almeno tre cose. Che questi bambini hanno una straordinaria umanità e anche una creatività che può esplodere quando li si lascia liberi, appunto, di esprimersi. La seconda è che la scienza la scienza positiva è uno strumento non solo di progresso culturale ma anche un strumento politico di emancipazione dei deboli. Un fattore di democrazia, che può fornire un contributo forse non sufficiente, ma assolutamente necessario per restituire dignità e piena cittadinanza a questi bambini. E che, infine, come nota ancora Roberta Passione, è proprio dai bambini, dalla loro protezione e dalla loro educazione che è possibile avviare «la rigenerazione del mondo».
Non abbiamo lo spazio per ricostruire in dettaglio la storia del rapporto di Maria Montessori con i bambini. Ma è anche vero che non possiamo trascurare due fatti. Il primo è che Maria Montessori con questo quadro di riferimento opera a tutto campo. Nella cura dei bambini malati come nella lotta per l’emancipazione femminile. E infatti in un medesimo anno, il 1896, da un lato fonda con il patrocinio del Ministro e suo ex maestro Guido Baccelli e con l’aiuto di Giuseppe Ferruccio Montesano, l’amato collega e compagno di vita da cui, fuori dal matrimonio, avrà un figlio la Lega nazionale per la cura e l’educazione dei deficienti; e dall’altro contribuisce a fondare l’Associazione femminile di Roma, con un preciso scopo: avvicinare le donne alla scienza. E viceversa. In quel medesimo anno si reca a Berlino per partecipare al Congresso Femminile. In quella assise internazionale, la «bella italiana» non passa inosservata. Non solo per la sua grazia, ma anche per la veemenza con cui denuncia la condizione delle lavoratrici in Italia e chiede sia un più facile accesso al sistema educativo sia la parità di diritti e di salario tra maschi e femmine. È chiaro che sta nascendo una scienziata con una marcata «visione politica»: un autentico prototipo. E non solo in Italia.
Altro anno fondamentale nella vita di questa donna, che da psichiatra si è ormai trasformata in esperta pedagogista, con una solida formazione antropologica e filosofica, è il 1906. Quando crea la Casa dei bambini nel quartiere romano di San Lorenzo, dove inizia a sperimentare la sua «pedagogia scientifica» e inizia ad applicare ai «bambini normali» ciò che ha capito prendendosi cura dei «bambini deficienti»: la libertà come fonte di creatività e, insieme, di disciplina. Il rispetto dell’individualità come condizione per uno sviluppo armonico della socialità.
È un modo di fare scuola del tutto nuovo. I bambini che a San Lorenzo sono figli di famiglie alquanto povere non sono irreggimentati nei banchi, classe di età per classe di età, ma si muovo in spazi liberi, seguendo percorsi di apprendimento in cui componente fondamentale è la propria autodeterminazione. L’insegnante aiuta i suoi studenti a seguire il percorso migliore, che è il percorso di apprendimento preferito.
Non saremo noi ad approfondire i contenuti della pedagogia di Maria Montessori, che trovano espressione nel 1909 in un libro, Manuale della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei bambini, che viene scritto in pochi giorni mentre è ospite dei conti Franchetti a Città di Castello ma che presto ottiene fama planetaria. Trasformandola, nel giro di pochi anni, nella «donna più interessante» e in una delle più note d’Europa.
I SUOI LIBRI BRUCIATI DAI NAZISTI
In breve nascono scuole che si ispirano direttamente al «metodo Montessori» un po’ ovunque, ma soprattutto in Germania e negli Stati Uniti. È per questo che, una decina di anni dopo, quando arriva al potere, il maestro elementare Benito Mussolini cerca un qualche appeasement una qualche diplomazia dell’accordo con Maria Montessori, i cui principi positivistici non incontrano certo l’idealismo che informa di sé la scuola di Giovanni Gentile. Per molti anni le scuole Montessori vengono tollerate e persino protette dal Duce. Ma alla fine i principi di libertà su cui si fondano entrano definitivamente in collisione con l’autoritarismo fascista. Maria e il figlio Mario lasciano l’Italia. Intanto le sue scuole vengono chiuse anche da Adolf Hitler in Germania e i suoi libri bruciati dai nazisti.
Maria Montessori ripara prima in Olanda e poi nel corso della Seconda guerra mondiale, in India, dove riprende con forza immutata la battaglia per il valore educativo della libertà e il valore emancipativo dell’educazione. È dall’India che inizia la sua battaglia contro l’«analfabetismo mondiale», convinta com’è che la mancanza di cultura cristallizza le condizioni di povertà e solo l’educazione consente l’emancipazione dei poveri. A guerra finita torna in Italia, ma sporadicamente. La sua terra adottiva è, ormai, l’Olanda. Dove, il 6 maggio1952, a Noordwijk muore.
Non è certo «profeta in patria». Delle oltre ventimila scuole che oggi esplicitamente fanno riferimento al «metodo Montessori» solo 136 secondo un censimento realizzato dall’Università di Roma Tre e aggiornato al 2003 sono in Italia. Contro le 4.000, circa, negli Usa; le 1.140 in Germania, le 800 in Gran Bretagna, le 375 in Irlanda, la 220 in Olanda, le 163 in Svezia, le 150 in Giappone e le 200 in India. La «bella italiana» e il suo progetto di riscatto sociale attraverso la scienza appartengono, ormai, al mondo. Ma, come troppo spesso accade a molti geni italiani e a molte idee di italiani, non appartengono più al loro
distratto e irriconoscente Paese.
L’Unità 23.09.12

"L'antipolitica dei berluscones", di Claudio Sardo

La vergogna dei soldi pubblici spesi alla regione Lazio per ostriche e vini, per regali di lusso e maxi-bollette private, per dubbi collaboratori e viaggi poco politici alimenta la sfiducia e il disprezzo dei cittadini verso i partiti e le istituzioni. Per tanti è la dimostrazione del teorema della politica sporca, dei partiti tutti uguali, della democrazia ormai declinante e sostanzialmente irriformabile. Si tratta di uno scandalo nato in casa Pdl, e proprio per questo gli opinionisti di destra sono i più agguerriti nel sostenere che tutti sono responsabili alla stessa maniera.

Renata Polverini, presidente della giunta regionale, ha avuto la possibilità – appena rese pubbliche le circostanze pecorecce e i dati sconvolgenti della gestione Fiorito-Batman dei fondi assegnati al gruppo Pdl – di porre fine a questo spettacolo miserabile e compiere il solo atto che potesse segnalare, pur nel disonore, un desiderio autentico di riparazione: le dimissioni, lo scioglimento del consiglio e l’avvio delle procedure per nuove elezioni. Ma ciò non è avvenuto.

Le dimissioni sono diventate invece oggetto di negoziati oscuri, di minacce e ricatti, fino a quando Berlusconi non ha deciso di resistere ad oltranza: il Pdl nel bunker con l’obiettivo di trascinare in quel bunker anche gli avversari. Muoia Sansone con tutti i filistei. Del resto, è la linea nazionale del centrodestra, che sa di non potersi candidare dopo Monti alla guida del Paese e dunque tenta di impedire in ogni modo che possano prevalere il Pd e il centrosinistra.

Eppure questa vicenda di rara bruttezza non è la sconfitta della politica, come molti sentenziano. È piuttosto il fallimento di quell’antipolitica, che negli ultimi due decenni ha avuto in Italia un leader indiscusso: Silvio Berlusconi. È stato lui, al tempo di Tangentopoli, l’interprete principale della dottrina nuovista, quella che ha bollato come vecchia e inservibile l’intera nostra storia, quella che pretendeva di sostituire i leader carismatici ai partiti, la società civile intesa come somma di individui singoli al civismo dei corpi intermedi, l’elezione diretta del capo alle inservibili mediazioni, fonte inesorabile di corruzione. I protagonisti del grottesco festino in abiti greci sono esattamente quelli che vent’anni fa gridavano contro i partiti, contro la sinistra responsabile del degrado non meno di ogni altro, contro il vecchio che doveva morire per favorire finalmente l’avvento di uomini nuovi, appunto politici senza mediazioni. Sono stati il motore della vittoria della destra berlusconiana e leghista. Ma non hanno portato più moralità, più trasparenza, più potere ai cittadini, come avevano promesso.

La politica è malata. Come vent’anni fa. Forse oggi ancor di più perché la delusione della seconda Repubblica aggrava la sfiducia. Ma non è vero che tutti sono uguali. Non è vero che i partiti sono una categoria unitaria. Non è vero non c’è più la destra e la sinistra. Non è vero che la tecnocrazia può sostituire la democrazia e lo scontro tra gli interessi. Non è vero che l’immoralità è conseguenza inevitabile della mediazione politica e sociale. L’innovazione, la pulizia, il rinnovamento degli uomini sono possibili. Combattendo, ovviamente. La politica è una cosa bella: è il solo strumento in mano a chi è più debole per rendere la società meno diseguale. La politica minaccia proprio chi vuole conservare i privilegi: per questo chi ruba da una postazione pubblica è doppiamente colpevole.

L’Italia può riscattarsi. Ma è necessario imboccare una strada diversa rispetto a vent’anni fa: la strada della ricostruzione dei partiti e delle istituzioni. Partiti rinnovati, partiti nuovi. La personalizzazione estrema, unita a pratiche populiste, ha portato il Paese sul baratro e ha pure fatto aumentare la corruzione. Abbiamo bisogno di partiti democratici, trasparenti, scalabili. Perché è lì che avviene il primo controllo sull’uso pubblico dei fondi pubblici, prima di quello necessario della Corte dei conti. È questo un monito per quanti, anche a sinistra, sono oggi tentati di rilanciare con pochi emendamenti le parole d’ordine che hanno consentito la vittoria a Berlusconi e Bossi. Guai a illudersi che si possa ricostruire davvero un tessuto di solidarietà e di democrazia attraverso scorciatoie demagogiche: i vendicatori solitari portano autoritarismo, corruzione e minore trasparenza.

Anche sulle Regioni come enti di spesa oggi si scarica la protesta dei cittadini, che soffrono i morsi della crisi e non trovano politiche favorevoli alla crescita. La destra ha cominciato a dire che le colpe sono del federalismo, del trasferimento dei poteri agli enti locali, dell’aumento dei centri di spesa. Comprese le colpe dei Batman de’ noantri, che pagavano a pie’ di lista il ristorante e il gioielliere con i soldi pubblici. È evidente che troppe cose non vanno. Nel Lazio i fondi per i gruppi consiliari erano eccessivi e il sistema di distribuzione inaccettabile. Ma anche le Regioni non sono tutte uguali. Hanno prestazioni, efficienza, trasparenza assai diversi l’una dall’altra. C’è una responsabilità, c’è una differenza, non tutti i partiti reagiscono allo stesso modo. Il meglio va raccontato. E il peggio va mostrato senza veli, affinché i cittadini possano giudicare e scegliere. E poi, non erano stati proprio Bossi e Berlusconi a scommettere sul federalismo? Non avevano detto che così il Paese avrebbe risparmiato?

L’Italia ha bisogno di un grande cambiamento politico. Ha bisogno di un confronto aperto tra alternative. La soluzione tecnocratica, nel dopo elezioni, rischia di avere effetti tragici. Il cambiamento dovrà riguardare l’intera amministrazione pubblica, le Regioni e gli enti locali vanno ridotti di numero e resi più efficienti. Ma non si butti il bambino con l’acqua sporca. Il federalismo senza miti leghisti può essere un fattore di risparmio e di innovazione del welfare, può contribuire a disegnare una nuova idea di pubblico e aiutare così lo sviluppo dei territori. Si rifletta piuttosto sui governi monocratici e sul presidenzialismo della seconda Repubblica: il potere solitario del governatore, combinato con i poteri personali dei consiglieri eletti con le preferenze, ha creato paralisi istituzionali e allargato spesso le cancrene. I personalismi hanno distrutto i partiti e indebolito le capacità di resistenza al malaffare. Il cambiamento è una ricostruzione democratica. È una lotta di libertà, anche se oggi appare controcorrente.

L’Unità 23.09.12

"L'antipolitica dei berluscones", di Claudio Sardo

La vergogna dei soldi pubblici spesi alla regione Lazio per ostriche e vini, per regali di lusso e maxi-bollette private, per dubbi collaboratori e viaggi poco politici alimenta la sfiducia e il disprezzo dei cittadini verso i partiti e le istituzioni. Per tanti è la dimostrazione del teorema della politica sporca, dei partiti tutti uguali, della democrazia ormai declinante e sostanzialmente irriformabile. Si tratta di uno scandalo nato in casa Pdl, e proprio per questo gli opinionisti di destra sono i più agguerriti nel sostenere che tutti sono responsabili alla stessa maniera.
Renata Polverini, presidente della giunta regionale, ha avuto la possibilità – appena rese pubbliche le circostanze pecorecce e i dati sconvolgenti della gestione Fiorito-Batman dei fondi assegnati al gruppo Pdl – di porre fine a questo spettacolo miserabile e compiere il solo atto che potesse segnalare, pur nel disonore, un desiderio autentico di riparazione: le dimissioni, lo scioglimento del consiglio e l’avvio delle procedure per nuove elezioni. Ma ciò non è avvenuto.
Le dimissioni sono diventate invece oggetto di negoziati oscuri, di minacce e ricatti, fino a quando Berlusconi non ha deciso di resistere ad oltranza: il Pdl nel bunker con l’obiettivo di trascinare in quel bunker anche gli avversari. Muoia Sansone con tutti i filistei. Del resto, è la linea nazionale del centrodestra, che sa di non potersi candidare dopo Monti alla guida del Paese e dunque tenta di impedire in ogni modo che possano prevalere il Pd e il centrosinistra.
Eppure questa vicenda di rara bruttezza non è la sconfitta della politica, come molti sentenziano. È piuttosto il fallimento di quell’antipolitica, che negli ultimi due decenni ha avuto in Italia un leader indiscusso: Silvio Berlusconi. È stato lui, al tempo di Tangentopoli, l’interprete principale della dottrina nuovista, quella che ha bollato come vecchia e inservibile l’intera nostra storia, quella che pretendeva di sostituire i leader carismatici ai partiti, la società civile intesa come somma di individui singoli al civismo dei corpi intermedi, l’elezione diretta del capo alle inservibili mediazioni, fonte inesorabile di corruzione. I protagonisti del grottesco festino in abiti greci sono esattamente quelli che vent’anni fa gridavano contro i partiti, contro la sinistra responsabile del degrado non meno di ogni altro, contro il vecchio che doveva morire per favorire finalmente l’avvento di uomini nuovi, appunto politici senza mediazioni. Sono stati il motore della vittoria della destra berlusconiana e leghista. Ma non hanno portato più moralità, più trasparenza, più potere ai cittadini, come avevano promesso.
La politica è malata. Come vent’anni fa. Forse oggi ancor di più perché la delusione della seconda Repubblica aggrava la sfiducia. Ma non è vero che tutti sono uguali. Non è vero che i partiti sono una categoria unitaria. Non è vero non c’è più la destra e la sinistra. Non è vero che la tecnocrazia può sostituire la democrazia e lo scontro tra gli interessi. Non è vero che l’immoralità è conseguenza inevitabile della mediazione politica e sociale. L’innovazione, la pulizia, il rinnovamento degli uomini sono possibili. Combattendo, ovviamente. La politica è una cosa bella: è il solo strumento in mano a chi è più debole per rendere la società meno diseguale. La politica minaccia proprio chi vuole conservare i privilegi: per questo chi ruba da una postazione pubblica è doppiamente colpevole.
L’Italia può riscattarsi. Ma è necessario imboccare una strada diversa rispetto a vent’anni fa: la strada della ricostruzione dei partiti e delle istituzioni. Partiti rinnovati, partiti nuovi. La personalizzazione estrema, unita a pratiche populiste, ha portato il Paese sul baratro e ha pure fatto aumentare la corruzione. Abbiamo bisogno di partiti democratici, trasparenti, scalabili. Perché è lì che avviene il primo controllo sull’uso pubblico dei fondi pubblici, prima di quello necessario della Corte dei conti. È questo un monito per quanti, anche a sinistra, sono oggi tentati di rilanciare con pochi emendamenti le parole d’ordine che hanno consentito la vittoria a Berlusconi e Bossi. Guai a illudersi che si possa ricostruire davvero un tessuto di solidarietà e di democrazia attraverso scorciatoie demagogiche: i vendicatori solitari portano autoritarismo, corruzione e minore trasparenza.
Anche sulle Regioni come enti di spesa oggi si scarica la protesta dei cittadini, che soffrono i morsi della crisi e non trovano politiche favorevoli alla crescita. La destra ha cominciato a dire che le colpe sono del federalismo, del trasferimento dei poteri agli enti locali, dell’aumento dei centri di spesa. Comprese le colpe dei Batman de’ noantri, che pagavano a pie’ di lista il ristorante e il gioielliere con i soldi pubblici. È evidente che troppe cose non vanno. Nel Lazio i fondi per i gruppi consiliari erano eccessivi e il sistema di distribuzione inaccettabile. Ma anche le Regioni non sono tutte uguali. Hanno prestazioni, efficienza, trasparenza assai diversi l’una dall’altra. C’è una responsabilità, c’è una differenza, non tutti i partiti reagiscono allo stesso modo. Il meglio va raccontato. E il peggio va mostrato senza veli, affinché i cittadini possano giudicare e scegliere. E poi, non erano stati proprio Bossi e Berlusconi a scommettere sul federalismo? Non avevano detto che così il Paese avrebbe risparmiato?
L’Italia ha bisogno di un grande cambiamento politico. Ha bisogno di un confronto aperto tra alternative. La soluzione tecnocratica, nel dopo elezioni, rischia di avere effetti tragici. Il cambiamento dovrà riguardare l’intera amministrazione pubblica, le Regioni e gli enti locali vanno ridotti di numero e resi più efficienti. Ma non si butti il bambino con l’acqua sporca. Il federalismo senza miti leghisti può essere un fattore di risparmio e di innovazione del welfare, può contribuire a disegnare una nuova idea di pubblico e aiutare così lo sviluppo dei territori. Si rifletta piuttosto sui governi monocratici e sul presidenzialismo della seconda Repubblica: il potere solitario del governatore, combinato con i poteri personali dei consiglieri eletti con le preferenze, ha creato paralisi istituzionali e allargato spesso le cancrene. I personalismi hanno distrutto i partiti e indebolito le capacità di resistenza al malaffare. Il cambiamento è una ricostruzione democratica. È una lotta di libertà, anche se oggi appare controcorrente.
L’Unità 23.09.12

Le donne-sindaco della Locride scuotono il Pd sulla legalità “Unico rimedio all’antipolitica”, di Concita De Gregorio

Questi sono posti dove le teste di maiale non si indossano ai toga party, te le lasciano mozzate sullo zerbino davanti a casa. “E’ un rito arcaico della ‘ndrangheta ma noi qui ci siamo nate e non ci lasciamo impressionare, lo sappiamo che è così”, dice Elisabetta Tripodi, sindaco di Rosarno. Dove l’indennità da sindaco, lo stipendio, è di 800 euro al mese che diventano “411 virgola 80 centesimi perché ne lascio la metà al comune per le spese sociali”. Sono paesi e città dove se il boss locale ti spara alla macchina ti danno la scorta, ma – spiega Carolina Girasole, sindaco di Isola Capo Rizzuto – “io non l’ho voluta la scorta, ho detto la scambio per due funzionari bravi per i comune, due giovani assunti per concorso. Risultato: mi hanno tolto la scorta e non mi hanno dato i funzionari”. Il giornale del mattino arriva anche a Decollatura, confine con Lamezia Terme: quando il sindaco Annamaria Cardamone legge l’intervista al capogruppo Pd alla Regione Lazio Esterino Montino, suo collega di partito, che dice insomma, quei due milioni di contributi per le spee erano disponibili, non li potevamo mica dare indietro, ecco quando legge questo il sindaco mormora la cifra due volte poi dice “io le spese le pago di tasca mia, se faccio l’avvocato e compro un libro me lo pago, perché se faccio il sindaco me lo deve pagare la comunità? E’ un lavoro, fare politica, non è mica una rendita”.
Le primarie del centrosinistra bisogna guardarle anche da qui, fra la Calabria e la Sicilia: sono un altro spettacolo. Con gli occhi di questi cinque sindaci che hanno tutti 40 anni tranne uno, sono tutti laureati, tutti sotto minaccia di morte. Sono tutte donne, pensate pure che sia un caso. Tre di loro – Elisabetta Tripodi, Maria Carmela Lanzetta , Carolina Girasole – hanno avuto ieri il premio intitolato a Joe Petrosino ucciso dalla mafia. Lanzetta non è andata a ritirarlo.
“Avevo da lavorare”. E’ la veterana. 57 anni, due figli di 29 e 26. Sindaco di Monasterace, nella Locride, tremila e cinquecento abitanti. Nonni contadini, madre farmacista e padre medico condotto. Liceo classico a Locri, laurea in farmacia a Bologna. “Non era una famiglia femminista, solo che le donne studiavano e basta”. Non iscritta, vota Pd. Eletta sindaco con una lista civica nel 2006, rieletta nel 2011. Il 15 maggio vince le elezioni, il 26 giugno le bruciano la farmacia. Lettere con minacce di morte all’ordine del giorno, a marzo di quest’anno le hanno sparato alla macchina. Vive sotto scorta. “Questo è un paese bellissimo, sul mare. L’area archeologica magno greca più importante del mediterraneo. Facciamo teatro, presentiamo libri. Qui le donne facevano le gelsominaie, mandano avanti l’economia da secoli. Siamo indipendenti, non siamo malleabili. Per me libertà e possibilità di scegliere sono ragioni di vita. Sono calabrese ma sono italiana. Ho bisogno di sentirmi uguale a chi vive a Genova, a Padova. La Locride soffre perché ci tolgono le scuole, l’acqua costa e non ci sono investimenti per le reti idriche. Ho una grande rabbia dentro, enorme. Siamo poverissimi. Non ho i soldi per cambiare le lampadine dei lampioni per strada. I lavori di manutenzione li faccio con la mia indennità. Non chiedo, non mi piacciono i lamenti. Prima di chiedere do. Le prime vittime della ‘ndrangheta siamo noi. La gente è stanca della politica, è disgustata. Le primarie, sì, ho qualcosa da dire al Pd: che sia esempio di persone sane e pulite. Che ascolti, ma ascolta? Vorrei poter votare Berlinguer. E’ bello che ci sia Laura Puppato, una donna, ma il partito ci crede? Se non ci crede bisognerà scegliere Bersani”.
Carolina Girasole, 49 anni, due figlie. Sindaco di Isola Capo Rizzuto, Crotone. 16 mila abitanti. Biologa, laureata a Roma alla Sapienza, aveva un laboratorio di analisi. Comune sciolto nel 2003 per infiltrazioni mafiose, 3 anni di commissario straordinario, poi centrodestra. Vince le elezioni del 2008. “La candidata del Pd non ero io, era la presidente del consiglio comunale ma non hanno trovato l’accordo. Il giorno prima, alle nazionali, ha vinto Berlusconi. Il giorno dopo noi.
Lo slogan era “E’ qui che vogliamo vivere”: abbiamo detto non scapperemo. Vogliamo legalità e trasparenza. In comune quasi nessuno era entrato per concorso, tutti cooptati, inadeguati per numero e capacità. Ho riattivato i concorsi. Il controllo sugli atti. Ci siamo costituiti parte civile per riavere il patrimonio andato ai privati. Abbiamo lottato contro il business dell’eolico, ora il parco è sotto sequestro, uno dei soci era il boss Nicola Arena, è in galera. Stiamo lavorando con Don Ciotti sui terreni confiscati. Hanno bruciato tre macchine, anche quella di mio padre. Mi scrivono minacce di morte sui muri. Ho venduto il laboratorio, perso gli amici, mio marito non ha più clienti. Al posto della scorta ho chiesto due funzionari, non me li hanno dati. Ai colleghi del consiglio regionale del Lazio chiedo che vengano qui sei mesi. Che un po’ di quei due milioni di euro che loro usano per le spese a piè di lista vadano ai ragazzi di Isola, figli di genitori uccisi, o in carcere. Vorrei creare una casa della Musica, il futuro passa dai nostri bambini”.
Anna Maria Cardamone, 48 anni, sindaco di Decollatura. Laureata a Messina in Economia e commercio, specializzata in Inghilterra. Iscritta al Pd dalla fondazione, eletta nel 2011. Cattolica. “Sono tornata in Calabria dopo 15 anni per amore della mia terra. Non c’era nessuna legalità amministrativa. Ho interrotto l’appalto di sempre sui rifiuti, ho lavorato alla trasparenza delle gare. Abbiamo risparmiato molto, così, e assunto 12 persone da decenni precarie sotto ricatto. C’è a chi non piace. Guadagno 1400 euro. Chi fa politica deve essere sobrio e parco, le spese di rappresentanza se le deve pagare ciascuno col suo stipendio. Serve un rinnovamento radicale. L’antipolitica nasce dalla cattiva politica. Ho paura del populismo di Grillo, non mi piace la demagogia di Renzi. Aspetto di sapere meglio di Laura Puppato, in alternativa: Bersani”.
Maria Teresa Collica, 48 anni, un figlio di 5. Sindaco di Barcellona Pozzo di Gotto, 45 mila abitanti. Laureata in Giurisprudenza a Messina. Docente universitario. “Ho cominciato nel movimento civico ‘Città aperta’ per sostenere Rita Borsellino alle regionali. Abbiamo fondato l’associazione antiracket, combattuto un mega parco commerciale per pericolo di infiltrazioni mafiose. La società faceva capo a Pio Cattafi, avvocato, indicato come terzo livello della Cosa Nostra messinese, ora agli arresti domiciliari. Abbiamo garantito la rotazione nei lavori di acquedotto e fognatura, di conseguenza quest’estate sono saltati tutti i tombini, sabotati. Abbiamo sforato il patto di stabilità e paghiamo una multa. La mia indennità è ridotta del 30 per cento, prendo 816 euro al mese. Ai dirigenti del Pd, il mio partito, dico: fatevi un esame di coscienza, i cittadini sono sfiduciati e giustamente, siamo fuori tempo massimo. La politica non sono calcoli matematici per le alleanze, serve il coraggio di fare scelte. Mi attaccano perché sono una donna. Ora per esempio dicono: è incinta. Non è vero, ma potrei governare anche se fossi incinta, no?. Credo che voterò Puppato”.
Elisabetta Tripodi, 44 anni, due figli di 12 e 16. Sindaco di Rosarno, 15 mila abitanti. Avvocato, laureata a Parma. Eletta dopo il commissariamento per mafia e la rivolta dei migranti. “Sono tornata perché se tutti scappano non cambierà mai nulla, spero che più avanti i miei figli capiscano. Chiamano le donne a fare politica nei luoghi e nei momenti difficili pensando che siano più manovrabili, poi non le possono manovrare e le lasciano sole”. Sotto scorta da un anno. Il boss Rocco Pesce, ergastolano, le ha inviato una lettera scritta a mano e imbucata dal carcere, la busta era di quelle del Comune. “Ci eravamo costituiti parte civile in un grande processo contro la cosca. Abbiamo confiscato la casa di sua madre e suo fratello. Pesce mi ha scritto: lei è così giovane…. Hanno incendiato macchine, tagliato alberi, fatto a pezzi animali. Ma io non posso permettermi di avere paura. Questo è anche il paese delle pentite di mafia, Giusi Pesce e Maria Concetta Cacciola. Tutte queste donne, loro ed io, stiamo combattendo per i nostri figli. Loro per sottrarli a un destino scritto, io perché voglio che restino qui. Certo che vado a votare alle primarie, anche se lo spettacolo visto da qui è desolante. La gente non si fida più di nessuno e ha ragione. Non è l’antipolitica il nostro nemico, è la brutta politica. Chissà se lo capiscono lassù a Roma che serve coraggio. Non è difficile, davvero. Venite a vedere qui da noi: ci sono donne ad ogni angolo di strada che si battono, in silenzio e da sole, come leoni”.

La Repubblica 23.09.12

"I cervelli che non tornano", di Paolo Valente*

Nel dibattito sul tema della perdita di talenti si sostiene spesso che la mobilità dei ricercatori è positiva, poiché permette di arricchire il bagaglio individuale e favorisce la circolazione delle idee: «Andate e crescete (professionalmente)». In effetti è vero che la propensione alla mobilità aumenta con il livello di istruzione e specializzazione: dei 60 milioni di persone che vanno a lavorare all’estero nei Paesi Ocse circa un terzo ha una laurea. Se si considerano solo i ricercatori, in media il 40% va a lavorare in un Paese diverso da quello in cui è stato educato. Percentuale che sale al 50% se si considerano gli scienziati più citati. Niente di cui preoccuparsi, dunque? Non proprio. Come spesso capita, per comprendere davvero un fenomeno occorre quantificarlo, misurarlo. E anche se la statistica spesso spaventa, la percentuale più semplice e significativa è la differenza tra ricercatori in entrata (educati in un altro Paese), rispetto a quelli in uscita: il bilancio del talento. Ed è questo bilancio, che per l’Italia è in forte perdita, a darci le proporzioni della «fuga»: 3% in ingresso contro il 16.2% in uscita, ovvero un deficit che segna -13%. Le percentuali sono invece in pareggio, come per la Germania, positive – clamorose Svizzera e Svezia, ampiamente oltre il +20%, abbastanza bene Regno Unito (+7.8%) e Francia (+4.1%) – oppure in perdita assai più lieve, come la Spagna circa al -1% (7.3% contro 8.4%). Per trovare un bilancio nettamente peggiore dell’Italia dobbiamo, infatti, prendere in considerazione l’India, con meno dell’1% di ricercatori stranieri in ingresso contro quasi il 40% in fuga.

E quanti di questi talenti fanno ritorno, dopo un’esperienza all’estero, nel loro Paese? Per l’Italia è presto detto: il programma di rientro intitolato a Rita Levi Montalcini ha consentito il reclutamento di poche centinaia di ricercatori che si trovavano all’estero, in circa un decennio, un recupero di pochi punti percentuali di un esodo che invece è probabilmente superiore ai diecimila ricercatori in uscita. Nel resto dei Paesi nostri concorrenti, almeno la metà dei ricercatori che fanno un’esperienza di lavoro all’estero, poi ritorna e trova una collocazione in patria.
Si stenta a credere a questi numeri, anche perché è molto difficile ottenere dei dati, ma basta pensare che una recente ricerca ha censito quasi ventimila ricercatori italiani negli Stati Uniti, e si stima ce ne siano circa altrettanti in tutta Europa. Una recente indagine tra migliaia di ricercatori «mobili» in Europa ha dato un risultato – almeno per me – per nulla sorprendente: la motivazione principale di chi ha cercato un’esperienza all’estero e la spinta maggiore a non fare ritorno è la mancanza di opportunità. Opportunità di fare il proprio lavoro ai massimi livelli, ma anche opportunità di riconoscimento del proprio valore. Fa riflettere il fatto che, sebbene gli stipendi medi dei ricercatori italiani siano molto inferiori a quelli dei colleghi europei, chi lascia l’Italia molto raramente cita questo fattore. Le cause prime di questo fenomeno, infatti, sono davanti agli occhi di tutti: un investimento in ricerca oramai ridotto all’1% del Pil, una percentuale di ricercatori circa dimezzata rispetto ai principali Paesi europei, un sistema accademico e istituzioni di ricerca mortificati da anni di tagli e di blocchi del turnover, un sistema della ricerca privata assai ridotto.
Spesso, anche tra gli addetti ai lavori, serpeggia la rassegnazione e una sorta di malcelato orgoglio per i successi dei talenti italiani all’estero: tutto sommato l’esodo e le fortune dei nostri connazionali fuori dall’Italia testimoniano la qualità – nonostante tutto – del nostro sistema accademico. E invece non si tratta certo di un problema di nazionalismo: negli Stati Uniti si stima che ogni punto percentuale di guadagno nel bilancio in-out dei lavoratori con educazione universitaria o post-universitaria produce un incremento del 15% nella produzione di nuovi brevetti. E una nuova, molto preoccupante tendenza sta emergendo in questi ultimi anni: i nostri giovani – vedendo nel settore ricerca e sviluppo, sia pubblico che privato, un vicolo cieco – oramai scelgono l’estero ancor prima del dottorato di ricerca o di iniziare il lungo precariato universitario. E la percentuale di studenti che sceglie di completare la propria formazione fuori dall’Italia è in crescita vertiginosa. Come sappiamo, sono i più bravi ad essere più propensi alla mobilità. Ma il vero problema è che molti pochi di loro faranno ritorno.

*Ricercatore di Fisica delle particelle e lavora presso l’Istituto nazionale di Fisica nucleare. Collabora a esperimenti al Cern e ha partecipato di recente alla scoperta del Bosone di Higgs.

L’Unità 23.09.12

"I cervelli che non tornano", di Paolo Valente*

Nel dibattito sul tema della perdita di talenti si sostiene spesso che la mobilità dei ricercatori è positiva, poiché permette di arricchire il bagaglio individuale e favorisce la circolazione delle idee: «Andate e crescete (professionalmente)». In effetti è vero che la propensione alla mobilità aumenta con il livello di istruzione e specializzazione: dei 60 milioni di persone che vanno a lavorare all’estero nei Paesi Ocse circa un terzo ha una laurea. Se si considerano solo i ricercatori, in media il 40% va a lavorare in un Paese diverso da quello in cui è stato educato. Percentuale che sale al 50% se si considerano gli scienziati più citati. Niente di cui preoccuparsi, dunque? Non proprio. Come spesso capita, per comprendere davvero un fenomeno occorre quantificarlo, misurarlo. E anche se la statistica spesso spaventa, la percentuale più semplice e significativa è la differenza tra ricercatori in entrata (educati in un altro Paese), rispetto a quelli in uscita: il bilancio del talento. Ed è questo bilancio, che per l’Italia è in forte perdita, a darci le proporzioni della «fuga»: 3% in ingresso contro il 16.2% in uscita, ovvero un deficit che segna -13%. Le percentuali sono invece in pareggio, come per la Germania, positive – clamorose Svizzera e Svezia, ampiamente oltre il +20%, abbastanza bene Regno Unito (+7.8%) e Francia (+4.1%) – oppure in perdita assai più lieve, come la Spagna circa al -1% (7.3% contro 8.4%). Per trovare un bilancio nettamente peggiore dell’Italia dobbiamo, infatti, prendere in considerazione l’India, con meno dell’1% di ricercatori stranieri in ingresso contro quasi il 40% in fuga.
E quanti di questi talenti fanno ritorno, dopo un’esperienza all’estero, nel loro Paese? Per l’Italia è presto detto: il programma di rientro intitolato a Rita Levi Montalcini ha consentito il reclutamento di poche centinaia di ricercatori che si trovavano all’estero, in circa un decennio, un recupero di pochi punti percentuali di un esodo che invece è probabilmente superiore ai diecimila ricercatori in uscita. Nel resto dei Paesi nostri concorrenti, almeno la metà dei ricercatori che fanno un’esperienza di lavoro all’estero, poi ritorna e trova una collocazione in patria.
Si stenta a credere a questi numeri, anche perché è molto difficile ottenere dei dati, ma basta pensare che una recente ricerca ha censito quasi ventimila ricercatori italiani negli Stati Uniti, e si stima ce ne siano circa altrettanti in tutta Europa. Una recente indagine tra migliaia di ricercatori «mobili» in Europa ha dato un risultato – almeno per me – per nulla sorprendente: la motivazione principale di chi ha cercato un’esperienza all’estero e la spinta maggiore a non fare ritorno è la mancanza di opportunità. Opportunità di fare il proprio lavoro ai massimi livelli, ma anche opportunità di riconoscimento del proprio valore. Fa riflettere il fatto che, sebbene gli stipendi medi dei ricercatori italiani siano molto inferiori a quelli dei colleghi europei, chi lascia l’Italia molto raramente cita questo fattore. Le cause prime di questo fenomeno, infatti, sono davanti agli occhi di tutti: un investimento in ricerca oramai ridotto all’1% del Pil, una percentuale di ricercatori circa dimezzata rispetto ai principali Paesi europei, un sistema accademico e istituzioni di ricerca mortificati da anni di tagli e di blocchi del turnover, un sistema della ricerca privata assai ridotto.
Spesso, anche tra gli addetti ai lavori, serpeggia la rassegnazione e una sorta di malcelato orgoglio per i successi dei talenti italiani all’estero: tutto sommato l’esodo e le fortune dei nostri connazionali fuori dall’Italia testimoniano la qualità – nonostante tutto – del nostro sistema accademico. E invece non si tratta certo di un problema di nazionalismo: negli Stati Uniti si stima che ogni punto percentuale di guadagno nel bilancio in-out dei lavoratori con educazione universitaria o post-universitaria produce un incremento del 15% nella produzione di nuovi brevetti. E una nuova, molto preoccupante tendenza sta emergendo in questi ultimi anni: i nostri giovani – vedendo nel settore ricerca e sviluppo, sia pubblico che privato, un vicolo cieco – oramai scelgono l’estero ancor prima del dottorato di ricerca o di iniziare il lungo precariato universitario. E la percentuale di studenti che sceglie di completare la propria formazione fuori dall’Italia è in crescita vertiginosa. Come sappiamo, sono i più bravi ad essere più propensi alla mobilità. Ma il vero problema è che molti pochi di loro faranno ritorno.
*Ricercatore di Fisica delle particelle e lavora presso l’Istituto nazionale di Fisica nucleare. Collabora a esperimenti al Cern e ha partecipato di recente alla scoperta del Bosone di Higgs.
L’Unità 23.09.12

"Profumo: cambiare l’ora di religione. Così com’è ha poco senso", di Andrea Rossi

Qualcuno potrebbe anche definirla una «voce dal sen fuggita». Un tentativo, umanissimo, di ingraziarsi una platea sensibile al tema e non necessariamente amica. Ma se a dirlo è un ministro, è pur sempre una valutazione di cui bisogna tenere conto. E il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo due sera fa ha detto che l’ora di religione a scuola, così com’è strutturata, ha poco senso e andrebbe modificata. «Nelle nostre classi, soprattutto alle elementari e alle medie, il 30 per cento degli studenti è di origine straniera e, spesso, non di religione cattolica», ha spiegato venerdì sera a Torino intervenendo alla festa di Sinistra ecologia e libertà. Delineando quello che, nei suoi pensieri, dovrebbe essere l’orientamento futuro: «Credo che l’insegnamento della religione nelle scuole così come concepito oggi non abbia più molto senso. Probabilmente quell’ora di lezione andrebbe adattata, potrebbe diventare un corso di storia delle religioni o di etica».

La considerazione di Profumo nasce da un dato di fatto, un’analisi della realtà. Nulla ha a che vedere con un giudizio sull’insegnamento attuale, anche se a luglio il ministro ha firmato un accordo con il presidente della Conferenza episcopale Bagnasco che prevede dal 2017 l’obbligo della laurea per chi insegna la religione cattolica nelle scuole italiane. Né, tanto meno, è un giudizio sulle scuole paritarie confessionali: «Io ho sempre frequentato le scuole pubbliche, ma credo che gli istituti paritari, le loro strutture e i loro docenti rappresentino un arricchimento per il Paese. Io credo nel pluralismo». Altro discorso è interrogarsi sull’ora di religione in classe, e anche in questo caso Profumo si dice convinto sostenitore del pluralismo, della necessità cioè di offrire un panorama più ampio agli studenti adattando la scuola a un contesto cambiato, sostituendo un insegnamento che si limita alla religione cattolica con una visione più laica, a cavallo tra le varie confessioni.

Nella scuola dell’obbligo, secondo l’ultimo dossier sull’immigrazione della Caritas, ci sono oltre 700 mila alunni figli di genitori stranieri, di almeno 180 nazionalità diverse. Nel 2000 erano nemmeno 150 mila. E quasi il 40 per cento è sì nato in Italia, ma non ha la cittadinanza. E spesso non è battezzato: sempre secondo la Caritas solo il 20 per cento degli stranieri in Italia è di religione cattolica. Senza contare che nelle scuole – soprattutto alle elementari – i casi di classi in cui la maggioranza degli allievi non è italiana sono ormai molti.

Il risultato è che nel 2011 per la prima volta dal 1993, quando venne fatta la prima rilevazione, la quota di alunni che preferisce uscire dalle classi quando entra l’insegnante di religione ha superato il 10 per cento. L’ultimo rapporto del Servizio nazionale della Cei per l’insegnamento della religione cattolica parla chiaro: l’unico segmento in cui negli ultimi due, tre anni non si sono verificate variazioni significative è la scuola superiore, dove circa 17 studenti su 100 scelgono di non frequentare all’ora di religione. Con differenze significative, un massiccio divario tra Nord e Centro da un lato e Sud dall’altro: nelle regioni settentrionali le “diserzioni” raggiungono il 27 per cento, nell’Italia centrale sfiorano il 20. Nel meridione appena due studenti su cento escono dall’aula durante l’ora di religione. In tutti gli altri segmenti (materne, elementari, medie), invece, il trend è significativo: probabilmente a causa della forte componente di immigrati che professano altre religioni, la diminuzione di chi frequenta le lezioni è consistente.

La Stampa 23.09.12