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"Profumo: cambiare l’ora di religione. Così com’è ha poco senso", di Andrea Rossi

Qualcuno potrebbe anche definirla una «voce dal sen fuggita». Un tentativo, umanissimo, di ingraziarsi una platea sensibile al tema e non necessariamente amica. Ma se a dirlo è un ministro, è pur sempre una valutazione di cui bisogna tenere conto. E il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo due sera fa ha detto che l’ora di religione a scuola, così com’è strutturata, ha poco senso e andrebbe modificata. «Nelle nostre classi, soprattutto alle elementari e alle medie, il 30 per cento degli studenti è di origine straniera e, spesso, non di religione cattolica», ha spiegato venerdì sera a Torino intervenendo alla festa di Sinistra ecologia e libertà. Delineando quello che, nei suoi pensieri, dovrebbe essere l’orientamento futuro: «Credo che l’insegnamento della religione nelle scuole così come concepito oggi non abbia più molto senso. Probabilmente quell’ora di lezione andrebbe adattata, potrebbe diventare un corso di storia delle religioni o di etica».
La considerazione di Profumo nasce da un dato di fatto, un’analisi della realtà. Nulla ha a che vedere con un giudizio sull’insegnamento attuale, anche se a luglio il ministro ha firmato un accordo con il presidente della Conferenza episcopale Bagnasco che prevede dal 2017 l’obbligo della laurea per chi insegna la religione cattolica nelle scuole italiane. Né, tanto meno, è un giudizio sulle scuole paritarie confessionali: «Io ho sempre frequentato le scuole pubbliche, ma credo che gli istituti paritari, le loro strutture e i loro docenti rappresentino un arricchimento per il Paese. Io credo nel pluralismo». Altro discorso è interrogarsi sull’ora di religione in classe, e anche in questo caso Profumo si dice convinto sostenitore del pluralismo, della necessità cioè di offrire un panorama più ampio agli studenti adattando la scuola a un contesto cambiato, sostituendo un insegnamento che si limita alla religione cattolica con una visione più laica, a cavallo tra le varie confessioni.
Nella scuola dell’obbligo, secondo l’ultimo dossier sull’immigrazione della Caritas, ci sono oltre 700 mila alunni figli di genitori stranieri, di almeno 180 nazionalità diverse. Nel 2000 erano nemmeno 150 mila. E quasi il 40 per cento è sì nato in Italia, ma non ha la cittadinanza. E spesso non è battezzato: sempre secondo la Caritas solo il 20 per cento degli stranieri in Italia è di religione cattolica. Senza contare che nelle scuole – soprattutto alle elementari – i casi di classi in cui la maggioranza degli allievi non è italiana sono ormai molti.
Il risultato è che nel 2011 per la prima volta dal 1993, quando venne fatta la prima rilevazione, la quota di alunni che preferisce uscire dalle classi quando entra l’insegnante di religione ha superato il 10 per cento. L’ultimo rapporto del Servizio nazionale della Cei per l’insegnamento della religione cattolica parla chiaro: l’unico segmento in cui negli ultimi due, tre anni non si sono verificate variazioni significative è la scuola superiore, dove circa 17 studenti su 100 scelgono di non frequentare all’ora di religione. Con differenze significative, un massiccio divario tra Nord e Centro da un lato e Sud dall’altro: nelle regioni settentrionali le “diserzioni” raggiungono il 27 per cento, nell’Italia centrale sfiorano il 20. Nel meridione appena due studenti su cento escono dall’aula durante l’ora di religione. In tutti gli altri segmenti (materne, elementari, medie), invece, il trend è significativo: probabilmente a causa della forte componente di immigrati che professano altre religioni, la diminuzione di chi frequenta le lezioni è consistente.
La Stampa 23.09.12

"Lavoro e ambiente: le prime cose da fare", di Luigi Mariucci

I media, sempre alla ricerca di semplificazioni via via più stucchevoli, rilanciano ossessivamente sui temi del lavoro messaggi del tutto slegati da ogni rapporto con la realtà effettuale: dal premier che se la prende vanamente, a quarant’anni di distanza, con lo Statuto dei lavoratori, alla iniziativa di chi vorrebbe restaurare con referendum i diritti del lavoro violati, fino alle spumeggianti affermazioni di chi sostiene che «dell’art. 18 non me ne può fregare di meno». Non è chiaro se questo sia lo spettacolo della politica deformato dai media o se la politica oggi sia proprio così. Perciò trovo ammirevole il tentativo del segretario del Pd di proporre invece una immagine rovesciata della politica, come se questa potesse essere ancora una cosa seria, una attività da svolgere non nell’interesse di chi la fa, ma verso un interesse comune, perfino generale. Forse è per questo che Bersani ha deciso di mettersi in gioco su primarie cosiddette aperte, aperte quindi anche ad altri candidati del Pd, contraddicendo lo Statuto del Pd che andrà perciò modificato ad hoc. Decisione, questa, che non può non suscitare perplessità in chi continua a ritenere, seguendo l’insegnamento classico, che le regole formali hanno una sola e fredda virtù: quella di predeterminare la dinamica del gioco. Plasmare le regole in relazione alla situazione concreta contraddice il principio stesso della razionalità giuridica. Ma tant’è: la crisi italiana è ormai così acuta da far rendere accettabile ogni misura anche di carattere straordinario finalizzata a rilanciare il senso stesso della politica democratica. Tornando al tema di sostanza è bene tentare di chiarire i temi prioritari di una agenda di governo del centrosinistra dopo le prossime elezioni. In primo luogo va guardata in faccia la realtà. Siamo un Paese in forte recessione, in cui decine di migliaia di lavoratori rischiano di perdere il posto di lavoro mentre i giovani e le donne il lavoro non lo trovano, o lo trovano solo di pessima qualità, precario. Inoltre si è aperta una contraddizione esplosiva tra lavoro e sicurezza ambientale, all’Ilva di Taranto, nel Sulcis e in tutti quei luoghi (ora definiti con la sigla «sin») in cui il celebrato «miracolo economico» degli anni ’50 e ’60 si è realizzato senza la minima considerazione dell’impatto inquinante, come avviene ora, né più né meno, nei Paesi cosiddetti emergenti (Cina, India, Brasile ecc.). È impressionante sentire un operaio che dice: «Meglio respirare pece e bauxite che morire di fame». Altro che eleganti disquisizioni sulla economia ecocompatibile! Quindi i primi provvedimenti del governo Bersani, se il centrosinistra vincerà le prossime elezioni, dovrebbero proprio riguardare il tema della bonifica dei siti inquinati e gli interventi necessari a garantire una occupazione sostenibile. Non avrebbe invece alcun senso mettere mano alla ennesima riforma del mercato del lavoro. In tema, con decreto, andrebbero fatte solo due cose: abrogare l’art. 8 della legge-Sacconi, approvata in punto di morte dall’ultimo governo Berlusconi, la norma incivile che autorizza i contratti aziendali a derogare in toto il diritto del lavoro, e stabilire le regole essenziali mediante cui i contratti collettivi possono acquisire efficacia generale. In secondo luogo andrebbero introdotte adeguate misure di sostegno del reddito a favore sia dei lavoratori che perdono il lavoro e sono in attesa di pensione sia dei giovani e delle donne che cercano effettivamente lavoro e non lo trovano, mettendo mano a una sistemica e scientifica incentivazione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato. In terzo luogo andrebbero fissati alcuni obiettivi di fondo sul piano della politica industriale: l’Italia deve restare un Paese a base industriale-manifatturiera o no? Se sì bisogna dire qualcosa su Fiat, Finmeccanica, industria siderurgica, e così via. Queste sono le cose serie di cui parlare. Il resto è solo agitazione mediatica, che passerà presto come fumo al vento.

L’Unità 23.02.12

"Lavoro e ambiente: le prime cose da fare", di Luigi Mariucci

I media, sempre alla ricerca di semplificazioni via via più stucchevoli, rilanciano ossessivamente sui temi del lavoro messaggi del tutto slegati da ogni rapporto con la realtà effettuale: dal premier che se la prende vanamente, a quarant’anni di distanza, con lo Statuto dei lavoratori, alla iniziativa di chi vorrebbe restaurare con referendum i diritti del lavoro violati, fino alle spumeggianti affermazioni di chi sostiene che «dell’art. 18 non me ne può fregare di meno». Non è chiaro se questo sia lo spettacolo della politica deformato dai media o se la politica oggi sia proprio così. Perciò trovo ammirevole il tentativo del segretario del Pd di proporre invece una immagine rovesciata della politica, come se questa potesse essere ancora una cosa seria, una attività da svolgere non nell’interesse di chi la fa, ma verso un interesse comune, perfino generale. Forse è per questo che Bersani ha deciso di mettersi in gioco su primarie cosiddette aperte, aperte quindi anche ad altri candidati del Pd, contraddicendo lo Statuto del Pd che andrà perciò modificato ad hoc. Decisione, questa, che non può non suscitare perplessità in chi continua a ritenere, seguendo l’insegnamento classico, che le regole formali hanno una sola e fredda virtù: quella di predeterminare la dinamica del gioco. Plasmare le regole in relazione alla situazione concreta contraddice il principio stesso della razionalità giuridica. Ma tant’è: la crisi italiana è ormai così acuta da far rendere accettabile ogni misura anche di carattere straordinario finalizzata a rilanciare il senso stesso della politica democratica. Tornando al tema di sostanza è bene tentare di chiarire i temi prioritari di una agenda di governo del centrosinistra dopo le prossime elezioni. In primo luogo va guardata in faccia la realtà. Siamo un Paese in forte recessione, in cui decine di migliaia di lavoratori rischiano di perdere il posto di lavoro mentre i giovani e le donne il lavoro non lo trovano, o lo trovano solo di pessima qualità, precario. Inoltre si è aperta una contraddizione esplosiva tra lavoro e sicurezza ambientale, all’Ilva di Taranto, nel Sulcis e in tutti quei luoghi (ora definiti con la sigla «sin») in cui il celebrato «miracolo economico» degli anni ’50 e ’60 si è realizzato senza la minima considerazione dell’impatto inquinante, come avviene ora, né più né meno, nei Paesi cosiddetti emergenti (Cina, India, Brasile ecc.). È impressionante sentire un operaio che dice: «Meglio respirare pece e bauxite che morire di fame». Altro che eleganti disquisizioni sulla economia ecocompatibile! Quindi i primi provvedimenti del governo Bersani, se il centrosinistra vincerà le prossime elezioni, dovrebbero proprio riguardare il tema della bonifica dei siti inquinati e gli interventi necessari a garantire una occupazione sostenibile. Non avrebbe invece alcun senso mettere mano alla ennesima riforma del mercato del lavoro. In tema, con decreto, andrebbero fatte solo due cose: abrogare l’art. 8 della legge-Sacconi, approvata in punto di morte dall’ultimo governo Berlusconi, la norma incivile che autorizza i contratti aziendali a derogare in toto il diritto del lavoro, e stabilire le regole essenziali mediante cui i contratti collettivi possono acquisire efficacia generale. In secondo luogo andrebbero introdotte adeguate misure di sostegno del reddito a favore sia dei lavoratori che perdono il lavoro e sono in attesa di pensione sia dei giovani e delle donne che cercano effettivamente lavoro e non lo trovano, mettendo mano a una sistemica e scientifica incentivazione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato. In terzo luogo andrebbero fissati alcuni obiettivi di fondo sul piano della politica industriale: l’Italia deve restare un Paese a base industriale-manifatturiera o no? Se sì bisogna dire qualcosa su Fiat, Finmeccanica, industria siderurgica, e così via. Queste sono le cose serie di cui parlare. Il resto è solo agitazione mediatica, che passerà presto come fumo al vento.
L’Unità 23.02.12

"Il Lingotto è soltanto la punta di un iceberg", di Eugenio Scalfari

L’incontro di ieri pomeriggio tra Sergio Marchionne e il premier Mario Monti affiancato dai ministri Passera e Fornero non riguarda soltanto la Fiat. Rappresenta infatti la punta di un iceberg poiché porta con sé la situazione di tutta l’industria italiana e quindi del lavoro, degli ammortizzatori sociali, della produttività, della fiscalità, della recessione e infine dell’Europa di cui l’Italia è soltanto una regione che non può affrontare e risolvere problemi di questa dimensione se non inquadrandoli nel contesto del continente senza il quale da sola può fare ben poco.
Nessuna delle due parti sedute al tavolo di Palazzo Chigi – a quanto si sa – era sulla difensiva. Ciascuna aveva richieste da porre all’altra, soprattutto il governo perché l’inadempiente in questo caso è la Fiat e non il governo. Fu la Fiat infatti che due anni fa e ancora l’anno scorso aveva lanciato il progetto definito Fabbrica Italia, aveva stanziato 20 miliardi di investimenti, aveva stipulato gli accordi con due dei tre sindacati confederali. Ed è la Fiat che ora ritiene non più agibile quel progetto e gli investimenti che esso comportava. Perché? La risposta di Marchionne riguarda il mutamento in peggio del mercato dell’auto in Europa, ma è una risposta che non risponde a verità, come Passera ha fatto presente nel corso dell’incontro. Già nel 2010 il mercato dell’auto aveva subìto un crollo drammatico delle immatricolazioni di circa 3 milioni di unità e ulteriori diminuzioni
prevedibili e previste.
Ma era stato proprio allora che la Fiat aveva lanciato il suo progetto sottolineando che esso non avrebbe richiesto alcun aiuto da parte dello Stato, salvo quello di prendersi carico della chiusura dello stabilimento di Termini Imerese e delle conseguenze sociali che quella chiusura avrebbe comportato.
All’atto pratico si è visto che la cifra di 20 miliardi (dei quali solo uno e mezzo è stato effettivamente investito) era decisamente sopravvalutata; probabilmente fumo negli occhi per convincere la Cisl e la Uil a rompere con la Cgil-Fiom e a firmare il contratto-tipo; ma questa è una ricerca di intenzioni che non vogliamo fare. Sta di fatto che ora di quella cifra è inutile parlare, almeno fino a quando il mercato dovesse riprendersi con una rapidità e un’intensità sulle quali nessuno scommetterebbe neppure un centesimo.
La Fiat non se ne andrà dall’Italia, se non altro perché l’Italia è la sua unica base in Europa, responsabilità storiche a parte. E l’Europa è tuttora un grande mercato dell’auto anche se fin troppo maturo. Non se ne andrà, ma stavolta chiede aiuti allo Stato (anche se i protagonisti smentiscono di averne parlato). Due soprattutto: la cassa integrazione “in deroga” per alcune migliaia di lavoratori e per la durata di almeno due anni; un accordo tra tutte le case automobilistiche europee, sponsorizzato dai rispettivi governi, per una riduzione della produzione equamente ripartita e per un accordo sui prezzi di vendita che impedisca manovre di “dumping” che modificherebbero le quote di mercato che ciascuna casa detiene.
A queste richieste si aggiungono facilitazioni creditizie connesse a eventuali innovazioni produttive e a ricerche tecnologiche capaci di aumentare la produttività e la competitività.
La richiesta di una sorta di cartello europeo non è stata neppure formulata ufficialmente: è caduta nei colloqui informali perché improponibile. Sulle altre la decisione, probabilmente positiva, verrà dopo il consiglio di amministrazione del Lingotto di ottobre che dovrebbe riconfermare la presenza di tutti gli stabilimenti dell’azienda in Italia e un piano per superare i due anni di pena in attesa dell’uscita dalla recessione.
Se queste prime notizie saranno confermate la punta dell’iceberg sarebbe stata positivamente pilotata ma quello che c’è sotto no.
Sotto la punta emersa, cui si affacciano i casi non meno imponenti dell’Ilva di Taranto e del Sulcis, ci sono 150 tavoli di aziende in chiusura già operativi al ministero dello Sviluppo e molte migliaia di aziende medio-piccole in gravi difficoltà. Gli accordi con la Fiat faranno testo e creeranno un precedente che sarà impossibile ignorare senza determinare una vera e propria ribellione. Ed è questo il problema che si è spalancato dopo l’incontro di ieri.
*** Le dimensioni della crisi industriale sono tali da richiedere soluzioni generali perché è impossibile un approccio caso per caso.
Viene in tal modo al pettine il tema del lavoro, della produttività, dell’occupazione, dei contratti, del precariato, degli ammortizzatori sociali, della fiscalità, delle liberalizzazioni. Insomma delle risorse, perché è puramente illusorio pensar di padroneggiare l’enormità e la complessità di questa crisi con riforme a tasso zero.
Le riforme a tasso zero sono ganascini e placebo, non terapie che agiscono sulle cause e non soltanto sui sintomi.
Alcuni, anzi purtroppo molti, pensano di risolvere la questione con un’imposta patrimoniale sui ricchi. Far piangere i ricchi per consolare i poveri e riportarli sul mercato dei consumi. Una patrimoniale capace di produrre questi effetti eticamente è sacrosanta ma economicamente è impossibile. In un mercato dei capitali aperto come abbiamo in Europa e nel mondo si determinerebbe una fuga di capitali di proporzioni enormi con effetti devastanti sul mercato finanziario e sulla tenuta dell’euro. L’imposta patrimoniale ha un senso se si tratta di un gravame ordinario di piccole dimensioni che, in una futura riforma fiscale, serva di coronamento a imposte proporzionali sulla ricchezza per mantenere un andamento progressivo del sistema nel suo complesso. Ad altro non può servire, salvo che se ne limiti l’applicazione ai patrimoni immobiliari con il risultato di un effetto negativo sul valore e quindi sulla vendita dei predetti immobili. Sarebbe opportuno che di queste cose riflettessero quelle forze politiche che della patrimoniale hanno fatto un mantra che non sta in piedi.
In realtà c’è solo un modo per affrontare il problema del come finanziare le riforme degli ammortizzatori e i nuovi investimenti: il taglio della spesa corrente.
La spesa corrente negli ultimi dieci anni è aumentata al ritmo del 2 per cento l’anno senza procurare alcuna contropartita vantaggiosa allo Stato e all’occupazione. La crescita della spesa è avvenuta perfino in questo ultimo anno con il governo cosiddetto tecnico. Ora è in corso la riqualificazione della spesa (spending review) ma i frutti sono ancora del tutto insufficienti.
Affinché fossero significativi ci vorrebbe un taglio di 40 miliardi, dal quale siamo ancora ben lontani anche perché con quella cifra si impedirebbe un ulteriore aumento senza tuttavia alcuna diminuzione capace di generare nuove risorse.
Il taglio dovrebbe dunque ammontare complessivamente a 50 miliardi e non può certo essere effettuato a carico della spesa sociale, della quale vanno cambiati i meccanismi ma non la dimensione. È possibile? Sì, è possibile, il grasso da tagliare c’è. Non certamente tagli lineari ma mirati. Il ministro Giarda e il commissario Bondi ne hanno individuato alcuni, ma le cifre sono ancora molto limitate e il processo va avanti con eccessiva timidezza e con molti ostacoli frapposti da lobby potenti e da alcuni partiti ad esse legati. Il vero banco di prova di questo governo nei pochi mesi di vita che gli restano è questo. “Qui si parrà la tua nobilitate”. Non solo gli sprechi ma una visione politica deve presiedere a questa operazione che ha come contropartita una riduzione, anch’essa mirata, delle imposte. Un taglio massiccio della spesa corrente potrebbe infatti produrre deflazione se non fosse destinato ad una riduzione, anch’essa mirata, delle imposte.
Quali imposte? Le accise e le imposte sul lavoro e sulle imprese; tante riduzioni di spesa e altrettante riduzioni di imposte, fermo restando il fiscal compact e il pareggio del bilancio previsto.
Questa deve essere la scommessa. Se riuscisse porrà le condizioni del rilancio per la crescita del reddito, sempre che nel frattempo anche lo spread diminuisca e con esso gli interessi e gli oneri del Tesoro sul debito pubblico.

***
Qui si apre il capitolo Europa. Ne abbiamo parlato più volte in queste pagine, ma qualche cosa va aggiunta per aggiornare ad oggi la situazione.
Si dice attendibilmente che Monti abbia suggerito al premier spagnolo di chiedere l’intervento del fondo Esm – e quindi dello scudo anti-spread di Draghi – negoziandone le condizioni. Si vedrà nei prossimi giorni se il suggerimento verrà accolto. A quel punto è probabile che anche lo spread italiano benefici indirettamente dell’intervento della Bce in Spagna oppure, se questo effetto positivo non si verificasse, che Monti chieda anche lui lo scudo anti-spread a condizioni certamente diverse e più leggere di quelle spagnole.
Poiché l’Ue e la Bce chiedono al tempo stesso mantenimento del rigore e riforme per la crescita, un eventuale programma di riduzione della spesa corrente e delle imposte potrebbe essere la contropartita dell’intervento di Draghi sul mercato italiano, insieme alle riforme necessarie per aumentare la produttività.
A questo punto si sarebbero poste le condizioni per il rafforzamento definitivo dell’euro e l’Europa dovrebbe procedere verso l’obiettivo di fondo delle cessioni di sovranità necessarie alla nascita dello Stato federale europeo, non solo nel settore dell’economia, ma anche della politica estera e della difesa.
Processo lungo che proprio per questo deve iniziare quanto prima. L’Italia potrebbe contribuire efficacemente a quel percorso anche in forza dell’ulteriore credibilità acquisita.
È inutile dire che qui si pone ancora un volta il tema spinosissimo del dopo Monti e quello, altrettanto spinoso, del dopo Napolitano. Su questa questione ho già più volte espresso la mia personale opinione.
Sono convinto che quando un Paese affronta la campagna elettorale, i risultati di essa non possono essere ignorati per la semplice ragione che si insedia un nuovo Parlamento, si formano una nuova maggioranza e un nuovo governo. Sono tuttavia convinto che le forze politiche che daranno vita a queste novità non potranno, quand’anche lo volessero, rimettere indietro le lancette dell’orologio. Viviamo un’epoca del tutto diversa da quella che l’ha preceduta. Se l’Europa vuole aver voce nel mondo della globalità non può continuare a parlare attraverso le 27 voci degli Stati membri e se l’euro vuole diventare una delle grandi monete mondiali non può esser guidata da 17 Paesi, ciascuno con un proprio fisco e una propria politica economica.
In aprile si voterà per questo o quel partito ma si voterà soprattutto per l’Europa o contro di essa. La legge elettorale è molto importante ma ancor più importante è l’obiettivo che ciascun partito si proporrà di fronte al tema europeo. Non è questione di terza repubblica, è questione della nascita di un nuovo Stato di dimensione continentale e con una visione politica unitaria. La speranza è che gli italiani votino per questa prospettiva vincendo sul populismo e sull’indifferenza.

***
Dovrei ora dire qualche parola sullo scandalo del Lazio e di gran parte delle Regioni italiane a cominciare dalla Lombardia del Celeste e dalla Sicilia di Lombardo.
Mi limito solo a dire vergogna aggiungendo che con questa classe politica locale pensare ad un buon federalismo significa sognare ad occhi aperti. Soltanto i Comuni danno ancora fiducia. Le Regioni ne avevano già poca, adesso è rimasta soltanto la cenere ed i fumi infetti che essa espande.

La Repubblica 23.09.12

"Il Lingotto è soltanto la punta di un iceberg", di Eugenio Scalfari

L’incontro di ieri pomeriggio tra Sergio Marchionne e il premier Mario Monti affiancato dai ministri Passera e Fornero non riguarda soltanto la Fiat. Rappresenta infatti la punta di un iceberg poiché porta con sé la situazione di tutta l’industria italiana e quindi del lavoro, degli ammortizzatori sociali, della produttività, della fiscalità, della recessione e infine dell’Europa di cui l’Italia è soltanto una regione che non può affrontare e risolvere problemi di questa dimensione se non inquadrandoli nel contesto del continente senza il quale da sola può fare ben poco.
Nessuna delle due parti sedute al tavolo di Palazzo Chigi – a quanto si sa – era sulla difensiva. Ciascuna aveva richieste da porre all’altra, soprattutto il governo perché l’inadempiente in questo caso è la Fiat e non il governo. Fu la Fiat infatti che due anni fa e ancora l’anno scorso aveva lanciato il progetto definito Fabbrica Italia, aveva stanziato 20 miliardi di investimenti, aveva stipulato gli accordi con due dei tre sindacati confederali. Ed è la Fiat che ora ritiene non più agibile quel progetto e gli investimenti che esso comportava. Perché? La risposta di Marchionne riguarda il mutamento in peggio del mercato dell’auto in Europa, ma è una risposta che non risponde a verità, come Passera ha fatto presente nel corso dell’incontro. Già nel 2010 il mercato dell’auto aveva subìto un crollo drammatico delle immatricolazioni di circa 3 milioni di unità e ulteriori diminuzioni
prevedibili e previste.
Ma era stato proprio allora che la Fiat aveva lanciato il suo progetto sottolineando che esso non avrebbe richiesto alcun aiuto da parte dello Stato, salvo quello di prendersi carico della chiusura dello stabilimento di Termini Imerese e delle conseguenze sociali che quella chiusura avrebbe comportato.
All’atto pratico si è visto che la cifra di 20 miliardi (dei quali solo uno e mezzo è stato effettivamente investito) era decisamente sopravvalutata; probabilmente fumo negli occhi per convincere la Cisl e la Uil a rompere con la Cgil-Fiom e a firmare il contratto-tipo; ma questa è una ricerca di intenzioni che non vogliamo fare. Sta di fatto che ora di quella cifra è inutile parlare, almeno fino a quando il mercato dovesse riprendersi con una rapidità e un’intensità sulle quali nessuno scommetterebbe neppure un centesimo.
La Fiat non se ne andrà dall’Italia, se non altro perché l’Italia è la sua unica base in Europa, responsabilità storiche a parte. E l’Europa è tuttora un grande mercato dell’auto anche se fin troppo maturo. Non se ne andrà, ma stavolta chiede aiuti allo Stato (anche se i protagonisti smentiscono di averne parlato). Due soprattutto: la cassa integrazione “in deroga” per alcune migliaia di lavoratori e per la durata di almeno due anni; un accordo tra tutte le case automobilistiche europee, sponsorizzato dai rispettivi governi, per una riduzione della produzione equamente ripartita e per un accordo sui prezzi di vendita che impedisca manovre di “dumping” che modificherebbero le quote di mercato che ciascuna casa detiene.
A queste richieste si aggiungono facilitazioni creditizie connesse a eventuali innovazioni produttive e a ricerche tecnologiche capaci di aumentare la produttività e la competitività.
La richiesta di una sorta di cartello europeo non è stata neppure formulata ufficialmente: è caduta nei colloqui informali perché improponibile. Sulle altre la decisione, probabilmente positiva, verrà dopo il consiglio di amministrazione del Lingotto di ottobre che dovrebbe riconfermare la presenza di tutti gli stabilimenti dell’azienda in Italia e un piano per superare i due anni di pena in attesa dell’uscita dalla recessione.
Se queste prime notizie saranno confermate la punta dell’iceberg sarebbe stata positivamente pilotata ma quello che c’è sotto no.
Sotto la punta emersa, cui si affacciano i casi non meno imponenti dell’Ilva di Taranto e del Sulcis, ci sono 150 tavoli di aziende in chiusura già operativi al ministero dello Sviluppo e molte migliaia di aziende medio-piccole in gravi difficoltà. Gli accordi con la Fiat faranno testo e creeranno un precedente che sarà impossibile ignorare senza determinare una vera e propria ribellione. Ed è questo il problema che si è spalancato dopo l’incontro di ieri.
*** Le dimensioni della crisi industriale sono tali da richiedere soluzioni generali perché è impossibile un approccio caso per caso.
Viene in tal modo al pettine il tema del lavoro, della produttività, dell’occupazione, dei contratti, del precariato, degli ammortizzatori sociali, della fiscalità, delle liberalizzazioni. Insomma delle risorse, perché è puramente illusorio pensar di padroneggiare l’enormità e la complessità di questa crisi con riforme a tasso zero.
Le riforme a tasso zero sono ganascini e placebo, non terapie che agiscono sulle cause e non soltanto sui sintomi.
Alcuni, anzi purtroppo molti, pensano di risolvere la questione con un’imposta patrimoniale sui ricchi. Far piangere i ricchi per consolare i poveri e riportarli sul mercato dei consumi. Una patrimoniale capace di produrre questi effetti eticamente è sacrosanta ma economicamente è impossibile. In un mercato dei capitali aperto come abbiamo in Europa e nel mondo si determinerebbe una fuga di capitali di proporzioni enormi con effetti devastanti sul mercato finanziario e sulla tenuta dell’euro. L’imposta patrimoniale ha un senso se si tratta di un gravame ordinario di piccole dimensioni che, in una futura riforma fiscale, serva di coronamento a imposte proporzionali sulla ricchezza per mantenere un andamento progressivo del sistema nel suo complesso. Ad altro non può servire, salvo che se ne limiti l’applicazione ai patrimoni immobiliari con il risultato di un effetto negativo sul valore e quindi sulla vendita dei predetti immobili. Sarebbe opportuno che di queste cose riflettessero quelle forze politiche che della patrimoniale hanno fatto un mantra che non sta in piedi.
In realtà c’è solo un modo per affrontare il problema del come finanziare le riforme degli ammortizzatori e i nuovi investimenti: il taglio della spesa corrente.
La spesa corrente negli ultimi dieci anni è aumentata al ritmo del 2 per cento l’anno senza procurare alcuna contropartita vantaggiosa allo Stato e all’occupazione. La crescita della spesa è avvenuta perfino in questo ultimo anno con il governo cosiddetto tecnico. Ora è in corso la riqualificazione della spesa (spending review) ma i frutti sono ancora del tutto insufficienti.
Affinché fossero significativi ci vorrebbe un taglio di 40 miliardi, dal quale siamo ancora ben lontani anche perché con quella cifra si impedirebbe un ulteriore aumento senza tuttavia alcuna diminuzione capace di generare nuove risorse.
Il taglio dovrebbe dunque ammontare complessivamente a 50 miliardi e non può certo essere effettuato a carico della spesa sociale, della quale vanno cambiati i meccanismi ma non la dimensione. È possibile? Sì, è possibile, il grasso da tagliare c’è. Non certamente tagli lineari ma mirati. Il ministro Giarda e il commissario Bondi ne hanno individuato alcuni, ma le cifre sono ancora molto limitate e il processo va avanti con eccessiva timidezza e con molti ostacoli frapposti da lobby potenti e da alcuni partiti ad esse legati. Il vero banco di prova di questo governo nei pochi mesi di vita che gli restano è questo. “Qui si parrà la tua nobilitate”. Non solo gli sprechi ma una visione politica deve presiedere a questa operazione che ha come contropartita una riduzione, anch’essa mirata, delle imposte. Un taglio massiccio della spesa corrente potrebbe infatti produrre deflazione se non fosse destinato ad una riduzione, anch’essa mirata, delle imposte.
Quali imposte? Le accise e le imposte sul lavoro e sulle imprese; tante riduzioni di spesa e altrettante riduzioni di imposte, fermo restando il fiscal compact e il pareggio del bilancio previsto.
Questa deve essere la scommessa. Se riuscisse porrà le condizioni del rilancio per la crescita del reddito, sempre che nel frattempo anche lo spread diminuisca e con esso gli interessi e gli oneri del Tesoro sul debito pubblico.
***
Qui si apre il capitolo Europa. Ne abbiamo parlato più volte in queste pagine, ma qualche cosa va aggiunta per aggiornare ad oggi la situazione.
Si dice attendibilmente che Monti abbia suggerito al premier spagnolo di chiedere l’intervento del fondo Esm – e quindi dello scudo anti-spread di Draghi – negoziandone le condizioni. Si vedrà nei prossimi giorni se il suggerimento verrà accolto. A quel punto è probabile che anche lo spread italiano benefici indirettamente dell’intervento della Bce in Spagna oppure, se questo effetto positivo non si verificasse, che Monti chieda anche lui lo scudo anti-spread a condizioni certamente diverse e più leggere di quelle spagnole.
Poiché l’Ue e la Bce chiedono al tempo stesso mantenimento del rigore e riforme per la crescita, un eventuale programma di riduzione della spesa corrente e delle imposte potrebbe essere la contropartita dell’intervento di Draghi sul mercato italiano, insieme alle riforme necessarie per aumentare la produttività.
A questo punto si sarebbero poste le condizioni per il rafforzamento definitivo dell’euro e l’Europa dovrebbe procedere verso l’obiettivo di fondo delle cessioni di sovranità necessarie alla nascita dello Stato federale europeo, non solo nel settore dell’economia, ma anche della politica estera e della difesa.
Processo lungo che proprio per questo deve iniziare quanto prima. L’Italia potrebbe contribuire efficacemente a quel percorso anche in forza dell’ulteriore credibilità acquisita.
È inutile dire che qui si pone ancora un volta il tema spinosissimo del dopo Monti e quello, altrettanto spinoso, del dopo Napolitano. Su questa questione ho già più volte espresso la mia personale opinione.
Sono convinto che quando un Paese affronta la campagna elettorale, i risultati di essa non possono essere ignorati per la semplice ragione che si insedia un nuovo Parlamento, si formano una nuova maggioranza e un nuovo governo. Sono tuttavia convinto che le forze politiche che daranno vita a queste novità non potranno, quand’anche lo volessero, rimettere indietro le lancette dell’orologio. Viviamo un’epoca del tutto diversa da quella che l’ha preceduta. Se l’Europa vuole aver voce nel mondo della globalità non può continuare a parlare attraverso le 27 voci degli Stati membri e se l’euro vuole diventare una delle grandi monete mondiali non può esser guidata da 17 Paesi, ciascuno con un proprio fisco e una propria politica economica.
In aprile si voterà per questo o quel partito ma si voterà soprattutto per l’Europa o contro di essa. La legge elettorale è molto importante ma ancor più importante è l’obiettivo che ciascun partito si proporrà di fronte al tema europeo. Non è questione di terza repubblica, è questione della nascita di un nuovo Stato di dimensione continentale e con una visione politica unitaria. La speranza è che gli italiani votino per questa prospettiva vincendo sul populismo e sull’indifferenza.
***
Dovrei ora dire qualche parola sullo scandalo del Lazio e di gran parte delle Regioni italiane a cominciare dalla Lombardia del Celeste e dalla Sicilia di Lombardo.
Mi limito solo a dire vergogna aggiungendo che con questa classe politica locale pensare ad un buon federalismo significa sognare ad occhi aperti. Soltanto i Comuni danno ancora fiducia. Le Regioni ne avevano già poca, adesso è rimasta soltanto la cenere ed i fumi infetti che essa espande.
La Repubblica 23.09.12

"Valutazioni università Gelmini ci ripensa", di Mario Castagna

«Sui parametri bibliometrici individuati dall’Agenzia, non registro un consenso unanime nella comunità accademica». Ora che anche l’ex-ministro Maria Stella Gelmini critica l’operato dall’Anvur il cerchio si chiude e non è facile trovare qualcuno che difenda l’operato di questa istituzione. L’attività dell’Agenzia nazionale per la valutazione dell’Università e la ricerca è diventato forse l’unico argomento di discussione all’interno delle aule e dei dipartimenti universitari. Migliaia di aspiranti professori hanno seguito con ansia le tappe che avrebbero dovuto condurre a criteri certi per la verifica delle loro qualità di ricercatori.

Ma ora non c’è più nulla se non il fatto che qualsiasi decisione presa viene messa in discussione. Infatti l’Agenzia ha continuamente corretto i criteri che aveva emanato magari pochi giorni prima. Sul sito dell’Anvur sono ormai più numerose le note che chiariscono qualcosa, piuttosto che quelle che affermano qualcosa. Ma la creatività dei commissari Anvur non si è limitata a questo arrivando ad inventare fantasiose locuzioni ossimori che, come il capolavoro della mediana come «definizione univoca ma anche ambigua».

L’ultimo atto è datato 14 settembre 2012 e poteva essere la parola fine ad una richiesta di chiarimenti che ormai proveniva da molte parti. Tante le domande a cui avrebbe dovuto rispondere l’Agenzia, dall’utilizzo pedissequo di parametri non utilizzati in nessuna parte del mondo – tutto il sistema è basato sul numero di citazioni ricevute, che può misurare forse quanti amici hai ma non la qualità della tua ricerca – all’elenco delle riviste buone e cattive – di cui sarebbe stata misurata la qualità oggettivamente ma non è dato sapere in base a quale criterio. Non da ultimo si fa una distinzione rigidissima tra sapere scientifico e sapere umanistico, che utilizzeranno due diversi sistemi di valutazione, rinnegando decenni di innovazione multidisciplinare nella ricerca.

Un vero pasticcio che si sperava l’Agenzia potesse dipanare con una nota ufficiale. Invece l’Agenzia non fa altro che riaprire tante questioni tirando in ballo il ministro Profumo accusato, tra le altre cose, di aver voluto chiudere in tutta fretta una questione che necessitava di tempi molto più lunghi.

C’è poi una questione non secondaria che è quella del conflitto d’interessi tra gli esperti che hanno dovuto stilare i criteri di valutazione e la lo loro candidatura a commissario per l’abilitazione. Il buon senso avrebbe evitato che un esperto potesse decidere i criteri attraverso il quale lo stesso o negativamente. Invece per l’Anvur tutto questo è normale, e così ora un gran numero di persone verrà valutata attraverso criteri che loro stesso avranno individuato.

Insomma a due anni di distanza dall’istituzione di questa Agenzia il risultato è magrissimo. Peccato perché la costituzione dell’Agenzia di valutazione è sempre stata una proposta del centrosinistra, fin dal 2007 con il ministro Mussi, ed è sempre stata richiesta a gran voce da tutta la comunità scientifica italiana. Oggi si rischia invece di buttare via il bambino con l’acqua sporca.

Una soluzione però ci sarebbe ed è contenuta in una mozione parlamentare che il Pd vuole presentare che chiede al ministro una norma interpretativa che consideri i criteri emanati dall’Anvur un’indicazione di massima per le commissioni e non rigido ostacolo da superare ad ogni costo.

A questa mozione ha lavorato Luciano Modica, ex-sottosegretario all’Università del secondo governo Prodi, che ci spiega come questo sia l’unico modo per salvare l’intera procedura dell’abilitazione ma soprattutto per rimettere in moto il sistema esperto viene poi giudicato positivamente concorsuale bloccato da diversi anni. Ci sarà poi tempo per aprire una vera discussione pubblica sulla valutazione universitaria e sugli strumenti da utilizzare per valorizzare le molte cose positive che le nostre università producono.

A sorpresa è l’ex ministro Gelmini ad aprire a questa soluzione: «Ci sono grosse perplessità sull’operato dell’Agenzia. È necessario evitare qualsiasi ricorso giudiziario che bloccherebbe nuovamente i concorsi per anni anche perché non esiste una giurisprudenza sulla valutazione». Ma non si ferma qui. Infatti ci annuncia che anche lei è disposta, attraverso la mozione parlamentare del Pd, a richiedere al ministro una norma interpretativa: «Sarebbe necessario un provvedimento interpretativo del ministro che dica che i criteri dell’Anvur sono un criterio indicativo e non vincolante».

La cosa veramente strana è che anche l’Anvur chiede al ministro questo provvedimento. Nel documento del 14 settembre scrive infatti che si può «concedere l’abilitazione anche a candidati che non superino le soglie delle mediane (i criteri individuati dall’Anvur ndr)» dichiarando inutile tutto il lavoro da loro fatto negli ultimi mesi. Servirà molto tempo per riflettere sull’operato di un’Agenzia che alla fine di un lungo percorso dichiara fallimento in maniera così palese.

Molto meno tempo hanno però migliaia di giovani ricercatori che attendono da anni di entrare dentro le università italiane prima di decidere, come molti altri, di trovare all’estero quello che in Italia sembra impossibile trovare.

L’Unità 22.09.12

"Valutazioni università Gelmini ci ripensa", di Mario Castagna

«Sui parametri bibliometrici individuati dall’Agenzia, non registro un consenso unanime nella comunità accademica». Ora che anche l’ex-ministro Maria Stella Gelmini critica l’operato dall’Anvur il cerchio si chiude e non è facile trovare qualcuno che difenda l’operato di questa istituzione. L’attività dell’Agenzia nazionale per la valutazione dell’Università e la ricerca è diventato forse l’unico argomento di discussione all’interno delle aule e dei dipartimenti universitari. Migliaia di aspiranti professori hanno seguito con ansia le tappe che avrebbero dovuto condurre a criteri certi per la verifica delle loro qualità di ricercatori.
Ma ora non c’è più nulla se non il fatto che qualsiasi decisione presa viene messa in discussione. Infatti l’Agenzia ha continuamente corretto i criteri che aveva emanato magari pochi giorni prima. Sul sito dell’Anvur sono ormai più numerose le note che chiariscono qualcosa, piuttosto che quelle che affermano qualcosa. Ma la creatività dei commissari Anvur non si è limitata a questo arrivando ad inventare fantasiose locuzioni ossimori che, come il capolavoro della mediana come «definizione univoca ma anche ambigua».
L’ultimo atto è datato 14 settembre 2012 e poteva essere la parola fine ad una richiesta di chiarimenti che ormai proveniva da molte parti. Tante le domande a cui avrebbe dovuto rispondere l’Agenzia, dall’utilizzo pedissequo di parametri non utilizzati in nessuna parte del mondo – tutto il sistema è basato sul numero di citazioni ricevute, che può misurare forse quanti amici hai ma non la qualità della tua ricerca – all’elenco delle riviste buone e cattive – di cui sarebbe stata misurata la qualità oggettivamente ma non è dato sapere in base a quale criterio. Non da ultimo si fa una distinzione rigidissima tra sapere scientifico e sapere umanistico, che utilizzeranno due diversi sistemi di valutazione, rinnegando decenni di innovazione multidisciplinare nella ricerca.
Un vero pasticcio che si sperava l’Agenzia potesse dipanare con una nota ufficiale. Invece l’Agenzia non fa altro che riaprire tante questioni tirando in ballo il ministro Profumo accusato, tra le altre cose, di aver voluto chiudere in tutta fretta una questione che necessitava di tempi molto più lunghi.
C’è poi una questione non secondaria che è quella del conflitto d’interessi tra gli esperti che hanno dovuto stilare i criteri di valutazione e la lo loro candidatura a commissario per l’abilitazione. Il buon senso avrebbe evitato che un esperto potesse decidere i criteri attraverso il quale lo stesso o negativamente. Invece per l’Anvur tutto questo è normale, e così ora un gran numero di persone verrà valutata attraverso criteri che loro stesso avranno individuato.
Insomma a due anni di distanza dall’istituzione di questa Agenzia il risultato è magrissimo. Peccato perché la costituzione dell’Agenzia di valutazione è sempre stata una proposta del centrosinistra, fin dal 2007 con il ministro Mussi, ed è sempre stata richiesta a gran voce da tutta la comunità scientifica italiana. Oggi si rischia invece di buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Una soluzione però ci sarebbe ed è contenuta in una mozione parlamentare che il Pd vuole presentare che chiede al ministro una norma interpretativa che consideri i criteri emanati dall’Anvur un’indicazione di massima per le commissioni e non rigido ostacolo da superare ad ogni costo.
A questa mozione ha lavorato Luciano Modica, ex-sottosegretario all’Università del secondo governo Prodi, che ci spiega come questo sia l’unico modo per salvare l’intera procedura dell’abilitazione ma soprattutto per rimettere in moto il sistema esperto viene poi giudicato positivamente concorsuale bloccato da diversi anni. Ci sarà poi tempo per aprire una vera discussione pubblica sulla valutazione universitaria e sugli strumenti da utilizzare per valorizzare le molte cose positive che le nostre università producono.
A sorpresa è l’ex ministro Gelmini ad aprire a questa soluzione: «Ci sono grosse perplessità sull’operato dell’Agenzia. È necessario evitare qualsiasi ricorso giudiziario che bloccherebbe nuovamente i concorsi per anni anche perché non esiste una giurisprudenza sulla valutazione». Ma non si ferma qui. Infatti ci annuncia che anche lei è disposta, attraverso la mozione parlamentare del Pd, a richiedere al ministro una norma interpretativa: «Sarebbe necessario un provvedimento interpretativo del ministro che dica che i criteri dell’Anvur sono un criterio indicativo e non vincolante».
La cosa veramente strana è che anche l’Anvur chiede al ministro questo provvedimento. Nel documento del 14 settembre scrive infatti che si può «concedere l’abilitazione anche a candidati che non superino le soglie delle mediane (i criteri individuati dall’Anvur ndr)» dichiarando inutile tutto il lavoro da loro fatto negli ultimi mesi. Servirà molto tempo per riflettere sull’operato di un’Agenzia che alla fine di un lungo percorso dichiara fallimento in maniera così palese.
Molto meno tempo hanno però migliaia di giovani ricercatori che attendono da anni di entrare dentro le università italiane prima di decidere, come molti altri, di trovare all’estero quello che in Italia sembra impossibile trovare.
L’Unità 22.09.12