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"Una vita da nababbo senza spendere un euro così il denaro pubblico tornava al Celeste", di Piero Colaprico

La verità nascosta nei conti di Roberto Formigoni è sotto gli occhi di chiunque voglia vederla. Le carte giudiziarie, sin qui pubblicate, possono essere tante, e lasciarci frastornati. Ma documentano senza alcuna possibilità di smentita tre passaggi chiave. Dimostrano quanto denaro pubblico è tornato indietro per consentire al «Celeste» un tenore di vita da nababbo. Rileggiamoli.
Uno: abbiamo visto la Regione Lombardia rimborsare, con generosità e prontezza, l’ospedale San Raffaele e la fondazione Maugeri. Com’è sostenuto da varie testimonianze, in questi ospedali c’erano manager che avevano a disposizione, in anticipo sugli altri concorrenti, le bozze delle leggi sanitarie che sarebbero state approvate mesi dopo. Lo stesso invito a comparire a Roberto Formigoni parla del «sistematico asservimento della discrezionalità amministrativa» della Regione Lombardia alle esigenze del ragionier Daccò e dei disonesti. E come ha denunciato proprio ieri il Pd, che ha ritrovato la voce, grazie alle modifiche create dalla cosiddetta «legge Daccò», sono «quasi raddoppiate fra 2009 e 2010 le risorse erogate dalla Regione Lombardia alla Fondazione Maugeri». Il secondo passaggio è altrettanto semplice. È stato accertato come queste supercliniche aumentassero, grazie ai maneggi inevitabili di Daccò — che godeva di ottime entrature al Pirellone, e le usava — il gettito del denaro pubblico gestito dalla Regione. C’era chi, come il San Raffaele, vittima anche della megalomania di don Luigi Verzè, ha sprecato molto. E chi, come la Maugeri, cercava di rimettersi in piedi. Tutti però erano e sono concordi: c’erano delle percentuali da «ridare» a Daccò. Un do ut des: negli ultimi anni i manager delle due fondazioni entrate nell’inchiesta hanno elargito al faccendiere di casa in Regione, tramite consulenze fasulle per giustificare gli esborsi nei bilanci, una cifra spaventosamente alta, 80 milioni.
Siamo così al terzo passaggio chiave. Una volta entrato nei conti esteri di Daccò, il fiume carsico di soldi scorreva tranquillo in tre direzioni: verso il socio Antonio Simone, ciellino, secondo alcuni il vero cervello delle consulenze fasulle; verso i paradisi fiscali e i prelievi in contanti da parte dello stesso Daccò; verso i lussi di Formigoni. Non ci sono altre uscite: «Daccò, che fa il consulente per questioni sanitarie, non spende un euro nel settore sanitario», sostengono al palazzo di giustizia. «E cioè — continuano — non paga scienziati, ricercatori, laboratori. Non fa nemmeno un abbonamento a una rivista scientifica».
Attenzione: come si difende ormai la Regione? «Non un euro di denaro pubblico è stato sprecato, la sanità lombarda è la migliore d’Italia ai prezzi più bassi, la corruzione abita altrove», assicuravano ancora ieri in difesa del presidente. Se però non ci si fa distrarre e si guarda a quel fiume di denaro Fondazioni-Daccò-paradisi fiscali la sequenza resta nitida. Ripercorriamola ancora.
Uno, il denaro pubblico esce dalla Regione secondo scelte discrezionali e pilotate, con Daccò
(appoggiato da Simone) che preme, telefona migliaia di volte, è «amico del Presidente».
Due, il denaro pubblico transita (non esiste altro verbo) sui conti della Fondazione Maugeri per finire rapidamente là dov’è destinato, e cioè al tandem Daccò-Simone.
Tre, una parte di questo denaro, che è uscito dalla Regione, torna indietro proprio per migliorare il tenore di vita di Roberto Formigoni, che della Regione pagante è il presidente. Il cerchio pubblico- privato-pubblico si è dunque chiuso alla perfezione.
Il numero uno del Pirellone ha più volte parlato di ricevute, conguagli a fine vacanza. Formigoni però non ha mai portato (da mesi) alcun elemento concreto per dimostrare come, quando e dove «ripagava» Daccò per viaggi caraibici, cene, yacht a disposizione perenne, per lussi superiori — si legge nelle accuse — ai cinque milioni di euro. Per altri 600 mila euro dati dalla Maugeri per la campagna elettorale 2010. Per 500 mila euro spesi in cene, eventi, incontri. Per quella villa in Sardegna venduta sottocosto, sempre secondo i pubblici ministeri, da Daccò ad Alberto Perego, ciellino, memores, capo casa di Formigoni. L’uomo pubblico tra i più in vista della Lombardia ha evitato in extremis l’incontro con i pubblici ministeri, fissato dall’avvocato Salvatore Stivala, che ha rinunciato infatti al mandato.
Resta così sospesa una domanda cruciale: con quali soldi vive Roberto Formigoni, presidente al terzo mandato della Regione Lombardia? La verità sui suoi conti non è più così misteriosa. È stato stabilito dall’indagine che entrano, mese dopo mese, gli accrediti degli stipendi di politico, ma non esce praticamente nulla. L’unico esborso di rilievo è stato il milione per la villa in Sardegna. Non c’è nulla di bancario ad indicare che Formigoni si mantenga da solo per eventi e incontri. Al contrario, sono le ricevute delle carte di credito di Daccò a parlare. A documentare quei cinque capidanno tra Terra del Fuoco e Caraibi pagati al Presidente da un ragioniere, il quale prende i soldi dalla mondo della sanità, in cambio di? Nella relazione di polizia è chiamata «vicenda Harmann». Succede questo: l’ospedale San Raffaele paga una consulenza alla Harmann Holding, che è, si scoprirà in seguito, una delle società ombra del faccendiere Daccò. Questa consulenza, affermano i detective, «è risultato essere il “copia incolla” di testi, relazioni, report predisposti da personale del San Raffaele al rientro delle proprie trasferte». Daccò aveva preso questi testi non suoi, consegnato «due pagine» striminzite e in cambio il San Raffaele (e chissà che cosa ne pensano oggi i dipendenti sull’orlo del licenziamento) gli aveva pagato 510 mila euro.
Non c’è mai (mai!) una vera consulenza da parte di Daccò, però lui «apriva le porte» in Regione. Sapeva garantire anni di denaro pubblico tramite le relazioni (definite) «apicali». Qui, nell’»eccellente » Lombardia, è così che nella sanità giravano «le cose».

La Repubblica 22.09.12

"Una vita da nababbo senza spendere un euro così il denaro pubblico tornava al Celeste", di Piero Colaprico

La verità nascosta nei conti di Roberto Formigoni è sotto gli occhi di chiunque voglia vederla. Le carte giudiziarie, sin qui pubblicate, possono essere tante, e lasciarci frastornati. Ma documentano senza alcuna possibilità di smentita tre passaggi chiave. Dimostrano quanto denaro pubblico è tornato indietro per consentire al «Celeste» un tenore di vita da nababbo. Rileggiamoli.
Uno: abbiamo visto la Regione Lombardia rimborsare, con generosità e prontezza, l’ospedale San Raffaele e la fondazione Maugeri. Com’è sostenuto da varie testimonianze, in questi ospedali c’erano manager che avevano a disposizione, in anticipo sugli altri concorrenti, le bozze delle leggi sanitarie che sarebbero state approvate mesi dopo. Lo stesso invito a comparire a Roberto Formigoni parla del «sistematico asservimento della discrezionalità amministrativa» della Regione Lombardia alle esigenze del ragionier Daccò e dei disonesti. E come ha denunciato proprio ieri il Pd, che ha ritrovato la voce, grazie alle modifiche create dalla cosiddetta «legge Daccò», sono «quasi raddoppiate fra 2009 e 2010 le risorse erogate dalla Regione Lombardia alla Fondazione Maugeri». Il secondo passaggio è altrettanto semplice. È stato accertato come queste supercliniche aumentassero, grazie ai maneggi inevitabili di Daccò — che godeva di ottime entrature al Pirellone, e le usava — il gettito del denaro pubblico gestito dalla Regione. C’era chi, come il San Raffaele, vittima anche della megalomania di don Luigi Verzè, ha sprecato molto. E chi, come la Maugeri, cercava di rimettersi in piedi. Tutti però erano e sono concordi: c’erano delle percentuali da «ridare» a Daccò. Un do ut des: negli ultimi anni i manager delle due fondazioni entrate nell’inchiesta hanno elargito al faccendiere di casa in Regione, tramite consulenze fasulle per giustificare gli esborsi nei bilanci, una cifra spaventosamente alta, 80 milioni.
Siamo così al terzo passaggio chiave. Una volta entrato nei conti esteri di Daccò, il fiume carsico di soldi scorreva tranquillo in tre direzioni: verso il socio Antonio Simone, ciellino, secondo alcuni il vero cervello delle consulenze fasulle; verso i paradisi fiscali e i prelievi in contanti da parte dello stesso Daccò; verso i lussi di Formigoni. Non ci sono altre uscite: «Daccò, che fa il consulente per questioni sanitarie, non spende un euro nel settore sanitario», sostengono al palazzo di giustizia. «E cioè — continuano — non paga scienziati, ricercatori, laboratori. Non fa nemmeno un abbonamento a una rivista scientifica».
Attenzione: come si difende ormai la Regione? «Non un euro di denaro pubblico è stato sprecato, la sanità lombarda è la migliore d’Italia ai prezzi più bassi, la corruzione abita altrove», assicuravano ancora ieri in difesa del presidente. Se però non ci si fa distrarre e si guarda a quel fiume di denaro Fondazioni-Daccò-paradisi fiscali la sequenza resta nitida. Ripercorriamola ancora.
Uno, il denaro pubblico esce dalla Regione secondo scelte discrezionali e pilotate, con Daccò
(appoggiato da Simone) che preme, telefona migliaia di volte, è «amico del Presidente».
Due, il denaro pubblico transita (non esiste altro verbo) sui conti della Fondazione Maugeri per finire rapidamente là dov’è destinato, e cioè al tandem Daccò-Simone.
Tre, una parte di questo denaro, che è uscito dalla Regione, torna indietro proprio per migliorare il tenore di vita di Roberto Formigoni, che della Regione pagante è il presidente. Il cerchio pubblico- privato-pubblico si è dunque chiuso alla perfezione.
Il numero uno del Pirellone ha più volte parlato di ricevute, conguagli a fine vacanza. Formigoni però non ha mai portato (da mesi) alcun elemento concreto per dimostrare come, quando e dove «ripagava» Daccò per viaggi caraibici, cene, yacht a disposizione perenne, per lussi superiori — si legge nelle accuse — ai cinque milioni di euro. Per altri 600 mila euro dati dalla Maugeri per la campagna elettorale 2010. Per 500 mila euro spesi in cene, eventi, incontri. Per quella villa in Sardegna venduta sottocosto, sempre secondo i pubblici ministeri, da Daccò ad Alberto Perego, ciellino, memores, capo casa di Formigoni. L’uomo pubblico tra i più in vista della Lombardia ha evitato in extremis l’incontro con i pubblici ministeri, fissato dall’avvocato Salvatore Stivala, che ha rinunciato infatti al mandato.
Resta così sospesa una domanda cruciale: con quali soldi vive Roberto Formigoni, presidente al terzo mandato della Regione Lombardia? La verità sui suoi conti non è più così misteriosa. È stato stabilito dall’indagine che entrano, mese dopo mese, gli accrediti degli stipendi di politico, ma non esce praticamente nulla. L’unico esborso di rilievo è stato il milione per la villa in Sardegna. Non c’è nulla di bancario ad indicare che Formigoni si mantenga da solo per eventi e incontri. Al contrario, sono le ricevute delle carte di credito di Daccò a parlare. A documentare quei cinque capidanno tra Terra del Fuoco e Caraibi pagati al Presidente da un ragioniere, il quale prende i soldi dalla mondo della sanità, in cambio di? Nella relazione di polizia è chiamata «vicenda Harmann». Succede questo: l’ospedale San Raffaele paga una consulenza alla Harmann Holding, che è, si scoprirà in seguito, una delle società ombra del faccendiere Daccò. Questa consulenza, affermano i detective, «è risultato essere il “copia incolla” di testi, relazioni, report predisposti da personale del San Raffaele al rientro delle proprie trasferte». Daccò aveva preso questi testi non suoi, consegnato «due pagine» striminzite e in cambio il San Raffaele (e chissà che cosa ne pensano oggi i dipendenti sull’orlo del licenziamento) gli aveva pagato 510 mila euro.
Non c’è mai (mai!) una vera consulenza da parte di Daccò, però lui «apriva le porte» in Regione. Sapeva garantire anni di denaro pubblico tramite le relazioni (definite) «apicali». Qui, nell’»eccellente » Lombardia, è così che nella sanità giravano «le cose».
La Repubblica 22.09.12

"Ma dietro la richiesta dei sussidi c’è tutta la debolezza del Lingotto", di Paolo Griseri

A poche ore dall’inizio del vertice di Palazzo Chigi, Sergio Marchionne cala la prima carta sul tavolo: quella del pubblico sussidio all’industria dell’auto. Lo fa con una nota ufficiale in risposta alle affermazioni del ministro Corrado Passera, uno dei principali interlocutori che questa mattina si troverà a dover guardare negli occhi. La prima provocazione era venuta l’altro ieri a San Paolo del Brasile dove Passera, dopo aver visitato gli stabilimenti Fiat, aveva buttato là: «Non c’è scritto da nessuna parte che in Europa non si possa guadagnare
producendo automobili. Ci sono esempi in Europa di aziende che ci riescono. Dobbiamo capire perché la Fiat non mostra risultati altrettanto interessanti ». Considerazioni urticanti
nella loro semplicità. L’ad risponde con l’elenco delle spese fatte dal governo di Brasilia per foraggiare gli stabilimenti del Lingotto. La nota del manager ammette che «considerando l’attuale quadro normativo condizioni di questo genere non sono ottenibili nell’ambito dell’Unione europea». Va osservato che la replica di Marchionne non risponde in realtà alla domanda di Passera che si chiedeva come mai la Fiat non riesca a produrre in modo competitivo «in Europa», e non in Brasile. Inoltre è stato proprio l’ad del Lingotto a porre il problema della 500 L, l’auto prodotta dalla Fiat in Serbia con incentivi e sussidi anche superiori a quelli brasiliani: «Io — ha dichiarato nell’intervista a Repubblica — venderò la 500L a 14.500 euro mentre la Citroen C3 Picasso, che è un competitor, verrà venduta a meno di diecimila per smaltire le giacenze». Perché dunque la Fiat non può comportarsi come i francesi che pagano i loro operai più dei 350 euro dati da Elkann ai suoi dipendenti serbi e riescono a far pagare un modello 5.000 euro di meno? Quali problemi della casa di Torino rendono possibile quel clamoroso divario? La dichiarazione di ieri non servirà probabilmente a rendere disteso il clima di un incontro in cui Marchionne dovrà comunque andare a spiegare che il progetto Fabbrica Italia è fallito e che dunque il Lingotto ha bisogno dell’aiuto di Stato per superare la fase più difficile della crisi senza chiudere stabilimenti o tagliare organici. Probabilmente si tratta di una mossa d’attacco per nascondere l’indubbia condizione di debolezza in cui si trova oggi Marchionne. Costretto a smentire le promesse di tre anni fa, ad ammettere che i sacrifici chiesti ai dipendenti (anche a costo di dolorose lacerazioni tra sindacati) non hanno ottenuto il risultato sperato. E infine a contraddire clamorosamente la filosofia del « Non un soldo dallo stato alla Fiat». Ora che quel denaro il Lingotto sará costretto a chiderlo il governo ha la possibilità di vincolare gli aiuti all’obbligo per la Fiat di mantenere aperti e funzionanti gli stabilimenti italiani. Una ricetta poco liberista? Forse ma è quella degli Stati, dagli Usa alla Germania, dove l’industria dell’auto non rischia di scomparire.

La Repubblica 22.09.12

"Ma dietro la richiesta dei sussidi c’è tutta la debolezza del Lingotto", di Paolo Griseri

A poche ore dall’inizio del vertice di Palazzo Chigi, Sergio Marchionne cala la prima carta sul tavolo: quella del pubblico sussidio all’industria dell’auto. Lo fa con una nota ufficiale in risposta alle affermazioni del ministro Corrado Passera, uno dei principali interlocutori che questa mattina si troverà a dover guardare negli occhi. La prima provocazione era venuta l’altro ieri a San Paolo del Brasile dove Passera, dopo aver visitato gli stabilimenti Fiat, aveva buttato là: «Non c’è scritto da nessuna parte che in Europa non si possa guadagnare
producendo automobili. Ci sono esempi in Europa di aziende che ci riescono. Dobbiamo capire perché la Fiat non mostra risultati altrettanto interessanti ». Considerazioni urticanti
nella loro semplicità. L’ad risponde con l’elenco delle spese fatte dal governo di Brasilia per foraggiare gli stabilimenti del Lingotto. La nota del manager ammette che «considerando l’attuale quadro normativo condizioni di questo genere non sono ottenibili nell’ambito dell’Unione europea». Va osservato che la replica di Marchionne non risponde in realtà alla domanda di Passera che si chiedeva come mai la Fiat non riesca a produrre in modo competitivo «in Europa», e non in Brasile. Inoltre è stato proprio l’ad del Lingotto a porre il problema della 500 L, l’auto prodotta dalla Fiat in Serbia con incentivi e sussidi anche superiori a quelli brasiliani: «Io — ha dichiarato nell’intervista a Repubblica — venderò la 500L a 14.500 euro mentre la Citroen C3 Picasso, che è un competitor, verrà venduta a meno di diecimila per smaltire le giacenze». Perché dunque la Fiat non può comportarsi come i francesi che pagano i loro operai più dei 350 euro dati da Elkann ai suoi dipendenti serbi e riescono a far pagare un modello 5.000 euro di meno? Quali problemi della casa di Torino rendono possibile quel clamoroso divario? La dichiarazione di ieri non servirà probabilmente a rendere disteso il clima di un incontro in cui Marchionne dovrà comunque andare a spiegare che il progetto Fabbrica Italia è fallito e che dunque il Lingotto ha bisogno dell’aiuto di Stato per superare la fase più difficile della crisi senza chiudere stabilimenti o tagliare organici. Probabilmente si tratta di una mossa d’attacco per nascondere l’indubbia condizione di debolezza in cui si trova oggi Marchionne. Costretto a smentire le promesse di tre anni fa, ad ammettere che i sacrifici chiesti ai dipendenti (anche a costo di dolorose lacerazioni tra sindacati) non hanno ottenuto il risultato sperato. E infine a contraddire clamorosamente la filosofia del « Non un soldo dallo stato alla Fiat». Ora che quel denaro il Lingotto sará costretto a chiderlo il governo ha la possibilità di vincolare gli aiuti all’obbligo per la Fiat di mantenere aperti e funzionanti gli stabilimenti italiani. Una ricetta poco liberista? Forse ma è quella degli Stati, dagli Usa alla Germania, dove l’industria dell’auto non rischia di scomparire.
La Repubblica 22.09.12

Bersani: ai gazebo non voglio Batman di Simone Collini

Matteo Renzi lancia la proposta di ridurre di 100 euro al mese le tasse dei lavoratori dipendenti che ne guadagnano meno di 2000 netti, ma a tenere banco nel confronto per le primarie è ancora la polemica sull’opportunità o meno di creare un albo degli elettori. Roberto Reggi è convinto che questo strumento sia stato pensato appositamente per «fregare» il sindaco di Firenze, e se dal comitato Bersani spiegano che si tratterebbe di un filtro per evitare incursioni di elettori di centrodestra che falsino il risultato delle primarie, il coordinatore della campagna di Renzi dice che solo «formalmente» questo è l’obiettivo e che comunque è lecito «per uno che ha votato centrodestra una volta o anche dieci partecipare». Dice Reggi, riferendosi all’ipotesi di registrare i dati di chi andrà ai gazebo e di far firmare una liberatoria per la privacy, che mettere «una barriera all’ingresso» sarebbe un colpo alla partecipazione e che un’eventuale pubblicazione dei nomi sarebbe «una pratica discriminante»: «Così si impedisce a quelli che non fanno parte di un partito di andare a votare, ci sono professionisti che non vogliono essere catalogati nel centrosinistra perché temono di perdere tutti i clienti che votano dall’altra parte».

Chi per conto dei comitati Bersani sta mantenendo il dialogo sulle regole con il fronte renziano ricorda che anche per le precedenti primarie (2005 e 2007) gli elettori dovevano comunicare i propri dati e mostrare un documento, prima di ricevere la scheda su cui votare. Per non parlare dell’albo a cui è necessario registrarsi preventivamente per partecipare alle primarie degli Stati Uniti o della Francia. «Faccio presente a Reggi che ci accingiamo a cambiare lo statuto del partito per consentire a Renzi di candidarsi – dice Davide Zoggia, membro della segreteria Pd – e vorrei ricordare poi che, come dimostrano la storia e la pratica delle primarie in America e in Francia, la registrazione dei votanti da nessuno viene intesa come ostacolo o imbroglio. Né Obama né Romney si sognerebbero mai di criticare l’albo degli elettori».

NORME ANTI-INFILTRAZIONI

Ma è lo stesso Bersani, parlando alla scuola di politica del Pd a Cortona, a respingere al mittente l’accusa di voler imporre regole che sanno di «schedatura da regime comunista», come Reggi ha detto nell’intervista a l’Unità. «Sono stalinista se dico che non voglio trovarmi Batman a votare alle primarie con qualche decina di migliaia di sue preferenze?», dice il leader del Pd facendo riferimento all’ex capogruppo del Pdl alla Regione Lazio Franco Fiorito. «La regola delle primarie sarà “no Batman” e qualche decina di migliaia di preferenze che ha preso. Voglio alcuni principi per la ditta».

Bersani le primarie le vuole fare, e senza rete, scontrandosi per questo con Rosy Bindi – che è contraria a modificare lo Statuto per permettere a Renzi di partecipare, mentre dopo un lungo colloquio col leader Pd sembra aver rinunciato all’idea di correre in prima persona – attirandosi addosso le critiche di Beppe Fioroni («io vorrei vincere, molti cercano solo buon risultato alle primarie per sé, Vendola esclude l’alleanza con Casini mentre Bersani dice che il Pd deve allearsi con l’Udc, questa è una situazione insopportabile e Bersani non può far il pesce in barile, serve un chiarimento»), suscitando la preoccupazione di Walter Veltroni («il rischio di farsi del male da soli è molto forte») e creando non pochi malumori nella componente che fa capo a Dario Franceschini e Piero Fassino (favorevole a un albo a cui registrarsi preventivamente e contraria a ingaggiare il Pd nella sfida delle primarie prima ancora che si sappia con che tipo di legge elettorale si andrà a votare).

Perplessità, critiche, timori a cui Bersani risponde chiedendo più «coraggio»: «So benissimo che ci accolliamo dei rischi, ma faremo questa esperienza e diremo al Paese “noi abbiamo fatto così, cosa fanno gli altri per la buona politica?”. Senza metterci in gioco non possiamo comunicare niente». E poi, con chiaro riferimento a Renzi (che sarà votato anche dal responsabile Progetti culturali del Pd Domenico Petrolo, primo a rompere su questo il silenzio del Nazareno): «Per rinnovare non c’è bisogno di rottamare. Si può rinnovare senza sradicare, si rottamano le macchine non le persone e la storia».

RIDUZIONE DELLE TASSE E ALLEANZE

Il sindaco di Firenze, che a una settimana dall’uscita di Verona in camper ha incassato 20 mila euro di donazioni on line, sa però che non può giocare soltanto la carta del rinnovamento, e lancia la proposta di ridurre di 100 euro al mese le tasse per i lavoratori dipendenti che ne guadagnano meno di 2 mila netti. Un intervento che può essere finanziato, spiega Renzi sul suo sito web, riducendo del 10% della spesa pubblica «intermediata», pari a 215 miliardi, composta da spesa per acquisto di beni e servizi della pubblica amministrazione (+135% in 30 anni), investimenti (40% più della Ger- mania tra 2000 e 2012) e incentivi alle imprese (40 miliardi all’anno). «Noi chiediamo un confronto sui problemi reali, che non riguardano eventuali accordi con Casini, Vendola o Di Pietro, ma la diminuzione del potere d’acquisto».

Ma neanche Bersani vuole impegnarsi in una discussione sulle alleanze. E a Di Pietro, che dalla festa Idv fa sapere di essere disposto a «qualche passo indietro» pur di dar vita a una coalizione col Pd, il segretario democratico risponde: «Di passi indietro di Di Pietro ne ho visti molti, nell’ultimo anno fin troppi, quasi non si è più fatto vedere all’orizzonte».

L’Unità 22.09.12

Giornalisti: Ghizzoni, carcere per Sallusti incompatibile con stato di diritto

In Commissione Cultura provvedimenti per revisione norme. “L’ipotesi di carcerazione per reati di opinione non è compatibile con uno Stato di diritto. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della camera dei Deputati, commentando la notizia, annunciata dal quotidiano “Il Giornale”, della condanna a 14 mesi del direttore Alessandro Sallusti. – Da presidente della commissione Cultura farò quanto è in mio potere per avviare procedimenti che impegnino il Parlamento ed il Governo ad una revisione delle norme penali vigenti per i reati commessi nell’esercizio della professione giornalistica, a partire dal reato d’opinione.”

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“QUANDO UN DIRETTORE RISCHIA LA GALERA”, di Giovanni Valentini

Qui però non si tratta soltanto di una divergenza d’opinioni, di un dissenso politico o culturale. Né tantomeno di una malintesa solidarietà professionale, da manifestare a un collega come un obbligo di categoria o una difesa d’ufficio. La vicenda tocca un nervo scoperto del rapporto fra giustizia e informazione, coinvolgendo tutti noi cittadini di questa Repubblica.
Il rischio che mercoledì prossimo il direttore del «Giornale» possa finire in carcere per un articolo scritto da un altro giornalista nel 2007, quando lo stesso Sallusti era reggente di «Libero» e ne aveva quindi la cosiddetta responsabilità oggettiva, rappresenta un’aberrazione giuridica che non può appartenere alla civiltà del Diritto. Non è solo malata una giustizia in grado di produrre una tale mostruosità. È una giustizia che contraddice e nega se stessa, la propria legittimazione democratica, la propria autorevolezza e credibilità.
Rispetto al principio fondamentale per cui la responsabilità penale è necessariamente personale, appare già di per sé mostruoso l’istituto della responsabilità oggettiva che incombe sul direttore giornale, per tutto ciò che viene scritto e pubblicato, anche indipendentemente dalla sua impossibilità fisica o materiale di controllarne il contenuto. È una presunzione giuridica ormai inaccettabile, un automatismo intimidatorio e vessatorio, che configura una forma indiretta di censura preventiva. E rappresenta perciò una grave limitazione – questa sì, davvero oggettiva – alla libertà di stampa.
Anche il diritto d’informazione, inteso come diritto dei cittadini a essere informati più che dei giornalisti a informare, dev’essere sottoposto naturalmente a regole e limiti. A cominciare dal rispetto dell’onore e della reputazione altrui. E quando la pubblicazione di una notizia o di un articolo supera indebitamente questo confine, il Codice contempla il reato di diffamazione, con la possibilità di comminare pene pecuniarie o anche di stabilire un risarcimento sul piano civile.
Ma in un Paese democratico non è ammissibile che nel caso di un reato d’opinione, cioè di un reato che si realizza attraverso la manifestazione di una tesi o di un giudizio, si arrivi a sanzionare tali comportamenti addirittura con il carcere. C’è un’evidente sproporzione tra l’offesa e la difesa, tra il danno prodotto da un’azione diffamatoria e la privazione ancorché temporanea della libertà personale. Oltre a ripristinare l’onore e la reputazione altrui, la «giustizia giusta» è tenuta a punire il responsabile con rigore ed equità, senza spirito di vendetta o di persecuzione.
Sono dunque norme liberticide quelle che ora minacciano di mandare in cella Sallusti, per un reato che lui non ha commesso o peggio ancora per un disguido procedurale in cui sarebbero incorsi i suoi difensori. Già in un’altra occasione è dovuto intervenire il Capo dello Stato con un provvedimento di grazia, per evitare il carcere al collega Lino Jannuzzi. Ma nel frattempo il Parlamento non è stato ancora capace di riformare questa assurda disciplina che minaccia l’esercizio della libertà di stampa. Tocca perciò al ministro della Giustizia, Paola Severino, penalista di grande esperienza e prestigio, trovare adesso una soluzione corretta e ragionevole, per impedire che «in nome del popolo italiano» un cittadino giornalista venga condannato alla reclusione.
Il «caso Sallusti» ripropone però all’attenzione un altro aspetto delicato del rapporto fra giustizia e informazione, troppo a lungo trascurato, ma non meno grave e preoccupante. Quello del trattamento privilegiato di cui spesso godono i magistrati da parte dei loro stessi colleghi, quando ritengono di difendersi in tribunale dalle critiche o dalle accuse dei giornali. Processi con «corsie preferenziali», sentenze-lampo ed esemplari, risarcimenti abnormi. Anche questa è una forma di intimidazione, tanto più inquietante perché subdola e occulta.
Non risulta, invece, che i magistrati siano mai condannati a risarcire direttamente qualcuno, neppure quando sbagliano nello svolgimento delle loro funzioni o vengono riconosciuti colpevoli addirittura di «dolo soggettivo». Al posto loro, semmai, paga il ministero di Grazia e Giustizia. Cioè noi stessi, cittadini e contribuenti, che dovremmo essere il «popolo sovrano ».
Nel nostro sciagurato Paese, collocato non a caso agli ultimi posti nelle graduatorie mondiali della libertà d’informazione, sono già troppi i vincoli e i condizionamenti che gravano sulla stampa. Non c’è bisogno di mandare in galera i giornalisti per difendere l’onore e la reputazione di nessuno. E neppure di riservare trattamenti di favore ai magistrati, come se fossero una casta di intoccabili, per tutelare le prerogative di una categoria composta da tanti rispettabili servitori dello Stato

La Repubblica 22.09.12

Quei miti andati in frantumi", di Mario Calabresi

Tre certezze ci hanno guidato in questi ultimi anni dominati dal malgoverno e dalla corruzione, erano tre pilastri su cui abbiamo pensato fosse possibile costruire una politica nuova: prima di tutto il federalismo, con la dote della maggiore vicinanza degli eletti agli elettori che rende possibile un controllo più serrato, poi il ricambio generazionale, con l’ingresso di giovani e volti nuovi non compromessi, infine una nuova legge elettorale per restituire il potere di scelta ai cittadini, con l’auspicato ritorno delle preferenze.

Gli scandali delle ultime settimane e, in particolare, quest’ultimo della Regione Lazio, sbriciolano queste certezze, mostrandoci come federalismo, giovani e preferenze non garantiscano di per sé alcuna redenzione del sistema se non preceduti da una riforma dei meccanismi della politica che metta al centro la trasparenza e il principio di responsabilità.

Partiamo dal federalismo: senza controlli, senza procedure chiare e facilmente verificabili, sprechi e scandali proliferano al centro come in periferia, sono possibili nel Parlamento nazionale come in un Consiglio comunale.

Se non ci sono meccanismi di vigilanza e sanzioni immediate e certe non fa differenza che i centri decisionali siano accanto a casa nostra o a centinaia di chilometri di distanza. E i privilegi non abitano solo a Montecitorio ma possono essere anche locali, basti sapere che il caffè al bar interno del Consiglio regionale del Lazio costa solo 45 centesimi (un panino un euro…) contro gli 80 di Camera e Senato.

Allo stesso modo se il sistema permette di arricchirsi e di fare la bella vita con i soldi pubblici allora ne saranno attratti i furbi e i gaglioffi di ogni età. Avete guardato le biografie dei personaggi coinvolti nel banchetto laziale? È pieno di facce giovani e pulite, baldanzosi trentenni che hanno immediatamente preso il vizio di usare le tasse dei cittadini per pagare servizi fotografici, interviste televisive, automobili, pranzi e cene. Forse anche inebriati dalle cifre senza senso che vengono garantite ai consiglieri regionali (Francesco Fiorito, ormai famoso alle cronache come «er Batman di Anagni», ha spiegato ai magistrati di guadagnare 30 mila euro al mese sommando le indennità regionali, più di Napolitano e Monti messi insieme).

Essere giovani non significa necessariamente essere onesti e il ricambio generazionale ha un senso solo se la casa viene ripulita prima di dare ospitalità a nuovi occupanti e se questi mostrano di essere fatti di una pasta diversa. Per scoraggiare approfittatori e sciacalli in cerca di scorciatoie verso la ricchezza basterebbe ridurre drasticamente stipendi e indennità così da spingere in politica chi ha a cuore la cosa pubblica più di chi ha a cuore il proprio portafoglio.

Veniamo infine alla legge elettorale: Fiorito, così come l’esponente romano del Pdl Samuele Piccolo coinvolto in un altro scandalo di fatture false poche settimane fa, erano campioni assoluti delle preferenze, candidati capaci di accaparrarsene decine di migliaia proprio grazie ad un uso disinvolto dei fondi pubblici o a macchine elettorali costruite con metodi poco raccomandabili.

Vent’anni fa le preferenze vennero abolite, grazie a un referendum, proprio perché erano volàno di malaffare (oltre a far lievitare in modo astronomico i costi della politica), stiamo attenti oggi a non illuderci che rimetterle significhi eleggere i migliori. Ai cittadini va garantito il diritto di scelta ma questo si può ben fare anche con i collegi uninominali dove a sfidarsi sono i candidati dei vari partiti, auspicabilmente scelti con il meccanismo delle primarie.

Perché il sistema funzioni è però necessario che non solo i cittadini ma anche l’informazione svolga il suo ruolo di controllore, di «cane da guardia» del potere. Se però scopriamo che in molte realtà locali i politici hanno l’usanza di fare veri e propri contratti con le televisioni, versando migliaia di euro in cambio di interviste, allora si capisce che il meccanismo di controllo non esiste più.

Il ricambio italiano nasce da un’assunzione di responsabilità individuale che deve coinvolgere tutti, politici, giornalisti, insegnanti, imprenditori e semplici elettori, perché ognuno deve imparare a mettere davanti l’interesse generale, a pretendere senso di responsabilità ma anche a essere responsabile.

La Stampa 22.09.12