Tre certezze ci hanno guidato in questi ultimi anni dominati dal malgoverno e dalla corruzione, erano tre pilastri su cui abbiamo pensato fosse possibile costruire una politica nuova: prima di tutto il federalismo, con la dote della maggiore vicinanza degli eletti agli elettori che rende possibile un controllo più serrato, poi il ricambio generazionale, con l’ingresso di giovani e volti nuovi non compromessi, infine una nuova legge elettorale per restituire il potere di scelta ai cittadini, con l’auspicato ritorno delle preferenze.
Gli scandali delle ultime settimane e, in particolare, quest’ultimo della Regione Lazio, sbriciolano queste certezze, mostrandoci come federalismo, giovani e preferenze non garantiscano di per sé alcuna redenzione del sistema se non preceduti da una riforma dei meccanismi della politica che metta al centro la trasparenza e il principio di responsabilità.
Partiamo dal federalismo: senza controlli, senza procedure chiare e facilmente verificabili, sprechi e scandali proliferano al centro come in periferia, sono possibili nel Parlamento nazionale come in un Consiglio comunale.
Se non ci sono meccanismi di vigilanza e sanzioni immediate e certe non fa differenza che i centri decisionali siano accanto a casa nostra o a centinaia di chilometri di distanza. E i privilegi non abitano solo a Montecitorio ma possono essere anche locali, basti sapere che il caffè al bar interno del Consiglio regionale del Lazio costa solo 45 centesimi (un panino un euro…) contro gli 80 di Camera e Senato.
Allo stesso modo se il sistema permette di arricchirsi e di fare la bella vita con i soldi pubblici allora ne saranno attratti i furbi e i gaglioffi di ogni età. Avete guardato le biografie dei personaggi coinvolti nel banchetto laziale? È pieno di facce giovani e pulite, baldanzosi trentenni che hanno immediatamente preso il vizio di usare le tasse dei cittadini per pagare servizi fotografici, interviste televisive, automobili, pranzi e cene. Forse anche inebriati dalle cifre senza senso che vengono garantite ai consiglieri regionali (Francesco Fiorito, ormai famoso alle cronache come «er Batman di Anagni», ha spiegato ai magistrati di guadagnare 30 mila euro al mese sommando le indennità regionali, più di Napolitano e Monti messi insieme).
Essere giovani non significa necessariamente essere onesti e il ricambio generazionale ha un senso solo se la casa viene ripulita prima di dare ospitalità a nuovi occupanti e se questi mostrano di essere fatti di una pasta diversa. Per scoraggiare approfittatori e sciacalli in cerca di scorciatoie verso la ricchezza basterebbe ridurre drasticamente stipendi e indennità così da spingere in politica chi ha a cuore la cosa pubblica più di chi ha a cuore il proprio portafoglio.
Veniamo infine alla legge elettorale: Fiorito, così come l’esponente romano del Pdl Samuele Piccolo coinvolto in un altro scandalo di fatture false poche settimane fa, erano campioni assoluti delle preferenze, candidati capaci di accaparrarsene decine di migliaia proprio grazie ad un uso disinvolto dei fondi pubblici o a macchine elettorali costruite con metodi poco raccomandabili.
Vent’anni fa le preferenze vennero abolite, grazie a un referendum, proprio perché erano volàno di malaffare (oltre a far lievitare in modo astronomico i costi della politica), stiamo attenti oggi a non illuderci che rimetterle significhi eleggere i migliori. Ai cittadini va garantito il diritto di scelta ma questo si può ben fare anche con i collegi uninominali dove a sfidarsi sono i candidati dei vari partiti, auspicabilmente scelti con il meccanismo delle primarie.
Perché il sistema funzioni è però necessario che non solo i cittadini ma anche l’informazione svolga il suo ruolo di controllore, di «cane da guardia» del potere. Se però scopriamo che in molte realtà locali i politici hanno l’usanza di fare veri e propri contratti con le televisioni, versando migliaia di euro in cambio di interviste, allora si capisce che il meccanismo di controllo non esiste più.
Il ricambio italiano nasce da un’assunzione di responsabilità individuale che deve coinvolgere tutti, politici, giornalisti, insegnanti, imprenditori e semplici elettori, perché ognuno deve imparare a mettere davanti l’interesse generale, a pretendere senso di responsabilità ma anche a essere responsabile.
La Stampa 22.09.12
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"La deriva del capitalismo", di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini
Le mille argomentazioni per spiegare la crisi in cui sono immersi i paesi occidentali da cinque anni a questa parte non ci appaiono molto convincenti e, come ha ricordato Vladimiro Giacché, riportano alla mente le giustificazioni di John Belushi nel film dei
Blues Blothers. Per convincere l’ex fidanzata abbandonata sull’altare a non ammazzarlo, Belushi dice: «Quel giorno finì la benzina. Si bucò un pneumatico. Non avevo i soldi per il taxi! Il mio smoking non era arrivato in tempo dalla tintoria! Era venuto a trovarmi da lontano un amico che non vedevo da anni! Qualcuno mi rubò la macchina! Ci fu un terremoto! Una tremenda inondazione! Un’invasione di cavallette!».
Alle mille spiegazioni della crisi, noi ne aggiungiamo un’altra: la liberazione del movimento dei capitali, che, all’inizio degli anni ’80, pose fine al grande compromesso di Bretton Woods fondato appunto sul divieto di circolazione dei capitali a cui faceva da contrappeso la libertà di circolazione delle merci.
Lo strappo effettuato dai due leader conservatori, Reagan negli Stati Uniti e Thatcher in Inghilterra, determinò un completo rovesciamento dei rapporti di forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia poiché creò una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei confronti degli stati nazionali. Da quel momento la capacità di intervento dello Stato nell’economia andò incontro ad un drastico ridimensionamento, mentre i lavoratori cominciarono a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive. La liberazione dei capitali rappresentò dunque la mossa decisiva che influenzò l’evoluzione dell’economia mondiale e diede l’avvio alla fase del capitalismo finanziario.
A dire la verità, anche nell’opinione degli economisti classici la libertà dei movimenti di capitale non era stata sempre vista di buon occhio. Un grande pensatore come David Ricardo aveva ammonito sui pericoli inerenti alle loro libere scorribande. I capitali, aveva sostanzialmente osservato, non sono valigie trasportabili indifferentemente da un punto all’altro del
mondo: sono elementi essenziali del contesto sociale il cui spostamento non può non determinare conseguenze rilevanti nella sorte della stessa coesione sociale. Per questi motivi sradicare e trasferire i capitali in qualsiasi parte del mondo senza il consenso della comunità non può essere considerato un comportamento virtuoso.
Ma ci sono anche altre conseguenze molto importanti, poiché si crea un mercato finanziario integrato che consente al capitale di tutto il mondo di entrare in collegamento e di dar luogo “all’internazionale dei capitalisti”, un’élite globale che concentra in sé un potere immenso. L’appello di Karl Marx, “proletari di tutto il mondo unitevi”, si realizza, ma al contrario. I mercati finanziari diventano un’istituzione strutturata e iniziano ad esprimersi come i governi. È ben noto, infatti, che a Wall Street si tengono riunioni periodiche dei capi delle grandi banche e delle società finanziarie che stabiliscono i tassi di interesse e, attraverso le decisioni di investimento o di disinvestimento, possono sfiduciare i governi che attuano politiche economiche non gradite e sono in grado di condizionare il destino di intere popolazioni.
Il mutamento del rapporto di forza tra il capitale e gli altri fattori di produzione da una parte e tra il capitalismo e il governo democratico dall’altra, rappresentano due fattori fondamentali che sono alla radice del processo di finanziarizzazione.
Ma c’è anche un altro motivo, l’enorme concorrenza che si stabilisce dopo la liberazione dei movimenti di capitale tra i capitalismi nazionali e il mercato finanziario internazionale. Questa concorrenza acuisce e aumenta l’importanza del profitto nell’ambito della struttura economica. Nell’impresa i fattori legati al profitto riprendono una posizione dominante e con essi la distribuzione di dividendi agli azionisti e la ricerca continua dell’incremento delle quotazioni
azionarie, indice supremo di efficienza e di forza. I finanzieri conquistano così un ruolo centrale nella gestione delle grandi unità produttive imponendo la loro visione del mondo rappresentata dal guadagno immediato da ottenere con ogni mezzo.
Questa è la situazione che dobbiamo rovesciare se vogliamo realmente uscire dalla crisi. Le recenti decisioni della Banca Centrale Europea sugli interventi “antispread” rappresentano un primo passo importante per ricostruire la sovranità monetaria dell’Unione Europea e per ridimensionare l’influenza della speculazione finanziaria sulle politiche economiche dei paesi in difficoltà. Ormai è evidente a tutti che i mercati finanziari rappresentano un potentissimo amplificatore delle fisiologiche fluttuazioni cicliche poiché innescano dei meccanismi cumulativi che si autoalimentano. Quando c’è crescita i mercati gettano benzina sul fuoco e amplificano l’espansione, ma quando c’è crisi i mercati spingono l’economia verso la depressione. Per questo è necessario fare ben di più: la politica deve tornare a fissare le regole fondamentali dei movimenti di capitale a livello mondiale. Occorre una nuova Bretton Woods, questa volta nel segno di Keynes. Non è una riforma. È una rivoluzione.
La Repubblica 22.09.12
"La deriva del capitalismo", di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini
Le mille argomentazioni per spiegare la crisi in cui sono immersi i paesi occidentali da cinque anni a questa parte non ci appaiono molto convincenti e, come ha ricordato Vladimiro Giacché, riportano alla mente le giustificazioni di John Belushi nel film dei
Blues Blothers. Per convincere l’ex fidanzata abbandonata sull’altare a non ammazzarlo, Belushi dice: «Quel giorno finì la benzina. Si bucò un pneumatico. Non avevo i soldi per il taxi! Il mio smoking non era arrivato in tempo dalla tintoria! Era venuto a trovarmi da lontano un amico che non vedevo da anni! Qualcuno mi rubò la macchina! Ci fu un terremoto! Una tremenda inondazione! Un’invasione di cavallette!».
Alle mille spiegazioni della crisi, noi ne aggiungiamo un’altra: la liberazione del movimento dei capitali, che, all’inizio degli anni ’80, pose fine al grande compromesso di Bretton Woods fondato appunto sul divieto di circolazione dei capitali a cui faceva da contrappeso la libertà di circolazione delle merci.
Lo strappo effettuato dai due leader conservatori, Reagan negli Stati Uniti e Thatcher in Inghilterra, determinò un completo rovesciamento dei rapporti di forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia poiché creò una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei confronti degli stati nazionali. Da quel momento la capacità di intervento dello Stato nell’economia andò incontro ad un drastico ridimensionamento, mentre i lavoratori cominciarono a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive. La liberazione dei capitali rappresentò dunque la mossa decisiva che influenzò l’evoluzione dell’economia mondiale e diede l’avvio alla fase del capitalismo finanziario.
A dire la verità, anche nell’opinione degli economisti classici la libertà dei movimenti di capitale non era stata sempre vista di buon occhio. Un grande pensatore come David Ricardo aveva ammonito sui pericoli inerenti alle loro libere scorribande. I capitali, aveva sostanzialmente osservato, non sono valigie trasportabili indifferentemente da un punto all’altro del
mondo: sono elementi essenziali del contesto sociale il cui spostamento non può non determinare conseguenze rilevanti nella sorte della stessa coesione sociale. Per questi motivi sradicare e trasferire i capitali in qualsiasi parte del mondo senza il consenso della comunità non può essere considerato un comportamento virtuoso.
Ma ci sono anche altre conseguenze molto importanti, poiché si crea un mercato finanziario integrato che consente al capitale di tutto il mondo di entrare in collegamento e di dar luogo “all’internazionale dei capitalisti”, un’élite globale che concentra in sé un potere immenso. L’appello di Karl Marx, “proletari di tutto il mondo unitevi”, si realizza, ma al contrario. I mercati finanziari diventano un’istituzione strutturata e iniziano ad esprimersi come i governi. È ben noto, infatti, che a Wall Street si tengono riunioni periodiche dei capi delle grandi banche e delle società finanziarie che stabiliscono i tassi di interesse e, attraverso le decisioni di investimento o di disinvestimento, possono sfiduciare i governi che attuano politiche economiche non gradite e sono in grado di condizionare il destino di intere popolazioni.
Il mutamento del rapporto di forza tra il capitale e gli altri fattori di produzione da una parte e tra il capitalismo e il governo democratico dall’altra, rappresentano due fattori fondamentali che sono alla radice del processo di finanziarizzazione.
Ma c’è anche un altro motivo, l’enorme concorrenza che si stabilisce dopo la liberazione dei movimenti di capitale tra i capitalismi nazionali e il mercato finanziario internazionale. Questa concorrenza acuisce e aumenta l’importanza del profitto nell’ambito della struttura economica. Nell’impresa i fattori legati al profitto riprendono una posizione dominante e con essi la distribuzione di dividendi agli azionisti e la ricerca continua dell’incremento delle quotazioni
azionarie, indice supremo di efficienza e di forza. I finanzieri conquistano così un ruolo centrale nella gestione delle grandi unità produttive imponendo la loro visione del mondo rappresentata dal guadagno immediato da ottenere con ogni mezzo.
Questa è la situazione che dobbiamo rovesciare se vogliamo realmente uscire dalla crisi. Le recenti decisioni della Banca Centrale Europea sugli interventi “antispread” rappresentano un primo passo importante per ricostruire la sovranità monetaria dell’Unione Europea e per ridimensionare l’influenza della speculazione finanziaria sulle politiche economiche dei paesi in difficoltà. Ormai è evidente a tutti che i mercati finanziari rappresentano un potentissimo amplificatore delle fisiologiche fluttuazioni cicliche poiché innescano dei meccanismi cumulativi che si autoalimentano. Quando c’è crescita i mercati gettano benzina sul fuoco e amplificano l’espansione, ma quando c’è crisi i mercati spingono l’economia verso la depressione. Per questo è necessario fare ben di più: la politica deve tornare a fissare le regole fondamentali dei movimenti di capitale a livello mondiale. Occorre una nuova Bretton Woods, questa volta nel segno di Keynes. Non è una riforma. È una rivoluzione.
La Repubblica 22.09.12
Mirandola (Mo) – Festa Pd – Tavola rotonda: ricostruiamo la nostra scuola
(centro anziani) – Via Mazzone2
con: Manuela Ghizzoni, Mariangela Bastico, Elena Malaguti, Lara Cavicchioli, Giorgio Siena.
Vignola (Mo) – Cerimonia di conferimento Pubbliche Benemerenze della Direzione Didattica di Vignola
Sala Melvin Jones – Scuola Primaria “G. Mazzini” Viale Mazzini, 18 – Vignola
Presiede: Omer Bonezzi – Dirigente Scolastico della Direzione Didattica di Vignola
Saluti: Daria Denti – Sindaco di Vignola
Francesca Basile – Assessore all’Istruzione del Comune di Vignola
Francesco Lamandini – Assessore all’Istruzione dell’Unione Terre di Castelli Fabio Tribolati – Presidente Consiglio di Circolo
Relazione:
on. Manuela Ghizzoni – Presidente della Commissione Cultura ed Istruzione della Camera dei Deputati
"Marchionne e quella proposta indecente", di Raffaella Cascioli
Cassa integrazione in deroga per superare la fase di transizione e aiuti europei in funzione anticrisi per “sterilizzare” il mercato comunitario. La “proposta indecente” che l’amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne si accingerebbe a mettere sul tavolo del governo nell’incontro di sabato con il presidente del consiglio Mario Monti presenta più di un’incognita, sia in tema di copertura finanziaria sul possibile accesso a nuovi ammortizzatori sociali sia sul fronte della strategia comunitaria.
Nel primo caso, con la cassa integrazione ordinaria e straordinaria agli sgoccioli e già “prenotata” per il prossimo ottobre in diversi siti produttivi, quel che Sergio l’amerikano si accinge a chiedere al governo con il ricatto occupazionale della chiusura di uno o più stabilimenti, è un sostegno nella fase di transizione. Una fase che rischia di prolungarsi ben oltre la fine di quest’anno visto che anche per il prossimo c’è chi vede nero per il mercato dell’auto. E non solo. I modi del top manager, stile uno «che non deve chiedere mai», non devono trarre in inganno visti i sussidi incassati negli Usa e quelli oggi dilazionati in Serbia.
Tuttavia, la cassa integrazione in deroga pone più di un problema ad un governo che proprio ieri ha dovuto correggere i dati macroeconomici nella nota di aggiornamento al Def, prendendo atto di un peggioramento della congiuntura ben oltre le stime primaverili (-1,2%). A fronte di un Pil 2012 crollato del 2,4% e di una crescita negativa per il 2013 dello 0,2%, oltre che al netto dell’impegno al pareggio di bilancio nel 2013 confermato anche ieri, il margine di manovra dell’esecutivo è estremamente ridotto. Tanto più alla luce del decreto sviluppo per 400 milioni di euro che ha fatto ieri un primo giro di tavolo in consiglio dei ministri in vista del varo la prossima settimana.
Tuttavia, se sul piatto della bilancia si mette il milione di posti di lavoro a rischio (tra gruppo Fiat e indotto) per un’eventuale uscita del gruppo dal suolo natìo, si capisce come il governo possa essere tentato di scendere a patti. Magari avendo rassicurazioni circa le preoccupazioni – torinesi ma non solo – di uno svuotamento della testa del gruppo con lo spostamento della progettazione e dei ruoli strategici da Torino a Detroit. Un incontro, quello di sabato, tutt’altro che interlocutorio se il ministro Fornero ha avvertito che «non sarà un monologo ma un dialogo» e il premier Monti si attende un confronto produttivo e significativo.
Più complicata l’altra faccia della medaglia. Nonostante, in questo caso, non ci sia nessuno in Europa – ad eccezione di Monti – in grado di riuscire a portare a casa quella che per Marchionne & Co. sarebbe senza dubbio la partita più grande. Sergio l’amerikano che a Detroit è uno di loro tanto da fare convention oceaniche con i concessionari Chrysler, in Europa si muove come un elefante in una cristalleria. Lo ha fatto con gli altri costruttori automobilistici, tanto da essere quasi messo alla porta dai tedeschi.
Monti è invece un uomo europeo, è un ex commissario alla concorrenza, sa su quali tasti battere e soprattutto l’intesa sul fronte della crescita con il presidente francese Hollande (che pure ha problemi con il gruppo Psa Peugeot) potrebbe portare risultati anche sul mercato europeo dell’auto. Ma Monti, che vede la ripresa, sottolinea che l’incontro con i vertici Fiat avviene «per coincidenza temporale e anche logica» in contemporanea con il confronto con le parti sociali sulla produttività. Marchionne è avvertito.
da Europa Quotidiano 21.09.12
"Marchionne e quella proposta indecente", di Raffaella Cascioli
Cassa integrazione in deroga per superare la fase di transizione e aiuti europei in funzione anticrisi per “sterilizzare” il mercato comunitario. La “proposta indecente” che l’amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne si accingerebbe a mettere sul tavolo del governo nell’incontro di sabato con il presidente del consiglio Mario Monti presenta più di un’incognita, sia in tema di copertura finanziaria sul possibile accesso a nuovi ammortizzatori sociali sia sul fronte della strategia comunitaria.
Nel primo caso, con la cassa integrazione ordinaria e straordinaria agli sgoccioli e già “prenotata” per il prossimo ottobre in diversi siti produttivi, quel che Sergio l’amerikano si accinge a chiedere al governo con il ricatto occupazionale della chiusura di uno o più stabilimenti, è un sostegno nella fase di transizione. Una fase che rischia di prolungarsi ben oltre la fine di quest’anno visto che anche per il prossimo c’è chi vede nero per il mercato dell’auto. E non solo. I modi del top manager, stile uno «che non deve chiedere mai», non devono trarre in inganno visti i sussidi incassati negli Usa e quelli oggi dilazionati in Serbia.
Tuttavia, la cassa integrazione in deroga pone più di un problema ad un governo che proprio ieri ha dovuto correggere i dati macroeconomici nella nota di aggiornamento al Def, prendendo atto di un peggioramento della congiuntura ben oltre le stime primaverili (-1,2%). A fronte di un Pil 2012 crollato del 2,4% e di una crescita negativa per il 2013 dello 0,2%, oltre che al netto dell’impegno al pareggio di bilancio nel 2013 confermato anche ieri, il margine di manovra dell’esecutivo è estremamente ridotto. Tanto più alla luce del decreto sviluppo per 400 milioni di euro che ha fatto ieri un primo giro di tavolo in consiglio dei ministri in vista del varo la prossima settimana.
Tuttavia, se sul piatto della bilancia si mette il milione di posti di lavoro a rischio (tra gruppo Fiat e indotto) per un’eventuale uscita del gruppo dal suolo natìo, si capisce come il governo possa essere tentato di scendere a patti. Magari avendo rassicurazioni circa le preoccupazioni – torinesi ma non solo – di uno svuotamento della testa del gruppo con lo spostamento della progettazione e dei ruoli strategici da Torino a Detroit. Un incontro, quello di sabato, tutt’altro che interlocutorio se il ministro Fornero ha avvertito che «non sarà un monologo ma un dialogo» e il premier Monti si attende un confronto produttivo e significativo.
Più complicata l’altra faccia della medaglia. Nonostante, in questo caso, non ci sia nessuno in Europa – ad eccezione di Monti – in grado di riuscire a portare a casa quella che per Marchionne & Co. sarebbe senza dubbio la partita più grande. Sergio l’amerikano che a Detroit è uno di loro tanto da fare convention oceaniche con i concessionari Chrysler, in Europa si muove come un elefante in una cristalleria. Lo ha fatto con gli altri costruttori automobilistici, tanto da essere quasi messo alla porta dai tedeschi.
Monti è invece un uomo europeo, è un ex commissario alla concorrenza, sa su quali tasti battere e soprattutto l’intesa sul fronte della crescita con il presidente francese Hollande (che pure ha problemi con il gruppo Psa Peugeot) potrebbe portare risultati anche sul mercato europeo dell’auto. Ma Monti, che vede la ripresa, sottolinea che l’incontro con i vertici Fiat avviene «per coincidenza temporale e anche logica» in contemporanea con il confronto con le parti sociali sulla produttività. Marchionne è avvertito.
da Europa Quotidiano 21.09.12
