Latest Posts

"La solidarietà che serve all'Italia", di Stefano Lepri

Risanare l’Italia sarà un lavoro lungo, e il mondo non ci aiuta. Le nuove previsioni economiche approvate ieri dal governo sono onestamente cupe, una scelta di verità. Confermano che l’uscita dalla recessione è lontana; i primi segni di recupero li vedremo l’estate prossima. E’ purtroppo inevitabile che altri posti di lavoro spariscano. Il piano Draghi ha salvato l’area euro dal tracollo, ma è arrivato troppo tardi per frenare una caduta dell’attività che prosegue in tutti i Paesi membri, meno grave soltanto in Germania. Negli Usa la ripresa continua a stentare, e non va bene nemmeno la Cina, il cui modello di sviluppo travolgente ormai mostra crepe difficili da rappezzare.

In questa crisi epocale, l’Italia è uno dei punti di maggiore fragilità. Le speranze non sono perdute: il ritorno in attivo dei conti con l’estero prova che di dinamismo nel nostro sistema produttivo ce n’è ancora; e delle difficoltà causateci dalla moneta comune si può probabilmente intravedere la fine. Ma, appunto, c’è ancora moltissimo da fare per rimettersi in piedi.

Si può discutere se Mario Monti potesse fare di più, o più in fretta, anche forzando la mano alla sua maggioranza. I ritardi nell’attuazione delle leggi approvate rafforzano il sospetto che a un governo tecnico la burocrazia obbedisca di meno, perché meno teme di essere punita. Un governo politico potrebbe avere i suoi vantaggi, purché si formasse sulla base di un programma chiaro, e avesse dietro un elettorato convinto. L’attuale sfiducia verso tutti i partiti non giova.

Nella campagna elettorale che sta per aprirsi, il guaio non è tanto che i partiti promettano, ma che facciano promesse sbagliate, inseguendo ciò che gli pare piaccia agli elettori che conoscono meglio. In altre parole, cercano di interpretare soprattutto i desideri degli anziani. Stanno parlando in particolare di patrimoni familiari (la casa) e di pensioni, ovvero ciò che interessa alle persone più avanti con l’età; poco o nulla di che fare per il numero crescente di giovani disoccupati.

Può anche accadere di rinchiudersi nel declino. Il Giappone lo sta facendo, ma ha risorse sufficienti per riuscirci, maggiori delle nostre. L’Italia ha invece un bisogno vitale di tornare alla crescita, perché il debito non la schiacci. Certo, le politiche per la crescita dicono di volerle tutti. Però mancano i soldi per farle nei vecchi modi (ammesso e non concesso che fossero efficaci), ossia con ampi investimenti pubblici. Solo dopo ampi passi in avanti verso l’unità politica potremo, tutti i Paesi dell’euro insieme, ritrovare i margini di stabilità necessari ad usare questo strumento.

Per crescere, e per campare tutti meglio, occorre rendere il Paese più efficiente. Di ricette a pronto risultato non ce ne sono; anche misure sulla carta buone, come detassare gli aumenti di paga legati alla produttività, hanno rischiato di tradursi in complicità di elusione fiscale tra aziende e dipendenti. Né la trattativa appena iniziata fra Confindustria e sindacati sembra in procinto di sfornare grandi novità.

Invece di promettere la fine dell’austerità, occorre che la politica elabori programmi di paziente ristrutturazione del Paese, nel settore pubblico come nel settore privato. In parole povere: se vogliamo evitare che la pressione spietata dei mercati ci costringa a guadagnare meno, dovremo riuscire a organizzarci, con il contributo di tutte le parti, per lavorare meglio. Il nostro enorme debito pubblico è compensato da elevatissime ricchezze private; la sfida politica è di saper costruire una solidarietà nel nome della quale mobilitarle.

La Stampa 21.09.12

"La solidarietà che serve all'Italia", di Stefano Lepri

Risanare l’Italia sarà un lavoro lungo, e il mondo non ci aiuta. Le nuove previsioni economiche approvate ieri dal governo sono onestamente cupe, una scelta di verità. Confermano che l’uscita dalla recessione è lontana; i primi segni di recupero li vedremo l’estate prossima. E’ purtroppo inevitabile che altri posti di lavoro spariscano. Il piano Draghi ha salvato l’area euro dal tracollo, ma è arrivato troppo tardi per frenare una caduta dell’attività che prosegue in tutti i Paesi membri, meno grave soltanto in Germania. Negli Usa la ripresa continua a stentare, e non va bene nemmeno la Cina, il cui modello di sviluppo travolgente ormai mostra crepe difficili da rappezzare.
In questa crisi epocale, l’Italia è uno dei punti di maggiore fragilità. Le speranze non sono perdute: il ritorno in attivo dei conti con l’estero prova che di dinamismo nel nostro sistema produttivo ce n’è ancora; e delle difficoltà causateci dalla moneta comune si può probabilmente intravedere la fine. Ma, appunto, c’è ancora moltissimo da fare per rimettersi in piedi.
Si può discutere se Mario Monti potesse fare di più, o più in fretta, anche forzando la mano alla sua maggioranza. I ritardi nell’attuazione delle leggi approvate rafforzano il sospetto che a un governo tecnico la burocrazia obbedisca di meno, perché meno teme di essere punita. Un governo politico potrebbe avere i suoi vantaggi, purché si formasse sulla base di un programma chiaro, e avesse dietro un elettorato convinto. L’attuale sfiducia verso tutti i partiti non giova.
Nella campagna elettorale che sta per aprirsi, il guaio non è tanto che i partiti promettano, ma che facciano promesse sbagliate, inseguendo ciò che gli pare piaccia agli elettori che conoscono meglio. In altre parole, cercano di interpretare soprattutto i desideri degli anziani. Stanno parlando in particolare di patrimoni familiari (la casa) e di pensioni, ovvero ciò che interessa alle persone più avanti con l’età; poco o nulla di che fare per il numero crescente di giovani disoccupati.
Può anche accadere di rinchiudersi nel declino. Il Giappone lo sta facendo, ma ha risorse sufficienti per riuscirci, maggiori delle nostre. L’Italia ha invece un bisogno vitale di tornare alla crescita, perché il debito non la schiacci. Certo, le politiche per la crescita dicono di volerle tutti. Però mancano i soldi per farle nei vecchi modi (ammesso e non concesso che fossero efficaci), ossia con ampi investimenti pubblici. Solo dopo ampi passi in avanti verso l’unità politica potremo, tutti i Paesi dell’euro insieme, ritrovare i margini di stabilità necessari ad usare questo strumento.
Per crescere, e per campare tutti meglio, occorre rendere il Paese più efficiente. Di ricette a pronto risultato non ce ne sono; anche misure sulla carta buone, come detassare gli aumenti di paga legati alla produttività, hanno rischiato di tradursi in complicità di elusione fiscale tra aziende e dipendenti. Né la trattativa appena iniziata fra Confindustria e sindacati sembra in procinto di sfornare grandi novità.
Invece di promettere la fine dell’austerità, occorre che la politica elabori programmi di paziente ristrutturazione del Paese, nel settore pubblico come nel settore privato. In parole povere: se vogliamo evitare che la pressione spietata dei mercati ci costringa a guadagnare meno, dovremo riuscire a organizzarci, con il contributo di tutte le parti, per lavorare meglio. Il nostro enorme debito pubblico è compensato da elevatissime ricchezze private; la sfida politica è di saper costruire una solidarietà nel nome della quale mobilitarle.
La Stampa 21.09.12

"Se crescere è antieconomico", di Alexander Stille

«La crescita è la causa della crisi che stiamo vivendo e quindi non può essere la soluzione», scrive Maurizio Palante, saggista e leader del gruppo Movimento per la Decrescita Felice, citato con approvazione del blog di Beppe Grillo. Il governo di Mario Monti punta sulla crescita ma in certi settori la crescita sta diventando una parolaccia. «La crescita è diventata antieconomica», sostiene Richard Heinberg, l´autore di The end of growth: adapting to our new economic reality, intervistato sul popolare sito di sinistra americano TruthDig. «Crescita ora significa più debito, più inquinamento, perdita accelerata di biodiversità e destabilizzazione dell´ambiente, (…) questa crisi porta ad un cambiamento irreversibile per la civiltà stessa. Non lo possiamo impedire, possiamo solo decidere se ci adattiamo o meno», continua Heinberg. Anche nel mondo di economisti seri l´ossessione per la crescita ha dei critici importanti.
Il premio Nobel Joseph Stiglitz sostiene che abbiamo delle priorità distorte grazie al Pil, l´indice che usiamo per misurare la crescita. Spiega Stiglitz che il Pil misura qualsiasi attività in cui c´è scambio di denaro, senza tener conto del valore o disvalore per la società. Per esempio un terremoto come quello provocato dallo tsunami in Giappone l´anno scorso può risultare un rialzo del Pil grazie ai lavori di recupero, ma chiaramente la società starebbe meglio se il terremoto tsunami non ci fosse mai stato. Aggiungiamo qualcosa al Pil se paghiamo una babysitter per badare ai nostri figli, mentre il Pil rimane fermo se restiamo a casa noi stessi: ma anche la seconda opzione aggiunge valore alla società, anzi forse qualcosa in più della prima. Arrivare però a dire che la crescita in se è un male è assai discutibile.
La crescita del Pil è stata accompagnata negli ultimi due secoli da tutta un´altra serie di acquisizioni che riteniamo positive: educazione pubblica, sanità pubblica, il prolungamento della vita, la diminuzione della giornata lavorativa, e la protezione dell´ambiente.
Viceversa, come ha dimostrato l´economista di Harvard Benjamin Friedman nel suo libro recente intitolato The moral consequences of growth, la mancanza di crescita economica ha in genere stimolato movimenti di xenofobia, risentimenti sociali e svolte radicali a destra: caso classico la crescita del nazismo dopo il crollo del 1929, ma anche, seppur in chiave minore, l´espandersi di movimenti xenofobi dell´Europa attuale. Nei decenni dopo la seconda guerra mondiale, con tassi di crescita del 4 o 5 per cento all´anno, i benefici del welfare sono stati distribuiti all´intera popolazione, mentre negli ultimi vent´anni più magri, cresce il risentimento verso immigrati e nel caso italiano verso il Sud.
Quasi tutti quelli che criticano la crescita vorrebbero un mondo più giusto e più equo, ma la relativa stagnazione delle economie mature del mondo (Europa, Giappone, Stati Uniti) può essere un fattore nella crescente disuguaglianza economica in questi stessi paesi. Così sostiene una ricerca scientifica molto interessante dell´economista francese Thomas Piketty, che ha fatto alcuni tra gli studi più importanti sulla disuguaglianza economica. Piketty ha studiato l´economia francese dal 1815 al presente, e dimostra che nel secolo dal 1815 alla prima guerra mondiale l´economia francese ha avuto due caratteristiche salienti: un tasso di crescita di circa l´un per cento annuale, e un´economia molto stratificata, dove il denaro passato in eredità rappresentava quasi il 20% del Pil nazionale.
In questo secondo Ancien Regime, vivere sull´eredità rendeva il 2-3% all´anno, mentre l´economia nel suo insieme cresceva solo dell´1 per cento, per cui chi già nasceva con proprietà veniva premiato. La situazione cambia nel periodo della prima guerra mondiale quando l´apertura del sistema politico e la crescita economica porta a un benessere più diffuso. Dopo la seconda guerra mondiale, la Francia arriva a una crescita annuale del 4-5% e l´eredità costituisce soltanto il 5% del Pil. Ma adesso sta risalendo a circa il 12%, creando il sospetto che l´attuale lenta crescita dell´economia francese ci stia riportando a una società di nuovo più stratificata.
Può essere vero che le risorse del nostro pianeta non permettono crescita all´infinito, certamente non l´uso dei carboni fossili, ed è anche possibile che le economie più avanzate non possano più tornare ai tassi di crescita che hanno accompagnato la ripresa dell´ultima guerra mondiale, ma un mondo senza crescita può anche rivelarsi un mondo più brutto, e più disuguale, dove i vari soggetti politici si combattono per risorse limitate e i più ricchi si proteggono come meglio possono.
Sia Stiglitz sia Piketty sostengono che per adattarsi ad un´economia di bassa crescita ci vuole un cambiamento psicologico e culturale. «I paesi Scandinavi,» mi ha detto Stiglitz in un´intervista recente, «sono i tra i paesi che crescono di più e che hanno la maggior equità sociale ed economica, mentre il Giappone ha subito deflazione per circa vent´anni, pur mantenendo un buon livello di tenore di vita e di uguaglianza economica».
«Dobbiamo accettare che gli anni dopo la seconda guerra mondiale erano forse l´eccezione e che un´economia che cresce dell´uno per cento l´anno sia forse la norma» sostiene Piketty. «Il problema dell´ossessione con la crescita è che serve come pretesto a trascurare problemi di sanità, educazione e ridistribuzione di risorse, e dimentichiamo che per secoli la crescita è stata essenzialmente zero. C´è ancora molto che possiamo fare».

La Repubblica 21.09.12

"Se crescere è antieconomico", di Alexander Stille

«La crescita è la causa della crisi che stiamo vivendo e quindi non può essere la soluzione», scrive Maurizio Palante, saggista e leader del gruppo Movimento per la Decrescita Felice, citato con approvazione del blog di Beppe Grillo. Il governo di Mario Monti punta sulla crescita ma in certi settori la crescita sta diventando una parolaccia. «La crescita è diventata antieconomica», sostiene Richard Heinberg, l´autore di The end of growth: adapting to our new economic reality, intervistato sul popolare sito di sinistra americano TruthDig. «Crescita ora significa più debito, più inquinamento, perdita accelerata di biodiversità e destabilizzazione dell´ambiente, (…) questa crisi porta ad un cambiamento irreversibile per la civiltà stessa. Non lo possiamo impedire, possiamo solo decidere se ci adattiamo o meno», continua Heinberg. Anche nel mondo di economisti seri l´ossessione per la crescita ha dei critici importanti.
Il premio Nobel Joseph Stiglitz sostiene che abbiamo delle priorità distorte grazie al Pil, l´indice che usiamo per misurare la crescita. Spiega Stiglitz che il Pil misura qualsiasi attività in cui c´è scambio di denaro, senza tener conto del valore o disvalore per la società. Per esempio un terremoto come quello provocato dallo tsunami in Giappone l´anno scorso può risultare un rialzo del Pil grazie ai lavori di recupero, ma chiaramente la società starebbe meglio se il terremoto tsunami non ci fosse mai stato. Aggiungiamo qualcosa al Pil se paghiamo una babysitter per badare ai nostri figli, mentre il Pil rimane fermo se restiamo a casa noi stessi: ma anche la seconda opzione aggiunge valore alla società, anzi forse qualcosa in più della prima. Arrivare però a dire che la crescita in se è un male è assai discutibile.
La crescita del Pil è stata accompagnata negli ultimi due secoli da tutta un´altra serie di acquisizioni che riteniamo positive: educazione pubblica, sanità pubblica, il prolungamento della vita, la diminuzione della giornata lavorativa, e la protezione dell´ambiente.
Viceversa, come ha dimostrato l´economista di Harvard Benjamin Friedman nel suo libro recente intitolato The moral consequences of growth, la mancanza di crescita economica ha in genere stimolato movimenti di xenofobia, risentimenti sociali e svolte radicali a destra: caso classico la crescita del nazismo dopo il crollo del 1929, ma anche, seppur in chiave minore, l´espandersi di movimenti xenofobi dell´Europa attuale. Nei decenni dopo la seconda guerra mondiale, con tassi di crescita del 4 o 5 per cento all´anno, i benefici del welfare sono stati distribuiti all´intera popolazione, mentre negli ultimi vent´anni più magri, cresce il risentimento verso immigrati e nel caso italiano verso il Sud.
Quasi tutti quelli che criticano la crescita vorrebbero un mondo più giusto e più equo, ma la relativa stagnazione delle economie mature del mondo (Europa, Giappone, Stati Uniti) può essere un fattore nella crescente disuguaglianza economica in questi stessi paesi. Così sostiene una ricerca scientifica molto interessante dell´economista francese Thomas Piketty, che ha fatto alcuni tra gli studi più importanti sulla disuguaglianza economica. Piketty ha studiato l´economia francese dal 1815 al presente, e dimostra che nel secolo dal 1815 alla prima guerra mondiale l´economia francese ha avuto due caratteristiche salienti: un tasso di crescita di circa l´un per cento annuale, e un´economia molto stratificata, dove il denaro passato in eredità rappresentava quasi il 20% del Pil nazionale.
In questo secondo Ancien Regime, vivere sull´eredità rendeva il 2-3% all´anno, mentre l´economia nel suo insieme cresceva solo dell´1 per cento, per cui chi già nasceva con proprietà veniva premiato. La situazione cambia nel periodo della prima guerra mondiale quando l´apertura del sistema politico e la crescita economica porta a un benessere più diffuso. Dopo la seconda guerra mondiale, la Francia arriva a una crescita annuale del 4-5% e l´eredità costituisce soltanto il 5% del Pil. Ma adesso sta risalendo a circa il 12%, creando il sospetto che l´attuale lenta crescita dell´economia francese ci stia riportando a una società di nuovo più stratificata.
Può essere vero che le risorse del nostro pianeta non permettono crescita all´infinito, certamente non l´uso dei carboni fossili, ed è anche possibile che le economie più avanzate non possano più tornare ai tassi di crescita che hanno accompagnato la ripresa dell´ultima guerra mondiale, ma un mondo senza crescita può anche rivelarsi un mondo più brutto, e più disuguale, dove i vari soggetti politici si combattono per risorse limitate e i più ricchi si proteggono come meglio possono.
Sia Stiglitz sia Piketty sostengono che per adattarsi ad un´economia di bassa crescita ci vuole un cambiamento psicologico e culturale. «I paesi Scandinavi,» mi ha detto Stiglitz in un´intervista recente, «sono i tra i paesi che crescono di più e che hanno la maggior equità sociale ed economica, mentre il Giappone ha subito deflazione per circa vent´anni, pur mantenendo un buon livello di tenore di vita e di uguaglianza economica».
«Dobbiamo accettare che gli anni dopo la seconda guerra mondiale erano forse l´eccezione e che un´economia che cresce dell´uno per cento l´anno sia forse la norma» sostiene Piketty. «Il problema dell´ossessione con la crescita è che serve come pretesto a trascurare problemi di sanità, educazione e ridistribuzione di risorse, e dimentichiamo che per secoli la crescita è stata essenzialmente zero. C´è ancora molto che possiamo fare».
La Repubblica 21.09.12

"La mangiatoia degli ex missini", di Filippo Ceccarelli

Domandina innocente, ma fino a un certo punto. Come mai gli ex missini sono, o appaiono, o comunque risultano, in tutte queste storie, i più famelici? Quale misteriosa energia spinge questi attempati giovanotti? Sono cresciuti con il mito della Patria, dell´Ordine, della Gerarchia, dell´Onore, della Tradizione e via dicendo. E ora perché sono lì ad abboffarsi senza requie nei ristoranti di lusso? Quale maligno incantesimo, quale invincibile demonio li obbliga oggi a smaniare e a vendersi l´anima e la reputazione per una casa con un buon indirizzo o per una villa, un Rolex d´oro, una macchina di alta cilindrata, un autista servizievole, uno champagne millesimato, una vacanza esotica, una consulenza alla Rai, una escort che lo è, ma non lo sembra?
Quando Francone-Batman rivendica di sentirsi «il federale» non viene più nemmeno in testa quella fantastica pellicola con Ugo Tognazzi (1961). E a guardare tanti suoi ex camerati, quegli stessi che in gioventù rischiavano o prendevano le botte nelle scuole o sotto casa, si resta attoniti come dinanzi a un sogno che è svanito.
Adesso fanno anche un po´ ridere gli effetti del risveglio. Però il ripudio degli ideali, la secolarizzazione nera, come quella bianca e quella rossa, si rivela col tempo una faccenda molto seria e anche un po´ triste. Ma quale fascismo! Questi che saturano le cronache con i loro grossolani desideri hanno in realtà acchiappato il peggio dei loro nemici, quegli stessi che per anni e anni li avevano rinchiusi in un recinto per appestati, o li avevano seppelliti nelle catacombe a lucidare mortiferi labari e polverose reliquie; prima che il Cavaliere gli restituisse la vita all´aria aperta, ma sempre stando bene attento che ai nuovi alleati un po´ rimanesse appiccicato il complesso d´inferiorità, che nel caso specifico ha tuttora e a buon ragione il nome di «impresentabilità».
No, non è nostalgia, «ah, i buoni fascisti di una volta!». E´ che ora la compromissione dei post-missini in ciò che un tempo definivano «il regime» s´è intensificata e accelerata, e la trasformazione non solo li ha visibilmente e definitivamente stravolti, ma li sta anche perdendo, forse per sempre.
Famelici, sì. «È ora famelica, l´ora tua, matto./ Strappati il cuore» (Ungaretti). E se pure non esiste un attendibile strumento che misuri il primato della bulimia di potere degli ex missini rispetto ai leghisti, per dire, o ad altri eroi dell´appropriazione selvaggia. Ma certo a Roma, con Alemanno, il processo è vistoso, asfissiante, spesso ridicolo perché al tempo stesso sorcio e tracotante.
Fecero impressione, quando fu eletto, i saluti romani, ma oggi francamente spaventano di più le parentopoli Ama e Atac, gli sprechi pazzeschi, le arcane consulenze, i capricci di elicotteri acquistati, i «Punti verdi» di sospetto lucro a schermo ecologico, gli orrendi e costosi alberi di Natale commissionati ad agenzie amiche, poi ritirati e ripiantati in periferia, gli uffici di comunicazione che proliferano improbabili professionalità, a loro volta da girare ad altri enti a prova di elezioni ormai date per perse. E gli incredibili videoclip di santificazione del sindaco, i sogni di bolidi sfreccianti, i pomposi Stati Generali e milionari, gli ex banditi della Magliana e gli ex terroristi dei Nar «sistemati» su comode poltrone.
La tentazione è che si tratti di fame antica, atavica, ancestrale. Una sorta di risarcimento che lega i poveri pasti dei padri epurati, le minestre degli enti di assistenza, oppure i «ranci» militareschi, al massimo le porchettate nel ristorante vicino al Luna Park all´odierno raffinato magna-magna, agli smoking, ai Suv, ai red carpet, alle hostess e ai buttafuori con l´auricolare in vista, insomma all´odierna e ostentissima pacchia.
L´inventore della «Festa dei nonni», il giovanissimo Samuele Piccolo, recordman di preferenze al Consiglio comunale, è finito in prigione con qualche parente. Durante la perquisizione agli uffici del clan volavano i documenti dalla finestra e gli armadi sigillati dalla Guardia di finanza sono stati violati. Si è poi scoperto che i Piccolo si erano anche agganciati alla cabina dell´Enel per recuperare elettricità.
In Campania ci sono esponenti, come l´onorevole Landolfi, sotto accusa per avere avuto impicci con la Camorra; mentre da qualche mese l´onorevole Laboccetta è nei guai per i suoi stretti rapporti con il mondo delle società del gioco d´azzardo. Ma dietro le questioni giudiziarie tuttora aperte, per gli ex missini del Pdl ma anche per Fini e per quelli che l´hanno seguito nel Fli, s´intravede un andazzo di villana ostentazione, una voglia pazza o forse addirittura un destino di edonismo disperato e a buon mercato.
Vita comoda, case all´estero, viaggi esotici, servizi fotografici patinati, le carte di credito della Rai utilizzate per le spesucce dall´onorevole Rositani, i premi Almirante in prima serata, l´«Ignazio Jouer» di Fiorello, le poltroncine bianche di Vespa, l´amichetta che presenta il 150°, le fiction futuriste, i quotidiani che durano mesi, l´imitatrice che la Polverini («A´ bellaaa!») ha voluto portarsi a pranzo in regione, le sfilate di moda baby, i compleanni con Novella2000, le maxi-torte, Malgioglio e la principessa Borghese.
Peppino Ciarrapico, in fondo, insediato com´era nel formaggio dell´andreottismo all´ultimo stadio, era un profeta della trasformazione degli «esuli in Patria» in gaudenti uomini di potere, e più in generale del percorso che dal trittico «Dio Patria e Famiglia» inesorabilmente li avrebbe convertiti, o adeguati, o perfino addomesticati lungo l´asse degeneratasi in: «Io Patrimonio e Tengo Famiglia».
Hai voglia poi a intitolare qualche strada «via Almirante». E hai voglia a invocare le foibe e intanto prendersela con Berlusconi. Il vuoto di ideali si è riempito di soldi, voglie, esibizionismo, vanità. In altre parole si è colmato di nulla, del Nulla. La fine della diversità è l´inizio della fine. Francone-Batman, Polverini e gli altri ex camerati non possono farci nulla. Dopodomani, d´altra parte, non importerà a nessuno sapere chi vinse il campionato di voracità, avendolo perso l´intero paese.

La Repubblica 21.09.12

"La mangiatoia degli ex missini", di Filippo Ceccarelli

Domandina innocente, ma fino a un certo punto. Come mai gli ex missini sono, o appaiono, o comunque risultano, in tutte queste storie, i più famelici? Quale misteriosa energia spinge questi attempati giovanotti? Sono cresciuti con il mito della Patria, dell´Ordine, della Gerarchia, dell´Onore, della Tradizione e via dicendo. E ora perché sono lì ad abboffarsi senza requie nei ristoranti di lusso? Quale maligno incantesimo, quale invincibile demonio li obbliga oggi a smaniare e a vendersi l´anima e la reputazione per una casa con un buon indirizzo o per una villa, un Rolex d´oro, una macchina di alta cilindrata, un autista servizievole, uno champagne millesimato, una vacanza esotica, una consulenza alla Rai, una escort che lo è, ma non lo sembra?
Quando Francone-Batman rivendica di sentirsi «il federale» non viene più nemmeno in testa quella fantastica pellicola con Ugo Tognazzi (1961). E a guardare tanti suoi ex camerati, quegli stessi che in gioventù rischiavano o prendevano le botte nelle scuole o sotto casa, si resta attoniti come dinanzi a un sogno che è svanito.
Adesso fanno anche un po´ ridere gli effetti del risveglio. Però il ripudio degli ideali, la secolarizzazione nera, come quella bianca e quella rossa, si rivela col tempo una faccenda molto seria e anche un po´ triste. Ma quale fascismo! Questi che saturano le cronache con i loro grossolani desideri hanno in realtà acchiappato il peggio dei loro nemici, quegli stessi che per anni e anni li avevano rinchiusi in un recinto per appestati, o li avevano seppelliti nelle catacombe a lucidare mortiferi labari e polverose reliquie; prima che il Cavaliere gli restituisse la vita all´aria aperta, ma sempre stando bene attento che ai nuovi alleati un po´ rimanesse appiccicato il complesso d´inferiorità, che nel caso specifico ha tuttora e a buon ragione il nome di «impresentabilità».
No, non è nostalgia, «ah, i buoni fascisti di una volta!». E´ che ora la compromissione dei post-missini in ciò che un tempo definivano «il regime» s´è intensificata e accelerata, e la trasformazione non solo li ha visibilmente e definitivamente stravolti, ma li sta anche perdendo, forse per sempre.
Famelici, sì. «È ora famelica, l´ora tua, matto./ Strappati il cuore» (Ungaretti). E se pure non esiste un attendibile strumento che misuri il primato della bulimia di potere degli ex missini rispetto ai leghisti, per dire, o ad altri eroi dell´appropriazione selvaggia. Ma certo a Roma, con Alemanno, il processo è vistoso, asfissiante, spesso ridicolo perché al tempo stesso sorcio e tracotante.
Fecero impressione, quando fu eletto, i saluti romani, ma oggi francamente spaventano di più le parentopoli Ama e Atac, gli sprechi pazzeschi, le arcane consulenze, i capricci di elicotteri acquistati, i «Punti verdi» di sospetto lucro a schermo ecologico, gli orrendi e costosi alberi di Natale commissionati ad agenzie amiche, poi ritirati e ripiantati in periferia, gli uffici di comunicazione che proliferano improbabili professionalità, a loro volta da girare ad altri enti a prova di elezioni ormai date per perse. E gli incredibili videoclip di santificazione del sindaco, i sogni di bolidi sfreccianti, i pomposi Stati Generali e milionari, gli ex banditi della Magliana e gli ex terroristi dei Nar «sistemati» su comode poltrone.
La tentazione è che si tratti di fame antica, atavica, ancestrale. Una sorta di risarcimento che lega i poveri pasti dei padri epurati, le minestre degli enti di assistenza, oppure i «ranci» militareschi, al massimo le porchettate nel ristorante vicino al Luna Park all´odierno raffinato magna-magna, agli smoking, ai Suv, ai red carpet, alle hostess e ai buttafuori con l´auricolare in vista, insomma all´odierna e ostentissima pacchia.
L´inventore della «Festa dei nonni», il giovanissimo Samuele Piccolo, recordman di preferenze al Consiglio comunale, è finito in prigione con qualche parente. Durante la perquisizione agli uffici del clan volavano i documenti dalla finestra e gli armadi sigillati dalla Guardia di finanza sono stati violati. Si è poi scoperto che i Piccolo si erano anche agganciati alla cabina dell´Enel per recuperare elettricità.
In Campania ci sono esponenti, come l´onorevole Landolfi, sotto accusa per avere avuto impicci con la Camorra; mentre da qualche mese l´onorevole Laboccetta è nei guai per i suoi stretti rapporti con il mondo delle società del gioco d´azzardo. Ma dietro le questioni giudiziarie tuttora aperte, per gli ex missini del Pdl ma anche per Fini e per quelli che l´hanno seguito nel Fli, s´intravede un andazzo di villana ostentazione, una voglia pazza o forse addirittura un destino di edonismo disperato e a buon mercato.
Vita comoda, case all´estero, viaggi esotici, servizi fotografici patinati, le carte di credito della Rai utilizzate per le spesucce dall´onorevole Rositani, i premi Almirante in prima serata, l´«Ignazio Jouer» di Fiorello, le poltroncine bianche di Vespa, l´amichetta che presenta il 150°, le fiction futuriste, i quotidiani che durano mesi, l´imitatrice che la Polverini («A´ bellaaa!») ha voluto portarsi a pranzo in regione, le sfilate di moda baby, i compleanni con Novella2000, le maxi-torte, Malgioglio e la principessa Borghese.
Peppino Ciarrapico, in fondo, insediato com´era nel formaggio dell´andreottismo all´ultimo stadio, era un profeta della trasformazione degli «esuli in Patria» in gaudenti uomini di potere, e più in generale del percorso che dal trittico «Dio Patria e Famiglia» inesorabilmente li avrebbe convertiti, o adeguati, o perfino addomesticati lungo l´asse degeneratasi in: «Io Patrimonio e Tengo Famiglia».
Hai voglia poi a intitolare qualche strada «via Almirante». E hai voglia a invocare le foibe e intanto prendersela con Berlusconi. Il vuoto di ideali si è riempito di soldi, voglie, esibizionismo, vanità. In altre parole si è colmato di nulla, del Nulla. La fine della diversità è l´inizio della fine. Francone-Batman, Polverini e gli altri ex camerati non possono farci nulla. Dopodomani, d´altra parte, non importerà a nessuno sapere chi vinse il campionato di voracità, avendolo perso l´intero paese.
La Repubblica 21.09.12

"Gli strani «tecnici» del ministro Ornaghi", di Vittorio Emiliani

Se possedeste un castello o un quadro antico, per restaurarlo, interpellereste uno psicologo esperto in marketing o magari un politologo? In entrambi i casi i vostri congiunti telefonerebbero allarmati al medico di fiducia e, nel caso insisteste, al 113. È invece proprio quello che accadrà al patrimonio storico-artistico-paesaggistico della Nazione (art. 9 della Costituzione) dopo le nomine effettuate dal ministro «competente» Lorenzo Ornaghi per il Consiglio Superiore: come «vice» esecutivo, un filosofo del diritto, Francesco De Sanctis (prima di lui, Salvatore Settis e Andrea Carandini), quali consiglieri, una docente di Scienze Politiche (Gloria Pirzio Ammassari), uno storico contemporaneo (Enrico Decleva, Rettore della Statale a Milano, dove Ornaghi lo è della Cattolica), il preside della facoltà di Psicologia, e dàgli, della Cattolica (Albino Claudio Bosio) e finalmente uno storico dell’arte, Antonio Paolucci, peraltro direttore dei Musei Vaticani e quindi dipendente di quello Stato. Col che il tasso di «pietas religiosa» (almeno quello) è alto e garantito.
Del resto, dal CdA del Teatro alla Scala il medesimo Ornaghi aveva lasciato fuori, fra vibrate proteste, un esperto di musica e di bilanci, Francesco Micheli, per infilarci il suo segretario. Viva la meritocrazia. Nel Devoto-Oli «tecnico» vuol dire «persona esperta e competente nella parte pratica e strumentale di un’arte, scienza o disciplina». Nella già desolata landa dei beni culturali, con l’arrivo dell’Ornaghi, di tennico (come dicono a Milano) non c’è più nemmeno l’ombra. Insomma, da rimpiangere Galan e Bondi. Un vero incubo.
Pochi giorni fa l’accetta della spending review è calata sui comitati tecnico-scientifici dei Ministeri e quindi su quelli del MiBAC: eliminati gli esperti, i detentori di saperi tecnici effettivi, incaricati di istruire, nell’interesse generale, pratiche complesse da esaminare poi in Consiglio Superiore. Decisione tanto meccanica quanto imbecille che ha tirato giù un altro pezzo del Ministero che Spadolini aveva pensato «diverso», composto da tecnici. Un organo che, pur consultivo, faceva da contrappeso alla burocrazia calcificatasi, specie negli ultimi anni, al Collegio Romano. Oltre tutto, organismo poco costoso. Non si sarebbe risparmiato di più eliminando la quanto mai discussa Direzione Generale per la Valorizzazione creata per Mario Resca traslocato all’Acqua Marcia antica e pia e cominciare così a ridurre le 9 (con la Segretaria generale) Direzioni generali centrali? Sì, ma Ornaghi vi ha nominato una laureata in pedagogia che di marketing deve saperne moltissimo, con l’alto stipendio, pensiamo, di Resca (più il costo della sua struttura). Non si sarebbe risparmiato di più riportando (per adesso) a ruoli di mero coordinamento le Direzioni generali regionali che hanno elevato a 26 il totale delle Direzioni generali di un Ministero che anni fa ne aveva soltanto 4?
Con la sparizione dei Comitati tecnici di settore, con un Consiglio Superiore composto di psicologi, politologi, storici contemporanei, ecc. e, diciamolo, con un ministro che non ne azzecca mezza, prevarrà la burocrazia centrale, spesso collocata lì per ragioni «politiche», estranee al merito, dove da anni non figura uno storico dell’arte. Una imbalsamazione burosaurica. Bondi è stato il demolitore del Ministero? Ornaghi ne sarà il necroforo. Così ci togliamo pure il pensiero dell’arte. Se ne occuperanno i privati. Come a Brera. «Disgraceful and disastrous», vergognoso e disastroso, ha commentato una famosa storica dell’arte inglese.
Chi può darle torto?

l’Unità 20.09.12