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"Il Mediterraneo senza Europa", di Barbara Spinelli

Scrive il narratore greco Petros Markaris che l’Europa vive una strana insidiosa stagione: del suo sconquasso non parlano che gli economisti, i banchieri centrali.Con il risultato che la moneta unica diventa la sostanza stessa dell’Unione, non uno strumento ma la sua ragion d’essere, l’unica sua finalità: «L’unità dell’Ue è stata sostituita dall’unità dell’eurozona. Per questo il dibattito rimane così superficiale, come la maggior parte dei dirigenti europei, e unidimensionale, come il tradizionale discorso degli economisti ». Priva di visione del mondo, l’Europa ha interessi senza passioni, e non può che dividersi tra creditori nobili e debitori plebei. «Stiamo correndo verso una sorta di guerra civile europea».
Come un improvviso sparo nel silenzio è giunto il nuovo sisma nei paesi musulmani, sotto forma di una vasta offensiva dell’integralismo musulmano contro l’Occidente e i suoi esecrabili video: la violenza s’addensa nel Mediterraneo, e l’Europa – in proprie casalinghe faccende affaccendata – d’un tratto s’accorge che fuori casa cadono bombe. S’era addormentata compiaciuta sulle primavere arabe, ed ecco irrompe l’inverno. Aveva immaginato che le liberazioni fossero sinonimo di libertà, e constata che le rivoluzioni son sempre precedute da scintille fondamentaliste (lo spiega bene Marco d’Eramo, sul
Manifesto di ieri), prima di produrre istituzioni e costituzioni stabili. Come Calibano nella
Tempesta di Shakespeare, i manifestanti ci gridano: “Mi avete insegnato a parlare come voi: e quel che ho guadagnato è questo: ora so maledire. Vi roda la peste rossa per avermi insegnato la vostra lingua!”.
L’Europa potrebbe dire e fare qualcosa, se non continuasse ad affidare i compiti all’America: non solo in Afghanistan, dove molti europei partecipano a una guerra persa, non solo in Iran, ma nel nostro Mediterraneo. È da noi che corrono i fuggitivi dell’Africa del Nord, quando non muoiono in mare con una frequenza tale, che c’è da sospettare una nostra volontaria incuria. L’Europa potrebbe agire se avesse una sua politica estera, capace di quel che l’America lontana non sa fare: dominare gli eventi, fissare nuove priorità, indicare una prospettiva che sia di cooperazione organizzata e non solo di parole o di atti bellici.
Ormai evocare la Federazione europea non è più un tabù: ma se ne parla per la moneta, o per dire nebulosamente che così saremo padroni del nostro destino.
Ma per quale politica, che vada oltre l’ordine interno, si vuol fare l’Europa? Con quale idea del mondo, del rapporto occidente- Islam, dell’Iran, di Israele e Palestina, del conflitto fra religioni e dentro le religioni?
Più che una brutta scossa per l’Unione, l’inverno arabo rivela quel che siamo: senza idee né risorse, senza un comune governo per affrontare le crisi mondiali, e questo spiega il nostro silenzio, o l’inane balbettio dei rappresentanti europei. Difficile dire a cosa serva Catherine Ashton, che si fregia del pomposo titolo di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione. Nessuno sa cosa pensino 27 ministri degli Esteri, ibridi figuranti di un’Unione fatta di Stati non più sovrani e non ancora federali.
Quanto ai popoli, non controllano in pratica più nulla: né l’economia, né il Mediterraneo, né le guerre
mai discusse dall’Unione.
Per la storia che ha alle spalle (una storia di democrazie e Stati restaurati grazie all’unione delle proprie forze, dopo secoli di guerre religiose e ideologiche), l’Europa ha gli strumenti intellettuali e politici per divenire un alleato delle primavere arabe in bilico, e di paesi che faticano a coniugare l’autorità indiscussa dello Stato e la democrazia. E resta un punto di riferimento laico per i tanti – in Libia, Egitto, Tunisia – che vedono la democrazia o catturata dai Fratelli musulmani, o minacciata dai fondamentalisti salafiti.
La via di Jean Monnet, nel dopoguerra, fu la combinazione fra gli interessi e le passioni, dunque la messa in comune delle risorse (carbone e acciaio) che dividevano Germania e Francia. La Comunità del carbone e dell’acciaio (Ceca), fu nel 1951 l’embrione dell’Unione: gli Stati non si limitavano più a cooperare, ma riconoscevano in istituzioni sovranazionali un’autorità superiore alla propria. In seguito le istituzioni si sarebbero democratizzate, con l’elezione diretta di un Parlamento europeo sempre più influente. Così potrebbe avvenire tra Europa e Sud Mediterraneo, grazie a una Comunità non basata sul carbone e l’acciaio, ma sull’energia (o in futuro sull’acqua).
Un piano simile è stato proposto, nell’ottobre 2011, da due economisti di ispirazione federalista, Alfonso Iozzo e Antonio Mosconi. L’idea è che Washington non sia più in grado di garantire stabilità e democrazia, nel Mediterraneo e Medio Oriente. Di qui l’urgenza di una Comunità euromediterranea dell’energia: energia spesso potenziale, difficilmente valorizzabile senza aiuti finanziari e tecnologici europei: «Il principio di una Comunità tra eguali è essenziale e ricorda la rivoluzione realizzata dall’Eni di Enrico Mattei, che ruppe il monopolio delle “sette sorelle” petrolifere concedendo per la prima volta alla Persia la gestione in parità delle risorse petrolifere del paese». La nuova Comunità deve «riconoscere ai paesi associati la proprietà delle risorse energetiche e degli impianti, dando all’Europa diritti di utilizzazione su una quota dell’energia prodotta, per un periodo determinato con aumento progressivo della quota utilizzata localmente, in cambio delle tecnologie e degli investimenti effettuati». Si dirà che è solo una comunità di interessi. Lo si disse anche per la Ceca. In realtà l’ambizione politica è forte: sostituire il modello egemonico con un modello paritario e chiedere agli associati precisi impegni democratici, controllati da una comune Assemblea parlamentare.
Sostituire o affiancare il potere Usa nel Mediterraneo vuol dire prendere atto che quel modello non funziona: ha creduto di esportare democrazia con le guerre, creando Stati fallimentari e rafforzando Stati autoritari. Le democrazie (Israele compresa) hanno sostentato per anni i fondamentalisti (i talebani contro l’Urss, Hamas contro l’Olp) e volutamente ignorano una delle principali fonti delle crisi odierne: l’Arabia Saudita, finanziatrice dei partiti salafiti che minano le barcollanti,
appena nate democrazie arabe.
Obama è alle prese con importanti insuccessi. Nonostante il discorso di apertura all’Islam tenuto nel 2009 al Cairo, il diritto della forza prevale spesso sulla forza del diritto, come per Bush. Abbiamo già citato l’Arabia Saudita, non meno pericolosa dell’Iran e tuttavia esente da obblighi speciali. Permane l’influenza della destra israeliana su Washington, con effetti nefasti sul Medio Oriente. Guantanamo non è stata chiusa come promesso (risale all’8 settembre la morte di un prigioniero, Adnan Latif, torturato per 10 anni senza processo, nonostante l’ingiunzione dei tribunali a rilasciarlo). L’Iraq è
liberato, e nessuno protesta contro i pogrom polizieschi della popolazione gay, testimoniati in questi giorni da un documentario della Bbc. Le guerre scemano, ma sotto Obama l’uso di droni senza piloti è sistematico, in Pakistan, Somalia, Yemen: le uccisioni mirate in zone non belliche «distruggono 50 anni di legge internazionale», sostiene l’investigatore Onu Christof Heyns. La questione ci concerne. Obama risponderà all’attentato di Bengasi con droni che forse partiranno da Sigonella, e sul loro uso il governo italiano non potrà tacere.
Tocca all’Europa dare speranze al Mediterraneo, difendere le sue democrazie. Se si dà un governo, l’Unione avrà l’euro e una politica estera. Solo in tal caso il colpo di fucile che udiamo nei paesi arabi potrà svegliare, come nella poesia di Montale, un’Europa il cui cuore «ogni moto tiene a vile, raro è squassato da trasalimenti».

La Repubblica 19.09.12

"Il Mediterraneo senza Europa", di Barbara Spinelli

Scrive il narratore greco Petros Markaris che l’Europa vive una strana insidiosa stagione: del suo sconquasso non parlano che gli economisti, i banchieri centrali.Con il risultato che la moneta unica diventa la sostanza stessa dell’Unione, non uno strumento ma la sua ragion d’essere, l’unica sua finalità: «L’unità dell’Ue è stata sostituita dall’unità dell’eurozona. Per questo il dibattito rimane così superficiale, come la maggior parte dei dirigenti europei, e unidimensionale, come il tradizionale discorso degli economisti ». Priva di visione del mondo, l’Europa ha interessi senza passioni, e non può che dividersi tra creditori nobili e debitori plebei. «Stiamo correndo verso una sorta di guerra civile europea».
Come un improvviso sparo nel silenzio è giunto il nuovo sisma nei paesi musulmani, sotto forma di una vasta offensiva dell’integralismo musulmano contro l’Occidente e i suoi esecrabili video: la violenza s’addensa nel Mediterraneo, e l’Europa – in proprie casalinghe faccende affaccendata – d’un tratto s’accorge che fuori casa cadono bombe. S’era addormentata compiaciuta sulle primavere arabe, ed ecco irrompe l’inverno. Aveva immaginato che le liberazioni fossero sinonimo di libertà, e constata che le rivoluzioni son sempre precedute da scintille fondamentaliste (lo spiega bene Marco d’Eramo, sul
Manifesto di ieri), prima di produrre istituzioni e costituzioni stabili. Come Calibano nella
Tempesta di Shakespeare, i manifestanti ci gridano: “Mi avete insegnato a parlare come voi: e quel che ho guadagnato è questo: ora so maledire. Vi roda la peste rossa per avermi insegnato la vostra lingua!”.
L’Europa potrebbe dire e fare qualcosa, se non continuasse ad affidare i compiti all’America: non solo in Afghanistan, dove molti europei partecipano a una guerra persa, non solo in Iran, ma nel nostro Mediterraneo. È da noi che corrono i fuggitivi dell’Africa del Nord, quando non muoiono in mare con una frequenza tale, che c’è da sospettare una nostra volontaria incuria. L’Europa potrebbe agire se avesse una sua politica estera, capace di quel che l’America lontana non sa fare: dominare gli eventi, fissare nuove priorità, indicare una prospettiva che sia di cooperazione organizzata e non solo di parole o di atti bellici.
Ormai evocare la Federazione europea non è più un tabù: ma se ne parla per la moneta, o per dire nebulosamente che così saremo padroni del nostro destino.
Ma per quale politica, che vada oltre l’ordine interno, si vuol fare l’Europa? Con quale idea del mondo, del rapporto occidente- Islam, dell’Iran, di Israele e Palestina, del conflitto fra religioni e dentro le religioni?
Più che una brutta scossa per l’Unione, l’inverno arabo rivela quel che siamo: senza idee né risorse, senza un comune governo per affrontare le crisi mondiali, e questo spiega il nostro silenzio, o l’inane balbettio dei rappresentanti europei. Difficile dire a cosa serva Catherine Ashton, che si fregia del pomposo titolo di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione. Nessuno sa cosa pensino 27 ministri degli Esteri, ibridi figuranti di un’Unione fatta di Stati non più sovrani e non ancora federali.
Quanto ai popoli, non controllano in pratica più nulla: né l’economia, né il Mediterraneo, né le guerre
mai discusse dall’Unione.
Per la storia che ha alle spalle (una storia di democrazie e Stati restaurati grazie all’unione delle proprie forze, dopo secoli di guerre religiose e ideologiche), l’Europa ha gli strumenti intellettuali e politici per divenire un alleato delle primavere arabe in bilico, e di paesi che faticano a coniugare l’autorità indiscussa dello Stato e la democrazia. E resta un punto di riferimento laico per i tanti – in Libia, Egitto, Tunisia – che vedono la democrazia o catturata dai Fratelli musulmani, o minacciata dai fondamentalisti salafiti.
La via di Jean Monnet, nel dopoguerra, fu la combinazione fra gli interessi e le passioni, dunque la messa in comune delle risorse (carbone e acciaio) che dividevano Germania e Francia. La Comunità del carbone e dell’acciaio (Ceca), fu nel 1951 l’embrione dell’Unione: gli Stati non si limitavano più a cooperare, ma riconoscevano in istituzioni sovranazionali un’autorità superiore alla propria. In seguito le istituzioni si sarebbero democratizzate, con l’elezione diretta di un Parlamento europeo sempre più influente. Così potrebbe avvenire tra Europa e Sud Mediterraneo, grazie a una Comunità non basata sul carbone e l’acciaio, ma sull’energia (o in futuro sull’acqua).
Un piano simile è stato proposto, nell’ottobre 2011, da due economisti di ispirazione federalista, Alfonso Iozzo e Antonio Mosconi. L’idea è che Washington non sia più in grado di garantire stabilità e democrazia, nel Mediterraneo e Medio Oriente. Di qui l’urgenza di una Comunità euromediterranea dell’energia: energia spesso potenziale, difficilmente valorizzabile senza aiuti finanziari e tecnologici europei: «Il principio di una Comunità tra eguali è essenziale e ricorda la rivoluzione realizzata dall’Eni di Enrico Mattei, che ruppe il monopolio delle “sette sorelle” petrolifere concedendo per la prima volta alla Persia la gestione in parità delle risorse petrolifere del paese». La nuova Comunità deve «riconoscere ai paesi associati la proprietà delle risorse energetiche e degli impianti, dando all’Europa diritti di utilizzazione su una quota dell’energia prodotta, per un periodo determinato con aumento progressivo della quota utilizzata localmente, in cambio delle tecnologie e degli investimenti effettuati». Si dirà che è solo una comunità di interessi. Lo si disse anche per la Ceca. In realtà l’ambizione politica è forte: sostituire il modello egemonico con un modello paritario e chiedere agli associati precisi impegni democratici, controllati da una comune Assemblea parlamentare.
Sostituire o affiancare il potere Usa nel Mediterraneo vuol dire prendere atto che quel modello non funziona: ha creduto di esportare democrazia con le guerre, creando Stati fallimentari e rafforzando Stati autoritari. Le democrazie (Israele compresa) hanno sostentato per anni i fondamentalisti (i talebani contro l’Urss, Hamas contro l’Olp) e volutamente ignorano una delle principali fonti delle crisi odierne: l’Arabia Saudita, finanziatrice dei partiti salafiti che minano le barcollanti,
appena nate democrazie arabe.
Obama è alle prese con importanti insuccessi. Nonostante il discorso di apertura all’Islam tenuto nel 2009 al Cairo, il diritto della forza prevale spesso sulla forza del diritto, come per Bush. Abbiamo già citato l’Arabia Saudita, non meno pericolosa dell’Iran e tuttavia esente da obblighi speciali. Permane l’influenza della destra israeliana su Washington, con effetti nefasti sul Medio Oriente. Guantanamo non è stata chiusa come promesso (risale all’8 settembre la morte di un prigioniero, Adnan Latif, torturato per 10 anni senza processo, nonostante l’ingiunzione dei tribunali a rilasciarlo). L’Iraq è
liberato, e nessuno protesta contro i pogrom polizieschi della popolazione gay, testimoniati in questi giorni da un documentario della Bbc. Le guerre scemano, ma sotto Obama l’uso di droni senza piloti è sistematico, in Pakistan, Somalia, Yemen: le uccisioni mirate in zone non belliche «distruggono 50 anni di legge internazionale», sostiene l’investigatore Onu Christof Heyns. La questione ci concerne. Obama risponderà all’attentato di Bengasi con droni che forse partiranno da Sigonella, e sul loro uso il governo italiano non potrà tacere.
Tocca all’Europa dare speranze al Mediterraneo, difendere le sue democrazie. Se si dà un governo, l’Unione avrà l’euro e una politica estera. Solo in tal caso il colpo di fucile che udiamo nei paesi arabi potrà svegliare, come nella poesia di Montale, un’Europa il cui cuore «ogni moto tiene a vile, raro è squassato da trasalimenti».
La Repubblica 19.09.12

""Il Governo corregga l’errore della riforma Fornero": Manuela Ghizzoni difende i pensionandi della scuola" di Giuseppe Grasso

La deputata del Pd Manuela Ghizzoni, Presidente della Commissione Cultura alla Camera, si batte da oltre sette mesi per difendere i diritti dei pensionandi della scuola di «Quota 96». Non è un caso che abbia ospitato nel suo sito il denso e fruttuoso dibattito di questo nuovo ‘popolo viola’ le cui progettualità di vita sono state illecitamente troncate dalle cesoie della riforma Fornero. Il comparto scuola gode da sempre, come tutti sanno, di una speciale decorrenza per la collocazione a riposo: il 1 settembre (e non il 31 dicembre) di ogni anno. Aver fissato al 31 dicembre 2011 il termine per accedere alla pensione con i vecchi requisiti non può rendere ragione al personale della scuola le cui cadenze temporali sono scandite, a differenza degli altri dipendenti pubblici, dall’anno scolastico e non dall’anno solare. Non si tratta di un privilegio di casta ma di un «diritto acquisito» già dal 1 settembre 2011 ancorché da «esercitare» – come ha puntualizzato il giudice veneziano Luigi Perina – il 1 settembre 2012, un diritto per la cui tutela tutti i lavoratori coinvolti, per lo più del 1952, hanno adito le vie legali. Manuela Ghizzoni, che aveva presentato lo scorso giugno un disegno di legge apposito per ovviare a tale discriminazione, il n. 5293, è sempre più determinata a non allentare la presa e a proseguire la battaglia in nome dell’equità. Per questo ribadisce ad Affari che il Governo Monti deve trovare il modo di correggere quella ‘stortura’ normativa con un equo provvedimento che tenga conto delle ordinanze favorevoli emesse, nel frattempo, da alcuni tribunali italiani. La via legale non può e non deve escludere la via governativa, ribadisce la deputata democratica, che è persona pacatamente combattiva, caparbia, coraggiosa, non avvezza a perifrasi quando si tratta di tutelare le ragioni di questi lavoratori.

Onorevole Ghizzoni, lei ha appena presentato una interrogazione parlamentare sui pensionandi della scuola di quota 96, interrogazione elaborata anche alla luce degli sviluppi giudiziari che contemplano i verdetti favorevoli ai ricorrenti emessi dai Giudici del Lavoro di Siena, Torino e Venezia. Cosa chiede?

«Chiedo che venga riconosciuto e corretto l’errore contenuto nella riforma Fornero. La scuola, infatti, è l’unico settore del comparto pubblico che accede alla pensione un solo giorno all’anno, il 1 settembre, in virtù dell’articolo 1 del D.P.R. 351/98, che vincola la cessazione dal servizio «all’inizio dell’anno scolastico o accademico successivo alla data in cui la domanda è stata presentata». La riforma Fornero, fissando al 31 dicembre 2011 il termine della normativa previgente, non ha tenuto conto della specificità della scuola. Così circa 4000 fra docenti e personale Ata, che hanno iniziato l’anno scolastico 2011-2012 nella fondata convinzione di accedere al pensionamento il 1 settembre 2012, non sono potuti andare in quiescenza nonostante la maturazione dei requisiti necessari. Si tratta di un errore evidenziato esplicitamente nelle recenti ordinanze di alcuni magistrati del lavoro: ora tocca alla politica riconoscere di aver sbagliato e sanare quella disparità. I tribunali, come ho già detto in passato, non possono bastare».

Ma l’errore lei lo aveva denunciato già lo scorso gennaio alla Camera con l’ordine del
giorno n. 79 accolto dal governo.

«Esatto. L’accoglimento di tale ordine del giorno da parte del Governo – che riconosceva l’errore compiuto e si impegnava a correggerlo – ha ovviamente acceso legittime speranze circa una soluzione positiva. Sono arrivate, invece, reiterate “docce fredde”. Prima due bocciature dell’emendamento che si prefiggeva di ristabilire i diritti acquisiti dei pensionandi della scuola “traditi” dalla riforma Fornero. Poi la superficiale risposta del viceministro Martone alla nostra puntuale interrogazione che palesava la ragione giuridica della specificità della scuola anche in materia pensionistica – risposta che smentiva l’impegno precedentemente assunto. La bontà della richiesta è evidente e ora persino acclarata dai pronunciamenti di alcuni magistrati: ecco perché abbiamo presentato una proposta di legge ad hoc che potrebbe confluire nella proposta Damiano redatta per rispondere alle istanze dei lavoratori esodati esclusi o dimenticati dalla riforma Fornero. È una strada non facile da percorrere, visti i precedenti, ma la dobbiamo battere con fermo convincimento. Alla conferenza stampa di giovedì scorso, indetta dal gruppo del Pd della Camera, è stata prefigurata chiaramente questa eventualità».

Il comma 20 bis approvato in parlamento con la spending review, per ritornare sul comportamento contraddittorio del governo, ha riconosciuto al personale della scuola la data del 31 agosto 2012 come termine utile alla maturazione dei requisiti con le vecchie regole ma ne ha limitato il riconoscimento ai soli docenti in esubero, escludendo i docenti non soprannumerari e tutto il personale Ata. Con l’approvazione di tale articolo non si è di fatto sancito quel diritto?

«Assolutamente sì. Questa norma sancisce inequivocabilmente la ragionevolezza della nostra richiesta di far slittare al 31 agosto 2012 il termine per la vigenza della normativa ante Fornero per chi avrebbe maturato la cosiddetta quota 96 nel corso dell’anno scolastico appena concluso. La limitazione degli effetti della nuova norma al solo personale docente soprannumerario è una mediazione “al ribasso” difficile da digerire, soprattutto perché nasce dalla presunta assenza di risorse. La cifra necessaria, per la verità, come dimostrano le coperture agli emendamenti da noi presentati e poi bocciati, è relativamente contenuta e non impossibile da recuperare. I diritti dei lavoratori in questione, pur nel difficile contesto economico-finanziario in cui versa il Paese, non possono essere a corrente alternata».

Dunque il governo, pur riconoscendo l’esistenza di un diritto, ha finito per negarlo avanzando, del tutto incoerentemente, problemi di copertura finanziaria.

«Con l’approvazione del comma 20 bis il re è nudo! E, in virtù di tale evidenza, alle necessità di copertura finanziaria occorre dare una precisa risposta. Aggiungo che, fin dal gennaio scorso, indicammo al ministro Profumo l’opportunità di accogliere la nostra richiesta per poter disporre di ulteriori posti da attribuire ai precari: si tratta, peraltro, dell’unica strada percorribile per ringiovanire la classe docente più anziana d’Europa e per inserire, come più volte affermato dallo stesso ministro, professionisti motivati e anagraficamente più vicini ai discenti».

Come giudica il comportamento del ministro dell’Istruzione che non ha mai preso una posizione in merito?

«Per raggiungere il risultato sperato è indispensabile una incisiva azione del ministro Profumo nei confronti del collega Grilli. Incisività che fino ad ora è mancata, verosimilmente, per condivisione del rigore montiano. Tuttavia, a maggior ragione dopo l’approvazione del comma 20 bis in favore dei docenti soprannumerari, non potrà non esserci una soluzione definitiva per tutti gli aventi diritto. È un obiettivo di equità a cui il governo non può e non deve sottrarsi».

Pensa dunque che il comportamento del ministro, a fronte delle sentenze favorevoli emanate, possa farsi più incisivo? Che scenari – governativi e parlamentari – si possono prevedere?

«Penso che le sentenze possano essere di sprone per il ministro. Ma, più in generale, ritengo che siano utili a far riconoscere la fondatezza delle nostre ragioni e a farla diventare senso comune. Non è solo nei confronti del governo e delle forze politiche, in realtà, che occorre rivendicare l’esigibilità di un diritto “scippato”; ancor di più bisogna farlo nei confronti della società in generale, presso la quale alberga ancora un diffuso pregiudizio – convintamente alimentato dal precedente governo – sull’impegno e sulla professionalità dei lavoratori della conoscenza. Occorre accompagnare la richiesta di veder riconosciuto il diritto alla pensione con una grande campagna culturale, affinché la società comprenda l’importanza della scuola come presidio di democrazia e di crescita e sia nuovamente tributato ai professionisti che vi operano quel prestigio sociale di cui ancora godono in tutta Europa ma non – purtroppo – nel nostro Paese. I lavoratori della scuola hanno denunciato, con i loro ricorsi, una grana giudiziaria di non poco conto. E hanno fatto bene perché i tribunali hanno finalmente cominciato a far luce (e giurisprudenza) sulla «sfasatura» esistente fra le norme ordinarie della pubblica amministrazione e le norme peculiari della scuola, sulla “violazione” di quelle leggi non abrogate dalla riforma Fornero e sulla volontà del governo di non tenerne debitamente conto».

da affaritaliani.it

""Il Governo corregga l’errore della riforma Fornero": Manuela Ghizzoni difende i pensionandi della scuola" di Giuseppe Grasso

La deputata del Pd Manuela Ghizzoni, Presidente della Commissione Cultura alla Camera, si batte da oltre sette mesi per difendere i diritti dei pensionandi della scuola di «Quota 96». Non è un caso che abbia ospitato nel suo sito il denso e fruttuoso dibattito di questo nuovo ‘popolo viola’ le cui progettualità di vita sono state illecitamente troncate dalle cesoie della riforma Fornero. Il comparto scuola gode da sempre, come tutti sanno, di una speciale decorrenza per la collocazione a riposo: il 1 settembre (e non il 31 dicembre) di ogni anno. Aver fissato al 31 dicembre 2011 il termine per accedere alla pensione con i vecchi requisiti non può rendere ragione al personale della scuola le cui cadenze temporali sono scandite, a differenza degli altri dipendenti pubblici, dall’anno scolastico e non dall’anno solare. Non si tratta di un privilegio di casta ma di un «diritto acquisito» già dal 1 settembre 2011 ancorché da «esercitare» – come ha puntualizzato il giudice veneziano Luigi Perina – il 1 settembre 2012, un diritto per la cui tutela tutti i lavoratori coinvolti, per lo più del 1952, hanno adito le vie legali. Manuela Ghizzoni, che aveva presentato lo scorso giugno un disegno di legge apposito per ovviare a tale discriminazione, il n. 5293, è sempre più determinata a non allentare la presa e a proseguire la battaglia in nome dell’equità. Per questo ribadisce ad Affari che il Governo Monti deve trovare il modo di correggere quella ‘stortura’ normativa con un equo provvedimento che tenga conto delle ordinanze favorevoli emesse, nel frattempo, da alcuni tribunali italiani. La via legale non può e non deve escludere la via governativa, ribadisce la deputata democratica, che è persona pacatamente combattiva, caparbia, coraggiosa, non avvezza a perifrasi quando si tratta di tutelare le ragioni di questi lavoratori.
Onorevole Ghizzoni, lei ha appena presentato una interrogazione parlamentare sui pensionandi della scuola di quota 96, interrogazione elaborata anche alla luce degli sviluppi giudiziari che contemplano i verdetti favorevoli ai ricorrenti emessi dai Giudici del Lavoro di Siena, Torino e Venezia. Cosa chiede?
«Chiedo che venga riconosciuto e corretto l’errore contenuto nella riforma Fornero. La scuola, infatti, è l’unico settore del comparto pubblico che accede alla pensione un solo giorno all’anno, il 1 settembre, in virtù dell’articolo 1 del D.P.R. 351/98, che vincola la cessazione dal servizio «all’inizio dell’anno scolastico o accademico successivo alla data in cui la domanda è stata presentata». La riforma Fornero, fissando al 31 dicembre 2011 il termine della normativa previgente, non ha tenuto conto della specificità della scuola. Così circa 4000 fra docenti e personale Ata, che hanno iniziato l’anno scolastico 2011-2012 nella fondata convinzione di accedere al pensionamento il 1 settembre 2012, non sono potuti andare in quiescenza nonostante la maturazione dei requisiti necessari. Si tratta di un errore evidenziato esplicitamente nelle recenti ordinanze di alcuni magistrati del lavoro: ora tocca alla politica riconoscere di aver sbagliato e sanare quella disparità. I tribunali, come ho già detto in passato, non possono bastare».
Ma l’errore lei lo aveva denunciato già lo scorso gennaio alla Camera con l’ordine del
giorno n. 79 accolto dal governo.
«Esatto. L’accoglimento di tale ordine del giorno da parte del Governo – che riconosceva l’errore compiuto e si impegnava a correggerlo – ha ovviamente acceso legittime speranze circa una soluzione positiva. Sono arrivate, invece, reiterate “docce fredde”. Prima due bocciature dell’emendamento che si prefiggeva di ristabilire i diritti acquisiti dei pensionandi della scuola “traditi” dalla riforma Fornero. Poi la superficiale risposta del viceministro Martone alla nostra puntuale interrogazione che palesava la ragione giuridica della specificità della scuola anche in materia pensionistica – risposta che smentiva l’impegno precedentemente assunto. La bontà della richiesta è evidente e ora persino acclarata dai pronunciamenti di alcuni magistrati: ecco perché abbiamo presentato una proposta di legge ad hoc che potrebbe confluire nella proposta Damiano redatta per rispondere alle istanze dei lavoratori esodati esclusi o dimenticati dalla riforma Fornero. È una strada non facile da percorrere, visti i precedenti, ma la dobbiamo battere con fermo convincimento. Alla conferenza stampa di giovedì scorso, indetta dal gruppo del Pd della Camera, è stata prefigurata chiaramente questa eventualità».
Il comma 20 bis approvato in parlamento con la spending review, per ritornare sul comportamento contraddittorio del governo, ha riconosciuto al personale della scuola la data del 31 agosto 2012 come termine utile alla maturazione dei requisiti con le vecchie regole ma ne ha limitato il riconoscimento ai soli docenti in esubero, escludendo i docenti non soprannumerari e tutto il personale Ata. Con l’approvazione di tale articolo non si è di fatto sancito quel diritto?
«Assolutamente sì. Questa norma sancisce inequivocabilmente la ragionevolezza della nostra richiesta di far slittare al 31 agosto 2012 il termine per la vigenza della normativa ante Fornero per chi avrebbe maturato la cosiddetta quota 96 nel corso dell’anno scolastico appena concluso. La limitazione degli effetti della nuova norma al solo personale docente soprannumerario è una mediazione “al ribasso” difficile da digerire, soprattutto perché nasce dalla presunta assenza di risorse. La cifra necessaria, per la verità, come dimostrano le coperture agli emendamenti da noi presentati e poi bocciati, è relativamente contenuta e non impossibile da recuperare. I diritti dei lavoratori in questione, pur nel difficile contesto economico-finanziario in cui versa il Paese, non possono essere a corrente alternata».
Dunque il governo, pur riconoscendo l’esistenza di un diritto, ha finito per negarlo avanzando, del tutto incoerentemente, problemi di copertura finanziaria.
«Con l’approvazione del comma 20 bis il re è nudo! E, in virtù di tale evidenza, alle necessità di copertura finanziaria occorre dare una precisa risposta. Aggiungo che, fin dal gennaio scorso, indicammo al ministro Profumo l’opportunità di accogliere la nostra richiesta per poter disporre di ulteriori posti da attribuire ai precari: si tratta, peraltro, dell’unica strada percorribile per ringiovanire la classe docente più anziana d’Europa e per inserire, come più volte affermato dallo stesso ministro, professionisti motivati e anagraficamente più vicini ai discenti».
Come giudica il comportamento del ministro dell’Istruzione che non ha mai preso una posizione in merito?
«Per raggiungere il risultato sperato è indispensabile una incisiva azione del ministro Profumo nei confronti del collega Grilli. Incisività che fino ad ora è mancata, verosimilmente, per condivisione del rigore montiano. Tuttavia, a maggior ragione dopo l’approvazione del comma 20 bis in favore dei docenti soprannumerari, non potrà non esserci una soluzione definitiva per tutti gli aventi diritto. È un obiettivo di equità a cui il governo non può e non deve sottrarsi».
Pensa dunque che il comportamento del ministro, a fronte delle sentenze favorevoli emanate, possa farsi più incisivo? Che scenari – governativi e parlamentari – si possono prevedere?
«Penso che le sentenze possano essere di sprone per il ministro. Ma, più in generale, ritengo che siano utili a far riconoscere la fondatezza delle nostre ragioni e a farla diventare senso comune. Non è solo nei confronti del governo e delle forze politiche, in realtà, che occorre rivendicare l’esigibilità di un diritto “scippato”; ancor di più bisogna farlo nei confronti della società in generale, presso la quale alberga ancora un diffuso pregiudizio – convintamente alimentato dal precedente governo – sull’impegno e sulla professionalità dei lavoratori della conoscenza. Occorre accompagnare la richiesta di veder riconosciuto il diritto alla pensione con una grande campagna culturale, affinché la società comprenda l’importanza della scuola come presidio di democrazia e di crescita e sia nuovamente tributato ai professionisti che vi operano quel prestigio sociale di cui ancora godono in tutta Europa ma non – purtroppo – nel nostro Paese. I lavoratori della scuola hanno denunciato, con i loro ricorsi, una grana giudiziaria di non poco conto. E hanno fatto bene perché i tribunali hanno finalmente cominciato a far luce (e giurisprudenza) sulla «sfasatura» esistente fra le norme ordinarie della pubblica amministrazione e le norme peculiari della scuola, sulla “violazione” di quelle leggi non abrogate dalla riforma Fornero e sulla volontà del governo di non tenerne debitamente conto».
da affaritaliani.it

"Caro asilo, il nido è un lusso Le mamme? Restano a casa", di Mario Castagna

Pochi bambini che nascono, poche donne che lavorano. Questi i record che l’Italia raggiunge all’interno dei paesi Ue. A causare questi primati, secondo tutte le statistiche internazionali, è la scarsa offerta di servizi per l’infanzia, primo fattore, insieme a tanti altri, della minore occupabilità delle donne italiane. Servizi scarsi e spesso costosi. Secondo un’indagine dell’ufficio per le politiche territoriali della Uil sui costi delle scuole dell’infanzia nelle città capoluogo di regione, un bambino in un asilo nido italiano arriva a costare, per una famiglia tipo con due genitori lavoratori, 3240 euro l’anno, circa il 10% del reddito familiare annuale. Anche qui troviamo differenze territoriali significative. Se a Bolzano si arriva a pagare 399 euro al mese, a Catanzaro si superano di poco i cento euro (104). In cima alla classifica troviamo anche Aosta con 379 euro, Trieste (339), Firenze (338) e Torino (337).

Gli asili nido sono quindi un servizio che cade in maniera pesante sulle spalle delle famiglie. Infatti, se la spesa totale per i servizi all’infanzia è stata per il 2010 di circa 1,6 miliardi di euro, ben 284 milioni (il 18%) sono stati a sborsati da mamma e papà. I servizi per l’infanzia sarebbero un diritto da garantire a tutti i bambini italiani, ma soprattutto a tutte le donne che in questo modo vedrebbero aumentare le possibilità di trovare un impiego. Ma purtroppo sono costosi e anche poco diffusi. Infatti, secondo l’Istat, l’anno scorso solamente il 13,9% dei bambini da 0 a 2 anni frequentava un nido. Un leggero aumento rispetto a qualche anno prima, ma ancora molto lontano dalla soglia del 33% indicata dal Consiglio Europeo del 2000 come obiettivo da raggiungere entro il 2010.I bambini che frequentano un asilo nido sono in totale 239mila, di cui 158mila sono iscritti a quelli comunali; 44mila bambini, poi, sono iscritti in un asilo nido convenzionato; 37 mila hanno usufruito di servizi integrativi organizzati in contesto familiare o lavorativo, con il contributo dei Comuni. Le differenze territoriali sono poi enormi e in aumento. Se infatti il 29,4% dei bambini emiliani frequenta un nido, questo tasso scende ad un miserevole 2,7% in Campania ed addirittura al 2,4% in Calabria. In questi anni le regioni del nord hanno fatto enormi progressi, mentre nell’Italia meridionale i tassi di accesso agli asili nido rimangono al di sotto della media nazionale. Il lievissimo ma continuo incremento dell’offerta osservato a partire dal 2003 sembra addirittura subire un arresto nell’ultimo anno. Infatti nella maggior parte delle regioni meridionali (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria) nel 2011 si registra una diminuzione della quota di bambini iscritti.

IL RAPPORTO UIL
Secondo il rapporto Uil, esiste una chiara correlazione tra tasso di occupazione femminile e la presenza di adeguati servizi per l’infanzia. Sarà forse un caso che in Emilia Romagna il tasso di occupazione femminile è al 60,9% (il più alto tra le Regioni), e il tasso di bambini negli asili nido è il più alto d’Italia)? Analogamente in Val d’Aosta le donne che lavorano sono il 60,8% del totale e il tasso di frequenza dei bambini nei nidi è al 27,1%, così come a Trento i tassi sono rispettivamente del 57,2% e del 21,9%. In fondo alla classifica troviamo le regioni meridionali. Si arriva a malapena alla metà dei migliori risultati che si registrano nelle regioni del nord. In Campania solo due bambini su cento va al nido mentre solouna donna su quattro lavore.

ITALIA MAGLIA NERA
Ma se allarghiamo lo sguardo all’Europa, guardando alle statistiche dell’Ocse, allora è l’Italia intera a divenire la maglia nera. L’Italia è indietro sia per fertilità familiare (i tassi di fecondità si sono assestati in Italia intorno a 1,4 figli per donna, contro gli 1,99 della Francia o l’1,94 dell’Inghilterra) sia nel rapporto tra fertilità ed occupazione femminile. Qui purtroppo non ce n’è per nessuno. L’Italia è in fondo alla classifica dietro tutti i paesi dell’Ocse. La soluzione? Maggiori servizi per l’infanzia. Ma purtroppo l’Italia investe meno in politiche per la famiglia che la maggior parte dei paesi europei. L’1,4% del Pil contro una media del 2,25% che arriva addirittura al 2,8% se consideriamo solamente i paesi ad alta fertilità. Insomma non assicurare un diritto ai bambini italiani significa soprattutto non assicurare un diritto alle donne italiane. Una doppia esclusione che l’Italia non può più permettersi.

L’Unità 18.09.12

"Caro asilo, il nido è un lusso Le mamme? Restano a casa", di Mario Castagna

Pochi bambini che nascono, poche donne che lavorano. Questi i record che l’Italia raggiunge all’interno dei paesi Ue. A causare questi primati, secondo tutte le statistiche internazionali, è la scarsa offerta di servizi per l’infanzia, primo fattore, insieme a tanti altri, della minore occupabilità delle donne italiane. Servizi scarsi e spesso costosi. Secondo un’indagine dell’ufficio per le politiche territoriali della Uil sui costi delle scuole dell’infanzia nelle città capoluogo di regione, un bambino in un asilo nido italiano arriva a costare, per una famiglia tipo con due genitori lavoratori, 3240 euro l’anno, circa il 10% del reddito familiare annuale. Anche qui troviamo differenze territoriali significative. Se a Bolzano si arriva a pagare 399 euro al mese, a Catanzaro si superano di poco i cento euro (104). In cima alla classifica troviamo anche Aosta con 379 euro, Trieste (339), Firenze (338) e Torino (337).
Gli asili nido sono quindi un servizio che cade in maniera pesante sulle spalle delle famiglie. Infatti, se la spesa totale per i servizi all’infanzia è stata per il 2010 di circa 1,6 miliardi di euro, ben 284 milioni (il 18%) sono stati a sborsati da mamma e papà. I servizi per l’infanzia sarebbero un diritto da garantire a tutti i bambini italiani, ma soprattutto a tutte le donne che in questo modo vedrebbero aumentare le possibilità di trovare un impiego. Ma purtroppo sono costosi e anche poco diffusi. Infatti, secondo l’Istat, l’anno scorso solamente il 13,9% dei bambini da 0 a 2 anni frequentava un nido. Un leggero aumento rispetto a qualche anno prima, ma ancora molto lontano dalla soglia del 33% indicata dal Consiglio Europeo del 2000 come obiettivo da raggiungere entro il 2010.I bambini che frequentano un asilo nido sono in totale 239mila, di cui 158mila sono iscritti a quelli comunali; 44mila bambini, poi, sono iscritti in un asilo nido convenzionato; 37 mila hanno usufruito di servizi integrativi organizzati in contesto familiare o lavorativo, con il contributo dei Comuni. Le differenze territoriali sono poi enormi e in aumento. Se infatti il 29,4% dei bambini emiliani frequenta un nido, questo tasso scende ad un miserevole 2,7% in Campania ed addirittura al 2,4% in Calabria. In questi anni le regioni del nord hanno fatto enormi progressi, mentre nell’Italia meridionale i tassi di accesso agli asili nido rimangono al di sotto della media nazionale. Il lievissimo ma continuo incremento dell’offerta osservato a partire dal 2003 sembra addirittura subire un arresto nell’ultimo anno. Infatti nella maggior parte delle regioni meridionali (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria) nel 2011 si registra una diminuzione della quota di bambini iscritti.
IL RAPPORTO UIL
Secondo il rapporto Uil, esiste una chiara correlazione tra tasso di occupazione femminile e la presenza di adeguati servizi per l’infanzia. Sarà forse un caso che in Emilia Romagna il tasso di occupazione femminile è al 60,9% (il più alto tra le Regioni), e il tasso di bambini negli asili nido è il più alto d’Italia)? Analogamente in Val d’Aosta le donne che lavorano sono il 60,8% del totale e il tasso di frequenza dei bambini nei nidi è al 27,1%, così come a Trento i tassi sono rispettivamente del 57,2% e del 21,9%. In fondo alla classifica troviamo le regioni meridionali. Si arriva a malapena alla metà dei migliori risultati che si registrano nelle regioni del nord. In Campania solo due bambini su cento va al nido mentre solouna donna su quattro lavore.
ITALIA MAGLIA NERA
Ma se allarghiamo lo sguardo all’Europa, guardando alle statistiche dell’Ocse, allora è l’Italia intera a divenire la maglia nera. L’Italia è indietro sia per fertilità familiare (i tassi di fecondità si sono assestati in Italia intorno a 1,4 figli per donna, contro gli 1,99 della Francia o l’1,94 dell’Inghilterra) sia nel rapporto tra fertilità ed occupazione femminile. Qui purtroppo non ce n’è per nessuno. L’Italia è in fondo alla classifica dietro tutti i paesi dell’Ocse. La soluzione? Maggiori servizi per l’infanzia. Ma purtroppo l’Italia investe meno in politiche per la famiglia che la maggior parte dei paesi europei. L’1,4% del Pil contro una media del 2,25% che arriva addirittura al 2,8% se consideriamo solamente i paesi ad alta fertilità. Insomma non assicurare un diritto ai bambini italiani significa soprattutto non assicurare un diritto alle donne italiane. Una doppia esclusione che l’Italia non può più permettersi.
L’Unità 18.09.12

"Dopo il sisma la normalità torna a scuola", di Claudio Visani

A Finale Emilia sotto un tendone da circo, a Mirandola in un centro anziani, a Carpi nei locali della parrocchia, a Crevalcore in trasferta nei Comuni vicini, ma ieri la campanella è suonata per tutti nell’Emilia ferita dal terremoto del 20 e 29 maggio. «Un mezzo miracolo», dice il sindaco di Mirandola, Maino Benatti. Il “suo” polo scolastio conta 5mila studenti, per 3mila le scuole sono inagibili e si è dovuta trovare una soluzione alternativa. «Ce l’abbiamo fatta. Rinunciando alle ferie, con l’impegno e la collaborazione di tutti: istituzioni, scuola, famiglie. Non so come, ma ce l’abbiamo fatta a partire oggi», dice Mauro Borsarini, preside del Bassi-Burgatti, istituto tecncico e liceo con 1.250 alunni, nel polo scolastico di Cento che accoglie complessivamente oltre 6mila studenti.

Cento giorni dopo la seconda, terribile scossa di magnitudo 5.9 che il 29 maggio, alle 9 di mattina, con le aule piene di ragazzi, sconvolse l’Emilia e costrinse gran parte delle scuole a chiudere anticipatamente l’anno, ieri quasi tutti i 70 mila studenti del Cratere hanno potuto riprendere le lezioni. Erano stati ben 471 gli edifici scolastici lesionati. Per quelli che avevano riportato meno danni, il governatore della Regione e commissario delegato alla ricostruzione, Vasco Errani, ha destinato 81 milioni di euro dei 500 stanziati dal Governo sul 2012 per fronteggiare l’emergenza terremoto. Soldi erogati a Comuni e Province, che a tempo di record hanno provveduto alle riparazioni. Per le 160 strutture inagibili, invece, è stato necessario trovare soluzioni alternative: pre- fabbricati in calcestruzzo, legno e metallo per le scuole da demolire e ricostruire ex novo, quindi con tempi di realizzazione medio-lunghi; moduli provvisori affittati per soli 9 mesi per quegli edifici che potranno essere ristrutturati e resi antisismici per il prossimo anno scolastico. Un impegno da 166 milioni di euro per dare una risposta ai 18mila studenti rimasti senz’aula.

Nei giorni scorsi erano stati completati i primi prefabbricati. E ieri mattina, a Cento, Errani è andato a inaugurare i primi moduli. Una struttura leggera ma funzionale, con aule di 45-50 metri quadrati capaci di contenere fino a 26 alunni ciascuna; con corridoi e scale ampie, aria condizionata e sistema antincendio. Se si pensa che il primo decreto del governo per l’emergenza è stato convertito in legge l’1 agosto, si comprende bene quale sia stata la corsa contro il tempo, il «miracolo» compiuto dal commissario e dalle istituzioni emiliane. A Cento sono bastati 40 giorni per fare il progetto, bandire la gara, assegnarla, realizzare le opere di urbanizzazione, montare i moduli. Un record che sa davvero poco di Italia. Non a caso il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ieri a Bologna, ha detto: «Gli italiani dovrebbero prendere esempio dalla voglia di ripartire e dalla caparbietà dimostrata della gente emiliana nel dopo terremoto». Il lavoro, però, sarà ancora lungo: «Abbiamo ancora tanto da fare», spiega Errani. E a chi gli chiede paragoni con L’Aquila, con la stagione di Berlusconi e delle New Town, risponde: «Noi non abbiamo promesso miracoli, ma finora quello che abbiamo detto che avremmo fatto, è stato fatto. Le polemiche non mi interessano. Preferisco che a parlare siano i fatti». Poi il merito lo gira alla comunità emiliana. «Se c’è una lezione su tutte che il terremoto ci ha dato – afferma – è il valore di lavorare assieme, con determinazione e spirito di comunità, che è il nostro motore».

La scuola è stata fin dall’indomani del sisma «la priorità delle priorità». Quando ancora non erano certi i fondi di Roma, Errani e i sindaci del Cratere dissero che il primo obiettivo era la regolare riapertura dell’anno scolastico. «Perché non c’è nulla di più importante – dice Errani – e non si trattava solo di riparare edifici ma di ricostruire un sistema sociale e di relazioni drammaticamente interrotte dal terremoto».

I problemi non sono risolti. «Ci vorrà ancora un mese per dare un’aula di qualità a tutti», afferma il governatore. Nel frattempo i dirigenti scolastici e i sindaci hanno dato sfogo all’ingegno e alla fantasia per le soluzioni transitorie. Nel modenese i ragazzi delle superiori andranno all’Università per fare «corsi di apprendimento per le scelte future», e per i piccoli delle materne saranno pro- lungati i campi estivi. Una provvisorietà che costringe le famiglie a disagi e sacrifici pesanti. Alle superiori ci saranno classi che dovranno fare i doppi turni. Alcune medie hanno rinviato l’apertura di una o due settimane. Nelle elementari per un mese ci saranno «lezioni orizzontali e trasversali» per tutti, sotto le tensostrutture. Ci saranno classi che per un mese si dovranno sistemare attorno ai tavoli del circolo anziani come quando si gioca a carte, o nelle panche della parrocchia. E ci sarà anche chi, come 800 studenti di Crevalcore, per un mese dovranno andare in trasferta, negli spazi scolastici dei Comuni limitrofi di San Giovanni in Persiceto e Sant’Agata. «Ma l’iniezione di fiducia che la puntuale riapertura dell’anno scolastico dà a tutta la comunità è enorme», dice il sindaco di Cento, Piero Lodi. «Questa è la certificazione del ritorno alla normalità, la conferma che il terremoto ci ha duramente provato ma non ci ha vinti; e che la solidarietà e le istituzioni qui sono un valore, e funzionano ancora», aggiunge la presidente della Provincia di Ferrara, Marcella Zappaterra.

L’Unità 18.09.12