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"Dopo il sisma la normalità torna a scuola", di Claudio Visani

A Finale Emilia sotto un tendone da circo, a Mirandola in un centro anziani, a Carpi nei locali della parrocchia, a Crevalcore in trasferta nei Comuni vicini, ma ieri la campanella è suonata per tutti nell’Emilia ferita dal terremoto del 20 e 29 maggio. «Un mezzo miracolo», dice il sindaco di Mirandola, Maino Benatti. Il “suo” polo scolastio conta 5mila studenti, per 3mila le scuole sono inagibili e si è dovuta trovare una soluzione alternativa. «Ce l’abbiamo fatta. Rinunciando alle ferie, con l’impegno e la collaborazione di tutti: istituzioni, scuola, famiglie. Non so come, ma ce l’abbiamo fatta a partire oggi», dice Mauro Borsarini, preside del Bassi-Burgatti, istituto tecncico e liceo con 1.250 alunni, nel polo scolastico di Cento che accoglie complessivamente oltre 6mila studenti.
Cento giorni dopo la seconda, terribile scossa di magnitudo 5.9 che il 29 maggio, alle 9 di mattina, con le aule piene di ragazzi, sconvolse l’Emilia e costrinse gran parte delle scuole a chiudere anticipatamente l’anno, ieri quasi tutti i 70 mila studenti del Cratere hanno potuto riprendere le lezioni. Erano stati ben 471 gli edifici scolastici lesionati. Per quelli che avevano riportato meno danni, il governatore della Regione e commissario delegato alla ricostruzione, Vasco Errani, ha destinato 81 milioni di euro dei 500 stanziati dal Governo sul 2012 per fronteggiare l’emergenza terremoto. Soldi erogati a Comuni e Province, che a tempo di record hanno provveduto alle riparazioni. Per le 160 strutture inagibili, invece, è stato necessario trovare soluzioni alternative: pre- fabbricati in calcestruzzo, legno e metallo per le scuole da demolire e ricostruire ex novo, quindi con tempi di realizzazione medio-lunghi; moduli provvisori affittati per soli 9 mesi per quegli edifici che potranno essere ristrutturati e resi antisismici per il prossimo anno scolastico. Un impegno da 166 milioni di euro per dare una risposta ai 18mila studenti rimasti senz’aula.
Nei giorni scorsi erano stati completati i primi prefabbricati. E ieri mattina, a Cento, Errani è andato a inaugurare i primi moduli. Una struttura leggera ma funzionale, con aule di 45-50 metri quadrati capaci di contenere fino a 26 alunni ciascuna; con corridoi e scale ampie, aria condizionata e sistema antincendio. Se si pensa che il primo decreto del governo per l’emergenza è stato convertito in legge l’1 agosto, si comprende bene quale sia stata la corsa contro il tempo, il «miracolo» compiuto dal commissario e dalle istituzioni emiliane. A Cento sono bastati 40 giorni per fare il progetto, bandire la gara, assegnarla, realizzare le opere di urbanizzazione, montare i moduli. Un record che sa davvero poco di Italia. Non a caso il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ieri a Bologna, ha detto: «Gli italiani dovrebbero prendere esempio dalla voglia di ripartire e dalla caparbietà dimostrata della gente emiliana nel dopo terremoto». Il lavoro, però, sarà ancora lungo: «Abbiamo ancora tanto da fare», spiega Errani. E a chi gli chiede paragoni con L’Aquila, con la stagione di Berlusconi e delle New Town, risponde: «Noi non abbiamo promesso miracoli, ma finora quello che abbiamo detto che avremmo fatto, è stato fatto. Le polemiche non mi interessano. Preferisco che a parlare siano i fatti». Poi il merito lo gira alla comunità emiliana. «Se c’è una lezione su tutte che il terremoto ci ha dato – afferma – è il valore di lavorare assieme, con determinazione e spirito di comunità, che è il nostro motore».
La scuola è stata fin dall’indomani del sisma «la priorità delle priorità». Quando ancora non erano certi i fondi di Roma, Errani e i sindaci del Cratere dissero che il primo obiettivo era la regolare riapertura dell’anno scolastico. «Perché non c’è nulla di più importante – dice Errani – e non si trattava solo di riparare edifici ma di ricostruire un sistema sociale e di relazioni drammaticamente interrotte dal terremoto».
I problemi non sono risolti. «Ci vorrà ancora un mese per dare un’aula di qualità a tutti», afferma il governatore. Nel frattempo i dirigenti scolastici e i sindaci hanno dato sfogo all’ingegno e alla fantasia per le soluzioni transitorie. Nel modenese i ragazzi delle superiori andranno all’Università per fare «corsi di apprendimento per le scelte future», e per i piccoli delle materne saranno pro- lungati i campi estivi. Una provvisorietà che costringe le famiglie a disagi e sacrifici pesanti. Alle superiori ci saranno classi che dovranno fare i doppi turni. Alcune medie hanno rinviato l’apertura di una o due settimane. Nelle elementari per un mese ci saranno «lezioni orizzontali e trasversali» per tutti, sotto le tensostrutture. Ci saranno classi che per un mese si dovranno sistemare attorno ai tavoli del circolo anziani come quando si gioca a carte, o nelle panche della parrocchia. E ci sarà anche chi, come 800 studenti di Crevalcore, per un mese dovranno andare in trasferta, negli spazi scolastici dei Comuni limitrofi di San Giovanni in Persiceto e Sant’Agata. «Ma l’iniezione di fiducia che la puntuale riapertura dell’anno scolastico dà a tutta la comunità è enorme», dice il sindaco di Cento, Piero Lodi. «Questa è la certificazione del ritorno alla normalità, la conferma che il terremoto ci ha duramente provato ma non ci ha vinti; e che la solidarietà e le istituzioni qui sono un valore, e funzionano ancora», aggiunge la presidente della Provincia di Ferrara, Marcella Zappaterra.
L’Unità 18.09.12

"Primo, vedere le carte in mano al Lingotto", di Massimo D'Antoni

Ora che Fiat ha palesato l’intenzione di non tener fede ai programmi di investimento, e si fa strada addirittura il timore di un abbandono dell’Italia da parte dell’impresa manifatturiera nazionale per eccellenza, le reazioni prevalenti dosano in varie combinazioni indignazione e preoccupazione. Indignazione carica di conferme per coloro che possono rivendicare di aver indovinato le intenzioni di Sergio Marchionne fin dall’inizio, a partire da quel grave indizio che fu la mancata presentazione di un piano di investimenti; indignazione mista a imbarazzo per chi con troppa fretta ha concesso credito alle promesse fatte e si sente ora tradito nella propria fiducia.

L’indignazione è comprensibile e giustificata: nonostante le note dichiarazioni di Marchionne, la Fiat ha un debito storico verso l’Italia, che va oltre i contributi a fondo perduto (ora cessati ma copiosi in passato), e chiama in causa la politica dei trasporti (sarà un caso se l’Italia ha avuto per lungo tempo la più estesa rete di autostrade mentre ha sviluppato in modo limitato la rotaia?) o le tornate di incentivi alla rottamazione, a vantaggio di tutti ma indubbiamente di qualcuno in modo particolare. Sostegni che non sono certo una peculiarità del nostro Paese: proprio la risposta del governo Obama alla vicenda Chrysler-Fiat illustra come la crisi in questo settore possa spingere all’intervento governi di Paesi dalla tradizione liberale ben più radicata della nostra.

Quella dell’automobile non è un’industria qualsiasi. La sua capacità di «attivazione» in termini di indotto sia a monte che a valle del processo produttivo, le forti complementarità con produzioni che vanno dalla chimica all’elettronica, la rendono strategica, specie per un Paese a vocazione manifatturiera come il nostro. Le rilevanti «esternalità» positive giustificano il sostegno pubblico, che infatti raramente è mancato, e spiegano il richiamo alla responsabilità sociale di impresa, perché tenga conto di interessi più ampi di quelli dei soli azionisti.

Accanto al biasimo per la Fiat che trova per una volta concordi sindacati, imprese, esponenti del governo e larga parte dei commentatori, non manca tuttavia chi rimprovera al Paese una scarsa sensibilità per le dure «leggi» del mercato. La strategia di Marchionne non sarebbe nient’altro che l’ovvio effetto di un calcolo di convenienza da parte di una multinazionale a fronte delle difficoltà di operare nel nostro Paese; sul banco degli imputati ovviamente il nostro mercato del lavoro, il fisco, la burocrazia.

Grosso modo su questa linea il commento di Alessandro Penati, che su Repubblica osserva come, a fronte della caduta di domanda verificatasi a partire dal 2010 e solo in parte prevedibile, non ci siano alternative alla riduzione di capacità produttiva. Per Penati, in presenza di una crisi che giudica irreversibile, l’unica politica ragionevole è incoraggiare lo spostamento di risorse verso altri settori e aziende a più alta produttività. L’auto sarebbe dunque un settore irrimediabilmente in declino, e miope è la difesa dei posti di lavoro.

È una tesi coraggiosa, ma ci chiediamo se sia ben meditata. Competenze e know-how non si creano da un giorno all’altro, e una volta usciti dal settore ne saremmo irrimediabilmente fuori. Per le ragioni che dicevamo, gli effetti andrebbero ben oltre il prodotto automobile, provocando danni permanenti al tessuto produttivo. È accaduto per la chimica e per l’informatica; prima di infliggere un colpo simile alla meccanica si dovrebbe quanto meno esercitare il principio di precauzione. Tanto più che non sembra questa la strategia perseguita in altri Paesi.

C’è del resto un indizio interessante, cui giustamente allude lo stesso Penati quando provocatoriamente invita la Fiat ad abbandonare, in quanto neppure esse «strategiche», il controllo della Stampa e la partecipazione nel Corriere. Se questo invito non verrà seguito, la ragione è che probabilmente la strategia di Marchionne non contempla un’uscita dal nostro Paese. Se così fosse, diversa sarebbe stata la risposta di Fiat all’interesse mostrato ad esempio da Volkswagen per acquisizioni di capacità produttiva nel nostro Paese. L’intenzione è allora probabilmente un’altra: ridurre la presenza produttiva nel nostro Paese senza però abbandonare il campo ad altri competitori; mantenere un presidio limitando al minimo gli investimenti. Una strategia che potrebbe pagare per Fiat ma non certo per l’Italia, che in tal modo si vedrebbe non solo privata del proprio campione nazionale, ma anche preclusa la possibilità di investimenti da parte di altri attori interessati. Un governo attento al futuro industriale del Paese dovrebbe andare a vedere le carte della Fiat, senza abdicare alla propria responsabilità in nome di un astratto richiamo alla libertà del capitale di investire dove meglio crede.

L’Unità 18.09.12

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Camusso: «Se Fiat lascia arrivi un altro produttore», di Laura Matteucci

Il governo batta un colpo sulla Fiat e sul rilancio dell’economia. Lo dice Susanna Camusso che invita Monti «a difendere l’apparato industriale» e rilancia la sua proposta: detassare le tredicesime. Monti deve decidere di non liquidare pezzi importanti dell’apparato industriale del Paese. Il calo di produttività degli ultimi 20 anni a causa delle infrastrutture e di scarsi investimenti. «La parola convocare preoccupa il governo? Se è un problema di linguaggio credo si possa ovviare facilmente: si cerchi un giorno per un incontro. Al quale dovrebbero essere presenti anche le parti sociali. Di sicuro, la modalità per cui Marchionne arriva, lo si lascia parlare senza porre domande precise e alla fine si esce dall’incontro sostenendo sia stato rassicurante, non funziona, non ci ha portati da nessuna parte». Inevitabilmente, parlando con Susanna Camusso, segretario della Cgil, si parte dalla Fiat. Perché è una crisi che coinvolge migliaia di persone, perché è uno dei simboli del sistema industriale italiano in tutta la sua evoluzione, fino al rischio dell’oggi, che è quello della sua «autocondanna». Ma poi ci sono le altre crisi, qualcosa come 150 tavoli aperti al ministero che riguardano la siderurgia, l’alluminio, il ciclo della chimica, e che danno la misura della precarietà cui è esposto il nostro tessuto manifatturiero.
Il governo che cosa dovrebbe chiedere a Marchionne?
«Se, come tutto fa pensare, Fiat è orientata a ridimensionare la produzione, deve interrogarsi su come attirare un altro produttore. L’Italia ha sempre dato per scontato che le auto le produce la Fiat o nessuno. Invece, è da affermare il concetto che la produzione dei mezzi di trasporto nel Paese non può essere il risultato delle scelte di una singola azienda. Se i piani di Fiat sono cambiati, ci si deve attrezzare per attirare un altro produttore. E, comunque, non ci vengano a dire che Fabbrica Italia svanisce per colpa della crisi, perché quel piano è stato annunciato nel 2010, a crisi scoppiata e consolidata. La situazione si è aggravata, certo, ma nel calo complessivo del mercato è soprattutto Fiat a perdere quote».
Fiat, Ilva, Alcoa, Vinyls, per dire solo le più grandi: non è il momento di un patto imprese-sindacati, per pressare il governo a mettere il tema del lavoro al centro della politica?
«Innanzitutto sarei per abolire il termine patto, che mi sembra abusato, ambiguo e in ultima analisi di scarso significato. Si possono fare documenti e richieste comuni, questo sì. Si può fare un accordo con Confindustria per l’applicazione dell’intesa del 28 giugno, e perché questa venga estesa anche alle altre associazioni d’impresa. Dare soluzione al tema della rappresentanza, avviare un percorso per rinnovare i contratti nazionali, in gran parte ancora aperti. Credo che insieme alle imprese si debba chiedere al governo di dare risposte fiscali, in modo che lavoratori e pensionati abbiano qualche soldo in più, e non si creino ulteriori diseguaglianze. Sarebbe anche utile indicare al governo alcuni temi di indirizzo, dal piano energetico a quello dell’innovazione e della ricerca, che andrebbero definiti una volta per tutte. Certo, se qualcuno si aspetta di trovarci d’accordo nell’abolire gli aumenti contrattuali, o qualche giorno di ferie e festività, è ovvio che sbaglia del tutto strada. Se invece si pensa di mettere in campo un ragionamento serio su come si possano ottenere maggiori produttività ed efficienza, allora le risposte sono già nell’accordo del 28 giugno. Bisogna continuare a lavorare».
Se la produttività è innanzitutto innovazione, è una questione che riguarda innanzitutto le imprese, non è così?
«Al netto della crisi, che ha inciso e parecchio, la ragione del nostro graduale calo di produttività degli ultimi 20 anni è una questione di infrastrutture e di mancati investimenti nel sistema Paese. Questo è il punto di partenza, altrimenti si ragiona solo in termini di riduzione del costo del lavoro, il che non fa crescere affatto la produttività come peraltro ampiamente documentato. Aggiungo che anche la precarietà del lavoro è un fattore depressivo della produttività. Ma è chiaro che a un sistema che non ha investito per 20 anni non si può certo dire fate vobis, piuttosto occorre intervenire con incentivi e sostegni. Anche perché nessuno calcola mai i costi che pagherebbe il Paese se non avesse più produzioni di base. Il problema è l’assenza di investimenti, di politiche industriali, l’incapacità di decidere». Verosimilmente, che cosa dovrebbe portare a casa il governo da qui a dicembre per ridare fiato all’economia?
«I temi sono già sul tavolo: detassare le tredicesime, definire i finanziamenti per la cassa integrazione in deroga, specificare e chiarire il piano energetico. E decidere di non liquidare pezzi importanti dell’apparato produttivo industriale. Suppongo poi che le imprese chiederanno conto della famosa questione dei pagamenti, non ancora risolta. È un governo che è andato avanti a forza di decreti, anche pochi mesi di tempo possono bastare».
Al momento si parla solo di un’altra possibile manovra che il governo non vuole nemmeno chiamare così.
«L’ultimo atto sarà la legge di Stabilità. Sulla manovra perché lo è le notizie informali ripropongono il modello già noto: tagli e liberalizzazione dell’offerta. È chiaro che per noi non sono la strada giusta. Abbiamo avanzato delle richieste, aspettiamo delle risposte». Torniamo a Fiat: che effetto fa sentirsi dare ragione da Cesare Romiti?
«In realtà i suoi elementi di critica nei confronti degli attuali vertici ci erano già noti. Rilevo che per la prima volta in un Paese che aveva beatificato Marchionne si riconosce che il sindacato che l’aveva contrastato non era poi così fuori strada. Ma non provo soddisfazione, piuttosto una grande preoccupazione, cui credo che il sindacato debba rispondere con unità».
Ha parlato di Fiat come dell’occasione per ritrovare l’unità sindacale: ci crede davvero?
«Lo dobbiamo ai lavoratori. Le ragioni per cui è stato loro chiesto di sacrificarsi, e molto, meritano uno sforzo da parte sindacale. Un sindacato forte si comporta così: riprende e ripropone un cammino unitario, proprio a partire da una ferita profonda».

L’UNità 18.09.12

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“La Fiat resterà in Italia”di Ezio Mauro

Parla Marchionne: risponderò al governo, ma ognuno faccia la sua parte
SERGIO Marchionne, in poche righe di comunicato lei ha seminato il panico sul futuro della Fiat in Italia, poi se n’è andato in America senza spiegare niente. Qui ci si interroga sul destino di stabilimenti, famiglie, comunità di lavoro, città. Cosa sta succedendo, e che cosa ha in mente?
«Sta succedendo esattamente quello che avevamo detto alla Consob un anno fa. Ho dovuto ripeterlo perché attorno a Fabbrica Italia si stava montando una panna del tutto impropria, utilizzando il nome della Fiat per ragioni solo politiche: a destra e a sinistra, perché noi siamo comunque l’unica realtà industriale che può dare un senso allo sviluppo per questo Paese. Capisco tutto, ma quando vedo che veniamo usati come parafulmine, non ci sto, e preferisco dire la verità».
E QUAL è la verità, il blocco degli investimenti in Italia dando tutta la colpa alla crisi?
«No, questa è semplicemente una sciocchezza. Abbiamo appena investito circa un miliardo per la Maserati in Bertone (una fabbrica rilevata da noi nel 2009 che non aveva prodotto vetture dal 2006), altri 800 milioni per Pomigliano: le sembra poco?».
La sua verità, allora?
«Semplice. La Fiat sta accumulando perdite per 700 milioni in Europa, e sta reggendo a questa perdita con i successi all’estero, Stati Uniti e Paesi emergenti. Queste sono le uniche due cose che contano. Se vogliamo confrontarci dobbiamo partire da qui: non si scappa».
La paura è che stia scappando lei, dottor Marchionne. Bassi investimenti in Italia, zero prodotti nuovi. Non è così che muore un’azienda che ha più di cent’anni di vita?
«Mi risponda lei: se la sentirebbe di investire in un mercato tramortito dalla crisi, se avesse la certezza non soltanto di non guadagnare un euro ma addirittura — badi bene — di non recuperare i soldi investiti? Con nuovi modelli lanciati oggi spareremmo nell’acqua: un bel risultato. E questa sarebbe una strategia manageriale responsabile nei confronti dell’azienda, dei lavoratori, degli azionisti e del Paese? Non scherziamo».
Ma i suoi concorrenti sono europei come la Fiat, operano sullo stesso mercato, eppure non hanno alzato le braccia. Tutti incoscienti e irresponsabili, anche quando guadagnano quote di mercato a vostro danno?
«Senta, perché non guardiamo le cifre che parlano da sole, molto meglio della propaganda? Lei le conosce? In Italia l’automobile è precipitata in un buco di mercato senza precedenti, un mercato colato a picco nel vero senso della parola, ritornato ai livelli degli anni Sessanta. Sa cosa vuol dire? Che abbiamo perso di colpo quarant’anni. E si capisce, se uno è capace di guardarsi attorno. Il Paese soltanto un anno fa era fallito, lo avevamo perduto. Solo l’intervento di un attore credibile ha saputo riprendere l’Italia dal baratro in cui era finita e risollevarla. Ce lo siamo dimenticato? E qualcuno vorrebbe che la Fiat, in mezzo a questa tempesta, si comportasse tranquillamente come prima, quando c’era il sole? O è un’imbecillità, pensare questo, o è una prepotenza, fuori dalla logica».
Ma lei guida la Fiat dal 2004. Molti, come Diego Della Valle, dicono che è colpa sua. Cosa risponde?
«Che tutti parlano a cento all’ora, perché la Fiat è un bersaglio grosso, più delle scarpe di alta qualità e alto prezzo che compravo anch’io fino a qualche tempo fa: adesso non più. Ci sarebbe da domandarsi chi ha dato la cattedra a molti maestri d’automobile improvvisati. Ma significherebbe starnazzare nel pollaio più provinciale che c’è, davanti ad una crisi che ci sfida tutti a livello mondiale. Finché attaccano me, comunque, nessun problema. Ma lascino
stare la Fiat, per rispetto e per favore».
È normale che il Paese si preoccupi davanti al rischio che la Fiat vada via dall’Italia, che lei scelga l’America, che si perda la sapienza del lavoro nell’automobile. Perché lei non ha risposto a queste paure?
«Se vuol dire che potevamo comunicare meglio, possiamo discuterne. Ma la sostanza non cambia».
Ma lei dopo cent’anni di storia intrecciata tra la Fiat, Torino e l’Italia, con creazione di lavoro e di ricchezza ma anche con un forte sostegno dello Stato, non sente oggi un dovere di responsabilità nazionale?
«Scusi, se il quadro è quello che le ho fatto, e certamente lo è, si immagina cosa farebbe qualunque imprenditore al mio posto? Cosa farebbe uno straniero, in particolare un americano, un uomo d’azienda con cultura anglosassone? Dovreste rispondervi da soli ».
Qui sta la sua responsabilità nei confronti del Paese?
«In questa situazione drammatica, io non ho parlato di esuberi, non ho proposto chiusure di stabilimenti, non ho mai detto che voglio andar via. Le assicuro che ci vuole una responsabilità molto elevata per fare queste scelte oggi».
Ma due anni fa lei aveva detto a Repubblica che le quattro lettere Fiat avrebbero conservato il loro significato: ancora Fabbrica, sempre Italiana, per produrre Automobili, e tutto questo a Torino. Oggi se la sente di confermare?
«Siamo qui. Anzi, io sono a Detroit, ma sto proprio partendo per l’Italia. Non mollo, se è questo che vuole sapere».
Ma lei ha appena detto che Fabbrica Italia è superata. Questo significa che l’impegno di investire in quel progetto 20 miliardi non viene mantenuto. Non si sente in colpa?
«Quell’impegno era basato su cento cose, e la metà non ci sono
più, per effetto della crisi. Lo capirebbe chiunque. Io allora puntavo su un mercato che reggeva, ed è crollato, su una riforma del mercato del lavoro, e ho più di 70 cause aperte dalla Fiom. Soprattutto, da allora ad oggi il mercato europeo ha perso due milioni di macchine. C’erano e non ci sono più. Tutto è cambiato, insomma. E io non sono capace di far finta di niente, magari per un quieto vivere che non mi interessa. Anche perché puoi nasconderli, ma i nodi prima o poi vengono al pettine. Ecco, siamo in quel momento. Io indico i nodi: parliamone».
Cala il mercato europeo, ma dentro quel mercato Fiat crolla molto più di altri. Perché?
«Perché il mercato italiano per noi è assolutamente preponderante, pesa più di quello degli altri Paesi messi insieme: e il mercato italiano e spagnolo sono quelli che hanno perduto di più. Non è un’equazione troppo difficile».
Ma gli altri produttori europei continuano a sfornare modelli. Fiat è ferma, vuota e assente. Non è anche così che si lascia andare a picco il mercato?
«Se io avessi lanciato adesso dei nuovi modelli avrebbero fatto la stessa fine della nuova Panda di Pomigliano: la miglior Panda nella storia, 800 milioni di investimento, e il mercato non la prende, perché il mercato non c’è. Provi a pensare: se quell’investimento io lo avessi moltiplicato per quattro, se cioè avessi pensato in grande, diciamo così, la Fiat sarebbe fallita entro il 2012 e adesso saremmo qui a parlare d’altro. Io dovrei andarmene in giro col cappello in mano, chiedendo soldi non so a chi: agli azionisti, al governo, ad un altro convertendo».
Ma la rinuncia a nuovi modelli non è una resa, una rinuncia al mestiere e a stare sul mercato?
«Con un modello nuovo, nelle condizioni di oggi, magari avrei venduto trentamila macchine di più, glielo concedo. Ma magari, mi conceda lei, avrei perso due miliardi di più».
Il rischio è di disperdere un know how, una sapienza del lavoro, un universo dell’indotto, un marchio storico. Non ci pensa?
«Le rispondo così: lei non può saperlo, ma nei piani strategici del 2004 la Peugeot aveva considerato la Fiat fallita, e aveva programmato la conquista delle sue quote di mercato, come se la nostra azienda non ci fosse più. Fallita, cancellata, capito? Oggi la situazione è completamente diversa. Bisogna solo capire in che mondo viviamo. C’è un rapporto di Morgan Stanley secondo cui nello scorso decennio General Motors ha pompato 12 miliardi di euro in Europa, a fondo praticamente perduto».
Questo cosa vuol dire? Che tutte le colpe sono del mercato e non vostre?
«Lasci stare le colpe, parliamo di numeri. Vuol dire che il mercato non c’è. In Italia siamo sotto un milione e 400 mila automobili vendute, ciò significa che ne abbiamo perse un milione e centomila in cinque anni».
E come vede l’anno prossimo?
«Male, molto male. D’altra parte la gente non ha più potere d’acquisto, magari ha perso il lavoro, i risparmi se ne sono andati, non ha prospettive per il futuro. Ci rendiamo conto? L’auto nuova è proprio l’ultima cosa, non ci pensano nemmeno, si tengono la vecchia ben stretta. È un meccanismo che si può capire ».
È anche colpa degli incentivi, che hanno spinto a comprare senza necessità?
«Sono stati una droga, non c’è dubbio».
Ma ne avete beneficiato largamente anche voi, non ricorda?
«Ne abbiamo beneficiato tutti, noi, i francesi, i tedeschi. Ho sempre pensato che la droga avrebbe tramortito il mercato.
Pensi che vendevamo un “Cubo” a metano a meno di 5 mila euro, 4.990: drogato al massimo».
Sono i famosi aiuti di Stato all’automobile, di cui oggi non dovreste dimenticarvi, non le pare?
«Già l’ultima volta ho detto di no. Vedevo crearsi una bolla che gonfiava d’aria i tubi del mercato, per poi farli saltare prima o poi. Semplicemente si posticipava una crisi, una difficoltà e un problema, invece di affrontarli».
Ecco, oggi la paura è proprio questa: che una Fiat americana non affronti il problema della produzione automobilistica in Italia, e non contrasti la crisi. Cosa risponde?
«Io gestisco un’azienda che fa 4 milioni e 100 mila vetture all’anno. La scorsa settimana sono andato a Las Vegas per un incontro con i concessionari: tra novità e restyling gli abbiamo fatto vedere 66 vetture. Si rende conto? È il segno di un’espansione commerciale fantastica di un’azienda globale. Che va giudicata in termini globali. Chi cresce a questi ritmi negli Usa e anche in America Latina, forse sa fare automobili, forse capisce il mercato».
E l’Italia? Lei non può ignorarla.
«Ma lei non può pensare alla Fiat come a un’azienda soltanto italiana. Sarebbe in ritardo di dieci anni. La Fiat non è più un’azienda solo italiana, opera nel mondo, con le regole del mondo. Per essere chiari: se io sviluppo un’auto in America e poi la vendo in Europa guadagnandoci, per me è uguale, e deve essere uguale».
Se non fosse per quel problema della responsabilità nazionale, nei confronti del Paese e di chi lavora, non crede?
«E qui lei dovrebbe già aver capito la mia strategia. Gliela dico in una formula: cerco di assecondare la ripresa del mercato Usa sfruttandola al massimo per acquisire quella sicurezza finanziaria che mi consenta di proteggere la presenza Fiat in Italia e in Europa in questo momento drammatico. Fare diversamente, sarebbe una
Siete specializzati in utilitarie: non c’è l’idea di un’auto per la crisi?
«I modelli non invecchiano bene. Io posso lanciare la migliore automobile in un momento di mercato tragico come quello attuale, senza ottenere risultati: ma due anni dopo, quando magari le condizioni di mercato cambiano, quel modello è vecchio, e i soldi del mio investimento non li riprendo mai più».
Però state per lanciare la 500L, prodotta in Serbia. Quanto ci punta la Fiat?
«L’ho presentata agli americani lunedì scorso, l’accoglienza è stata fantastica, su quel mercato sono tranquillo perché andrà benissimo. E questo ci aiuterà. Ma se dovessi puntare solo sui risultati europei, non ce la farei mai e poi mai. E le aggiungo una cosa: io venderò la 500L a 14.500 euro. La Citroen ha deciso di vendere la C3 Picasso, che è un competitor, a meno di diecimila, per smaltire le giacenze. È una quota che sta sotto il mio costo variabile. Questo le dice come sta oggi il mercato in Europa».
Come spiega agli americani il successo a Detroit e il disastro a Torino?
«Quando spiego, loro fanno due conti e mi dicono cosa farebbero: chiusura di due stabilimenti per togliere sovracapacità dal sistema europeo».
E lei?
«I conti li so fare anch’io. Se mi comporto diversamente, ci sarà una ragione».
Cosa vuol dire?
«Che non parlo di eccedenze, non parlo di chiusure, dico solo che non c’è mercato per fare attività commerciale garantendo continuità finanziaria all’azienda».
E quando vede un cambio di mercato?
«Fino al 2014 non vedo niente. Per questo investire nel 2012 sarebbe micidiale. Salvo che qualcuno mi dica che per noi le regole non valgono. Ma deve mettermelo per scritto. Perché quando siamo entrati in Europa, non sono solo saltate le frontiere, è saltata anche l’abitudine di fare un po’ di svalutazione nei momenti di crisi. Ora questo lusso non c’è più, e finché Monti e Draghi hanno le mani sul timone, per fortuna dall’euro non usciremo. E allora, dobbiamo rispettare le regole».
Sembra un discorso riferito al governo. La stanno cercando e vogliono chiarimenti: li vedrà?
«Se mi cercano li vedrò, certo. Immagino che incontrerò Passera, Fornero. Ma poi?».
Le chiederanno garanzie per la Fiat in Italia e vorranno sapere qual è il suo disegno strategico. Cosa dirà?
«Sopravvivere alla tempesta con l’aiuto di quella parte dell’azienda che va bene in America del Nord e del Sud, per sostenere l’Italia, mi pare sia un discorso strategico».
Lei dunque s’impegna?
«Mi impegno, ma non posso farlo da solo. Ci vuole un impegno dell’Italia. Io la mia parte la faccio, non sono parole. Quest’anno la Fiat guadagnerà più di 3 miliardi e mezzo a livello operativo, tutti da fuori Italia, netti di quasi 700 milioni che perderà nel nostro Paese. È la prova di quel che le ho detto».
Ma anche Romiti sostiene che lei ha colpe precise, ha letto?
«Mi dispiace, ma il mondo Fiat che abbiamo creato noi non è più quello di Romiti. E anche la parola cosmopolita non è una bestemmia, come sembra intendere qualcuno. È l’unica salvezza che abbiamo. Ancora una cosa: io non sono nato in una casta privilegiata, mi ricordo da dove vengo, so perfettamente che mio padre era un maresciallo dei carabinieri».
Cosa intende dire?
«Che non sono l’uomo nero».
Col sindacato sì, sembra aver dichiarato una guerra ideologica alla Fiom, da anni Sessanta.
«Storie. Io voglio una riforma del lavoro, che ci porti al passo degli altri Paesi. Se la Fiat vuole essere partner di Chrysler, deve essere affidabile. Lo so che la Fiat di Valletta aveva asili e colonie, ma si muoveva in un mondo protetto dalla competizione, dazi e confini, che sono tutti saltati. Noi siamo in ballo, il gran ballo della globalizzazione: non è detto che mi piaccia ma come dicono in America il dentifricio è fuori, e rimetterlo nel tubetto non si può più».
Ma lei si rende conto che il lavoro oggi è il primo problema del-l’Italia?
«Sì, da qui la mia responsabilità nei confronti del Paese, che va di pari passo con quella nei confronti dei miei azionisti. Ma “repubblica fondata sul lavoro” vuol dire anche essere competitivi, creare occupazione attraverso sfide e competizioni. Questa cultura da noi manca».
Il professor Penati oggi su Repubblica, cercando di capire la sua strategia, le ha chiesto di essere coerente e di vendere le partecipazioni editoriali, per dimostrare che la crisi colpisce tutti i settori in crisi e non penalizza solo l’automobile. Può rispondere?
«Proprio a me venite a chiedere dei salotti buoni? Non li ho mai frequentati. E quando abbiamo avuto bisogno di qualcosa da loro, ho visto solo buchi nell’acqua».

La Repubblica 18.09.12

"Primo, vedere le carte in mano al Lingotto", di Massimo D'Antoni

Ora che Fiat ha palesato l’intenzione di non tener fede ai programmi di investimento, e si fa strada addirittura il timore di un abbandono dell’Italia da parte dell’impresa manifatturiera nazionale per eccellenza, le reazioni prevalenti dosano in varie combinazioni indignazione e preoccupazione. Indignazione carica di conferme per coloro che possono rivendicare di aver indovinato le intenzioni di Sergio Marchionne fin dall’inizio, a partire da quel grave indizio che fu la mancata presentazione di un piano di investimenti; indignazione mista a imbarazzo per chi con troppa fretta ha concesso credito alle promesse fatte e si sente ora tradito nella propria fiducia.
L’indignazione è comprensibile e giustificata: nonostante le note dichiarazioni di Marchionne, la Fiat ha un debito storico verso l’Italia, che va oltre i contributi a fondo perduto (ora cessati ma copiosi in passato), e chiama in causa la politica dei trasporti (sarà un caso se l’Italia ha avuto per lungo tempo la più estesa rete di autostrade mentre ha sviluppato in modo limitato la rotaia?) o le tornate di incentivi alla rottamazione, a vantaggio di tutti ma indubbiamente di qualcuno in modo particolare. Sostegni che non sono certo una peculiarità del nostro Paese: proprio la risposta del governo Obama alla vicenda Chrysler-Fiat illustra come la crisi in questo settore possa spingere all’intervento governi di Paesi dalla tradizione liberale ben più radicata della nostra.
Quella dell’automobile non è un’industria qualsiasi. La sua capacità di «attivazione» in termini di indotto sia a monte che a valle del processo produttivo, le forti complementarità con produzioni che vanno dalla chimica all’elettronica, la rendono strategica, specie per un Paese a vocazione manifatturiera come il nostro. Le rilevanti «esternalità» positive giustificano il sostegno pubblico, che infatti raramente è mancato, e spiegano il richiamo alla responsabilità sociale di impresa, perché tenga conto di interessi più ampi di quelli dei soli azionisti.
Accanto al biasimo per la Fiat che trova per una volta concordi sindacati, imprese, esponenti del governo e larga parte dei commentatori, non manca tuttavia chi rimprovera al Paese una scarsa sensibilità per le dure «leggi» del mercato. La strategia di Marchionne non sarebbe nient’altro che l’ovvio effetto di un calcolo di convenienza da parte di una multinazionale a fronte delle difficoltà di operare nel nostro Paese; sul banco degli imputati ovviamente il nostro mercato del lavoro, il fisco, la burocrazia.
Grosso modo su questa linea il commento di Alessandro Penati, che su Repubblica osserva come, a fronte della caduta di domanda verificatasi a partire dal 2010 e solo in parte prevedibile, non ci siano alternative alla riduzione di capacità produttiva. Per Penati, in presenza di una crisi che giudica irreversibile, l’unica politica ragionevole è incoraggiare lo spostamento di risorse verso altri settori e aziende a più alta produttività. L’auto sarebbe dunque un settore irrimediabilmente in declino, e miope è la difesa dei posti di lavoro.
È una tesi coraggiosa, ma ci chiediamo se sia ben meditata. Competenze e know-how non si creano da un giorno all’altro, e una volta usciti dal settore ne saremmo irrimediabilmente fuori. Per le ragioni che dicevamo, gli effetti andrebbero ben oltre il prodotto automobile, provocando danni permanenti al tessuto produttivo. È accaduto per la chimica e per l’informatica; prima di infliggere un colpo simile alla meccanica si dovrebbe quanto meno esercitare il principio di precauzione. Tanto più che non sembra questa la strategia perseguita in altri Paesi.
C’è del resto un indizio interessante, cui giustamente allude lo stesso Penati quando provocatoriamente invita la Fiat ad abbandonare, in quanto neppure esse «strategiche», il controllo della Stampa e la partecipazione nel Corriere. Se questo invito non verrà seguito, la ragione è che probabilmente la strategia di Marchionne non contempla un’uscita dal nostro Paese. Se così fosse, diversa sarebbe stata la risposta di Fiat all’interesse mostrato ad esempio da Volkswagen per acquisizioni di capacità produttiva nel nostro Paese. L’intenzione è allora probabilmente un’altra: ridurre la presenza produttiva nel nostro Paese senza però abbandonare il campo ad altri competitori; mantenere un presidio limitando al minimo gli investimenti. Una strategia che potrebbe pagare per Fiat ma non certo per l’Italia, che in tal modo si vedrebbe non solo privata del proprio campione nazionale, ma anche preclusa la possibilità di investimenti da parte di altri attori interessati. Un governo attento al futuro industriale del Paese dovrebbe andare a vedere le carte della Fiat, senza abdicare alla propria responsabilità in nome di un astratto richiamo alla libertà del capitale di investire dove meglio crede.
L’Unità 18.09.12
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Camusso: «Se Fiat lascia arrivi un altro produttore», di Laura Matteucci
Il governo batta un colpo sulla Fiat e sul rilancio dell’economia. Lo dice Susanna Camusso che invita Monti «a difendere l’apparato industriale» e rilancia la sua proposta: detassare le tredicesime. Monti deve decidere di non liquidare pezzi importanti dell’apparato industriale del Paese. Il calo di produttività degli ultimi 20 anni a causa delle infrastrutture e di scarsi investimenti. «La parola convocare preoccupa il governo? Se è un problema di linguaggio credo si possa ovviare facilmente: si cerchi un giorno per un incontro. Al quale dovrebbero essere presenti anche le parti sociali. Di sicuro, la modalità per cui Marchionne arriva, lo si lascia parlare senza porre domande precise e alla fine si esce dall’incontro sostenendo sia stato rassicurante, non funziona, non ci ha portati da nessuna parte». Inevitabilmente, parlando con Susanna Camusso, segretario della Cgil, si parte dalla Fiat. Perché è una crisi che coinvolge migliaia di persone, perché è uno dei simboli del sistema industriale italiano in tutta la sua evoluzione, fino al rischio dell’oggi, che è quello della sua «autocondanna». Ma poi ci sono le altre crisi, qualcosa come 150 tavoli aperti al ministero che riguardano la siderurgia, l’alluminio, il ciclo della chimica, e che danno la misura della precarietà cui è esposto il nostro tessuto manifatturiero.
Il governo che cosa dovrebbe chiedere a Marchionne?
«Se, come tutto fa pensare, Fiat è orientata a ridimensionare la produzione, deve interrogarsi su come attirare un altro produttore. L’Italia ha sempre dato per scontato che le auto le produce la Fiat o nessuno. Invece, è da affermare il concetto che la produzione dei mezzi di trasporto nel Paese non può essere il risultato delle scelte di una singola azienda. Se i piani di Fiat sono cambiati, ci si deve attrezzare per attirare un altro produttore. E, comunque, non ci vengano a dire che Fabbrica Italia svanisce per colpa della crisi, perché quel piano è stato annunciato nel 2010, a crisi scoppiata e consolidata. La situazione si è aggravata, certo, ma nel calo complessivo del mercato è soprattutto Fiat a perdere quote».
Fiat, Ilva, Alcoa, Vinyls, per dire solo le più grandi: non è il momento di un patto imprese-sindacati, per pressare il governo a mettere il tema del lavoro al centro della politica?
«Innanzitutto sarei per abolire il termine patto, che mi sembra abusato, ambiguo e in ultima analisi di scarso significato. Si possono fare documenti e richieste comuni, questo sì. Si può fare un accordo con Confindustria per l’applicazione dell’intesa del 28 giugno, e perché questa venga estesa anche alle altre associazioni d’impresa. Dare soluzione al tema della rappresentanza, avviare un percorso per rinnovare i contratti nazionali, in gran parte ancora aperti. Credo che insieme alle imprese si debba chiedere al governo di dare risposte fiscali, in modo che lavoratori e pensionati abbiano qualche soldo in più, e non si creino ulteriori diseguaglianze. Sarebbe anche utile indicare al governo alcuni temi di indirizzo, dal piano energetico a quello dell’innovazione e della ricerca, che andrebbero definiti una volta per tutte. Certo, se qualcuno si aspetta di trovarci d’accordo nell’abolire gli aumenti contrattuali, o qualche giorno di ferie e festività, è ovvio che sbaglia del tutto strada. Se invece si pensa di mettere in campo un ragionamento serio su come si possano ottenere maggiori produttività ed efficienza, allora le risposte sono già nell’accordo del 28 giugno. Bisogna continuare a lavorare».
Se la produttività è innanzitutto innovazione, è una questione che riguarda innanzitutto le imprese, non è così?
«Al netto della crisi, che ha inciso e parecchio, la ragione del nostro graduale calo di produttività degli ultimi 20 anni è una questione di infrastrutture e di mancati investimenti nel sistema Paese. Questo è il punto di partenza, altrimenti si ragiona solo in termini di riduzione del costo del lavoro, il che non fa crescere affatto la produttività come peraltro ampiamente documentato. Aggiungo che anche la precarietà del lavoro è un fattore depressivo della produttività. Ma è chiaro che a un sistema che non ha investito per 20 anni non si può certo dire fate vobis, piuttosto occorre intervenire con incentivi e sostegni. Anche perché nessuno calcola mai i costi che pagherebbe il Paese se non avesse più produzioni di base. Il problema è l’assenza di investimenti, di politiche industriali, l’incapacità di decidere». Verosimilmente, che cosa dovrebbe portare a casa il governo da qui a dicembre per ridare fiato all’economia?
«I temi sono già sul tavolo: detassare le tredicesime, definire i finanziamenti per la cassa integrazione in deroga, specificare e chiarire il piano energetico. E decidere di non liquidare pezzi importanti dell’apparato produttivo industriale. Suppongo poi che le imprese chiederanno conto della famosa questione dei pagamenti, non ancora risolta. È un governo che è andato avanti a forza di decreti, anche pochi mesi di tempo possono bastare».
Al momento si parla solo di un’altra possibile manovra che il governo non vuole nemmeno chiamare così.
«L’ultimo atto sarà la legge di Stabilità. Sulla manovra perché lo è le notizie informali ripropongono il modello già noto: tagli e liberalizzazione dell’offerta. È chiaro che per noi non sono la strada giusta. Abbiamo avanzato delle richieste, aspettiamo delle risposte». Torniamo a Fiat: che effetto fa sentirsi dare ragione da Cesare Romiti?
«In realtà i suoi elementi di critica nei confronti degli attuali vertici ci erano già noti. Rilevo che per la prima volta in un Paese che aveva beatificato Marchionne si riconosce che il sindacato che l’aveva contrastato non era poi così fuori strada. Ma non provo soddisfazione, piuttosto una grande preoccupazione, cui credo che il sindacato debba rispondere con unità».
Ha parlato di Fiat come dell’occasione per ritrovare l’unità sindacale: ci crede davvero?
«Lo dobbiamo ai lavoratori. Le ragioni per cui è stato loro chiesto di sacrificarsi, e molto, meritano uno sforzo da parte sindacale. Un sindacato forte si comporta così: riprende e ripropone un cammino unitario, proprio a partire da una ferita profonda».
L’UNità 18.09.12
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“La Fiat resterà in Italia”di Ezio Mauro
Parla Marchionne: risponderò al governo, ma ognuno faccia la sua parte
SERGIO Marchionne, in poche righe di comunicato lei ha seminato il panico sul futuro della Fiat in Italia, poi se n’è andato in America senza spiegare niente. Qui ci si interroga sul destino di stabilimenti, famiglie, comunità di lavoro, città. Cosa sta succedendo, e che cosa ha in mente?
«Sta succedendo esattamente quello che avevamo detto alla Consob un anno fa. Ho dovuto ripeterlo perché attorno a Fabbrica Italia si stava montando una panna del tutto impropria, utilizzando il nome della Fiat per ragioni solo politiche: a destra e a sinistra, perché noi siamo comunque l’unica realtà industriale che può dare un senso allo sviluppo per questo Paese. Capisco tutto, ma quando vedo che veniamo usati come parafulmine, non ci sto, e preferisco dire la verità».
E QUAL è la verità, il blocco degli investimenti in Italia dando tutta la colpa alla crisi?
«No, questa è semplicemente una sciocchezza. Abbiamo appena investito circa un miliardo per la Maserati in Bertone (una fabbrica rilevata da noi nel 2009 che non aveva prodotto vetture dal 2006), altri 800 milioni per Pomigliano: le sembra poco?».
La sua verità, allora?
«Semplice. La Fiat sta accumulando perdite per 700 milioni in Europa, e sta reggendo a questa perdita con i successi all’estero, Stati Uniti e Paesi emergenti. Queste sono le uniche due cose che contano. Se vogliamo confrontarci dobbiamo partire da qui: non si scappa».
La paura è che stia scappando lei, dottor Marchionne. Bassi investimenti in Italia, zero prodotti nuovi. Non è così che muore un’azienda che ha più di cent’anni di vita?
«Mi risponda lei: se la sentirebbe di investire in un mercato tramortito dalla crisi, se avesse la certezza non soltanto di non guadagnare un euro ma addirittura — badi bene — di non recuperare i soldi investiti? Con nuovi modelli lanciati oggi spareremmo nell’acqua: un bel risultato. E questa sarebbe una strategia manageriale responsabile nei confronti dell’azienda, dei lavoratori, degli azionisti e del Paese? Non scherziamo».
Ma i suoi concorrenti sono europei come la Fiat, operano sullo stesso mercato, eppure non hanno alzato le braccia. Tutti incoscienti e irresponsabili, anche quando guadagnano quote di mercato a vostro danno?
«Senta, perché non guardiamo le cifre che parlano da sole, molto meglio della propaganda? Lei le conosce? In Italia l’automobile è precipitata in un buco di mercato senza precedenti, un mercato colato a picco nel vero senso della parola, ritornato ai livelli degli anni Sessanta. Sa cosa vuol dire? Che abbiamo perso di colpo quarant’anni. E si capisce, se uno è capace di guardarsi attorno. Il Paese soltanto un anno fa era fallito, lo avevamo perduto. Solo l’intervento di un attore credibile ha saputo riprendere l’Italia dal baratro in cui era finita e risollevarla. Ce lo siamo dimenticato? E qualcuno vorrebbe che la Fiat, in mezzo a questa tempesta, si comportasse tranquillamente come prima, quando c’era il sole? O è un’imbecillità, pensare questo, o è una prepotenza, fuori dalla logica».
Ma lei guida la Fiat dal 2004. Molti, come Diego Della Valle, dicono che è colpa sua. Cosa risponde?
«Che tutti parlano a cento all’ora, perché la Fiat è un bersaglio grosso, più delle scarpe di alta qualità e alto prezzo che compravo anch’io fino a qualche tempo fa: adesso non più. Ci sarebbe da domandarsi chi ha dato la cattedra a molti maestri d’automobile improvvisati. Ma significherebbe starnazzare nel pollaio più provinciale che c’è, davanti ad una crisi che ci sfida tutti a livello mondiale. Finché attaccano me, comunque, nessun problema. Ma lascino
stare la Fiat, per rispetto e per favore».
È normale che il Paese si preoccupi davanti al rischio che la Fiat vada via dall’Italia, che lei scelga l’America, che si perda la sapienza del lavoro nell’automobile. Perché lei non ha risposto a queste paure?
«Se vuol dire che potevamo comunicare meglio, possiamo discuterne. Ma la sostanza non cambia».
Ma lei dopo cent’anni di storia intrecciata tra la Fiat, Torino e l’Italia, con creazione di lavoro e di ricchezza ma anche con un forte sostegno dello Stato, non sente oggi un dovere di responsabilità nazionale?
«Scusi, se il quadro è quello che le ho fatto, e certamente lo è, si immagina cosa farebbe qualunque imprenditore al mio posto? Cosa farebbe uno straniero, in particolare un americano, un uomo d’azienda con cultura anglosassone? Dovreste rispondervi da soli ».
Qui sta la sua responsabilità nei confronti del Paese?
«In questa situazione drammatica, io non ho parlato di esuberi, non ho proposto chiusure di stabilimenti, non ho mai detto che voglio andar via. Le assicuro che ci vuole una responsabilità molto elevata per fare queste scelte oggi».
Ma due anni fa lei aveva detto a Repubblica che le quattro lettere Fiat avrebbero conservato il loro significato: ancora Fabbrica, sempre Italiana, per produrre Automobili, e tutto questo a Torino. Oggi se la sente di confermare?
«Siamo qui. Anzi, io sono a Detroit, ma sto proprio partendo per l’Italia. Non mollo, se è questo che vuole sapere».
Ma lei ha appena detto che Fabbrica Italia è superata. Questo significa che l’impegno di investire in quel progetto 20 miliardi non viene mantenuto. Non si sente in colpa?
«Quell’impegno era basato su cento cose, e la metà non ci sono
più, per effetto della crisi. Lo capirebbe chiunque. Io allora puntavo su un mercato che reggeva, ed è crollato, su una riforma del mercato del lavoro, e ho più di 70 cause aperte dalla Fiom. Soprattutto, da allora ad oggi il mercato europeo ha perso due milioni di macchine. C’erano e non ci sono più. Tutto è cambiato, insomma. E io non sono capace di far finta di niente, magari per un quieto vivere che non mi interessa. Anche perché puoi nasconderli, ma i nodi prima o poi vengono al pettine. Ecco, siamo in quel momento. Io indico i nodi: parliamone».
Cala il mercato europeo, ma dentro quel mercato Fiat crolla molto più di altri. Perché?
«Perché il mercato italiano per noi è assolutamente preponderante, pesa più di quello degli altri Paesi messi insieme: e il mercato italiano e spagnolo sono quelli che hanno perduto di più. Non è un’equazione troppo difficile».
Ma gli altri produttori europei continuano a sfornare modelli. Fiat è ferma, vuota e assente. Non è anche così che si lascia andare a picco il mercato?
«Se io avessi lanciato adesso dei nuovi modelli avrebbero fatto la stessa fine della nuova Panda di Pomigliano: la miglior Panda nella storia, 800 milioni di investimento, e il mercato non la prende, perché il mercato non c’è. Provi a pensare: se quell’investimento io lo avessi moltiplicato per quattro, se cioè avessi pensato in grande, diciamo così, la Fiat sarebbe fallita entro il 2012 e adesso saremmo qui a parlare d’altro. Io dovrei andarmene in giro col cappello in mano, chiedendo soldi non so a chi: agli azionisti, al governo, ad un altro convertendo».
Ma la rinuncia a nuovi modelli non è una resa, una rinuncia al mestiere e a stare sul mercato?
«Con un modello nuovo, nelle condizioni di oggi, magari avrei venduto trentamila macchine di più, glielo concedo. Ma magari, mi conceda lei, avrei perso due miliardi di più».
Il rischio è di disperdere un know how, una sapienza del lavoro, un universo dell’indotto, un marchio storico. Non ci pensa?
«Le rispondo così: lei non può saperlo, ma nei piani strategici del 2004 la Peugeot aveva considerato la Fiat fallita, e aveva programmato la conquista delle sue quote di mercato, come se la nostra azienda non ci fosse più. Fallita, cancellata, capito? Oggi la situazione è completamente diversa. Bisogna solo capire in che mondo viviamo. C’è un rapporto di Morgan Stanley secondo cui nello scorso decennio General Motors ha pompato 12 miliardi di euro in Europa, a fondo praticamente perduto».
Questo cosa vuol dire? Che tutte le colpe sono del mercato e non vostre?
«Lasci stare le colpe, parliamo di numeri. Vuol dire che il mercato non c’è. In Italia siamo sotto un milione e 400 mila automobili vendute, ciò significa che ne abbiamo perse un milione e centomila in cinque anni».
E come vede l’anno prossimo?
«Male, molto male. D’altra parte la gente non ha più potere d’acquisto, magari ha perso il lavoro, i risparmi se ne sono andati, non ha prospettive per il futuro. Ci rendiamo conto? L’auto nuova è proprio l’ultima cosa, non ci pensano nemmeno, si tengono la vecchia ben stretta. È un meccanismo che si può capire ».
È anche colpa degli incentivi, che hanno spinto a comprare senza necessità?
«Sono stati una droga, non c’è dubbio».
Ma ne avete beneficiato largamente anche voi, non ricorda?
«Ne abbiamo beneficiato tutti, noi, i francesi, i tedeschi. Ho sempre pensato che la droga avrebbe tramortito il mercato.
Pensi che vendevamo un “Cubo” a metano a meno di 5 mila euro, 4.990: drogato al massimo».
Sono i famosi aiuti di Stato all’automobile, di cui oggi non dovreste dimenticarvi, non le pare?
«Già l’ultima volta ho detto di no. Vedevo crearsi una bolla che gonfiava d’aria i tubi del mercato, per poi farli saltare prima o poi. Semplicemente si posticipava una crisi, una difficoltà e un problema, invece di affrontarli».
Ecco, oggi la paura è proprio questa: che una Fiat americana non affronti il problema della produzione automobilistica in Italia, e non contrasti la crisi. Cosa risponde?
«Io gestisco un’azienda che fa 4 milioni e 100 mila vetture all’anno. La scorsa settimana sono andato a Las Vegas per un incontro con i concessionari: tra novità e restyling gli abbiamo fatto vedere 66 vetture. Si rende conto? È il segno di un’espansione commerciale fantastica di un’azienda globale. Che va giudicata in termini globali. Chi cresce a questi ritmi negli Usa e anche in America Latina, forse sa fare automobili, forse capisce il mercato».
E l’Italia? Lei non può ignorarla.
«Ma lei non può pensare alla Fiat come a un’azienda soltanto italiana. Sarebbe in ritardo di dieci anni. La Fiat non è più un’azienda solo italiana, opera nel mondo, con le regole del mondo. Per essere chiari: se io sviluppo un’auto in America e poi la vendo in Europa guadagnandoci, per me è uguale, e deve essere uguale».
Se non fosse per quel problema della responsabilità nazionale, nei confronti del Paese e di chi lavora, non crede?
«E qui lei dovrebbe già aver capito la mia strategia. Gliela dico in una formula: cerco di assecondare la ripresa del mercato Usa sfruttandola al massimo per acquisire quella sicurezza finanziaria che mi consenta di proteggere la presenza Fiat in Italia e in Europa in questo momento drammatico. Fare diversamente, sarebbe una
Siete specializzati in utilitarie: non c’è l’idea di un’auto per la crisi?
«I modelli non invecchiano bene. Io posso lanciare la migliore automobile in un momento di mercato tragico come quello attuale, senza ottenere risultati: ma due anni dopo, quando magari le condizioni di mercato cambiano, quel modello è vecchio, e i soldi del mio investimento non li riprendo mai più».
Però state per lanciare la 500L, prodotta in Serbia. Quanto ci punta la Fiat?
«L’ho presentata agli americani lunedì scorso, l’accoglienza è stata fantastica, su quel mercato sono tranquillo perché andrà benissimo. E questo ci aiuterà. Ma se dovessi puntare solo sui risultati europei, non ce la farei mai e poi mai. E le aggiungo una cosa: io venderò la 500L a 14.500 euro. La Citroen ha deciso di vendere la C3 Picasso, che è un competitor, a meno di diecimila, per smaltire le giacenze. È una quota che sta sotto il mio costo variabile. Questo le dice come sta oggi il mercato in Europa».
Come spiega agli americani il successo a Detroit e il disastro a Torino?
«Quando spiego, loro fanno due conti e mi dicono cosa farebbero: chiusura di due stabilimenti per togliere sovracapacità dal sistema europeo».
E lei?
«I conti li so fare anch’io. Se mi comporto diversamente, ci sarà una ragione».
Cosa vuol dire?
«Che non parlo di eccedenze, non parlo di chiusure, dico solo che non c’è mercato per fare attività commerciale garantendo continuità finanziaria all’azienda».
E quando vede un cambio di mercato?
«Fino al 2014 non vedo niente. Per questo investire nel 2012 sarebbe micidiale. Salvo che qualcuno mi dica che per noi le regole non valgono. Ma deve mettermelo per scritto. Perché quando siamo entrati in Europa, non sono solo saltate le frontiere, è saltata anche l’abitudine di fare un po’ di svalutazione nei momenti di crisi. Ora questo lusso non c’è più, e finché Monti e Draghi hanno le mani sul timone, per fortuna dall’euro non usciremo. E allora, dobbiamo rispettare le regole».
Sembra un discorso riferito al governo. La stanno cercando e vogliono chiarimenti: li vedrà?
«Se mi cercano li vedrò, certo. Immagino che incontrerò Passera, Fornero. Ma poi?».
Le chiederanno garanzie per la Fiat in Italia e vorranno sapere qual è il suo disegno strategico. Cosa dirà?
«Sopravvivere alla tempesta con l’aiuto di quella parte dell’azienda che va bene in America del Nord e del Sud, per sostenere l’Italia, mi pare sia un discorso strategico».
Lei dunque s’impegna?
«Mi impegno, ma non posso farlo da solo. Ci vuole un impegno dell’Italia. Io la mia parte la faccio, non sono parole. Quest’anno la Fiat guadagnerà più di 3 miliardi e mezzo a livello operativo, tutti da fuori Italia, netti di quasi 700 milioni che perderà nel nostro Paese. È la prova di quel che le ho detto».
Ma anche Romiti sostiene che lei ha colpe precise, ha letto?
«Mi dispiace, ma il mondo Fiat che abbiamo creato noi non è più quello di Romiti. E anche la parola cosmopolita non è una bestemmia, come sembra intendere qualcuno. È l’unica salvezza che abbiamo. Ancora una cosa: io non sono nato in una casta privilegiata, mi ricordo da dove vengo, so perfettamente che mio padre era un maresciallo dei carabinieri».
Cosa intende dire?
«Che non sono l’uomo nero».
Col sindacato sì, sembra aver dichiarato una guerra ideologica alla Fiom, da anni Sessanta.
«Storie. Io voglio una riforma del lavoro, che ci porti al passo degli altri Paesi. Se la Fiat vuole essere partner di Chrysler, deve essere affidabile. Lo so che la Fiat di Valletta aveva asili e colonie, ma si muoveva in un mondo protetto dalla competizione, dazi e confini, che sono tutti saltati. Noi siamo in ballo, il gran ballo della globalizzazione: non è detto che mi piaccia ma come dicono in America il dentifricio è fuori, e rimetterlo nel tubetto non si può più».
Ma lei si rende conto che il lavoro oggi è il primo problema del-l’Italia?
«Sì, da qui la mia responsabilità nei confronti del Paese, che va di pari passo con quella nei confronti dei miei azionisti. Ma “repubblica fondata sul lavoro” vuol dire anche essere competitivi, creare occupazione attraverso sfide e competizioni. Questa cultura da noi manca».
Il professor Penati oggi su Repubblica, cercando di capire la sua strategia, le ha chiesto di essere coerente e di vendere le partecipazioni editoriali, per dimostrare che la crisi colpisce tutti i settori in crisi e non penalizza solo l’automobile. Può rispondere?
«Proprio a me venite a chiedere dei salotti buoni? Non li ho mai frequentati. E quando abbiamo avuto bisogno di qualcosa da loro, ho visto solo buchi nell’acqua».
La Repubblica 18.09.12

Cinecittà: Commissione Cultura, fermare iniziative della proprietà e fare chiarezza

“Fermare ogni azione e fare chiarezza sullo stato di Cinecittà. – lo chiede Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, a nome della Commissione che si è recata in missione a Cinecittà con una delegazione composta dalla stessa presidente Ghizzoni, da Emerenzio Barbieri (PdL), Gabriella Carlucci (UdC), Maria Coscia (Pd), Paola Goisis (LN), Pierfelice Zazzera (IdV). Siamo rammaricati che la vicepresidenza degli Studios non ci abbia permesso di visitare il sito poiché ne ha impedito l’ingresso insieme ai lavoratori. Prima che il presidente Abete proceda nello sviluppo del piano industriale è necessario che, durante la sua audizione della prossima settimana, venga chiarito il bilancio e lo stato economico e produttivo di Cinecittà Studios, che si indaghi sugli interessi degli investitori coinvolti e che venga esposta il progetto industriale per verificarne la rispondenza alla finalità d’uso originario del sito. Anche il Ministero sarà chiamato a fare la sua parte in merito ad una società di cui è proprietario per il 20%.

La Commissione – spiegano – ha presentato due risoluzioni per impegnare il governo a preservare le finalità artistiche e produttive e a farsi parte attiva per la convocazione di una tavolo di confronto che coinvolga i lavoratori, la proprietà, il Ministero e gli autori, che sono i primi fruitori degli Studios. Sino a quel momento chiediamo che vengano fermate tutte le iniziative della proprietà di dar corso al piano industriale.

La politica è sempre troppo distratta rispetto alle vicende della cultura, considerata, spesso solo divertimento e svago. La cinematografia, in particolare, oltre al valore artistico che esprime ad altissimo livello è anche un vero e proprio comparto produttivo, che se debitamente sostenuto potrebbe continuare a dare i suoi frutti: non si stanno difendendo singoli posti di lavoro – conclude Ghizzoni – ma un intero settore verso il quale si è dimostrato un colpevole disinteresse.”

"Più di un giovane su tre non fa il lavoro che voleva", di Enrico Marro

Tra i principali Paesi europei, l’Italia è la più arretrata nell’affiancare scuola e lavoro. Solo il 10% dei giovani associa allo studio una qualche esperienza lavorativa, contro il 60% della Danimarca e il 50% di Germania e Regno Unito. E uno su 3 ha occupazioni inferiori al proprio livello di istruzione. Fondamentale per la crescita dell’economia è «il capitale umano», come dicono quelli che vogliono fare bella figura. L’americano Gary Becker, dimostrandolo con i suoi studi, ci ha vinto il premio Nobel per l’economia nel 1992. Ma il concetto è comprensibile a chiunque: più è alto il livello di istruzione e formazione dei lavoratori più ciò andrà a vantaggio del sistema produttivo, a patto di utilizzarlo. Bene, da noi il capitale umano non è né elevato né ben impiegato. Una costante nella storia d’Italia, che spiega non poco della perdita di competitività del 20% negli ultimi dieci anni rispetto alle altre economie dell’area euro. Lo sottolinea il Rapporto sul mercato del lavoro che verrà presentato oggi al Cnel, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, presieduto da Antonio Marzano. Nel testo, messo a punto dal centro studi Ref diretto da Carlo Dell’Aringa, una lunga parte è dedicata a spiegare il problema, con particolare riferimento ai giovani.
Due i dati da cui partire. Primo: in Italia solo il 10% dei giovani (20-24 anni) associa allo studio una qualche esperienza lavorativa, contro livelli superiori al 60% in Danimarca e vicini al 50% in Germania e Regno Unito e al 25% in Francia. Perfino in Spagna sono oltre il 20%. Secondo: a segnalare il drammatico scollamento tra mercato del lavoro e sistema scolastico ci sono 5,2 milioni di lavoratori nella fascia tra 15 e 64 anni, cioè uno su quattro, «che risultano sottoinquadrati» nel lavoro rispetto al loro livello d’istruzione. Tra i giovani, sono uno su tre. Insomma: il capitale umano è sia sottoutilizzato, basti pensare alla disoccupazione giovanile (il 20,2% nella fascia 18-29 anni nel 2011), sia male utilizzato, tanto che da un lato molti posti di lavoro vengono coperti dagli stranieri e dall’altro «centinaia di nostri giovani affollano le università del mondo anglosassone».
Chi studia non lavora
«La questione giovani è un tema estremamente delicato», esordisce il rapporto del Cnel, perché qui la crisi economica ha colpito duramente, causando un forte aumento del tasso di disoccupazione in tutti i Paesi europei. In Italia però, «persiste una cultura — unica in Europa — che ancora separa nettamente il momento formativo da quello lavorativo. Solamente il 10% dei ragazzi coniuga il percorso di studi ad una qualche esperienza lavorativa» e ciò, ovviamente, «contribuisce a rendere la transizione scuola lavoro più lunga e difficile».
Troppo tempo per trovare un lavoro
Nei Paesi che invece hanno «da sempre sostenuto un mix di istruzione e lavoro (si pensi ad esempio ai Paesi scandinavi oppure a Germania, Austria e Svizzera) si sono registrati livelli di disoccupazione giovanile più bassi e la transizione scuola-lavoro tende ad avere tempi più brevi». Mediamente in Italia per trovare il primo impiego ci si mette più di due anni, 25,5 mesi per la precisione. In Germania ne bastano 18. In Danimarca 14,6, nel Regno Unito 19,4. Solo in Spagna stanno peggio di noi, con un’attesa media di quasi tre anni (34,6 mesi). Stesso trend anche se si calcola il tempo medio prima di trovare un lavoro a tempo indeterminato. In Italia ci vogliono quasi quattro anni (44,8 mesi). In Danimarca solo 21,3 mesi, ma lì non c’è l’articolo 18 (ora attenuato dopo la riforma Fornero) e le aziende possono licenziare facilmente. In Germania per un lavoro stabile si attendono in media 33,8 mesi, nel Regno Unito tre anni.
«I giovani che hanno appena completato gli studi — osservano i ricercatori — se restano per un periodo lungo in condizione di inattività, tendono a registrare un deterioramento del loro capitale umano». Inoltre, «la ricerca di un posto può portare alcuni ad accettare lavori per i quali sono richiesti requisiti inferiori rispetto al percorso scolastico seguito: è il fenomeno dell’over education».

Il Corriere della Sera 18.09.12

"Più di un giovane su tre non fa il lavoro che voleva", di Enrico Marro

Tra i principali Paesi europei, l’Italia è la più arretrata nell’affiancare scuola e lavoro. Solo il 10% dei giovani associa allo studio una qualche esperienza lavorativa, contro il 60% della Danimarca e il 50% di Germania e Regno Unito. E uno su 3 ha occupazioni inferiori al proprio livello di istruzione. Fondamentale per la crescita dell’economia è «il capitale umano», come dicono quelli che vogliono fare bella figura. L’americano Gary Becker, dimostrandolo con i suoi studi, ci ha vinto il premio Nobel per l’economia nel 1992. Ma il concetto è comprensibile a chiunque: più è alto il livello di istruzione e formazione dei lavoratori più ciò andrà a vantaggio del sistema produttivo, a patto di utilizzarlo. Bene, da noi il capitale umano non è né elevato né ben impiegato. Una costante nella storia d’Italia, che spiega non poco della perdita di competitività del 20% negli ultimi dieci anni rispetto alle altre economie dell’area euro. Lo sottolinea il Rapporto sul mercato del lavoro che verrà presentato oggi al Cnel, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, presieduto da Antonio Marzano. Nel testo, messo a punto dal centro studi Ref diretto da Carlo Dell’Aringa, una lunga parte è dedicata a spiegare il problema, con particolare riferimento ai giovani.
Due i dati da cui partire. Primo: in Italia solo il 10% dei giovani (20-24 anni) associa allo studio una qualche esperienza lavorativa, contro livelli superiori al 60% in Danimarca e vicini al 50% in Germania e Regno Unito e al 25% in Francia. Perfino in Spagna sono oltre il 20%. Secondo: a segnalare il drammatico scollamento tra mercato del lavoro e sistema scolastico ci sono 5,2 milioni di lavoratori nella fascia tra 15 e 64 anni, cioè uno su quattro, «che risultano sottoinquadrati» nel lavoro rispetto al loro livello d’istruzione. Tra i giovani, sono uno su tre. Insomma: il capitale umano è sia sottoutilizzato, basti pensare alla disoccupazione giovanile (il 20,2% nella fascia 18-29 anni nel 2011), sia male utilizzato, tanto che da un lato molti posti di lavoro vengono coperti dagli stranieri e dall’altro «centinaia di nostri giovani affollano le università del mondo anglosassone».
Chi studia non lavora
«La questione giovani è un tema estremamente delicato», esordisce il rapporto del Cnel, perché qui la crisi economica ha colpito duramente, causando un forte aumento del tasso di disoccupazione in tutti i Paesi europei. In Italia però, «persiste una cultura — unica in Europa — che ancora separa nettamente il momento formativo da quello lavorativo. Solamente il 10% dei ragazzi coniuga il percorso di studi ad una qualche esperienza lavorativa» e ciò, ovviamente, «contribuisce a rendere la transizione scuola lavoro più lunga e difficile».
Troppo tempo per trovare un lavoro
Nei Paesi che invece hanno «da sempre sostenuto un mix di istruzione e lavoro (si pensi ad esempio ai Paesi scandinavi oppure a Germania, Austria e Svizzera) si sono registrati livelli di disoccupazione giovanile più bassi e la transizione scuola-lavoro tende ad avere tempi più brevi». Mediamente in Italia per trovare il primo impiego ci si mette più di due anni, 25,5 mesi per la precisione. In Germania ne bastano 18. In Danimarca 14,6, nel Regno Unito 19,4. Solo in Spagna stanno peggio di noi, con un’attesa media di quasi tre anni (34,6 mesi). Stesso trend anche se si calcola il tempo medio prima di trovare un lavoro a tempo indeterminato. In Italia ci vogliono quasi quattro anni (44,8 mesi). In Danimarca solo 21,3 mesi, ma lì non c’è l’articolo 18 (ora attenuato dopo la riforma Fornero) e le aziende possono licenziare facilmente. In Germania per un lavoro stabile si attendono in media 33,8 mesi, nel Regno Unito tre anni.
«I giovani che hanno appena completato gli studi — osservano i ricercatori — se restano per un periodo lungo in condizione di inattività, tendono a registrare un deterioramento del loro capitale umano». Inoltre, «la ricerca di un posto può portare alcuni ad accettare lavori per i quali sono richiesti requisiti inferiori rispetto al percorso scolastico seguito: è il fenomeno dell’over education».
Il Corriere della Sera 18.09.12

"Autonomia? No, lungo parcheggio", di Giovanni Scancarello

In Italia più che la scuola dell’autonomia sta riuscendo il suo esatto contrario, la scuola parcheggio. É quanto emerge dall’ultimo rapporto dell’Ocse «Education at a Glance 2012». In primo luogo, gli studenti italiani passano a scuola più tempo dei loro colleghi stranieri e il tentativo del ministro Francesco Profumo di accorciare di un anno il percorso scolastico è solo l’ultimo di una lunga serie di sfumati progetti di legge. Quando alla durata del tempo scuola (anche dopo le riduzioni orarie della riforma Gelmini) si aggiunge il centralismo del sistema scolastico registrato dall’Ocse, soprattutto in fatto di trasferimento dei fondi, allora è chiaro come esista un problema di identità dell’autonomia scolastica. La scuola italiana si piazza al sesto posto della classifica del tempo scuola più lungo. In proposito va detto che per l’Italia la lunga scolarizzazione di massa, a partire dalla scuola dell’infanzia, ha assecondato la trasformazione della società e della struttura organizzativa della famiglia, la quale ha cercato sempre di più nella scuola anche una sponda assistenziale ed educativa. Ma adesso che la scuola ha soprattutto una funzione orientativa del giovane verso il mondo del lavoro e dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita, l’importante è diversificare l’offerta formativa in modo da intercettare gli interessi e le vocazioni delle persone e di corrispondere ai cambiamenti dei loro bisogni formativi. Diversificare quindi il curricolo in funzione dell’età degli studenti è strategico ai fini del suo inserimento nella società. L’Italia in questo senso fa parte dei Paesi che presentano una struttura più indistinta dell’offerta formativa. Per esempio i tempi dedicati alla scrittura, lettura, letteratura degli studenti di 12 – 14 anni è una volta e mezza di più di quelli riservati agli alunni di 9 – 11 anni in Paesi come Austria, Portogallo, Messico e Francia. In Inghilterra la differenza di tempi didattici per queste attività è del 6%. In Italia non c’è differenza è la persona che deve adeguarsi al curricolo e non viceversa. Un curricolo obbligatorio flessibile per il primo ciclo c’è ovunque tranne che in Italia. Sta di fatto che l’Ocse conta 3933 ore di scuola ad alunno nel primo ciclo a fronte di una media Ocse di 3414 ore, a cui vanno però aggiunte 913 ore dei programmi di personalizzazione per orientare al meglio gli studenti verso il secondo ciclo, offerta di cui, anche stavolta, l’Italia non dispone. Ma non è finita qui.

L’autonomia scolastica, nata come costola del decentramento amministrativo e della riforma in senso federalista dello Stato, alla fine è rimasta incastrata in un sistema che più centralista non si può. Tralasciando la querelle tra Stato e Regioni sulle competenze in materia di istruzione che tengono la Suprema Corte impegnata ormai a ritmo quasi stagionale, l’autonomia scolastica come strumento del sistema territoriale integrato dell’istruzione forse non è mai veramente decollata. Se prendiamo ancora una volta il confronto con la Finlandia, vediamo che il 47% dei fondi per l’istruzione è in mano allo Stato e il 57% ai comuni, mentre da noi rispettivamente l’85,5% allo Stato, l’8,5 alle Regioni e l’11% ai Comuni. In Australia solo 3,3% dei finanziamenti vengono erogati dallo Stato contro il 96,7% dei finanziamenti erogati dalle regioni.

Alla fine come ogni anno, anche stavolta si rinnova il miracolo dell’apertura delle scuole, solo che i docenti italiani hanno ritrovato le proprie classi sempre più piene di studenti, che sembrano attenderli, quando va bene, già parcheggiati in doppia fila.

da ItaliaOggi 18.08.12