«Alcuni di noi credono di poter cambiare qualcosa. A un certo punto ci svegliamo e ci rendiamo conto di aver fallito». Così dice, riferendosi alla sua professione, Henry Barthes, insegnante di una scuola pubblica americana e protagonista del recente film «Detachment» (Il distacco), interpretato magistralmente da Adrien Brody, il rovescio pessimistico-malinconico del Keating dell’«Attimo fuggente». Uomo di finanza di successo, deluso dalle chimere del mercato, decide di darsi ad un lavoro privo di «consenso» ma con più «senso» per la sua vita e quella altrui. Diventa un supplente. Sì, un supplente per scelta. Non vuole un posto di ruolo, preferisce dover cambiare di frequente scuola e non rimanere troppo «attaccato» alle vite fragili di ragazzi che si aggrappano a lui, in cerca di quel «senso» che altrove non trovano.
Consapevole di non essere all’altezza di ciò di cui hanno bisogno in un mondo troppo liquido nelle relazioni e troppo fragile nelle fondamenta culturali, sconsolato dice: «Questi ragazzi hanno bisogno di qualcos’altro. Non hanno bisogno di me».
Ma di che cosa hanno bisogno, allora?
Lo mostra con eccessivo pessimismo l’intero film: i genitori non si vedono mai. In una sorta di versione tragica delle strisce di Charlie Brown, al massimo se ne sente la voce, distante, incapace di empatia, di ascolto, di tempo, di spazio, per la relazione con i figli, gettati nell’esistenza senza un’anima capace di dare consenso alle cose della vita senza esserne divorati o manipolati.
In una delle scene più malinconiche, la scuola – addobbata a festa per i colloqui – è un deserto dei Tartari, presidiato solo dai professori che attendono invano come sentinelle: non si presenta nessuno. «Dove sono tutti i genitori?» chiede una insegnante alla collega, che risponde: «Non lo so». Un altro replica: «Sono stato due ore in classe, è venuto un solo genitore. Dove sono tutti?».
«Non lo sappiamo». Gli rispondono.
Qualche giorno fa dopo aver lanciato su queste pagine l’iniziativa «Rose e libri» sono stato travolto da lettere, commenti, suggerimenti, offerte di aiuto, da parte di altri insegnanti, di genitori e di ragazzi. Dimostrazione del fatto che la Scuola, per chi ci crede, è una relazione a tre. È l’unico triangolo amoroso che può funzionare se tutti fanno lo sforzo di perseguire il bene comune che c’è in gioco: le vite dei ragazzi. L’unico triangolo amoroso in cui tutti possono essere felici.
Non riesco a capacitarmi del fatto che abbiamo accettato che la Scuola sia invece campo di battaglia tra genitori-docenti-studenti anziché pavimento su cui muoversi per realizzare quel bene di cui parlavo: la scoperta dei talenti e dei punti deboli di un ragazzo o di una ragazza.
L’educazione non è qualcosa che si improvvisa, ma richiede, caso per caso, un progetto condiviso. Che cosa possiamo fare noi insegnanti costretti a colloqui dove si dicono soltanto i voti: ora per la soddisfazione delle madri (raramente vengono i papà) di quelli bravi ora per ripetere a quelle dei meno bravi il ritornello: «ha le capacità ma non si applica». Una relazione frustrante perché ridotta al criterio utilitaristico di produrre voti e promozioni, anziché accompagnare uomini e donne a costruire un’anima «pronta», secondo il verso shakespeariano, che ho proposto ai miei studenti di quinta come motto per quest’anno di maturazione più che di maturità: «Quando la tua anima è pronta, lo sono anche le cose» (Enrico V). Perché non si fanno colloqui ad inizio anno, quando non ci sono ancora voti, per mettersi d’accordo – genitori e insegnanti – sugli obiettivi educativi da raggiungere a casa e a scuola? Perché a questi colloqui in un secondo momento non partecipano anche i ragazzi così da poter ascoltare il loro punto di vista, le difficoltà che incontrano, i sogni, i progetti? Come faccio a insegnare ad un mio alunno la disciplina della terzina dantesca, se a 16-17 anni ancora non rifà il letto da solo?
Se non c’è un progetto educativo condiviso gli insegnanti diventano erogatori di voti, i genitori clienti, gli studenti utenti. Una relazione in perfetto stile utilitaristico, con persone trasformate in prodotti di una catena di montaggio di diplomi. Ma l’uomo non è mai prodotto, mai mezzo, ma sempre fine.
O riportiamo la Scuola alla sua vocazione o ci teniamo questa grande Scuola-Guida, in cui un insegnante con una laurea e un dottorato in lettere classiche, due anni di corso di specializzazione per l’abilitazione vinto dopo un concorso con migliaia di persone per 60 posti, un master, 12 anni di insegnamento, un desiderio sconfinato di continuare a fare questo mestiere, per la Scuola di Stato non è altro che un precario in una graduatoria, abile solo, a meno di 20 euro all’ora, a coprire supplenze temporanee sufficienti a erogare qualche voto, mica a far crescere i ragazzi in una relazione continua nel tempo.
I nostri ragazzi potranno un giorno fare proprie le parole in apertura del film: «È importante trovare una guida e avere qualcuno che ci aiuti a capire la complessità del mondo. Io non l’ho mai avuto mentre crescevo». Mi spiace ma il possibile candidato era incastrato in una graduatoria il cui unico criterio di merito è l’anzianità. A 50 anni volevano dargli una cattedra, ma aveva cambiato mestiere, perché nel frattempo doveva portare avanti una famiglia, nell’Italia alla frusta del dio Spread.
La Stampa 17.09.12
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"Scuola primaria e nuove Indicazioni: idee per ri-partire", di Giancarlo Cerini
La scuola di base, in particolare la scuola dell’infanzia ed elementare, è una struttura portante della qualità dell’educazione pubblica in Italia. C’è una storia gloriosa alle spalle, con i miti fondativi della scuola materna statale del 1968, la nascita popolare del tempo pieno nel 1971, i programmi “bruneriani” del 1985, la stagione felice della pluralità docente (1990), dove tutti hanno avuto la sensazione di crescere come persone e come professionisti. Non è stato solo un mito, ci sono dati ed evidenze che attestano la qualità della nostra scuola primaria (pensiamo alle indagini Iea-Pirls, Timss, Invalsi). E’ una bella storia da cui ripartire, da rivivere non solo in termini di nostalgia, ma da rilanciare, da argomentare, da documentare. Ad esempio, utilizzando meglio gli spazi dell’autonomia organizzativa e didattica, e non chiudendosi in una logica puramente difensiva, che ci porta inevitabilmente ad un “fai da te”, ad una scuola del caso, che sembra senza bussole culturali e pedagogiche.
Certamente le vicende di questi ultimi anni hanno messo a dura prova la scuola elementare. Ci sono delle ferite ancora aperte, come quella dell’anticipo, che fa trapelare un’idea precocemente performativa che “porta via” i tempi di crescita ai bambini. Spesso prevale una semplificazione nei discorsi pubblici che brucia ogni argomentazione: pensiamo a come è stato difficile far fronte alle emergenze del ritorno al maestro unico, alla scomparsa della compresenza, al ritorno del voto in decimi (Legge 169/2008). Tutto è avvenuto senza aprire un sincero confronto pubblico. E al di là di messaggi accattivanti su una scuola più “seria” abbiamo visto progressivamente affievolirsi l’effettiva disponibilità di risorse umane, di risorse di tempo, di motivazioni professionali, di un investimento che non c’è più da diversi anni sulla formazione degli insegnanti. Questi dati sono emersi nettamente dagli esiti del monitoraggio con le scuole che ha preceduto la fase di revisione delle Indicazioni/2007 (CM 101/2011).
I punti di forza
La scuola primaria è la scuola degli alfabeti, anzi della lingua che ci fa uguali; rappresenta la nuova e vecchia frontiera della cittadinanza (il “pane e grammatica” come mission della scuola elementare nell’ottocento). Il compito della prima scuola risiede nell’alfabetizzazione: strumentale, funzionale, culturale. Ma gli alfabeti oggi sono un mix di vecchi e nuovi alfabeti, naturali, personali, tecnologici. La sfida è proprio nel tenere insieme il tema delle competenze (l’apprendimento “non inerte”, secondo la felice definizione di Piero Boscolo) con la vita dei ragazzi: spesso questo dialogo non scatta e ciò che gli allievi trovano in classe, sul banco, appare a volte come una natura morta. Nelle Indicazioni/2012 si insiste su una più sicura padronanza degli strumenti alfabetici di base. Si vogliono saperi “essenziali”, si esplora il “core curriculum”, ma questo non può significare il ritorno ad una vecchia gerarchia delle materie (quelle importanti e quelle accessorie), quanto piuttosto a dare la priorità ad alcune competenze fondamentali, come il saper ascoltare, parlare, descrivere, raccontare, argomentare, fare ipotesi, comunicare. E questo si fa attraverso una buona organizzazione del lavoro in classe, superando la scorciatoia dell’insegnamento tutto “frontale”, facendo dialogare tra di loro le discipline, mettendo al centro della vita d’aula la partecipazione costruttiva dei ragazzi. Sono valori già presenti nel testo del 2007, che vengono ripresi nella versione del 2012.
Il curricolo verticale
La vera novità è rappresentata dalla diffusione degli istituti comprensivi, con l’emergere del tema del curricolo verticale. La riscrittura delle Indicazioni (dal profilo del 14enne da condividere insieme fino agli assetti “in verticale” delle discipline) si ispira fortemente a questi principi, non in omaggio ad un generico concetto di continuità, ma per la convinzione che una maggiore coerenza (compattezza, progressione, unitarietà) del percorso dai 3 ai 14 anni possa consentire di migliorare i livelli di formazione per tutti.
In materia di curricoli verticali abbiamo buoni esempi da studiare, come i bienni progressivamente intrecciati (tra elementari e medie) in provincia di Trento, dove l’avvio (classi 1^-2^ elementare) è giocato sull’unitarietà dei primi alfabeti, quindi (3^-4^) su esperienze integrate di esplorazione e conoscenza, poi (nell’intreccio 5^ elementare-1^ media) sulla comparsa di linguaggi, codici, specializzazioni ed infine (2^-3^ media) con il momento delle opzioni, delle scelte più flessibili, delle passioni da coltivare nei ragazzi, con saperi e approfondimenti specifici. [1]
Il passaggio tra elementari e medie risulta un momento decisivo e bene hanno fatto a Scuola-Città Pestalozzi di Firenze, un istituto comprensivo sperimentale ante-litteram fin dal 1945, a costruire i bienni e i consigli di classe in verticale, dove insegnanti elementari e professori si confrontano direttamente ed, anzi, si fanno “conoscere” nelle rispettive classi per proporre esperienze intrecciate (ad esempio, laboratori di scrittura, scientifici, espressivi, operativi, ecc.) [2] .
La figura del maestro e la pluralità docente
In questo ritmo verticale della scuola di base si può ripensare anche al tema della funzione docente, da vedere in termini unitari, da arricchire nei livelli di formazione (sui saperi, sulla didattica, sulla relazione) e mantenendo una pluralità di competenze. La scelta del maestro unico si è rivelata controproducente. Nella scuola elementare si era costruito un modello originale, il team docente. Dove ha funzionato e dove non è stato sottoposto allo stress della frammentazione e della discontinuità (non sempre colpa del Ministero…) si è rivelato un efficace modello di collaborazione professionale. La comparsa di ulteriori specialisti (lingua straniera, religione, motoria, musica, tecnologie, ecc.) è avvenuta con una logica aggiuntiva ed oggi subisce i contraccolpi dei “tagli”. Occorre immaginare team semplici, che gradualmente si arricchiscono e che si avvalgono, nella dimensione del plesso o dell’istituto di una rete di figure specialistiche con competenze da mettere a disposizione della scuola (formazione in servizio, laboratori, compresenze mirate, tutoraggio, valutazione, ecc.) senza inseguire modelli orari a ”cattedra”. Sarebbe questa l’idea vincente di un organico funzionale di istituto (Legge 35/2012) da vivere come arricchimento complessivo della comunità professionale, che può dare un tono alto alla scuola primaria e favorire l’incontro con la scuola media.
Le prospettive della “buona” scuola
Dobbiamo comunicare una buona scuola e praticarla con più coraggio. Essere esigenti con noi stessi, ad esempio ripensando a tutto campo le condizioni per l’esercizio della funzione docente (gli orari, la carriera, la formazione “obbligatoria”, la valutazione), mettendo da parte le deludenti sicurezze di questi anni.
Bisogna andare oltre la casualità difensiva di oggi, che rischia di trasformare la scuola elementare in un caleidoscopio fai-da-te. Occorre interrogarsi sui compiti formativi della scuola primaria italiana nei prossimi anni, sui concetti di alfabetizzazione, di accoglienza, di ambiente di apprendimento, per confermare il valore sociale di un bene immateriale com’è la scuola di base in termini di coesione sociale, di solidarietà, di cittadinanza. Il testo delle Indicazioni/2012 è un buon “pre-testo” per ri-dirci tutto questo. Ci sono motivazioni forti, nobili, difendibili, che possono ri-appassionare gli insegnanti, i dirigenti, il personale, coloro che fanno funzionare questa scuola tutti i giorni. Possono e sono in grado anche di farla crescere, di farla vivere, di trasformare la comunità professionale in una comunità educativa che continui ad essere apprezzata dai genitori e al centro della nostra società.
(*) Il presente intervento fa parte di una più ampia pubblicazione, curata da G.Cerini assieme ad una cinquantina di altri autori (insegnanti, dirigenti, docenti universitari), sulle parole chiave delle Indicazioni/2012, in forma di abbecedario dei concetti fondamentali: Indicazioni 2012: passa…parola, Homeless Book, Faenza (RA), 2012. (Il testo non è in commercio e può essere richiesto al Cidi di Forlì: cidifo@mclink.it
[1] Secondo il recente rapporto della Fondazione Agnelli sulla scuola media, accreditate ricerche europee segnalano che gli adolescenti italiani sono molto meno motivati verso l’esperienza scolastica dei loro coetanei europei. Un segnale di disaffezione che va colto con molta attenzione (Fondazione Giovanni Agnelli, Rapporto sulla scuola in Italia 2011, Laterza, Bari-Roma, 2011).
[2] P.Orefice, S.Dogliani, G.Del Gobbo, Competenze trasversali a scuola. Trasferibilità della sperimentazione di Scuola-Città Pestalozzi, Edizioni ETS, Pisa, 2011.
da ScuolaOggi.org
"Scuola primaria e nuove Indicazioni: idee per ri-partire", di Giancarlo Cerini
La scuola di base, in particolare la scuola dell’infanzia ed elementare, è una struttura portante della qualità dell’educazione pubblica in Italia. C’è una storia gloriosa alle spalle, con i miti fondativi della scuola materna statale del 1968, la nascita popolare del tempo pieno nel 1971, i programmi “bruneriani” del 1985, la stagione felice della pluralità docente (1990), dove tutti hanno avuto la sensazione di crescere come persone e come professionisti. Non è stato solo un mito, ci sono dati ed evidenze che attestano la qualità della nostra scuola primaria (pensiamo alle indagini Iea-Pirls, Timss, Invalsi). E’ una bella storia da cui ripartire, da rivivere non solo in termini di nostalgia, ma da rilanciare, da argomentare, da documentare. Ad esempio, utilizzando meglio gli spazi dell’autonomia organizzativa e didattica, e non chiudendosi in una logica puramente difensiva, che ci porta inevitabilmente ad un “fai da te”, ad una scuola del caso, che sembra senza bussole culturali e pedagogiche.
Certamente le vicende di questi ultimi anni hanno messo a dura prova la scuola elementare. Ci sono delle ferite ancora aperte, come quella dell’anticipo, che fa trapelare un’idea precocemente performativa che “porta via” i tempi di crescita ai bambini. Spesso prevale una semplificazione nei discorsi pubblici che brucia ogni argomentazione: pensiamo a come è stato difficile far fronte alle emergenze del ritorno al maestro unico, alla scomparsa della compresenza, al ritorno del voto in decimi (Legge 169/2008). Tutto è avvenuto senza aprire un sincero confronto pubblico. E al di là di messaggi accattivanti su una scuola più “seria” abbiamo visto progressivamente affievolirsi l’effettiva disponibilità di risorse umane, di risorse di tempo, di motivazioni professionali, di un investimento che non c’è più da diversi anni sulla formazione degli insegnanti. Questi dati sono emersi nettamente dagli esiti del monitoraggio con le scuole che ha preceduto la fase di revisione delle Indicazioni/2007 (CM 101/2011).
I punti di forza
La scuola primaria è la scuola degli alfabeti, anzi della lingua che ci fa uguali; rappresenta la nuova e vecchia frontiera della cittadinanza (il “pane e grammatica” come mission della scuola elementare nell’ottocento). Il compito della prima scuola risiede nell’alfabetizzazione: strumentale, funzionale, culturale. Ma gli alfabeti oggi sono un mix di vecchi e nuovi alfabeti, naturali, personali, tecnologici. La sfida è proprio nel tenere insieme il tema delle competenze (l’apprendimento “non inerte”, secondo la felice definizione di Piero Boscolo) con la vita dei ragazzi: spesso questo dialogo non scatta e ciò che gli allievi trovano in classe, sul banco, appare a volte come una natura morta. Nelle Indicazioni/2012 si insiste su una più sicura padronanza degli strumenti alfabetici di base. Si vogliono saperi “essenziali”, si esplora il “core curriculum”, ma questo non può significare il ritorno ad una vecchia gerarchia delle materie (quelle importanti e quelle accessorie), quanto piuttosto a dare la priorità ad alcune competenze fondamentali, come il saper ascoltare, parlare, descrivere, raccontare, argomentare, fare ipotesi, comunicare. E questo si fa attraverso una buona organizzazione del lavoro in classe, superando la scorciatoia dell’insegnamento tutto “frontale”, facendo dialogare tra di loro le discipline, mettendo al centro della vita d’aula la partecipazione costruttiva dei ragazzi. Sono valori già presenti nel testo del 2007, che vengono ripresi nella versione del 2012.
Il curricolo verticale
La vera novità è rappresentata dalla diffusione degli istituti comprensivi, con l’emergere del tema del curricolo verticale. La riscrittura delle Indicazioni (dal profilo del 14enne da condividere insieme fino agli assetti “in verticale” delle discipline) si ispira fortemente a questi principi, non in omaggio ad un generico concetto di continuità, ma per la convinzione che una maggiore coerenza (compattezza, progressione, unitarietà) del percorso dai 3 ai 14 anni possa consentire di migliorare i livelli di formazione per tutti.
In materia di curricoli verticali abbiamo buoni esempi da studiare, come i bienni progressivamente intrecciati (tra elementari e medie) in provincia di Trento, dove l’avvio (classi 1^-2^ elementare) è giocato sull’unitarietà dei primi alfabeti, quindi (3^-4^) su esperienze integrate di esplorazione e conoscenza, poi (nell’intreccio 5^ elementare-1^ media) sulla comparsa di linguaggi, codici, specializzazioni ed infine (2^-3^ media) con il momento delle opzioni, delle scelte più flessibili, delle passioni da coltivare nei ragazzi, con saperi e approfondimenti specifici. [1]
Il passaggio tra elementari e medie risulta un momento decisivo e bene hanno fatto a Scuola-Città Pestalozzi di Firenze, un istituto comprensivo sperimentale ante-litteram fin dal 1945, a costruire i bienni e i consigli di classe in verticale, dove insegnanti elementari e professori si confrontano direttamente ed, anzi, si fanno “conoscere” nelle rispettive classi per proporre esperienze intrecciate (ad esempio, laboratori di scrittura, scientifici, espressivi, operativi, ecc.) [2] .
La figura del maestro e la pluralità docente
In questo ritmo verticale della scuola di base si può ripensare anche al tema della funzione docente, da vedere in termini unitari, da arricchire nei livelli di formazione (sui saperi, sulla didattica, sulla relazione) e mantenendo una pluralità di competenze. La scelta del maestro unico si è rivelata controproducente. Nella scuola elementare si era costruito un modello originale, il team docente. Dove ha funzionato e dove non è stato sottoposto allo stress della frammentazione e della discontinuità (non sempre colpa del Ministero…) si è rivelato un efficace modello di collaborazione professionale. La comparsa di ulteriori specialisti (lingua straniera, religione, motoria, musica, tecnologie, ecc.) è avvenuta con una logica aggiuntiva ed oggi subisce i contraccolpi dei “tagli”. Occorre immaginare team semplici, che gradualmente si arricchiscono e che si avvalgono, nella dimensione del plesso o dell’istituto di una rete di figure specialistiche con competenze da mettere a disposizione della scuola (formazione in servizio, laboratori, compresenze mirate, tutoraggio, valutazione, ecc.) senza inseguire modelli orari a ”cattedra”. Sarebbe questa l’idea vincente di un organico funzionale di istituto (Legge 35/2012) da vivere come arricchimento complessivo della comunità professionale, che può dare un tono alto alla scuola primaria e favorire l’incontro con la scuola media.
Le prospettive della “buona” scuola
Dobbiamo comunicare una buona scuola e praticarla con più coraggio. Essere esigenti con noi stessi, ad esempio ripensando a tutto campo le condizioni per l’esercizio della funzione docente (gli orari, la carriera, la formazione “obbligatoria”, la valutazione), mettendo da parte le deludenti sicurezze di questi anni.
Bisogna andare oltre la casualità difensiva di oggi, che rischia di trasformare la scuola elementare in un caleidoscopio fai-da-te. Occorre interrogarsi sui compiti formativi della scuola primaria italiana nei prossimi anni, sui concetti di alfabetizzazione, di accoglienza, di ambiente di apprendimento, per confermare il valore sociale di un bene immateriale com’è la scuola di base in termini di coesione sociale, di solidarietà, di cittadinanza. Il testo delle Indicazioni/2012 è un buon “pre-testo” per ri-dirci tutto questo. Ci sono motivazioni forti, nobili, difendibili, che possono ri-appassionare gli insegnanti, i dirigenti, il personale, coloro che fanno funzionare questa scuola tutti i giorni. Possono e sono in grado anche di farla crescere, di farla vivere, di trasformare la comunità professionale in una comunità educativa che continui ad essere apprezzata dai genitori e al centro della nostra società.
(*) Il presente intervento fa parte di una più ampia pubblicazione, curata da G.Cerini assieme ad una cinquantina di altri autori (insegnanti, dirigenti, docenti universitari), sulle parole chiave delle Indicazioni/2012, in forma di abbecedario dei concetti fondamentali: Indicazioni 2012: passa…parola, Homeless Book, Faenza (RA), 2012. (Il testo non è in commercio e può essere richiesto al Cidi di Forlì: cidifo@mclink.it
[1] Secondo il recente rapporto della Fondazione Agnelli sulla scuola media, accreditate ricerche europee segnalano che gli adolescenti italiani sono molto meno motivati verso l’esperienza scolastica dei loro coetanei europei. Un segnale di disaffezione che va colto con molta attenzione (Fondazione Giovanni Agnelli, Rapporto sulla scuola in Italia 2011, Laterza, Bari-Roma, 2011).
[2] P.Orefice, S.Dogliani, G.Del Gobbo, Competenze trasversali a scuola. Trasferibilità della sperimentazione di Scuola-Città Pestalozzi, Edizioni ETS, Pisa, 2011.
da ScuolaOggi.org
"Un grande discorso di un grande presidente", di Mario Pirani
Nello smarrimento delle idee politiche credo giochi la perdita di quegli strumenti che un tempo orientavano l´opinione pubblica: i discorsi e gli editoriali domenicali dei leader di partito, i comizi particolarmente significanti, i dibattiti parlamentari di maggior peso. Via via col passar degli anni le tappe riconosciute della discussione politica si sono stemperate nei talk show televisivi, nella vanità dei gossip come fatti del giorno, nella distratta citazione di questa o quella frase. Per questo acquistano inaspettato valore alcuni interventi singoli, autorevoli, pronunciati, il che non guasta, nell´osservanza della forma. Il più recente esempio ci è dato dal discorso del Presidente della Repubblica a Venezia, il 6 settembre scorso, sulla europeizzazione della politica. Non si tratta di una orazione retorica ma di una proposizione aperta, un invito al confronto dialettico, al rifiuto di vecchie idee e alla ricerca di un pensiero rinnovato. Un tempo lo si sarebbe discusso nelle sezioni e nei circoli politici, animando anche fruttuose contrapposizioni. Oggi ci contentiamo di segnalarlo ai nostri lettori, partendo dall´allarmato incipit: “In Europa la politica è in affanno e naviga a vista perché le vecchie mappe risultano sempre più inservibili e le nuove restano ancora lontane da un disegno compiuto… In un continente interconnesso la politica è rimasta nazionale ed è questo un fattore di crisi della costruzione europea”. Analisi non contestabile anche se, a mio avviso, avrebbe ricevuto un contributo di completezza storica il richiamo esplicito alle vecchie mappe ormai consunte ma, comunque, depositarie di una esperienza di massa non cancellabile: il cattolicesimo sociale, il comunismo, la social democrazia. Se Napolitano ne ha sottaciuto l´esperienza è probabile non volesse dar l´impressione di ripercorrere le vie del passato nel momento in cui riproponeva con forza l´esigenza di un impegno per il presente e per il futuro. Per questo si trova nelle sue parole quell´afflato volontaristico, oggi desueto, o addirittura esplicitamente respinto. Per il Presidente non è così: “La crisi ha oggi il suo epicentro nell´Europa della moneta unica. È qualcosa che domina la politica e la vita quotidiana, lo specchio inquietante di tutti i dilemmi che ci assillano…. Le vicende convulse che per effetto della crisi si stanno da un biennio succedendo nell´Eurozona spingono con inaudita forza oggettiva in una direzione ineludibile: quella di una integrazione sempre più stretta e comprensiva tra gli Stati unitisi prima nella Comunità e poi nell´Unione”. È un tema su cui il discorso si articola lungamente come anche sugli ostacoli che vi si frappongono, assieme alla “coscienza di come sarebbe catastrofica la scelta opposta… Ma quale può essere la via d´uscita? Il passaggio, per la democrazia, dalla dimensione nazionale a una dimensione sovranazionale…. Quella che manca è una dialettica finalmente europea, con le sue sedi, le sue forme di espressione, le sue forze protagoniste”. Il discorso è il racconto “di una crisi che ha finito da più parti per essere rappresentata come se l´integrazione europea, culminata nell´Euro, ne fosse più la causa che la sola possibile via d´uscita”.
Non ho qui purtroppo lo spazio per dar conto della chiamata in causa delle leadership politiche e dei partiti. L´appello suona chiaro: “Nessuna nuova o più vitale democrazia potrà nascere dalla demonizzazione dei partiti, nel deserto dei partiti. Quel che è indispensabile è che si rinnovino, riacquistino quel più alto senso della missione… impegnandosi in una vera e propria controffensiva europeista”. Seguono proposte concrete sull´europeizzazione. Chi riuscirà a leggerle ne trarrà utili indicazioni. Ancor più ne trarrebbero un benefico nutrimento anche culturale tutti quei detrattori di professione impegnati da tempo nel vilipendere il Capo dello Stato e che hanno fin qui dato purtroppo prova di non sapere quello che fanno.
La Repubblica 17.09.12
"Un grande discorso di un grande presidente", di Mario Pirani
Nello smarrimento delle idee politiche credo giochi la perdita di quegli strumenti che un tempo orientavano l´opinione pubblica: i discorsi e gli editoriali domenicali dei leader di partito, i comizi particolarmente significanti, i dibattiti parlamentari di maggior peso. Via via col passar degli anni le tappe riconosciute della discussione politica si sono stemperate nei talk show televisivi, nella vanità dei gossip come fatti del giorno, nella distratta citazione di questa o quella frase. Per questo acquistano inaspettato valore alcuni interventi singoli, autorevoli, pronunciati, il che non guasta, nell´osservanza della forma. Il più recente esempio ci è dato dal discorso del Presidente della Repubblica a Venezia, il 6 settembre scorso, sulla europeizzazione della politica. Non si tratta di una orazione retorica ma di una proposizione aperta, un invito al confronto dialettico, al rifiuto di vecchie idee e alla ricerca di un pensiero rinnovato. Un tempo lo si sarebbe discusso nelle sezioni e nei circoli politici, animando anche fruttuose contrapposizioni. Oggi ci contentiamo di segnalarlo ai nostri lettori, partendo dall´allarmato incipit: “In Europa la politica è in affanno e naviga a vista perché le vecchie mappe risultano sempre più inservibili e le nuove restano ancora lontane da un disegno compiuto… In un continente interconnesso la politica è rimasta nazionale ed è questo un fattore di crisi della costruzione europea”. Analisi non contestabile anche se, a mio avviso, avrebbe ricevuto un contributo di completezza storica il richiamo esplicito alle vecchie mappe ormai consunte ma, comunque, depositarie di una esperienza di massa non cancellabile: il cattolicesimo sociale, il comunismo, la social democrazia. Se Napolitano ne ha sottaciuto l´esperienza è probabile non volesse dar l´impressione di ripercorrere le vie del passato nel momento in cui riproponeva con forza l´esigenza di un impegno per il presente e per il futuro. Per questo si trova nelle sue parole quell´afflato volontaristico, oggi desueto, o addirittura esplicitamente respinto. Per il Presidente non è così: “La crisi ha oggi il suo epicentro nell´Europa della moneta unica. È qualcosa che domina la politica e la vita quotidiana, lo specchio inquietante di tutti i dilemmi che ci assillano…. Le vicende convulse che per effetto della crisi si stanno da un biennio succedendo nell´Eurozona spingono con inaudita forza oggettiva in una direzione ineludibile: quella di una integrazione sempre più stretta e comprensiva tra gli Stati unitisi prima nella Comunità e poi nell´Unione”. È un tema su cui il discorso si articola lungamente come anche sugli ostacoli che vi si frappongono, assieme alla “coscienza di come sarebbe catastrofica la scelta opposta… Ma quale può essere la via d´uscita? Il passaggio, per la democrazia, dalla dimensione nazionale a una dimensione sovranazionale…. Quella che manca è una dialettica finalmente europea, con le sue sedi, le sue forme di espressione, le sue forze protagoniste”. Il discorso è il racconto “di una crisi che ha finito da più parti per essere rappresentata come se l´integrazione europea, culminata nell´Euro, ne fosse più la causa che la sola possibile via d´uscita”.
Non ho qui purtroppo lo spazio per dar conto della chiamata in causa delle leadership politiche e dei partiti. L´appello suona chiaro: “Nessuna nuova o più vitale democrazia potrà nascere dalla demonizzazione dei partiti, nel deserto dei partiti. Quel che è indispensabile è che si rinnovino, riacquistino quel più alto senso della missione… impegnandosi in una vera e propria controffensiva europeista”. Seguono proposte concrete sull´europeizzazione. Chi riuscirà a leggerle ne trarrà utili indicazioni. Ancor più ne trarrebbero un benefico nutrimento anche culturale tutti quei detrattori di professione impegnati da tempo nel vilipendere il Capo dello Stato e che hanno fin qui dato purtroppo prova di non sapere quello che fanno.
La Repubblica 17.09.12
"Le Regioni e la crisi morale", di Michele Brambilla
In queste settimane gli scandali – che da noi sono di routine: gli italiani, diceva Flaiano, sono mossi da uno sfrenato bisogno di ingiustizia – riguardano due amministrazioni regionali: quella del Lazio, dove l’ex capogruppo del Pdl è accusato di aver fatto sparire qualche milione, e quella della Lombardia, dove si sta arricchendo di nuovi capitoli il tormentone Daccò-Formigoni. Se si tiene conto che l’ultimo scandalo a scoppiare era stato quello della Sicilia e della sua quasi bancarotta, possiamo dire che negli ultimi mesi le cosiddette storie di tangentopoli e di malapolitica hanno riguardato soprattutto amministrazioni regionali, in un asse che attraversa tutta la Penisola: Nord, Centro, Sud. Tre storie naturalmente diverse l’una dall’altra, e non necessariamente destinate a finire con delle condanne: come sempre, deciderà la magistratura. Ma tre storie destinate comunque a disilludere tutti coloro che, da tempo, invocano il decentramento amministrativo, o federalismo o autonomia che dir si voglia, come antidoto agli sprechi, alla cattiva amministrazione, alle ruberie. Si ruba a Roma come si ruba in Gallia, questa è l’ovvia verità.
Non lo diciamo per mettere in discussione il sistema delle autonomie, che anzi ha indubbiamente i suoi innegabili benefici. Ma per mettere almeno una pulce nell’orecchio di chi si illude che i guai del nostro Paese – che da molti anni sono tanti, e non riguardano solo la violazione del settimo comandamento – possano essere risolti a colpi di riforme, di leggi, di norme, di raccolte di firme, di referendum, e così via.
Ricordate di che cosa si parlava in Italia nella primavera del 1992, a Mani Pulite da poco scoppiata? Di un referendum, appunto. Quello che avrebbe spazzato via il vero cancro della Prima Repubblica, cioè il sistema proporzionale e le preferenze. Gli italiani accorsero in massa ad approvare il nuovo sistema elettorale maggioritario. Come sia andata a finire nella Seconda Repubblica quanto a debito pubblico e moralità privata, lo sappiamo bene.
Che l’Italia abbia bisogno di riforme, è senz’altro vero. Ma la crisi di oggi – non solo italiana, ma mondiale – è una crisi soprattutto morale. È il nostro modo di vivere (per «nostro» intendendo quello di tutti noi, non solo della casta) che va ripensato. L’ha detto il Papa e l’ha detto anche il presidente Napolitano. Lo dice soprattutto l’osservazione della realtà: la vera emergenza, in Italia, negli ultimi decenni è quella educativa. Invece continuiamo a illuderci che tutto si possa risolvere con emendamenti, norme, commi e paragrafi.
Vi dice niente il fatto che in queste settimane al centro delle nostre speranze stiamo riponendo la riforma elettorale? E che con questa riforma si vorrebbero reintrodurre – tra le varie ipotesi – il sistema proporzionale e le preferenze? Cioè le stesse norme che abbiamo abrogato a furor di popolo vent’anni fa? E ancora: non avevamo forse abrogato il finanziamento pubblico dei partiti, per poi reintrodurlo? È cambiato qualcosa? E la scuola? Avete in mente quanti cambiamenti di forme, e non di sostanze, sono stati fatti in questi anni per migliorare la scuola? Siamo passati dai voti in numeri a quelli in lettere e poi ai giudizi per tornare ai voti in numeri; alla maturità una volta c’erano i sessantesimi e adesso i centesimi. Per cambiare che cosa? Avvitati su noi stessi alla ricerca di magiche «norme» o «riforme», continuiamo ad autoconvincerci che bene e male vengano dall’esterno, e non dall’interno, di ciascuno di noi. L’altro giorno Matteo Renzi, parlando a un popolo presumibilmente perplesso su quanto stava per dire, ha detto che è illusorio pensare che l’articolo 18 tuteli il posto di lavoro, perché se un imprenditore vuole (o ahilui deve) chiudere, chiude. E buona notte alle «regole».
Intendiamoci bene, altrimenti qui ci si accusa di disfattismo se non di peggio. Che le regole ci vogliano, e che debbano essere le migliori possibili, è ovvio. Quindi continuiamo a cercare di perfezionarle. Ma ricordando le parole di quella grande sovrana illuminata che fu Caterina II di Russia, per la quale «è meglio uno Stato con cattive leggi applicate che uno con buone leggi non applicate».
Noi ci spingiamo un po’ più in là, e diciamo che meglio ancora sarebbe uno Stato con leggi applicate da persone oneste. Oneste nei limiti umani, s’intende, perché di immacolato non c’è nessuno: ma comunque migliori di certi impuniti dei giorni nostri. Ecco perché diciamo che la prima emergenza, per l’Italia, è da tempo quella educativa. Perché per tirarsi fuori dai guai, più che di nuove leggi, l’Italia avrebbe bisogno di nuovi uomini, molto più difficili da promulgare.
La Stampa 17.09.12
"Le Regioni e la crisi morale", di Michele Brambilla
In queste settimane gli scandali – che da noi sono di routine: gli italiani, diceva Flaiano, sono mossi da uno sfrenato bisogno di ingiustizia – riguardano due amministrazioni regionali: quella del Lazio, dove l’ex capogruppo del Pdl è accusato di aver fatto sparire qualche milione, e quella della Lombardia, dove si sta arricchendo di nuovi capitoli il tormentone Daccò-Formigoni. Se si tiene conto che l’ultimo scandalo a scoppiare era stato quello della Sicilia e della sua quasi bancarotta, possiamo dire che negli ultimi mesi le cosiddette storie di tangentopoli e di malapolitica hanno riguardato soprattutto amministrazioni regionali, in un asse che attraversa tutta la Penisola: Nord, Centro, Sud. Tre storie naturalmente diverse l’una dall’altra, e non necessariamente destinate a finire con delle condanne: come sempre, deciderà la magistratura. Ma tre storie destinate comunque a disilludere tutti coloro che, da tempo, invocano il decentramento amministrativo, o federalismo o autonomia che dir si voglia, come antidoto agli sprechi, alla cattiva amministrazione, alle ruberie. Si ruba a Roma come si ruba in Gallia, questa è l’ovvia verità.
Non lo diciamo per mettere in discussione il sistema delle autonomie, che anzi ha indubbiamente i suoi innegabili benefici. Ma per mettere almeno una pulce nell’orecchio di chi si illude che i guai del nostro Paese – che da molti anni sono tanti, e non riguardano solo la violazione del settimo comandamento – possano essere risolti a colpi di riforme, di leggi, di norme, di raccolte di firme, di referendum, e così via.
Ricordate di che cosa si parlava in Italia nella primavera del 1992, a Mani Pulite da poco scoppiata? Di un referendum, appunto. Quello che avrebbe spazzato via il vero cancro della Prima Repubblica, cioè il sistema proporzionale e le preferenze. Gli italiani accorsero in massa ad approvare il nuovo sistema elettorale maggioritario. Come sia andata a finire nella Seconda Repubblica quanto a debito pubblico e moralità privata, lo sappiamo bene.
Che l’Italia abbia bisogno di riforme, è senz’altro vero. Ma la crisi di oggi – non solo italiana, ma mondiale – è una crisi soprattutto morale. È il nostro modo di vivere (per «nostro» intendendo quello di tutti noi, non solo della casta) che va ripensato. L’ha detto il Papa e l’ha detto anche il presidente Napolitano. Lo dice soprattutto l’osservazione della realtà: la vera emergenza, in Italia, negli ultimi decenni è quella educativa. Invece continuiamo a illuderci che tutto si possa risolvere con emendamenti, norme, commi e paragrafi.
Vi dice niente il fatto che in queste settimane al centro delle nostre speranze stiamo riponendo la riforma elettorale? E che con questa riforma si vorrebbero reintrodurre – tra le varie ipotesi – il sistema proporzionale e le preferenze? Cioè le stesse norme che abbiamo abrogato a furor di popolo vent’anni fa? E ancora: non avevamo forse abrogato il finanziamento pubblico dei partiti, per poi reintrodurlo? È cambiato qualcosa? E la scuola? Avete in mente quanti cambiamenti di forme, e non di sostanze, sono stati fatti in questi anni per migliorare la scuola? Siamo passati dai voti in numeri a quelli in lettere e poi ai giudizi per tornare ai voti in numeri; alla maturità una volta c’erano i sessantesimi e adesso i centesimi. Per cambiare che cosa? Avvitati su noi stessi alla ricerca di magiche «norme» o «riforme», continuiamo ad autoconvincerci che bene e male vengano dall’esterno, e non dall’interno, di ciascuno di noi. L’altro giorno Matteo Renzi, parlando a un popolo presumibilmente perplesso su quanto stava per dire, ha detto che è illusorio pensare che l’articolo 18 tuteli il posto di lavoro, perché se un imprenditore vuole (o ahilui deve) chiudere, chiude. E buona notte alle «regole».
Intendiamoci bene, altrimenti qui ci si accusa di disfattismo se non di peggio. Che le regole ci vogliano, e che debbano essere le migliori possibili, è ovvio. Quindi continuiamo a cercare di perfezionarle. Ma ricordando le parole di quella grande sovrana illuminata che fu Caterina II di Russia, per la quale «è meglio uno Stato con cattive leggi applicate che uno con buone leggi non applicate».
Noi ci spingiamo un po’ più in là, e diciamo che meglio ancora sarebbe uno Stato con leggi applicate da persone oneste. Oneste nei limiti umani, s’intende, perché di immacolato non c’è nessuno: ma comunque migliori di certi impuniti dei giorni nostri. Ecco perché diciamo che la prima emergenza, per l’Italia, è da tempo quella educativa. Perché per tirarsi fuori dai guai, più che di nuove leggi, l’Italia avrebbe bisogno di nuovi uomini, molto più difficili da promulgare.
La Stampa 17.09.12
