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Sisma, Ghizzoni: “Alfano non sa di cosa parla”

La presidente della Commissione Cultura “Riapertura scuole è passo verso la normalità”. “L’Emilia sta dando una lezione di buona politica e di efficacia nell’azione delle istituzioni pubbliche”: con queste parole la parlamentare modenese del Pd e presidente della Commissione Cultura della Camera dei deputati Manuela Ghizzoni risponde alle affermazioni fatte dal segretario del Pdl Angelino Alfano, domenica, nel corso della locale Festa del Pdl quando ha sostenuto che la gestione del dopo-sisma in Abruzzo è stata migliore rispetto a quella emiliana.

“Mi chiedo di cosa parli l’ex ministro Alfano quando tesse le lodi del “modello L’Aquila”, contrapponendolo a quello emiliano? L’Emilia sta dando una lezione di buona politica e di efficacia nell’azione delle istituzioni pubbliche. – lo dichiara la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienze ed Istruzione della Camera dei Deputati – La riapertura dell’anno scolastico per le scuole emiliane colpite dal terremoto è un passo importante verso il ritorno alla normalità. L’impegno di questi mesi da parte di tutte le istituzioni, centrali e locali, è stato – spiega Ghizzoni – quello di garantire un “regolare” anno scolastico, in sedi ristrutturate in tempi rapidi oppure in strutture temporanee. Con la conferma di oggi, da parte del sottosegretario Rossi Doria, dell’assegnazione di ulteriori 500 posti in organico, da assegnare in base a progetti stilati dalle istituzioni scolastiche, si riuscirà a dare un contributo concreto per andare oltre l’emergenza e garantire l’alto livello di istruzione caratteristico del nostro territorio. Alfano non sa di cosa parla. L’Emilia ha dimostrato – conclude la Presidente Ghizzoni – che dall’emergenza terremoto si esce solo attraverso la collaborazione tra i diversi livelli istituzionali, proprio quello che è venuto a mancare nel capoluogo abruzzese.”

«La fretta aiuta gli scettici», di Gianni Trovati

«Io sono un deciso sostenitore dell’abilitazione nazionale, ma le cose vanno fatte bene altrimenti danno argomenti agli scettici e si favoriscono le tante resistenze alle innovazioni». Il nome di Valerio Onida, ex presidente della Consulta e ora alla guida dell’Associazione nazionale dei costituzionalisti che ha promosso il ricorso contro i parametri sulla classificazione delle riviste, in queste settimane di polemica è stato speso da chiunque si opponga alla nuova procedura ideata per scegliere i commissari (e poi gli abilitati): «Se lo dice Onida…». Il professore, però, ci tiene a sottolineare che nel mirino non c’è la scelta di superare i concorsi locali, ma la strada imboccata per raggiungere l’obiettivo.
Partiamo dalle chance di accoglimento del ricorso: il Tar non ha concesso la sospensiva, e su questa scelta sono fiorite le interpretazioni.
È una procedura del tutto normale, perché le norme prevedono che ciò avvenga quando l’istanza è apprezzabile e può essere soddisfatta nel merito. Certo, il rinvio a gennaio presuppone tempi lunghi, ma purtroppo queste sono le prassi del nostro sistema.
Perché avete contestato la classificazione delle riviste?
Perché nel nostro settore, e non solo, questa classificazione non c’era quando le pubblicazioni sono state effettuate, e non può essere decisa a posteriori. Un conto sono le «scienze dure», dove i parametri bibliometrici sono già impiegati e c’è un sistema controverso ma apprezzabile, altro conto sono le discipline dove non c’è mai stato nulla del genere.
Ma non pensa che anche nelle aree giuridiche e umanistiche sia utile un sistema di valutazione più oggettivo?
Un meccanismo così può essere utile, ma prima si fissano parametri chiari, e poi si giudicano su questa base le pubblicazioni successive. Altrimenti il risultato può essere opposto ai desiderata.
Cioè?
Troppa fretta e schematismo portano a soluzioni deboli, con un grosso rischio di ricorsi: sarebbe stato meglio prendersi più tempo per trovare soluzioni più sicure.

Il Sole 24 Ore 17.09.12

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“Il «concorso» nazionale che spacca gli atenei”, di Gianni Trovati

La parola d’ordine è «mediana». In queste settimane i professori universitari non discutono d’altro: non solo nei dipartimenti di matematica e statistica, ma da filologia classica a medicina il «valore che si trova al centro della distribuzione del gruppo di valori considerato» domina i discorsi di docenti abitualmente impegnati in letture metriche o analisi di laboratorio.

La ragione è che le mediane regolano il “traffico” dell’abilitazione nazionale, la strada tracciata dalla riforma Gelmini per diventare docente universitario cancellando le vecchie «concorsopoli» locali.
La macchina è partita, e si trova nella fase che interessa più da vicino gli ordinari: la raccolta dei commissari che dovranno giudicare gli aspiranti abilitati. In 7.350, cioè la metà dei professori titolati, hanno fatto domanda (poco più di 400 l’hanno ritirata), e attendono entro il 7 ottobre prossimo di sapere se potranno o meno far parte delle commissioni. Per avere il via libera, qui sta il punto, occorre aver pubblicato più libri e articoli, o aver ricevuto più citazioni, rispetto appunto al valore mediano registrato dai colleghi del loro settore.
L’obiettivo è semplice, escludere dalle commissioni chi ha una cattedra ma non pare troppo impegnato nell’attività di ricerca. La traduzione pratica, però, si è rivelata meno banale del previsto. Il mondo universitario è stato diviso in due famiglie. Nelle scienze (le aree 1-9 nella tabella qui sopra, più psicologia), dove criteri bibliometrici e referaggio sono attrezzi abituali del mestiere, gli indicatori sono il numero di articoli pubblicati, le citazioni ricevute e l’indice di Hirsch, che sulla base di pubblicazioni e citazioni misura l’impatto del lavoro degli studiosi. Nelle discipline umanistiche ed economiche (aree 10-14, tranne psicologia) i parametri sono rappresentati da numero di libri, numero di articoli o capitoli di libri, e infine dal numero di articoli pubblicati su riviste di «fascia A», cioè ritenute eccellenti. Il Cineca, il consorzio che cura l’informatica accademica, ha iniziato ad “avvisare” i docenti sull’esito delle selezioni, ma l’esame con i dati aggiornati tocca ora all’Agenzia di valutazione del sistema universitario (Anvur) e alla fine più del 75% dovrebbe farcela.
Le regole, però, non sono uguali per tutti: per potersi sedere in commissione, i professori della prima famiglia devono superare la mediana in almeno due dei tre indicatori, mentre per umanisti ed economisti basta centrare un risultato utile su tre. Un’eccezione ulteriore, imprevista dalle regole attuative della riforma, è rappresentata dai giuristi: per loro, infatti, l’elenco delle riviste di «fascia A» non è stato pubblicato, forse perché travolto da eccessiva polemica.
Sulla questione delle riviste poggia infatti il ricorso presentato dall’Associazione italiana dei costituzionalisti guidata dall’ex presidente della Consulta Valerio Onida (si veda anche l’intervista qui a fianco), che contesta il fatto di aver fissato ex post una graduatoria fra le riviste che non esisteva quando le pubblicazioni sono state effettuate. Il Tar Lazio non ha accolto la sospensiva, ma questo non permette nessun pronostico sulla decisione di merito, in calendario per mercoledì 23 gennaio: entro la fine della stessa settimana le commissioni dovrebbero completare il loro esame dei candidati alle abilitazioni (devono presentare domanda entro il 20 novembre), e una bocciatura rischierebbe di trascinare nel caos tutta l’architettura.
Anche perché il nodo delle riviste interessa “solo” le aree umanistiche, giuridiche ed economiche, che abbracciano circa il 40% dei commissari. Ma nel mondo accademico, assai sensibile al tema concorsi, sono molti altri i temi che agitano il dibattito. Mercoledì scorso il Consiglio universitario nazionale (Cun), l’organo di rappresentanza dei docenti, ha chiesto in due mozioni all’Anvur di chiarire come sono state calcolate le mediane, e se saranno utilizzate o no anche per i candidati all’abilitazione. Viste le difficoltà dell’avvio, che hanno spinto l’Agenzia a reperire le informazioni dai siti personali dei docenti (dove non c’era alcun obbligo di elencare puntualmente le pubblicazioni), il rischio di contenzioso è elevato. Gli elenchi degli aspiranti commissari, infatti, sono pubblici, e sarà sufficiente leggere le liste dei prescelti per conoscere i nomi degli scartati: che, con il tasso di carte bollate che accompagna ogni concorso italiano, difficilmente accetteranno lo stop senza battere ciglio.

Il Sole 24 Ore 17.09.12

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«Essenziale avviare il sistema», di Gianni Trovati

«Abbiamo avuto poco tempo per costruire il sistema, ma era importante partire anche per non perdere i 75 milioni all’anno messi a disposizione per i professori reclutati con l’abilitazione nazionale. Il Paese non è abituato a questi meccanismi, e abbiamo dovuto combattere anche contro l’inadeguatezza del sistema, ma la ripartenza passa anche da qui».

Stefano Fantoni, presidente dell’Anvur, non ha passato un’estate facile: varati in pieno agosto i regolamenti con i parametri, raccolti i dati sull’attività degli ordinari e individuate le mediane per ogni settore, l’Agenzia è ora al lavoro per individuare chi può entrare nelle commissioni e chi no.
Intanto, però, fra i docenti le polemiche sul metodo non si spengono.
L’asimmetria fra i criteri delle aree scientifiche e quelli delle altre discipline è un fatto, anche spiacevole, ma i parametri bibliometrici e i metodi oggettivi di misurazione dell’attività non sono uguali in tutti i settori. Questo però non comporterà grosse differenze nella “severità” della selezione, come mostreranno i numeri.
I giuristi, non da soli, contestano proprio l’applicazione di parametri bibliometrici prima sconosciuti alla loro disciplina.
Va però detto che per censire le riviste sono stati utilizzati parametri oggettivi, come la diffusione anche internazionale, abbiamo chiesto informazioni alle società scientifiche, e un gruppo di 28 garanti di alto profilo ha contribuito alla classificazione. Mi pare che i giuristi abbiano finito per fare un ricorso contro se stessi, perché la presenza di un indicatore in più va sempre a vantaggio dei docenti.
Tra i critici, c’è chi afferma che i metodi bibliografici vanno bene per valutare una struttura ma non i singoli docenti. Ma l’abilitazione non è un concorso che mette a confronto un soggetto con un altro per assegnare un posto: i parametri servono per individuare i docenti inattivi o falsamente attivi, come prevede la legge.
Insomma, escludete problemi?
La classificazione può essere imperfetta, ma è ben fondata. Qualche errore ci potrà essere, ma escludere dalle commissioni un docente valido è meno ingiusto di aprire le porte a uno inadeguato.

Il Sole 24 Ore 17.09.12

Riforme, Bersani sfida il Pdl: "Le proposte alla luce del sole", di Simone Collini

Ora ci sarà, se non un salto di qualità, quanto meno un cambio di fase nella discussione sulla legge elettorale. Giorgio Napolitano ha chiesto un’accelerazione non solo nei colloqui che ha avuto la scorsa settimana con il presidente del Senato Renato Schifani e con quello della Camera Gianfranco Fini. Il monito a uscire dall’impasse è stato consegnato anche alle forze che sostengono Monti in Parlamento. E registrato il fallimento del tentativo di arrivare a un accordo in sede di comitato ristretto, adesso il confronto tra Pd, Pdl e Udc, a Palazzo Madama, dovrà trasferirsi in tempi rapidi in Aula. Così domani, quando si riunirà la capigruppo del Senato, si deciderà di far tornare la pratica in commissione Affari costituzionali, prevedendo non più di due settimane di discussione in questa sede per poi andare entro la prima metà di ottobre al confronto in Aula. Non è infatti soltanto il Colle, a questo punto, che preme per imprimere un’accelerazione.

COLLOQUIO NAPOLITANO-BERSANI
Pier Luigi Bersani è salito al Quirinale dopo i colloqui con Schifani e Fini, e quel che ha detto al Capo dello Stato nel corso dell’incontro riservato non è stato diverso da quanto detto nelle quarantott’ore successive parlando davanti al leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini e al segretario del Psi Riccardo Nencini, con i quali (insieme a Nichi Vendola) dovrebbe costruire un’alleanza in grado di governare nel 2013. Ovvero, primo: «Non è per responsabilità nostra se non si è ancora arrivati a un accordo. Noi abbiamo messo nero su bianco un’ipotesi di compromesso, sta al Pdl fare altrettanto». Secondo: «Adesso basta discutere nelle segrete stanze, confrontiamoci alla luce del sole».

La «bozza di compromesso» è stata effettivamente consegnata dal Pd al presidente della commissione Affari costituzionali Carlo Vizzini. Il partito di Berasni ha tenuto il punto sui collegi, rifiutando l’ipotesi delle preferenze, mentre ha ceduto sul premio di governabilità: che vada al primo partito («alla lista o alle liste collegate») purché sia sostanzioso (15%). Il Pdl però non ha voluto siglare l’intesa, proponendo un premio inferiore al 10% e rilanciando sulle preferenze. Da qui l’irritazione di Bersani: «Non dialogheremo più di legge elettorale con chi non ha anche la forza o la capacità di mettere una proposta sul tavolo. Questi vogliono fare la riforma elettorale solo sulle agenzie di stampa». Parole arrivate in contemporanea all’uscita di Sivlio Berlusconi sulla sua candidatura («dipende dalla legge elettorale») e a quella di Angelino Alfano: «Entro la prima decade di ottobre ci sarà la nuova legge elettorale».

PDL E LEGA TENTATI DAL BLITZ
Andare a un confronto parlamentare, al Senato dove ancora la vecchia maggioranza ha i numeri per decidere in autonomia, è un rischio per il Pd. Casini ha assicurato a Bersani che non farà da sponda a nessun colpo di mano organizzato da Pdl e Lega per far passare una legge che preveda un premio al primo partito non sostanzioso e le preferenze. Dal punto di vista dei numeri è poca cosa (i senatori Udc sono soltanto tre) ma il ragionamento che si fa in casa democratica è che difficilmente il Quirinale rimarrebbe inerte di fronte a un blitz della vecchia maggioranza su un tema così delicato come la legge elettorale. E poi la prova di forza di Pdl e Lega verrebbe vanificata non appena la riforma elettorale passerà alla Camera, dove gli equilibri tra le forze sono assai diversi da quelli del Senato.

Bersani ora vuole andare al confronto parlamentare per «stanare» il Pdl, che finora non ha presentato alcuna proposta precisa. Per il leader Pd non è vero che Berslusconi aspetta di sapere quale sia la legge elettorale prima di decidere se candidarsi nel 2013. Piuttosto, secondo Bersani, l’ex premier allunga i tempi della riforma elettorale perché ancora non ha capito cosa gli convenga fare: «L’unica cosa certa è che ha rinunciato a vincere ma non all’idea di impedire a noi di farlo». Lo spettro, con un premio di governabilità basso, è la Grande coalizione. Per questo, alla vigilia di una settimana che sarà decisiva per la riforma elettorale, Bersani ha chiarito che il Pd si terrà fuori da qualunque ipotesi di larghe intese («piuttosto lascio io»). E ora bisognerà vedere se il Pdl cambierà posizione o se rischierà di mantenere in vita una legge come il “Porcellum”, che assegna il 55% dei seggi alla Camera a chi arriva primo quale che sia la percentuale di voti ottenuti alle urne.

L’Unità 17.09.12

Riforme, Bersani sfida il Pdl: "Le proposte alla luce del sole", di Simone Collini

Ora ci sarà, se non un salto di qualità, quanto meno un cambio di fase nella discussione sulla legge elettorale. Giorgio Napolitano ha chiesto un’accelerazione non solo nei colloqui che ha avuto la scorsa settimana con il presidente del Senato Renato Schifani e con quello della Camera Gianfranco Fini. Il monito a uscire dall’impasse è stato consegnato anche alle forze che sostengono Monti in Parlamento. E registrato il fallimento del tentativo di arrivare a un accordo in sede di comitato ristretto, adesso il confronto tra Pd, Pdl e Udc, a Palazzo Madama, dovrà trasferirsi in tempi rapidi in Aula. Così domani, quando si riunirà la capigruppo del Senato, si deciderà di far tornare la pratica in commissione Affari costituzionali, prevedendo non più di due settimane di discussione in questa sede per poi andare entro la prima metà di ottobre al confronto in Aula. Non è infatti soltanto il Colle, a questo punto, che preme per imprimere un’accelerazione.
COLLOQUIO NAPOLITANO-BERSANI
Pier Luigi Bersani è salito al Quirinale dopo i colloqui con Schifani e Fini, e quel che ha detto al Capo dello Stato nel corso dell’incontro riservato non è stato diverso da quanto detto nelle quarantott’ore successive parlando davanti al leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini e al segretario del Psi Riccardo Nencini, con i quali (insieme a Nichi Vendola) dovrebbe costruire un’alleanza in grado di governare nel 2013. Ovvero, primo: «Non è per responsabilità nostra se non si è ancora arrivati a un accordo. Noi abbiamo messo nero su bianco un’ipotesi di compromesso, sta al Pdl fare altrettanto». Secondo: «Adesso basta discutere nelle segrete stanze, confrontiamoci alla luce del sole».
La «bozza di compromesso» è stata effettivamente consegnata dal Pd al presidente della commissione Affari costituzionali Carlo Vizzini. Il partito di Berasni ha tenuto il punto sui collegi, rifiutando l’ipotesi delle preferenze, mentre ha ceduto sul premio di governabilità: che vada al primo partito («alla lista o alle liste collegate») purché sia sostanzioso (15%). Il Pdl però non ha voluto siglare l’intesa, proponendo un premio inferiore al 10% e rilanciando sulle preferenze. Da qui l’irritazione di Bersani: «Non dialogheremo più di legge elettorale con chi non ha anche la forza o la capacità di mettere una proposta sul tavolo. Questi vogliono fare la riforma elettorale solo sulle agenzie di stampa». Parole arrivate in contemporanea all’uscita di Sivlio Berlusconi sulla sua candidatura («dipende dalla legge elettorale») e a quella di Angelino Alfano: «Entro la prima decade di ottobre ci sarà la nuova legge elettorale».
PDL E LEGA TENTATI DAL BLITZ
Andare a un confronto parlamentare, al Senato dove ancora la vecchia maggioranza ha i numeri per decidere in autonomia, è un rischio per il Pd. Casini ha assicurato a Bersani che non farà da sponda a nessun colpo di mano organizzato da Pdl e Lega per far passare una legge che preveda un premio al primo partito non sostanzioso e le preferenze. Dal punto di vista dei numeri è poca cosa (i senatori Udc sono soltanto tre) ma il ragionamento che si fa in casa democratica è che difficilmente il Quirinale rimarrebbe inerte di fronte a un blitz della vecchia maggioranza su un tema così delicato come la legge elettorale. E poi la prova di forza di Pdl e Lega verrebbe vanificata non appena la riforma elettorale passerà alla Camera, dove gli equilibri tra le forze sono assai diversi da quelli del Senato.
Bersani ora vuole andare al confronto parlamentare per «stanare» il Pdl, che finora non ha presentato alcuna proposta precisa. Per il leader Pd non è vero che Berslusconi aspetta di sapere quale sia la legge elettorale prima di decidere se candidarsi nel 2013. Piuttosto, secondo Bersani, l’ex premier allunga i tempi della riforma elettorale perché ancora non ha capito cosa gli convenga fare: «L’unica cosa certa è che ha rinunciato a vincere ma non all’idea di impedire a noi di farlo». Lo spettro, con un premio di governabilità basso, è la Grande coalizione. Per questo, alla vigilia di una settimana che sarà decisiva per la riforma elettorale, Bersani ha chiarito che il Pd si terrà fuori da qualunque ipotesi di larghe intese («piuttosto lascio io»). E ora bisognerà vedere se il Pdl cambierà posizione o se rischierà di mantenere in vita una legge come il “Porcellum”, che assegna il 55% dei seggi alla Camera a chi arriva primo quale che sia la percentuale di voti ottenuti alle urne.
L’Unità 17.09.12

"La fiducia a Monti. Senza Europa non c’è politica", di Carlo Buttaroni Presidente Techné

Crescita negativa, calo della produzione e dei consumi, aumento della disoccupazione, diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie: questo è lo scenario economico e sociale del Paese. Per il presidente del Consiglio è il prezzo da pagare per uscire dalla crisi. In altre parole, affrontare una crisi con un’altra crisi, resa inoltre più acuta dalle politiche del governo perché, come ha precisato il premier «solo uno stolto può pensare di incidere su elementi strutturali che pesano da decenni senza provocare, almeno nel breve periodo, un rallentamento».
La ricetta di Monti, detta senza giri di parole, prevede che per stare meglio dopo, bisogna stare peggio prima. Il prezzo del risanamento, purtroppo però, non è uguale per tutti. E a pagare, nel nostro Paese, sono soprattutto i giovani, le famiglie e i lavoratori a basso e medio reddito. Tanto che la forbice socio-economica dell’Italia, già particolarmente ampia rispetto ad altri Paesi europei, si è ulteriormente allargata, ed è cresciuta la fascia di povertà, mentre la ricchezza si è concentrata al vertice della piramide sociale. Per molti economisti la ricetta del rigore, che ispira le politiche economiche del governo Monti, è completamente sbagliata. D’altra parte di «sacrifici» il premier aveva parlato da subito. Un programma di risanamento che ha preso corpo nella riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, nei tagli ai servizi pubblici e alla sanità, nella riduzione dei redditi delle famiglie, nella crescita della pressione fiscale, nella riduzione degli investimenti pubblici. Interventi che hanno contribuito ad aggravare gli effetti della crisi e di cui il governo se ne attribuisce i meriti in un’ottica strategica.
IL FALLIMENTO DELLA DESTRA
Nonostante i sacrifici, però, la fiducia nel governo Monti, dopo quasi un anno di politiche restrittive e di sforbiciate ai diritti e alle speranze della stragrande maggioranza degli italiani continua a mantenersi su livelli elevati. I partiti, al contrario, a pochi mesi dalle elezioni politiche, continuano a soffrire di un deficit di fiducia che ha il punto di ricaduta in una costante diminuzione dei consensi, mentre la quota di incerti e potenziali astensionisti è progressivamente cresciuta fino a rappresentare quasi la metà del corpo elettorale. Disillusione, mancanza di credibilità e d’autorevolezza, inaffidabilità, sono i sentimenti prevalenti tra chi sceglie di non scegliere, ma anche tra chi fa propria la critica gridata al sistema politico che ha trovato voce nella grillo-ribellione.
La maggior parte dei cittadini non si culla più nelle ideologie che per decenni li hanno legati a doppio filo a questo o quel partito: ora sono i politici come persone che vengono valutate, per quello che trasmettono e per quello che fanno. Può essere un passo avanti, ma può anche essere una regressione verso il leaderismo e il populismo. Per anni, in questo clima, i partiti hanno promesso molto, osservando ogni lieve movimento e sussulto dell’opinione pubblica, senza il coraggio di affermare e di difendere le idee controcorrente. Fino a quando i sogni sono diventati incubi e la promessa del nuovo miracolo italiano si è trasformato nell’amara scoperta di dover riavvolgere il nastro e di vivere una storia completamente diversa. La fiducia al governo Monti non deriva tanto dal merito delle scelte di politica economica, ma dall’aver messo sul piatto, per la prima volta dopo molti anni, un fatto anziché un sogno. Monti non ha mentito quando ha parlato di sacrifici e piaccia o no ha dato corpo alle sue ricette. Giuste o sbagliate che siano. Per questo risulta credibile. E la distanza con chi, prima di lui, ha promesso un nuovo miracolo italiano, non potrebbe essere più ampia.
La credibilità alimenta il consenso di Monti anche in campo internazionale. E questo gli italiani lo avvertono tra le righe di scelte che probabilmente non approvano. Se Monti dicesse, oggi, che l’Italia deve uscire dall’euro per risolvere la sua crisi, i mercati mondiali crollerebbero. Se la stessa affermazione fosse fatta da un altro leader, la cosa forse non uscirebbe dai nostri confini, perché tutti la interpreterebbero come una boutade per far parlare di sè e conquistare consensi.
I partiti non sono tutti uguali. Non esiste la categoria dei partiti. Anzi, chi lo sostiene ha evidenti finalità progandistiche e demagogiche. Tuttavia il declino della seconda Repubblica rende credibile questa generalizzazione. Del resto, oltre alle promesse tradite e ai sogni svaniti, l’altra parte di eredità della seconda Repubblica è rappresentata dal non essere riusciti a dare compiutamente alla politica nazionale una dimensione europea e internazionale. L’esempio forse fa torto ad alcuni nostri meriti: tuttavia, è possibile che non ci sia un nome che equivalga a ciò che in Europa corrisponde semplicemente a socialisti, popolari, liberali, conservatori e laburisti? Tutti hanno dovuto fare qualche distinzione nell’aderire ai gruppi politici del Parlamento europeo e tutti hanno avuto qualche distinguo da far valere.
Il respiro europeo della politica italiana appare talvolta corto. A destra certamente molto più che a sinistra. Ma questo scarto va colmato perché in Europa si giocheranno le partite vere e il rinnovamento dei partiti nazionali non può che passare per un cambiamento delle relazioni internazionali, per una piena assunzione della dimensione europea della vera politica. In diverse occasioni non aver avuto la capacità di pensare le scelte nella loro complessità ha significato chiamarsi fuori dai tavoli importanti. Altre volte invece è stata proprio la chiave europea a determinare il successo di alcune scelte politiche nazionali.
Gli italiani vivono la consapevolezza che le decisioni più importanti, dalle quali dipende il loro destino, sono emigrate dalle istituzioni nazionali, che un tempo i partiti presidiavano, verso un livello extranazionale, dove ora il nostro Paese deve giocarsi la nuova, decisiva partita. Ma questo aggrava oggi la crisi di consenso verso la politica: è certamente un fenomeno mondiale la progressiva emarginazione delle istituzioni democratiche nazionali dalle decisioni che contano e che incidono sulla vita reale dei cittadini. Tuttavia, nella crisi acuta del nostro Paese, che ha conosciuto durante il decennio dei governi di centrodestra un declino-record rispetto all’intero Occidente, la paura del futuro alimenta e moltiplica il senso di sfiducia.
CHI SCOMMETTE SUL MONTI-BIS
Mario Monti, a modo suo, ha dato una risposta a questo tema, dopo che Berlusconi aveva azzerato la nostra credibilità all’estero e per pressioni esterne era stato costretto alle dimissioni: Monti ha l’autorevolezza e le competenze per giocare la partita in campo internazionale. Questa autorevolezza, insieme alle le sue competenze, gli sono riconosciute non solo fuori dai nostri confini ma anche dagli italiani. Anche perché il suo score segna i migliori risultati proprio in campo europeo e internazionale.
L’idea di un Monti-bis fa leva su questo. Sembra molto, tuttavia si può sostenere che sia troppo poco rispetto a ciò di cui ha veramente bisogno il Paese. Perché i problemi che sono sul tavolo non riguardano soltanto il riordino dei conti pubblici e il contenimento dei tassi d’interesse ma quale modello economico, sociale, politico si vuole dare al nostro paese e quale indirizzo segnerà lo sviluppo. Questi temi non competono alla tecnica ma alla politica. E quindi ai partiti. Partiti diversi tra loro, dunque competitivi e alternativi. Ma per poter compiere queste scelte, per presentare i loro progetti agli elettori devono recuperare credibilità e autorevolezza, uscendo dalla dimensione nazionale in cui si sono confinati e respirando a pieni polmoni quella dimensione europea oggi indispensabile per dare corpo a risposte che non siano solo un repertorio di illusioni.
Le opposte visioni di Merkel e di Hollande rispondono a diverse idee dell’Europa e dei rispettivi Paesi. La politica è il luogo delle scelte e della pensabilità. Solo così potremo evitare di «offrire» il pensiero del nostro futuro ad altri e trovarci veramente in prima fila nell’Europa che verrà.

L’Unità 17.09.12

"La fiducia a Monti. Senza Europa non c’è politica", di Carlo Buttaroni Presidente Techné

Crescita negativa, calo della produzione e dei consumi, aumento della disoccupazione, diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie: questo è lo scenario economico e sociale del Paese. Per il presidente del Consiglio è il prezzo da pagare per uscire dalla crisi. In altre parole, affrontare una crisi con un’altra crisi, resa inoltre più acuta dalle politiche del governo perché, come ha precisato il premier «solo uno stolto può pensare di incidere su elementi strutturali che pesano da decenni senza provocare, almeno nel breve periodo, un rallentamento».
La ricetta di Monti, detta senza giri di parole, prevede che per stare meglio dopo, bisogna stare peggio prima. Il prezzo del risanamento, purtroppo però, non è uguale per tutti. E a pagare, nel nostro Paese, sono soprattutto i giovani, le famiglie e i lavoratori a basso e medio reddito. Tanto che la forbice socio-economica dell’Italia, già particolarmente ampia rispetto ad altri Paesi europei, si è ulteriormente allargata, ed è cresciuta la fascia di povertà, mentre la ricchezza si è concentrata al vertice della piramide sociale. Per molti economisti la ricetta del rigore, che ispira le politiche economiche del governo Monti, è completamente sbagliata. D’altra parte di «sacrifici» il premier aveva parlato da subito. Un programma di risanamento che ha preso corpo nella riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, nei tagli ai servizi pubblici e alla sanità, nella riduzione dei redditi delle famiglie, nella crescita della pressione fiscale, nella riduzione degli investimenti pubblici. Interventi che hanno contribuito ad aggravare gli effetti della crisi e di cui il governo se ne attribuisce i meriti in un’ottica strategica.
IL FALLIMENTO DELLA DESTRA
Nonostante i sacrifici, però, la fiducia nel governo Monti, dopo quasi un anno di politiche restrittive e di sforbiciate ai diritti e alle speranze della stragrande maggioranza degli italiani continua a mantenersi su livelli elevati. I partiti, al contrario, a pochi mesi dalle elezioni politiche, continuano a soffrire di un deficit di fiducia che ha il punto di ricaduta in una costante diminuzione dei consensi, mentre la quota di incerti e potenziali astensionisti è progressivamente cresciuta fino a rappresentare quasi la metà del corpo elettorale. Disillusione, mancanza di credibilità e d’autorevolezza, inaffidabilità, sono i sentimenti prevalenti tra chi sceglie di non scegliere, ma anche tra chi fa propria la critica gridata al sistema politico che ha trovato voce nella grillo-ribellione.
La maggior parte dei cittadini non si culla più nelle ideologie che per decenni li hanno legati a doppio filo a questo o quel partito: ora sono i politici come persone che vengono valutate, per quello che trasmettono e per quello che fanno. Può essere un passo avanti, ma può anche essere una regressione verso il leaderismo e il populismo. Per anni, in questo clima, i partiti hanno promesso molto, osservando ogni lieve movimento e sussulto dell’opinione pubblica, senza il coraggio di affermare e di difendere le idee controcorrente. Fino a quando i sogni sono diventati incubi e la promessa del nuovo miracolo italiano si è trasformato nell’amara scoperta di dover riavvolgere il nastro e di vivere una storia completamente diversa. La fiducia al governo Monti non deriva tanto dal merito delle scelte di politica economica, ma dall’aver messo sul piatto, per la prima volta dopo molti anni, un fatto anziché un sogno. Monti non ha mentito quando ha parlato di sacrifici e piaccia o no ha dato corpo alle sue ricette. Giuste o sbagliate che siano. Per questo risulta credibile. E la distanza con chi, prima di lui, ha promesso un nuovo miracolo italiano, non potrebbe essere più ampia.
La credibilità alimenta il consenso di Monti anche in campo internazionale. E questo gli italiani lo avvertono tra le righe di scelte che probabilmente non approvano. Se Monti dicesse, oggi, che l’Italia deve uscire dall’euro per risolvere la sua crisi, i mercati mondiali crollerebbero. Se la stessa affermazione fosse fatta da un altro leader, la cosa forse non uscirebbe dai nostri confini, perché tutti la interpreterebbero come una boutade per far parlare di sè e conquistare consensi.
I partiti non sono tutti uguali. Non esiste la categoria dei partiti. Anzi, chi lo sostiene ha evidenti finalità progandistiche e demagogiche. Tuttavia il declino della seconda Repubblica rende credibile questa generalizzazione. Del resto, oltre alle promesse tradite e ai sogni svaniti, l’altra parte di eredità della seconda Repubblica è rappresentata dal non essere riusciti a dare compiutamente alla politica nazionale una dimensione europea e internazionale. L’esempio forse fa torto ad alcuni nostri meriti: tuttavia, è possibile che non ci sia un nome che equivalga a ciò che in Europa corrisponde semplicemente a socialisti, popolari, liberali, conservatori e laburisti? Tutti hanno dovuto fare qualche distinzione nell’aderire ai gruppi politici del Parlamento europeo e tutti hanno avuto qualche distinguo da far valere.
Il respiro europeo della politica italiana appare talvolta corto. A destra certamente molto più che a sinistra. Ma questo scarto va colmato perché in Europa si giocheranno le partite vere e il rinnovamento dei partiti nazionali non può che passare per un cambiamento delle relazioni internazionali, per una piena assunzione della dimensione europea della vera politica. In diverse occasioni non aver avuto la capacità di pensare le scelte nella loro complessità ha significato chiamarsi fuori dai tavoli importanti. Altre volte invece è stata proprio la chiave europea a determinare il successo di alcune scelte politiche nazionali.
Gli italiani vivono la consapevolezza che le decisioni più importanti, dalle quali dipende il loro destino, sono emigrate dalle istituzioni nazionali, che un tempo i partiti presidiavano, verso un livello extranazionale, dove ora il nostro Paese deve giocarsi la nuova, decisiva partita. Ma questo aggrava oggi la crisi di consenso verso la politica: è certamente un fenomeno mondiale la progressiva emarginazione delle istituzioni democratiche nazionali dalle decisioni che contano e che incidono sulla vita reale dei cittadini. Tuttavia, nella crisi acuta del nostro Paese, che ha conosciuto durante il decennio dei governi di centrodestra un declino-record rispetto all’intero Occidente, la paura del futuro alimenta e moltiplica il senso di sfiducia.
CHI SCOMMETTE SUL MONTI-BIS
Mario Monti, a modo suo, ha dato una risposta a questo tema, dopo che Berlusconi aveva azzerato la nostra credibilità all’estero e per pressioni esterne era stato costretto alle dimissioni: Monti ha l’autorevolezza e le competenze per giocare la partita in campo internazionale. Questa autorevolezza, insieme alle le sue competenze, gli sono riconosciute non solo fuori dai nostri confini ma anche dagli italiani. Anche perché il suo score segna i migliori risultati proprio in campo europeo e internazionale.
L’idea di un Monti-bis fa leva su questo. Sembra molto, tuttavia si può sostenere che sia troppo poco rispetto a ciò di cui ha veramente bisogno il Paese. Perché i problemi che sono sul tavolo non riguardano soltanto il riordino dei conti pubblici e il contenimento dei tassi d’interesse ma quale modello economico, sociale, politico si vuole dare al nostro paese e quale indirizzo segnerà lo sviluppo. Questi temi non competono alla tecnica ma alla politica. E quindi ai partiti. Partiti diversi tra loro, dunque competitivi e alternativi. Ma per poter compiere queste scelte, per presentare i loro progetti agli elettori devono recuperare credibilità e autorevolezza, uscendo dalla dimensione nazionale in cui si sono confinati e respirando a pieni polmoni quella dimensione europea oggi indispensabile per dare corpo a risposte che non siano solo un repertorio di illusioni.
Le opposte visioni di Merkel e di Hollande rispondono a diverse idee dell’Europa e dei rispettivi Paesi. La politica è il luogo delle scelte e della pensabilità. Solo così potremo evitare di «offrire» il pensiero del nostro futuro ad altri e trovarci veramente in prima fila nell’Europa che verrà.
L’Unità 17.09.12

Quel triangolo amoroso che può salvare la scuola", di Alessandro D'Avenia

«Alcuni di noi credono di poter cambiare qualcosa. A un certo punto ci svegliamo e ci rendiamo conto di aver fallito». Così dice, riferendosi alla sua professione, Henry Barthes, insegnante di una scuola pubblica americana e protagonista del recente film «Detachment» (Il distacco), interpretato magistralmente da Adrien Brody, il rovescio pessimistico-malinconico del Keating dell’«Attimo fuggente». Uomo di finanza di successo, deluso dalle chimere del mercato, decide di darsi ad un lavoro privo di «consenso» ma con più «senso» per la sua vita e quella altrui. Diventa un supplente. Sì, un supplente per scelta. Non vuole un posto di ruolo, preferisce dover cambiare di frequente scuola e non rimanere troppo «attaccato» alle vite fragili di ragazzi che si aggrappano a lui, in cerca di quel «senso» che altrove non trovano.

Consapevole di non essere all’altezza di ciò di cui hanno bisogno in un mondo troppo liquido nelle relazioni e troppo fragile nelle fondamenta culturali, sconsolato dice: «Questi ragazzi hanno bisogno di qualcos’altro. Non hanno bisogno di me».

Ma di che cosa hanno bisogno, allora?

Lo mostra con eccessivo pessimismo l’intero film: i genitori non si vedono mai. In una sorta di versione tragica delle strisce di Charlie Brown, al massimo se ne sente la voce, distante, incapace di empatia, di ascolto, di tempo, di spazio, per la relazione con i figli, gettati nell’esistenza senza un’anima capace di dare consenso alle cose della vita senza esserne divorati o manipolati.

In una delle scene più malinconiche, la scuola – addobbata a festa per i colloqui – è un deserto dei Tartari, presidiato solo dai professori che attendono invano come sentinelle: non si presenta nessuno. «Dove sono tutti i genitori?» chiede una insegnante alla collega, che risponde: «Non lo so». Un altro replica: «Sono stato due ore in classe, è venuto un solo genitore. Dove sono tutti?».

«Non lo sappiamo». Gli rispondono.

Qualche giorno fa dopo aver lanciato su queste pagine l’iniziativa «Rose e libri» sono stato travolto da lettere, commenti, suggerimenti, offerte di aiuto, da parte di altri insegnanti, di genitori e di ragazzi. Dimostrazione del fatto che la Scuola, per chi ci crede, è una relazione a tre. È l’unico triangolo amoroso che può funzionare se tutti fanno lo sforzo di perseguire il bene comune che c’è in gioco: le vite dei ragazzi. L’unico triangolo amoroso in cui tutti possono essere felici.

Non riesco a capacitarmi del fatto che abbiamo accettato che la Scuola sia invece campo di battaglia tra genitori-docenti-studenti anziché pavimento su cui muoversi per realizzare quel bene di cui parlavo: la scoperta dei talenti e dei punti deboli di un ragazzo o di una ragazza.

L’educazione non è qualcosa che si improvvisa, ma richiede, caso per caso, un progetto condiviso. Che cosa possiamo fare noi insegnanti costretti a colloqui dove si dicono soltanto i voti: ora per la soddisfazione delle madri (raramente vengono i papà) di quelli bravi ora per ripetere a quelle dei meno bravi il ritornello: «ha le capacità ma non si applica». Una relazione frustrante perché ridotta al criterio utilitaristico di produrre voti e promozioni, anziché accompagnare uomini e donne a costruire un’anima «pronta», secondo il verso shakespeariano, che ho proposto ai miei studenti di quinta come motto per quest’anno di maturazione più che di maturità: «Quando la tua anima è pronta, lo sono anche le cose» (Enrico V). Perché non si fanno colloqui ad inizio anno, quando non ci sono ancora voti, per mettersi d’accordo – genitori e insegnanti – sugli obiettivi educativi da raggiungere a casa e a scuola? Perché a questi colloqui in un secondo momento non partecipano anche i ragazzi così da poter ascoltare il loro punto di vista, le difficoltà che incontrano, i sogni, i progetti? Come faccio a insegnare ad un mio alunno la disciplina della terzina dantesca, se a 16-17 anni ancora non rifà il letto da solo?

Se non c’è un progetto educativo condiviso gli insegnanti diventano erogatori di voti, i genitori clienti, gli studenti utenti. Una relazione in perfetto stile utilitaristico, con persone trasformate in prodotti di una catena di montaggio di diplomi. Ma l’uomo non è mai prodotto, mai mezzo, ma sempre fine.

O riportiamo la Scuola alla sua vocazione o ci teniamo questa grande Scuola-Guida, in cui un insegnante con una laurea e un dottorato in lettere classiche, due anni di corso di specializzazione per l’abilitazione vinto dopo un concorso con migliaia di persone per 60 posti, un master, 12 anni di insegnamento, un desiderio sconfinato di continuare a fare questo mestiere, per la Scuola di Stato non è altro che un precario in una graduatoria, abile solo, a meno di 20 euro all’ora, a coprire supplenze temporanee sufficienti a erogare qualche voto, mica a far crescere i ragazzi in una relazione continua nel tempo.

I nostri ragazzi potranno un giorno fare proprie le parole in apertura del film: «È importante trovare una guida e avere qualcuno che ci aiuti a capire la complessità del mondo. Io non l’ho mai avuto mentre crescevo». Mi spiace ma il possibile candidato era incastrato in una graduatoria il cui unico criterio di merito è l’anzianità. A 50 anni volevano dargli una cattedra, ma aveva cambiato mestiere, perché nel frattempo doveva portare avanti una famiglia, nell’Italia alla frusta del dio Spread.

La Stampa 17.09.12