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"Un partito senza anticorpi", di Francesco Cundari

Il primo problema delle primarie all’italiana è che rischiano di fare apparire secondarie le elezioni. Il secondo problema è che rischiano di renderle superflue, disintegrando il campo che dovrebbero invece contribuire a definire, consolidare e rilanciare.
Dopo gli elogi di Daniela Santanchè e Angelino Alfano, Libero e Giornale, alla candidatura di Matteo Renzi ieri è arrivata anche la benedizione di Silvio Berlusconi. «Renzi porta avanti le nostre idee, sotto le insegne del Pd», ha detto il Cavaliere. Parole che fanno inorridire i sostenitori di Pier Luigi Bersani, convinti che si tratti di segnali inviati alla base del Pdl affinché si precipiti in massa ai gazebo e regali all’attuale leader del Pd, se non proprio la sconfitta, almeno una vittoria dimezzata. Ma non meno inorriditi si mostrano i sostenitori di Renzi, convinti che le parole di Berlusconi si spieghino, al contrario, con l’intenzione di danneggiare la candidatura del sindaco di Firenze, imprimendogli il marchio del traditore.
Probabilmente, per quanto riguarda la possibilità di influenzare il risultato delle primarie, si tratta in entrambi i casi di preoccupazioni eccessive, se non infondate. Alle primarie del centrosinistra voteranno, come in tutte le precedenti occasioni, milioni di persone. Milioni. E tra questi, come è sempre accaduto, ci saranno certamente anche fior di elettori, militanti e magari anche qualche dirigente di partiti lontani dal centrosinistra. Può non piacere, ma è così. È la logica delle primarie aperte. Una logica che mostra in questi giorni tutti i suoi effetti collaterali, soprattutto in un sistema politico in cui a fare le primarie è solo uno dei contendenti. Uno squilibrio che Berlusconi è sembrato fin qui intenzionato a perpetuare e a sfruttare il più possibile, rinviando continuamente la decisione sulla sua ricandidatura e alternando a lunghi silenzi uscite provocatorie come quella sul sindaco di Firenze. È questa asimmetria di fondo che verosimilmente farà sì che la lunga campagna per la scelta del candidato premier dei progressisti continui a essere il centro di attrazione di tutti i possibili attacchi, polemiche, manovre, da parte di chiunque abbia interesse a incrinare la costruzione di una credibile alternativa di sinistra all’attuale equilibrio politico.
Berlusconi colpisce dove fa più male. Con le sue parole sente di poter seminare il massimo della divisione tra gli avversari, alimentando accuse e sospetti reciproci all’interno del principale partito di una coalizione ancora da costruire. Ma questa possibilità al Cavaliere non viene semplicemente dalla debolezza delle regole, peraltro non ancora fissate, che dovrebbero garantire il funzionamento delle primarie. Dal momento in cui, all’interno di un partito, simili sospetti sono anche solo pensabili, non c’è regolamento che tenga. Perché il problema è a monte. Se anche per il voto si prevedessero i vincoli più stringenti, i sospetti non farebbero che spostarsi altrove. Alla paura dell’inquinamento del voto si sostituirebbe magari il timore di un inquinamento della campagna elettorale. Il fatto che il Pd sia così esposto a questo genere di provocazioni non è un problema che dipende dal regolamento delle primarie. Dipende semmai da come le primarie hanno fin qui regolato la vita del partito, sin dai suoi primissimi giorni di vita. Il modello di un partito aperto, sempre contendibile a tutti i livelli, e quindi sempre in contesa, non ha evidentemente favorito il consolidarsi di un costume, di un’etica, di un sentimento di appartenenza comune. Anticorpi essenziali per qualsiasi organizzazione collettiva, ma soprattutto precondizioni indispensabili per qualsiasi competizione interna non si voglia trasformare in guerra civile.

L’Unità 17.09.12

"Un partito senza anticorpi", di Francesco Cundari

Il primo problema delle primarie all’italiana è che rischiano di fare apparire secondarie le elezioni. Il secondo problema è che rischiano di renderle superflue, disintegrando il campo che dovrebbero invece contribuire a definire, consolidare e rilanciare.
Dopo gli elogi di Daniela Santanchè e Angelino Alfano, Libero e Giornale, alla candidatura di Matteo Renzi ieri è arrivata anche la benedizione di Silvio Berlusconi. «Renzi porta avanti le nostre idee, sotto le insegne del Pd», ha detto il Cavaliere. Parole che fanno inorridire i sostenitori di Pier Luigi Bersani, convinti che si tratti di segnali inviati alla base del Pdl affinché si precipiti in massa ai gazebo e regali all’attuale leader del Pd, se non proprio la sconfitta, almeno una vittoria dimezzata. Ma non meno inorriditi si mostrano i sostenitori di Renzi, convinti che le parole di Berlusconi si spieghino, al contrario, con l’intenzione di danneggiare la candidatura del sindaco di Firenze, imprimendogli il marchio del traditore.
Probabilmente, per quanto riguarda la possibilità di influenzare il risultato delle primarie, si tratta in entrambi i casi di preoccupazioni eccessive, se non infondate. Alle primarie del centrosinistra voteranno, come in tutte le precedenti occasioni, milioni di persone. Milioni. E tra questi, come è sempre accaduto, ci saranno certamente anche fior di elettori, militanti e magari anche qualche dirigente di partiti lontani dal centrosinistra. Può non piacere, ma è così. È la logica delle primarie aperte. Una logica che mostra in questi giorni tutti i suoi effetti collaterali, soprattutto in un sistema politico in cui a fare le primarie è solo uno dei contendenti. Uno squilibrio che Berlusconi è sembrato fin qui intenzionato a perpetuare e a sfruttare il più possibile, rinviando continuamente la decisione sulla sua ricandidatura e alternando a lunghi silenzi uscite provocatorie come quella sul sindaco di Firenze. È questa asimmetria di fondo che verosimilmente farà sì che la lunga campagna per la scelta del candidato premier dei progressisti continui a essere il centro di attrazione di tutti i possibili attacchi, polemiche, manovre, da parte di chiunque abbia interesse a incrinare la costruzione di una credibile alternativa di sinistra all’attuale equilibrio politico.
Berlusconi colpisce dove fa più male. Con le sue parole sente di poter seminare il massimo della divisione tra gli avversari, alimentando accuse e sospetti reciproci all’interno del principale partito di una coalizione ancora da costruire. Ma questa possibilità al Cavaliere non viene semplicemente dalla debolezza delle regole, peraltro non ancora fissate, che dovrebbero garantire il funzionamento delle primarie. Dal momento in cui, all’interno di un partito, simili sospetti sono anche solo pensabili, non c’è regolamento che tenga. Perché il problema è a monte. Se anche per il voto si prevedessero i vincoli più stringenti, i sospetti non farebbero che spostarsi altrove. Alla paura dell’inquinamento del voto si sostituirebbe magari il timore di un inquinamento della campagna elettorale. Il fatto che il Pd sia così esposto a questo genere di provocazioni non è un problema che dipende dal regolamento delle primarie. Dipende semmai da come le primarie hanno fin qui regolato la vita del partito, sin dai suoi primissimi giorni di vita. Il modello di un partito aperto, sempre contendibile a tutti i livelli, e quindi sempre in contesa, non ha evidentemente favorito il consolidarsi di un costume, di un’etica, di un sentimento di appartenenza comune. Anticorpi essenziali per qualsiasi organizzazione collettiva, ma soprattutto precondizioni indispensabili per qualsiasi competizione interna non si voglia trasformare in guerra civile.
L’Unità 17.09.12

"Il lifting del miracolo", di Filippo Ceccarelli

Eccolo di nuovo. Senza occhiaie, liscio in volto come un bambino. È tornato sulla nave. Ha parlato, come se nulla fosse accaduto. Tutto chiaro, tutto facile. L´Europa sbaglia, giù le tasse, via l´Imu, la riforma della Costituzione, Sarkò, Renzi, Grillo. Stavolta non solo è difficile, ma anche faticoso e forse anche vano prendere sul serio Berlusconi, e non solo perché sta per compiere 76 anni. In compenso, per due volte gli è fiorita in bocca una parola, la più abusata e avvelenata della sua storia: “miracolo”.
Più esattamente: il suo ultimo governo ha fatto “miracoli” in politica estera. Quali non ha detto. E poi se Renzi vince, avremo il “miracolo” di un Pd socialdemocratico. Figurarsi cosa gliene importa. Ma non è questo il punto.
Il caso interessante, e per certi versi fatale, è che a suon di miracoli evocati e rivendicati si chiude idealmente un ciclo ventennale di potere ingannevole e mirabolante. Chi non ricorda come finiva la tele-cassetta della discesa in campo? «Dobbiamo costruire insieme un nuovo miracolo italiano».
Era il 1994. Per la verità già allora Giulio Tremonti aveva espresso le sue riserve sul «miracolismo finanziario berlusconiano», pure aggiungendo in modo più prosaico: “Panzane”. Ma il fatto che di lì a poco proprio lui, Tremonti, avrebbe condiviso ai massimi gradi, con le peggiori responsabilità e fino alla fine l´avventura berlusconiana, è una terribile conferma dell´efficacia, per non dire della potenza persuasiva di questo miracolismo.
Ieri, in fondo, Berlusconi s´è anche tenuto. Del resto nel 2000, dando inizio alla crociera elettorale di “Azzurra”, era salito a bordo dicendo: «Sono qui per miracolo». Infatti i «signori del malocchio» gli avevano fatto venire l´influenza. Ma lui era più forte. Con la consueta confezione umoristica a sfondo magico, il messaggio dello stregone-clown attingeva a un dimensione molto più profonda di quando osservatori, oppositori e cultori dell´ideologia pubblicitaria riuscivano allora a cogliere.
Due anni dopo, per via del cancro debellato, disse: «Io sono un miracolo vivente». E nel 2007 comunicò che le donne incinte gli chiedevano di mettere loro la mano sulla pancia; e alcuni miopi sugli occhi; e l´anno dopo lui stesso porse questa specialissima mano ad alcuni imprenditori del Lazio: «Toccatela – l´incoraggiava – perché ha fatto il grano». Chissà oggi come se la passano. E seppure il prodigio appare al confronto assai meno rilevante nel 2009 il Giornale scrisse che un signore di Latina aveva risolto il problema dei piccioni che gli sporcavano il balcone ponendovi la gigantografia del premier.
Tutto è sempre stato un miracolo per Berlusconi: la nascita di Forza Italia, la salvezza del paese dal comunismo, la tenuta della maggioranza, le Grandi Opere che prendevano corpo, il fatto che il governo non metteva le mani nelle tasche dei cittadini, il semestre di presidenza italiana, i risultati del G8, l´accordo Nato-Russia, perfino la riforma del credito venne annunciata con la formula: «San Silvio da Arcore ha fatto il miracolo».
È strano come un popolo che si crede talmente furbo da imprimere perfino sulle mattonelle da muro il motto «Qui nessuno è fesso» abbia abboccato per tanti anni, tacitando ogni residua memoria, oscurando ogni relazione tra causa ed effetto. E cadono un po´ le braccia, sale un filo di nausea nel consultare vecchi giornali e banche dati elettroniche. E il “miracolo” dell´Alitalia, il “miracolo” dell´immondizia tolta da Napoli in 58 giorni (su quanto realmente avvenuto vale ricordare “La bolgia” di Conchita Sannino, Saggiatore 2010 e il saggio di Ciro Tarantino “Scrofole e re”, Rubbettino 2011), e il “miracolo” dopo il terremoto, naturalmente, «nessuno ha fatto un miracolo come noi».
E adesso ancora promesse, ancora miracoli? Ancora nel maggio del 2011, con la crisi ormai esplosa: «Abbiamo fatto un miracolo – sosteneva Berlusconi – nel tenere in ordine i conti dello Stato e contemporaneamente sostenere il mondo del lavoro e delle imprese». E ancora nel giugno, ormai correndo verso la catastrofe: «È stato miracoloso mantenere il bilancio in ordine senza colpire i cittadini». Con tragicomica postilla: «Crediamo di meritare quasi un monumento perché rispetto ai governi europei non abbiamo adottato nessuna misura punitiva verso i cittadini». E già.
Eccolo di nuovo. Dimagrito. Sulla nave. A promettere questo o quello, a raschiare la stiva del miracolismo. E non ci sono più le parole, ma ieri c´era un fantastico video semi-amatoriale (Agf) su Repubblica.it: lui che sta per imbarcarsi, inquadrato in una specie di cornice d´acciaio bianca, gli dicono “Presidente, è in gran forma!”, ma sullo schermo, più simboliche non si potrebbero, si vedono ragnatele svolazzanti, un muto senso di vecchiume e di perduta realtà.

La Repubblica 17.09.12

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“L´ex premier non va preso sul serio ma se ritorna lui allora l´euro finirà”, di Andrea Tarquini

Lo storico Stuermer: “Fa un pessimo servizio al suo Paese e ci rende diffidenti”. No comment, dicono interpellati telefonicamente da Repubblica ambienti governativi. Ma nella Berlino della politica e negli ambienti vicini alla Cdu della cancelliera Angela Merkel malumore e preoccupazione sono evidenti. «Berlusconi forse vorrebbe usare il denaro come il viagra», afferma il professor Michael Stuermer, storico, intellettuale di rango del centrodestra al potere ed ex consigliere di Helmut Kohl negli anni del varo dell´euro. E Karl Lamers, che in quella stessa epoca storica fu l´uomo-chiave del team del cancelliere della riunificazione per i rapporti con i partner europei, aggiunge: «Non lo prendo sul serio, non do valore alle sue parole, e spero non venga preso sul serio. La Banca centrale europea, come tutti sanno, è indipendente, non è controllata dalla signora Merkel».
Le dichiarazioni di Silvio Berlusconi stanno creando qui un effetto molto preciso: la paura che torni l´immagine dell´Italia inattendibile, paese bello da visitare ma di cui non puoi fidarti. E insieme, l´effetto del risveglio di nuovi timori sul futuro dell´euro, proprio mentre appoggiando il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, contro la linea dura del numero uno della Bundesbank Jens Weidmann (criticato ieri molto duramente dal ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble per aver attaccato Draghi in pubblico) Angela Merkel cerca di far accettare alla sua opinione pubblica il suo appoggio a Draghi e i costi e rischi del salvataggio della moneta unica.
«Berlusconi ha reso un pessimo servizio al suo Paese, ha resuscitato e rafforzato diffidenze verso l´Italia», sottolinea Stuermer. E continua: «Insisto, lui probabilmente ne sa più di viagra che non di denaro e gestione del denaro pubblico, e forse gli piacerebbe un uso facile o smodato della stampa di denaro. Sarebbe inutile o dannoso, come l´uso facile o smodato del viagra. Se lui tornasse al potere una fine dell´euro, quella che i tedeschi temono, si accelererebbe. Quelle parole, quando l´opinione pubblica tedesca ne sarà informata, daranno a molti la conferma di vecchie idee sull´Europa mediterranea, che siano pregiudizi oppure no». «La Germania – insiste Stuermer – ha una certa idea della lotta all´inflazione, e anche un´idea molto precisa dell´indipendenza della Bce da ogni pubblico potere, Berlusconi è stato premier e dovrebbe saperlo. Agli occhi dei tedeschi il vostro dibattito sul dopo-Monti adesso acquista anche un´altra luce».
Non molto diverse, al fondo, le opinioni a caldo di Karl Lamers. «Le idee della cultura politica tedesca sulla gestione dei pubblici bilanci e sulla politica monetaria sono note, ma il rispetto dell´indipendenza della Bce è assoluto, e colgo quest´occasione per ribadire il nostro pieno rispetto per Mario Draghi. Invito a sdrammatizzare, a non prendere sul serio quelle parole, e spero che i più nel suo partito non lo seguano». Non prendiamola sul serio, almeno non ancora, aggiungono confidenzialmente e nell´anonimato altre fonti: lui adesso non è al timone.

La Repubblica 17.09.12

"Il lifting del miracolo", di Filippo Ceccarelli

Eccolo di nuovo. Senza occhiaie, liscio in volto come un bambino. È tornato sulla nave. Ha parlato, come se nulla fosse accaduto. Tutto chiaro, tutto facile. L´Europa sbaglia, giù le tasse, via l´Imu, la riforma della Costituzione, Sarkò, Renzi, Grillo. Stavolta non solo è difficile, ma anche faticoso e forse anche vano prendere sul serio Berlusconi, e non solo perché sta per compiere 76 anni. In compenso, per due volte gli è fiorita in bocca una parola, la più abusata e avvelenata della sua storia: “miracolo”.
Più esattamente: il suo ultimo governo ha fatto “miracoli” in politica estera. Quali non ha detto. E poi se Renzi vince, avremo il “miracolo” di un Pd socialdemocratico. Figurarsi cosa gliene importa. Ma non è questo il punto.
Il caso interessante, e per certi versi fatale, è che a suon di miracoli evocati e rivendicati si chiude idealmente un ciclo ventennale di potere ingannevole e mirabolante. Chi non ricorda come finiva la tele-cassetta della discesa in campo? «Dobbiamo costruire insieme un nuovo miracolo italiano».
Era il 1994. Per la verità già allora Giulio Tremonti aveva espresso le sue riserve sul «miracolismo finanziario berlusconiano», pure aggiungendo in modo più prosaico: “Panzane”. Ma il fatto che di lì a poco proprio lui, Tremonti, avrebbe condiviso ai massimi gradi, con le peggiori responsabilità e fino alla fine l´avventura berlusconiana, è una terribile conferma dell´efficacia, per non dire della potenza persuasiva di questo miracolismo.
Ieri, in fondo, Berlusconi s´è anche tenuto. Del resto nel 2000, dando inizio alla crociera elettorale di “Azzurra”, era salito a bordo dicendo: «Sono qui per miracolo». Infatti i «signori del malocchio» gli avevano fatto venire l´influenza. Ma lui era più forte. Con la consueta confezione umoristica a sfondo magico, il messaggio dello stregone-clown attingeva a un dimensione molto più profonda di quando osservatori, oppositori e cultori dell´ideologia pubblicitaria riuscivano allora a cogliere.
Due anni dopo, per via del cancro debellato, disse: «Io sono un miracolo vivente». E nel 2007 comunicò che le donne incinte gli chiedevano di mettere loro la mano sulla pancia; e alcuni miopi sugli occhi; e l´anno dopo lui stesso porse questa specialissima mano ad alcuni imprenditori del Lazio: «Toccatela – l´incoraggiava – perché ha fatto il grano». Chissà oggi come se la passano. E seppure il prodigio appare al confronto assai meno rilevante nel 2009 il Giornale scrisse che un signore di Latina aveva risolto il problema dei piccioni che gli sporcavano il balcone ponendovi la gigantografia del premier.
Tutto è sempre stato un miracolo per Berlusconi: la nascita di Forza Italia, la salvezza del paese dal comunismo, la tenuta della maggioranza, le Grandi Opere che prendevano corpo, il fatto che il governo non metteva le mani nelle tasche dei cittadini, il semestre di presidenza italiana, i risultati del G8, l´accordo Nato-Russia, perfino la riforma del credito venne annunciata con la formula: «San Silvio da Arcore ha fatto il miracolo».
È strano come un popolo che si crede talmente furbo da imprimere perfino sulle mattonelle da muro il motto «Qui nessuno è fesso» abbia abboccato per tanti anni, tacitando ogni residua memoria, oscurando ogni relazione tra causa ed effetto. E cadono un po´ le braccia, sale un filo di nausea nel consultare vecchi giornali e banche dati elettroniche. E il “miracolo” dell´Alitalia, il “miracolo” dell´immondizia tolta da Napoli in 58 giorni (su quanto realmente avvenuto vale ricordare “La bolgia” di Conchita Sannino, Saggiatore 2010 e il saggio di Ciro Tarantino “Scrofole e re”, Rubbettino 2011), e il “miracolo” dopo il terremoto, naturalmente, «nessuno ha fatto un miracolo come noi».
E adesso ancora promesse, ancora miracoli? Ancora nel maggio del 2011, con la crisi ormai esplosa: «Abbiamo fatto un miracolo – sosteneva Berlusconi – nel tenere in ordine i conti dello Stato e contemporaneamente sostenere il mondo del lavoro e delle imprese». E ancora nel giugno, ormai correndo verso la catastrofe: «È stato miracoloso mantenere il bilancio in ordine senza colpire i cittadini». Con tragicomica postilla: «Crediamo di meritare quasi un monumento perché rispetto ai governi europei non abbiamo adottato nessuna misura punitiva verso i cittadini». E già.
Eccolo di nuovo. Dimagrito. Sulla nave. A promettere questo o quello, a raschiare la stiva del miracolismo. E non ci sono più le parole, ma ieri c´era un fantastico video semi-amatoriale (Agf) su Repubblica.it: lui che sta per imbarcarsi, inquadrato in una specie di cornice d´acciaio bianca, gli dicono “Presidente, è in gran forma!”, ma sullo schermo, più simboliche non si potrebbero, si vedono ragnatele svolazzanti, un muto senso di vecchiume e di perduta realtà.
La Repubblica 17.09.12
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“L´ex premier non va preso sul serio ma se ritorna lui allora l´euro finirà”, di Andrea Tarquini
Lo storico Stuermer: “Fa un pessimo servizio al suo Paese e ci rende diffidenti”. No comment, dicono interpellati telefonicamente da Repubblica ambienti governativi. Ma nella Berlino della politica e negli ambienti vicini alla Cdu della cancelliera Angela Merkel malumore e preoccupazione sono evidenti. «Berlusconi forse vorrebbe usare il denaro come il viagra», afferma il professor Michael Stuermer, storico, intellettuale di rango del centrodestra al potere ed ex consigliere di Helmut Kohl negli anni del varo dell´euro. E Karl Lamers, che in quella stessa epoca storica fu l´uomo-chiave del team del cancelliere della riunificazione per i rapporti con i partner europei, aggiunge: «Non lo prendo sul serio, non do valore alle sue parole, e spero non venga preso sul serio. La Banca centrale europea, come tutti sanno, è indipendente, non è controllata dalla signora Merkel».
Le dichiarazioni di Silvio Berlusconi stanno creando qui un effetto molto preciso: la paura che torni l´immagine dell´Italia inattendibile, paese bello da visitare ma di cui non puoi fidarti. E insieme, l´effetto del risveglio di nuovi timori sul futuro dell´euro, proprio mentre appoggiando il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, contro la linea dura del numero uno della Bundesbank Jens Weidmann (criticato ieri molto duramente dal ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble per aver attaccato Draghi in pubblico) Angela Merkel cerca di far accettare alla sua opinione pubblica il suo appoggio a Draghi e i costi e rischi del salvataggio della moneta unica.
«Berlusconi ha reso un pessimo servizio al suo Paese, ha resuscitato e rafforzato diffidenze verso l´Italia», sottolinea Stuermer. E continua: «Insisto, lui probabilmente ne sa più di viagra che non di denaro e gestione del denaro pubblico, e forse gli piacerebbe un uso facile o smodato della stampa di denaro. Sarebbe inutile o dannoso, come l´uso facile o smodato del viagra. Se lui tornasse al potere una fine dell´euro, quella che i tedeschi temono, si accelererebbe. Quelle parole, quando l´opinione pubblica tedesca ne sarà informata, daranno a molti la conferma di vecchie idee sull´Europa mediterranea, che siano pregiudizi oppure no». «La Germania – insiste Stuermer – ha una certa idea della lotta all´inflazione, e anche un´idea molto precisa dell´indipendenza della Bce da ogni pubblico potere, Berlusconi è stato premier e dovrebbe saperlo. Agli occhi dei tedeschi il vostro dibattito sul dopo-Monti adesso acquista anche un´altra luce».
Non molto diverse, al fondo, le opinioni a caldo di Karl Lamers. «Le idee della cultura politica tedesca sulla gestione dei pubblici bilanci e sulla politica monetaria sono note, ma il rispetto dell´indipendenza della Bce è assoluto, e colgo quest´occasione per ribadire il nostro pieno rispetto per Mario Draghi. Invito a sdrammatizzare, a non prendere sul serio quelle parole, e spero che i più nel suo partito non lo seguano». Non prendiamola sul serio, almeno non ancora, aggiungono confidenzialmente e nell´anonimato altre fonti: lui adesso non è al timone.
La Repubblica 17.09.12

"Il Pd rifletta sui limiti dei governi dell'Ulivo", di Matteo Orfini

L’intervento con cui Livia Turco ha elencato molte buone ragioni per negare la subalternità al liberismo dei governi di centrosinistra aiuta a fare un passo avanti nella nostra discussione. Livia Turco rivendica la bontà di quelle stagioni di governo e spiega le ragioni delle sconfitte che seguirono con la categoria del riformismo senza popolo. Non c’è dubbio che la mancanza di un soggetto politico che desse forza a quei governi fu parte del problema. Ma a un quindicennio di distanza possiamo forse guardare con maggior serenità alla qualità del riformismo che quei governi espressero, curiosamente mai messa in discussione. L’incapacità prima culturale che politica di reagire all’offensiva della destra economica europea rese largamente condivisa l’idea che Stato minimo, svuotamento del ruolo delle assemblee elettive e riduzione della funzione della politica fossero le precondizioni di una modernizzazione competitiva del Paese. Furono davvero quei governi immuni da questa visione? A me pare di no. Basti pensare ad alcune scelte strategiche che li caratterizzarono. Il principale risultato di quei governi fu il raggiungimento dell’euro, ma esso ne fu anche il maggior limite: l’Europa è ancora oggi poco più che una moneta, nonostante nel momento del processo di unificazione essa fosse governata quasi esclusivamente da forze di centrosinistra.

Oggi ci scopriamo inermi di fronte alla crisi, privi di quegli strumenti necessari ad arginare lo strapotere della finanza e invochiamo la necessità di«più Europa».Ma lo strapotere della finanza e i limiti nell’integrazione furono il frutto di scelte politiche, che noi subimmo, accettando l’idea che per ridurre gli squilibri interni all’area euro sarebbe stato sufficiente il dispiegarsi del mercato unico.

Gli effetti di quella visione sono oggi sotto gli occhi di tutti. Ma c’è di più: il filo rosso che legò le scelte dei governi dell’Ulivo fu la tesi, mutuata dal manifesto della Terza Via, della centralità dell’impresa. Un impianto in evidente discontinuità con quello costituzionale, che pur garantendo la libertà d’impresa la subordina all’interesse generale. La Repubblica è fondata sul lavoro, non sull’impresa. Quella visione portò con sè un bouquet di politiche, dalle privatizzazioni all’arretramento dello Stato, dalla flessibilità alle riforme del settore del sapere che oggi mostrano i propri limiti. Erano tutte scelte sbagliate? No. Ma come non vedere i guasti prodotti? Chi oggi ha 35 anni, veniva allora da noi non da Berlusconi invitato a non preoccuparsi per il proprio futuro, confidando nel mercato e nelle magnifiche sorti che la globalizzazione avrebbe dischiuso per tutti e per ciascuno: «Studiate -si dicevae sarete insider della globalizzazione. Grazie al vostro elevato capitale umano non avrete bisogno di sindacati, perché contratterete da soli i vostri diritti con le imprese, che faranno a gara per assumervi».

Una profezia negata dalla realtà di oggi, fatta di precarizzazione non solo della condizione lavorativa, ma del destino di milioni di persone.

Flessibilizzare un mercato del lavoro troppo rigido era indispensabile, ma occorreva contestualmente adeguare il Welfare per consentire a quei lavoratori flessibili di avere un affitto che non assorbisse interamente il loro salario o di essere sostenuti nei periodi di non lavoro. E occorreva aiutare il sistema di piccole e medie imprese del nostro Paese ad avere bisogno di quei lavoratori flessibili, ma di qualità. Quindi politiche industriali, attivazione della domanda di innovazione, incentivi al superamento del nanismo industriale, alla internazionalizzazione.

Nulla di tutto ciò, o almeno troppo poco, è stato fatto e la ragione di questo ritardo sta in quella dannata convinzione che alla politica spettasse solo liberare le energie del mercato, il resto sarebbe venuto da sé. Se oggi vogliamo provare a riconquistare la fiducia di quella parte del Paese a cui -anche noi abbiamo contribuito a rendere impossibile la vita, non possiamo non affrontare questa dolorosa discussione. Ma in quale Paese del mondo i leader progressisti, di fronte al dramma della crisi, risponderebbero rivendicando l’avanzo primario raggiunto durante le proprie esperienze di governo? Ma di cosa stiamo parlando?

Possiamo noi oggi rivolgerci a quel precario dicendo «Abbiamo capito: abbiamo sbagliato. Ora torna ad occuparsi di te la stessa classe dirigente di quindici anni fa o un giovane che vuol fare esattamente le stesse cose di allora, ma raccontandole cona ccento fiorentino»?

Io credo di no e che affrontare questa discussione seriamente sia un modo utile per dare un senso politico anche al tema del rinnovamento. E di attrezzare un credibile progetto di cambiamento del Paese. Porci all’altezza della sfida di ricostruire la nostra democrazia, come ci chiede Alfredo Reichlin, non è certo facile. Ma farlo senza indagare le cause per cui oggi essa appare così fragile, senza cogliere il nesso tra esclusione di milioni di persone dai processi produttivi e dunque dalla cittadinanza e inaridimento della sua base di legittimazione non ci porterebbe da nessuno parte. E quelle cause, purtroppo, affondano le radici anche nella nostra storia.

L’Unità 16.09.12

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“Riscoprire una politica popolare” di Livia Turco

La sfida cui sono di fronte il Pd e il centrosinistra non è quella di superare la distinzione tra la sinistra radicale e quella riformista, ma costruire un nuovo pensiero riformatore. Non solo perché non si capirebbero le ragioni del Pd (hanno ragione Rosy Bindi ed Emanuele Macaluso), ma perché tutti i grandi temi che ci stanno di fronte lavoro, welfare, diritti, democrazia richiedono nuove ricette e anche nuove parole. A partire dalla consapevolezza che oggi la giustizia sociale deve essere la stella polare non solo della sinistra, ma di tutte le forze che vogliono far tornare a crescere il nostro Paese e l’Europa, ridare forza e linfa alla democrazia.

C’è una questione cruciale che è stata ed è ragione fondativa della sinistra su cui dobbiamo cimentarci tutti: cosa significa e come si costruisce una politica popolare oggi? Penso che una nuova classe dirigente debba essere misurata, valutata e promossa nella capacità che ha di rispondere a tale sfida. Fa bene dunque il nostro segretario Pierluigi Bersani ad insistere sulla politica che guarda negli occhi le persone e, dunque, costruisce un legame diretto perché penso che qui vi sia la radice di una politica popolare, alternativa al populismo, capace di costruire una democrazia efficace.

Due sono le direttrici dell’innovazione. 1) La dimensione sovranazionale della politica che comporta nuovi assetti istituzionali, ma anche una dimensione di cittadinanza che superi la sua identificazione con la nazionalità e che definisca i diritti e i doveri in relazione alla dignità della persona e non solo del cittadino. 2) Una democrazia inclusiva che promuova l’ideale dell’eguaglianza non solo garantendo pari opportunità di accesso ma anche promuovendo le capacità della persona, e dunque un suo ruolo attivo nella società.

Le radici di una moderna politica popolare, di cui artefici fondamentali dovrebbero essere i partiti politici, sono iscritte nell’articolo 3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto, la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo rapporto tra giustizia sociale, lotta alle diseguaglianze e partecipazione attiva dei cittadini è un tratto moderno della nostra Costituzione che va riscoperto e rimesso a tema. Perché ci pone la questione dell’efficacia delle politica di welfare al fine di promuovere crescita e inclusione, ma anche di come le istituzioni e la politica promuovono la partecipazione attiva dei cittadini alla vita pubblica.

Che è al contempo ingrediente e misuratore della giustizia sociale. Fare in modo che le classi subalterne diventino classe dirigente. Questo era il tema di ieri. Lo è tanto più oggi. Lo è anche nell’era di internet e delle nuove forme di comunicazione, che sono uno straordinario strumento di promozione e di opportunità. Ma internet da sola non basta: ci vuole quella politica che costruisca relazioni umane e legami sociali. Che consenta alle persone di stare insieme, di avere opportunità formative, di discutere, di costruire punti di vista condivisi, di occuparsi insieme dei problemi della propria comunità. Altrimenti non si combatte la diseguaglianza e non si crea giustizia sociale.

Guardiamole in faccia le diseguaglianze che attanagliano il nostro Paese: l’impoverimento culturale, fragilità delle relazioni umane, isolamento sociale sono fenomeni che si accompagnano al lavoro precario, al reddito inadeguato, ai servizi inefficaci ed insufficienti. La diseguaglianza soffoca «le capacità» delle persone a partire da quella dei bambini e dei ragazzi. La politica deve farsi carico di questi diversi volti della diseguaglianza ed essere consapevole che la combatte non solo con misure adeguate di crescita di sviluppo, di welfare, ma anche con una azione quotidiana che coinvolga le persone, condivida i loro problemi, consenta loro di elaborarli in proposte ed in partecipazione consapevole.

Dunque, c’è bisogno di una politica che faccia uscire dal guscio, che promuova legami sociali, che costruisca nella vita quotidiana il senso e il valore della socialità e dunque della partecipazione attiva. Sarebbe utile e bello costruire un decalogo su come si costruisce una politica popolare sul territorio e fare una raccolta delle buone pratiche. Provo a dire cosa scriverei nel decalogo. Innanzitutto promuovere una conoscenza puntuale del territorio e dei suoi luoghi di lavoro. Farsi carico dei problemi e cercare di risolverli: la scuola, l’ospedale, il servizio sociale, il degrado urbano. Essere in contatto con le tante esperienze associative, dare loro sostegno, imparare da loro su come si interviene per risolvere i problemi, per esempio quando ci sono situazioni di povertà. Promuovere la formazione, a cominciare dai corsi di lingua italiana per gli immigrati e contemporaneamente chiedendo loro di raccontarci del loro Paese, come hanno fatto a Saviano (Napoli) o nella periferia sud di Roma, ad Anagnina. Costruire battaglie e vertenze per promuovere i diritti.

Creare occasione di formazione politica per il giovani e coinvolgere le persone anziane a trasmettere ai giovani il loro sapere e la loro competenza. Ecco, credo che questa sia la politica sulla base della quale si seleziona oggi una classe dirigente.

L’Unità 14.09.12