L’intervento con cui Livia Turco ha elencato molte buone ragioni per negare la subalternità al liberismo dei governi di centrosinistra aiuta a fare un passo avanti nella nostra discussione. Livia Turco rivendica la bontà di quelle stagioni di governo e spiega le ragioni delle sconfitte che seguirono con la categoria del riformismo senza popolo. Non c’è dubbio che la mancanza di un soggetto politico che desse forza a quei governi fu parte del problema. Ma a un quindicennio di distanza possiamo forse guardare con maggior serenità alla qualità del riformismo che quei governi espressero, curiosamente mai messa in discussione. L’incapacità prima culturale che politica di reagire all’offensiva della destra economica europea rese largamente condivisa l’idea che Stato minimo, svuotamento del ruolo delle assemblee elettive e riduzione della funzione della politica fossero le precondizioni di una modernizzazione competitiva del Paese. Furono davvero quei governi immuni da questa visione? A me pare di no. Basti pensare ad alcune scelte strategiche che li caratterizzarono. Il principale risultato di quei governi fu il raggiungimento dell’euro, ma esso ne fu anche il maggior limite: l’Europa è ancora oggi poco più che una moneta, nonostante nel momento del processo di unificazione essa fosse governata quasi esclusivamente da forze di centrosinistra.
Oggi ci scopriamo inermi di fronte alla crisi, privi di quegli strumenti necessari ad arginare lo strapotere della finanza e invochiamo la necessità di«più Europa».Ma lo strapotere della finanza e i limiti nell’integrazione furono il frutto di scelte politiche, che noi subimmo, accettando l’idea che per ridurre gli squilibri interni all’area euro sarebbe stato sufficiente il dispiegarsi del mercato unico.
Gli effetti di quella visione sono oggi sotto gli occhi di tutti. Ma c’è di più: il filo rosso che legò le scelte dei governi dell’Ulivo fu la tesi, mutuata dal manifesto della Terza Via, della centralità dell’impresa. Un impianto in evidente discontinuità con quello costituzionale, che pur garantendo la libertà d’impresa la subordina all’interesse generale. La Repubblica è fondata sul lavoro, non sull’impresa. Quella visione portò con sè un bouquet di politiche, dalle privatizzazioni all’arretramento dello Stato, dalla flessibilità alle riforme del settore del sapere che oggi mostrano i propri limiti. Erano tutte scelte sbagliate? No. Ma come non vedere i guasti prodotti? Chi oggi ha 35 anni, veniva allora da noi non da Berlusconi invitato a non preoccuparsi per il proprio futuro, confidando nel mercato e nelle magnifiche sorti che la globalizzazione avrebbe dischiuso per tutti e per ciascuno: «Studiate -si dicevae sarete insider della globalizzazione. Grazie al vostro elevato capitale umano non avrete bisogno di sindacati, perché contratterete da soli i vostri diritti con le imprese, che faranno a gara per assumervi».
Una profezia negata dalla realtà di oggi, fatta di precarizzazione non solo della condizione lavorativa, ma del destino di milioni di persone.
Flessibilizzare un mercato del lavoro troppo rigido era indispensabile, ma occorreva contestualmente adeguare il Welfare per consentire a quei lavoratori flessibili di avere un affitto che non assorbisse interamente il loro salario o di essere sostenuti nei periodi di non lavoro. E occorreva aiutare il sistema di piccole e medie imprese del nostro Paese ad avere bisogno di quei lavoratori flessibili, ma di qualità. Quindi politiche industriali, attivazione della domanda di innovazione, incentivi al superamento del nanismo industriale, alla internazionalizzazione.
Nulla di tutto ciò, o almeno troppo poco, è stato fatto e la ragione di questo ritardo sta in quella dannata convinzione che alla politica spettasse solo liberare le energie del mercato, il resto sarebbe venuto da sé. Se oggi vogliamo provare a riconquistare la fiducia di quella parte del Paese a cui -anche noi abbiamo contribuito a rendere impossibile la vita, non possiamo non affrontare questa dolorosa discussione. Ma in quale Paese del mondo i leader progressisti, di fronte al dramma della crisi, risponderebbero rivendicando l’avanzo primario raggiunto durante le proprie esperienze di governo? Ma di cosa stiamo parlando?
Possiamo noi oggi rivolgerci a quel precario dicendo «Abbiamo capito: abbiamo sbagliato. Ora torna ad occuparsi di te la stessa classe dirigente di quindici anni fa o un giovane che vuol fare esattamente le stesse cose di allora, ma raccontandole cona ccento fiorentino»?
Io credo di no e che affrontare questa discussione seriamente sia un modo utile per dare un senso politico anche al tema del rinnovamento. E di attrezzare un credibile progetto di cambiamento del Paese. Porci all’altezza della sfida di ricostruire la nostra democrazia, come ci chiede Alfredo Reichlin, non è certo facile. Ma farlo senza indagare le cause per cui oggi essa appare così fragile, senza cogliere il nesso tra esclusione di milioni di persone dai processi produttivi e dunque dalla cittadinanza e inaridimento della sua base di legittimazione non ci porterebbe da nessuno parte. E quelle cause, purtroppo, affondano le radici anche nella nostra storia.
L’Unità 16.09.12
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“Riscoprire una politica popolare” di Livia Turco
La sfida cui sono di fronte il Pd e il centrosinistra non è quella di superare la distinzione tra la sinistra radicale e quella riformista, ma costruire un nuovo pensiero riformatore. Non solo perché non si capirebbero le ragioni del Pd (hanno ragione Rosy Bindi ed Emanuele Macaluso), ma perché tutti i grandi temi che ci stanno di fronte lavoro, welfare, diritti, democrazia richiedono nuove ricette e anche nuove parole. A partire dalla consapevolezza che oggi la giustizia sociale deve essere la stella polare non solo della sinistra, ma di tutte le forze che vogliono far tornare a crescere il nostro Paese e l’Europa, ridare forza e linfa alla democrazia.
C’è una questione cruciale che è stata ed è ragione fondativa della sinistra su cui dobbiamo cimentarci tutti: cosa significa e come si costruisce una politica popolare oggi? Penso che una nuova classe dirigente debba essere misurata, valutata e promossa nella capacità che ha di rispondere a tale sfida. Fa bene dunque il nostro segretario Pierluigi Bersani ad insistere sulla politica che guarda negli occhi le persone e, dunque, costruisce un legame diretto perché penso che qui vi sia la radice di una politica popolare, alternativa al populismo, capace di costruire una democrazia efficace.
Due sono le direttrici dell’innovazione. 1) La dimensione sovranazionale della politica che comporta nuovi assetti istituzionali, ma anche una dimensione di cittadinanza che superi la sua identificazione con la nazionalità e che definisca i diritti e i doveri in relazione alla dignità della persona e non solo del cittadino. 2) Una democrazia inclusiva che promuova l’ideale dell’eguaglianza non solo garantendo pari opportunità di accesso ma anche promuovendo le capacità della persona, e dunque un suo ruolo attivo nella società.
Le radici di una moderna politica popolare, di cui artefici fondamentali dovrebbero essere i partiti politici, sono iscritte nell’articolo 3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto, la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo rapporto tra giustizia sociale, lotta alle diseguaglianze e partecipazione attiva dei cittadini è un tratto moderno della nostra Costituzione che va riscoperto e rimesso a tema. Perché ci pone la questione dell’efficacia delle politica di welfare al fine di promuovere crescita e inclusione, ma anche di come le istituzioni e la politica promuovono la partecipazione attiva dei cittadini alla vita pubblica.
Che è al contempo ingrediente e misuratore della giustizia sociale. Fare in modo che le classi subalterne diventino classe dirigente. Questo era il tema di ieri. Lo è tanto più oggi. Lo è anche nell’era di internet e delle nuove forme di comunicazione, che sono uno straordinario strumento di promozione e di opportunità. Ma internet da sola non basta: ci vuole quella politica che costruisca relazioni umane e legami sociali. Che consenta alle persone di stare insieme, di avere opportunità formative, di discutere, di costruire punti di vista condivisi, di occuparsi insieme dei problemi della propria comunità. Altrimenti non si combatte la diseguaglianza e non si crea giustizia sociale.
Guardiamole in faccia le diseguaglianze che attanagliano il nostro Paese: l’impoverimento culturale, fragilità delle relazioni umane, isolamento sociale sono fenomeni che si accompagnano al lavoro precario, al reddito inadeguato, ai servizi inefficaci ed insufficienti. La diseguaglianza soffoca «le capacità» delle persone a partire da quella dei bambini e dei ragazzi. La politica deve farsi carico di questi diversi volti della diseguaglianza ed essere consapevole che la combatte non solo con misure adeguate di crescita di sviluppo, di welfare, ma anche con una azione quotidiana che coinvolga le persone, condivida i loro problemi, consenta loro di elaborarli in proposte ed in partecipazione consapevole.
Dunque, c’è bisogno di una politica che faccia uscire dal guscio, che promuova legami sociali, che costruisca nella vita quotidiana il senso e il valore della socialità e dunque della partecipazione attiva. Sarebbe utile e bello costruire un decalogo su come si costruisce una politica popolare sul territorio e fare una raccolta delle buone pratiche. Provo a dire cosa scriverei nel decalogo. Innanzitutto promuovere una conoscenza puntuale del territorio e dei suoi luoghi di lavoro. Farsi carico dei problemi e cercare di risolverli: la scuola, l’ospedale, il servizio sociale, il degrado urbano. Essere in contatto con le tante esperienze associative, dare loro sostegno, imparare da loro su come si interviene per risolvere i problemi, per esempio quando ci sono situazioni di povertà. Promuovere la formazione, a cominciare dai corsi di lingua italiana per gli immigrati e contemporaneamente chiedendo loro di raccontarci del loro Paese, come hanno fatto a Saviano (Napoli) o nella periferia sud di Roma, ad Anagnina. Costruire battaglie e vertenze per promuovere i diritti.
Creare occasione di formazione politica per il giovani e coinvolgere le persone anziane a trasmettere ai giovani il loro sapere e la loro competenza. Ecco, credo che questa sia la politica sulla base della quale si seleziona oggi una classe dirigente.
L’Unità 14.09.12
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Roma – Camera dei Deputati – Sala del Mappamondo – Convegno: "Ad un anno dall’approvazione della legge sul prezzo dei libri"
CAMERA DEI DEPUTATI
VII Commissione Cultura, scienza ed istruzione
Ad un anno dall’approvazione della legge sul prezzo dei libri
(Legge n. 128 del 27 luglio 2011)
APERTURA DEI LAVORI
On. Manuela Ghizzoni, Presidente della VII Commissione
INTERVENTI
Aldo ADDIS (Libreria Koiné), Martin ANGIONI (Amazon), Ginevra BOMPIANI (Nottetempo), Alessandro BOMPIERI (RCS), Riccardo CAVALLERO (Mondadori), Marcello CICCAGLIONI (Arion), Teresa CREMISI (Flammarion), Federico ENRIQUES (Zanichelli), Gian Arturo FERRARI (Centro per il libro e la lettura), Alberto GALLA (ALI), Dario GIAMBELLI (Feltrinelli), Giovanni Ulrico HOEPLI (Hoepli), Giuseppe LATERZA (Laterza), Stefano MAURI (GeMS), Stefano PARISE (AIB), Marco POLILLO (AIE), Antonio SELLERIO (Sellerio)
Coordina l’incontro Marino SINIBALDI
INTERVENTO CONCLUSIVO
Dott. Paolo Peluffo, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega all’informazione e all’editoria
Roma – Camera dei Deputati – Sala del Mappamondo – Convegno: "Ad un anno dall’approvazione della legge sul prezzo dei libri"
CAMERA DEI DEPUTATI
VII Commissione Cultura, scienza ed istruzione
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(Legge n. 128 del 27 luglio 2011)
APERTURA DEI LAVORI
On. Manuela Ghizzoni, Presidente della VII Commissione
INTERVENTI
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INTERVENTO CONCLUSIVO
Dott. Paolo Peluffo, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega all’informazione e all’editoria
"La videocrazia è il pericolo", di Vittorio Emiliani
Per Silvio Berlusconi la messa in vendita de La7 e di Mtv da parte di Telecom rappresenta un raggio di sole e anche più, mentre sul sistema dei media italiani può calare con essa una autentica cappa di piombo. Saremmo più che mai a MediaRai. Ora si capisce meglio perché l’ex premier rinvii di continuo ogni annuncio sul proprio futuro politico. Gli affari di famiglia esigono che il Berlusconi politico eviti di danneggiare, in una partita difficile, Mediaset.
La quale presenta dati negativi sia negli ascolti che nella raccolta pubblicitaria. Meglio per lui rimanere in scena a fare il controllore delle maggioranze invece di impegnarsi in un improbabile ritorno a Palazzo Chigi.
La mossa di Mediaset di presentare entro il 24 settembre una proposta di interesse per TiMedia di Telecom (emittenti tv, infrastrutture, frequenze, ecc.) serve ad “andare a vedere” le carte di chi vende. Ma può anche significare la volontà di comprare per poi smembrare una tv generalista e tenersi soltanto ciò che serve. Come ha ben rilevato ieri su l’Unità Rinaldo Gianola, TiMedia ha chiuso il 2011 con una perdita di 83 milioni (quasi 29 più dell’anno precedente) e il primo semestre di quest’anno con un “rosso” di 35 milioni. Né il varo di un Tg “diverso” che pure fa ascolti e di qualificati programmi di approfondimento e di intrattenimento con elementi ex Rai (Lerner, Formigli, Gruber, ecc.) ha portato lo share medio oltre il 4 %. Però la raccolta pubblicitaria è la sola a segnare incrementi (+ 10,8 %) insieme a quella di Sky, contro una perdita media del settore sull’8-9 %.
Inoltre l’arrivo sul video dell’équipe di Michele Santoro, reduce dalla buona esperienza di Servizio pubblico, promette, o prometteva, un balzo degli ascolti e quindi degli spot connessi. Come accadeva su Raidue ai tempi di Annozero, prima che la Rai si “suicidasse”, anche economicamente, estromettendolo. Assieme ai nomi già indicati, Santoro presenta agli occhi del Cavaliere il grave difetto di potenziare una tv già fastidiosamente critica per lui, sia come candidato-premier sia come controllore delle maggioranze (del Monti dopo Monti, magari). Comprare La7 e devitalizzarla può diventare dunque per lui un doppio affare.
Glielo consentono le leggi vigenti? La legge Gasparri è tagliata su misura per lui come il doppiopetto grigio che indossa: all’interno del calderone del Sic (Sistema Integrato delle Comunicazioni), dovrebbe superare, in modo diretto e indiretto, il 20 %. Né dovrebbe – ma è più controverso – creargli problemi il “tetto” di 5 multiplex che pure, più che un tetto, è un grattacielo. Potrà intervenire allora l’Antitrust? Potrebbe. E però molto dipende anche dal governo dei tecnici che, fin qui, non ha fatto granché in materia. Nominati i vertici della Rai e ristretti i poteri del CdA, la decisione più significativa è stata quella di parcheggiare l’ex direttore generale Lorenza Lei alla Sipra che boccheggia ed avrebbe bisogno di competenze molto agguerrite. Sul versante dell’asta delle frequenze il ministro Passera non partorisce da mesi una decisione: se Mediaset potrà comprare La7 e le sue frequenze, spenderà di meno e non avrà più bisogno d’altro.
L’acquisto diretto di TiMedia da parte di Mediaset – certamente sfrontato in una Europa dove il servizio pubblico è da decenni “messo in sicurezza” da leggi forti e da canoni elevati – non è la sola prospettiva minacciosa. Nel senso che esso riporterebbe a galla il gigantesco conflitto di interessi berlusconiano e magari ricreerebbe, risvegliando i dormienti, un fronte politico meno sfaldato e diviso. Non meno pericoloso purtroppo sarebbe l’acquisto da parte di una cordata di «amici del Cavaliere», che sortirebbe per lui effetti politici analoghi (via o imbavagliati i programmi molesti) e non andrebbe a scontrarsi coi pur radi paletti opposti da leggi e Autorità di vigilanza (dove altri “amici” vigilano, pro Arcore o Cologno Monzese, s’intende). Con la Rai conciata com’è, rischia dunque di calare sul panorama dell’informazione televisiva – i Tg sono l’unica fonte per oltre il 60 % degli italiani – la cappa più opprimente, il più gigantesco bavaglio che la storia ricordi, dagli esordi televisivi del 1954. Stavolta saremmo davvero alla videocrazia.
L’Unità 16.09.12
"La videocrazia è il pericolo", di Vittorio Emiliani
Per Silvio Berlusconi la messa in vendita de La7 e di Mtv da parte di Telecom rappresenta un raggio di sole e anche più, mentre sul sistema dei media italiani può calare con essa una autentica cappa di piombo. Saremmo più che mai a MediaRai. Ora si capisce meglio perché l’ex premier rinvii di continuo ogni annuncio sul proprio futuro politico. Gli affari di famiglia esigono che il Berlusconi politico eviti di danneggiare, in una partita difficile, Mediaset.
La quale presenta dati negativi sia negli ascolti che nella raccolta pubblicitaria. Meglio per lui rimanere in scena a fare il controllore delle maggioranze invece di impegnarsi in un improbabile ritorno a Palazzo Chigi.
La mossa di Mediaset di presentare entro il 24 settembre una proposta di interesse per TiMedia di Telecom (emittenti tv, infrastrutture, frequenze, ecc.) serve ad “andare a vedere” le carte di chi vende. Ma può anche significare la volontà di comprare per poi smembrare una tv generalista e tenersi soltanto ciò che serve. Come ha ben rilevato ieri su l’Unità Rinaldo Gianola, TiMedia ha chiuso il 2011 con una perdita di 83 milioni (quasi 29 più dell’anno precedente) e il primo semestre di quest’anno con un “rosso” di 35 milioni. Né il varo di un Tg “diverso” che pure fa ascolti e di qualificati programmi di approfondimento e di intrattenimento con elementi ex Rai (Lerner, Formigli, Gruber, ecc.) ha portato lo share medio oltre il 4 %. Però la raccolta pubblicitaria è la sola a segnare incrementi (+ 10,8 %) insieme a quella di Sky, contro una perdita media del settore sull’8-9 %.
Inoltre l’arrivo sul video dell’équipe di Michele Santoro, reduce dalla buona esperienza di Servizio pubblico, promette, o prometteva, un balzo degli ascolti e quindi degli spot connessi. Come accadeva su Raidue ai tempi di Annozero, prima che la Rai si “suicidasse”, anche economicamente, estromettendolo. Assieme ai nomi già indicati, Santoro presenta agli occhi del Cavaliere il grave difetto di potenziare una tv già fastidiosamente critica per lui, sia come candidato-premier sia come controllore delle maggioranze (del Monti dopo Monti, magari). Comprare La7 e devitalizzarla può diventare dunque per lui un doppio affare.
Glielo consentono le leggi vigenti? La legge Gasparri è tagliata su misura per lui come il doppiopetto grigio che indossa: all’interno del calderone del Sic (Sistema Integrato delle Comunicazioni), dovrebbe superare, in modo diretto e indiretto, il 20 %. Né dovrebbe – ma è più controverso – creargli problemi il “tetto” di 5 multiplex che pure, più che un tetto, è un grattacielo. Potrà intervenire allora l’Antitrust? Potrebbe. E però molto dipende anche dal governo dei tecnici che, fin qui, non ha fatto granché in materia. Nominati i vertici della Rai e ristretti i poteri del CdA, la decisione più significativa è stata quella di parcheggiare l’ex direttore generale Lorenza Lei alla Sipra che boccheggia ed avrebbe bisogno di competenze molto agguerrite. Sul versante dell’asta delle frequenze il ministro Passera non partorisce da mesi una decisione: se Mediaset potrà comprare La7 e le sue frequenze, spenderà di meno e non avrà più bisogno d’altro.
L’acquisto diretto di TiMedia da parte di Mediaset – certamente sfrontato in una Europa dove il servizio pubblico è da decenni “messo in sicurezza” da leggi forti e da canoni elevati – non è la sola prospettiva minacciosa. Nel senso che esso riporterebbe a galla il gigantesco conflitto di interessi berlusconiano e magari ricreerebbe, risvegliando i dormienti, un fronte politico meno sfaldato e diviso. Non meno pericoloso purtroppo sarebbe l’acquisto da parte di una cordata di «amici del Cavaliere», che sortirebbe per lui effetti politici analoghi (via o imbavagliati i programmi molesti) e non andrebbe a scontrarsi coi pur radi paletti opposti da leggi e Autorità di vigilanza (dove altri “amici” vigilano, pro Arcore o Cologno Monzese, s’intende). Con la Rai conciata com’è, rischia dunque di calare sul panorama dell’informazione televisiva – i Tg sono l’unica fonte per oltre il 60 % degli italiani – la cappa più opprimente, il più gigantesco bavaglio che la storia ricordi, dagli esordi televisivi del 1954. Stavolta saremmo davvero alla videocrazia.
L’Unità 16.09.12
"Ricchi contro ricchi, con meno soldi il capitalismo va in tilt", di Ettore Livini
Miscrospie e registrazioni clandestine. Documenti riservatissimi che, come in un film di 007, finiscono dritti dritti su Indymedia, il sito dell’antagonismo tricolore. Più insulti a gogò — «arzilli vecchietti», «furbetti cosmopoliti» e «livorosa controfigura di Sgarbi» le ultime perle — e regolamenti di conti da Far West tra manager e imprenditori legati fino a poco tempo fa da sodalizi decennali. Le stanze ovattate del “salotto buono” dove per anni i Paperoni tricolori hanno scritto nel massimo riserbo (e a loro uso e consumo) la storia della finanza nazionale non esistono più. Tra i miliardari — o presunti tali — d’Italia volano gli stracci come in un’assemblea di condominio. Ricchi contro ricchi. Tutti contro tutti. In una partita destinata a ridisegnare nei prossimi mesi la mappa del potere economico (e in parte anche politico) del nostro paese.
Questi scontri, intendiamoci, non sono una novità. La storia del capitalismo tricolore è stata segnata da battaglie cruente in cui non si sono fatti prigionieri. Ma in silenzio e senza titoli sui giornali se non a partita chiusa. Cesare Romiti, sostenuto da Enrico Cuccia, il templare del riservatissimo e ormai defunto sistema di relazioni italiano, è stato protagonista di un lungo e cruento braccio di ferro (vinto) con Umberto Agnelli per il vertice della Fiat. E nemmeno l’Avvocato, con tutto il suo charme e il suo carisma, è riuscito allora a salvare il fratello.
Scontri tra giganti. Come l’interminabile partita a scacchi tra Cuccia e Romano Prodi negli anni ’90 per il controllo di Comit e Credito Italiano, le due ex-Bin. Consumata a corrente alternata tra silenziose coltellate alle spalle, arrocchi, presunti tradimenti (come quelli dei Bragiotti, con il giovane Gerardo licenziato in tronco da Mediobanca mentre stava per partire per i Caraibi) e, alla fine, la vittoria ai punti per l’ex presidente del consiglio.
Altri tempi e altro stile. Niente urla. I panni sporchi lavati tra le mura di casa in un mondo dove i soldi (spesso quelli delle banche, appunto) non mancavano. Con rare eccezioni come lo scontro tra Carlo De Benedetti (editore de La Repubblica) e Silvio Berlusconi per il controllo della Mondadori. O l’agguato teso dalla Fiat alla Mediobanca di Vincenzo Maranghi poco dopo la morte di Cuccia sulla Edison.
Oggi è cambiato tutto. Senza telecamere, taccuino e riflettori non si muove nessuno. Lo stesso Romiti, perso l’aplomb d’antan, consuma in un libro di ricordi e davanti alle telecamere di “Che tempo che fa” le sue vendette personali («Montezemolo? Bugiardo come Berlusconi, l’unica differenza è che uno ha i capelli e l’altro no»). E il Maradona di questa partita, non a caso, è Diego Della Valle, il più mediatico e istintivo degli imprenditori di casa nostra. Il suo attacco a John Elkann e Sergio Marchionne – i “furbetti cosmpoliti” di cui sopra – è solo la punta dell’iceberg. Senza Cuccia a tener assieme il sistema e senza i soldi delle banche per cementare scatole cinesi e patti di sindacato, il capitalismo senza soldi (o con quelli degli altri) che ha spadroneggiato per anni a Piazza Affari è andato in tilt, scatenando una guerra dove i conti non si fanno più con il fioretto ma con la spada.
L’elenco dei sanguinosi “derby” del salotto buono in corso sulla pubblica piazza e senza esclusione di colpi è da brividi. «Articolo quinto, chi ha i soldi ha vinto», diceva Cuccia. La regola vale anche oggi nella guerra tra miliardari. Della Valle – lo “scarparo” come l’hanno poco affettuosamente soprannominato i suoi molti nemici – ha ammucchiato una fortuna grazie a giacche e scarpe a pallini. E cavalcando questo arsenale ha guidato a suon di dichiarazioni al vetriolo il blitz in Generali contro Cesare Geronzi, l’ex onnipotente numero uno della Banca di Roma da lui degradato al ruolo di «arzillo vecchietto».
Lo stesso vale per Leonardo Del Vecchio, seduto su un immenso patrimonio grazie alla sua Luxottica. E’ stato lui, non a caso, a liquidare con un’intervista alla vigilia dell’assemblea delle Generali l’ad Giovanni Perissinotto, costringendo il numero uno di Mediobanca Alberto Nagel, da sempre vicinissimo al manager del Leone, a dargli il benservito.
Il passato, quando il gioco si fa duro, non conta più. I Ligresti – sperperati i loro risparmi
(purtroppo anche quelli dei loro soci) in cavalli, villaggi in Sardegna, borsette e investimenti sbagliati – sono stati scaricati senza troppi complimenti dopo quarant’anni di affinità elettive proprio da Mediobanca. Un divorzio dalle tinte forti di un duello rusticano, condito dalle lacrime del capofamiglia Salvatore («minacciava il suicidio», assicura Nagel) e dalle manovre alla Tom Ponzi di Jonnella, figlia dell’ingegnere di Paternò, cablata come il cruscotto dello Shuttle per registrare di nascosto i suoi colloqui in Piazzetta Cuccia. Scene da melodramma, non fosse che in ballo c’era la Fonsai, seconda compagnia d’assicurazione italiana. Il miglio quadrato attorno a Piazza Affari, del resto, si è trasformato in una specie di giungla dove (forse per la prima volta) vale la legge del più forte e non quella delle relazioni. I Salini, outsider romani nel mondo delle grandi opere, hanno sfilato dopo una feroce battaglia a colpi di esposti e denunce l’Impregilo ai Gavio, ritenuti fino a ieri un’intoccabile “specie protetta” nello Zoosafari della Galassia del Nord. Un po’ come vedere il Sassuolo che batte la Juventus.
Questo clima da fine del mondo, o almeno di quel mondo, scatena del resto appetiti impensabili solo un anno fa. I liquidissimi Malacalza, parvenu (nell’ottica del salotto buono) di Bobbio, provincia di Piacenza, stanno provando a sfilare con due lire e metodi un po’ garibaldini la Pirelli a Marco Tronchetti Provera, ritenuto una volta per fascino e carisma l’erede naturale dell’avvocato Agnelli. E anche in questo caso il bon ton è andato a farsi benedire, con i verbali di cda e le lettere riservate tra le parti passate sottobanco a Indymedia e la tradizionale raffica di denunce incrociate in Procura.
Grande è la confusione sotto il cielo, direbbe Mao Tze Tung. In questa Italia un po’ fluida dell’era dei debiti sovrani, economia e politica stanno cambiando pelle allo stesso momento. Forse non a caso al centro del grande risiko della finanza tricolore, oggi come sempre, c’è il Corriere della Sera.
Della Valle vorrebbe usare i suoi soldi per crescere in via Solferino e, guarda caso, Fiat e Mediobanca si sono messe di traverso in una sfida dove recitano come primattori pure Fonsai, Pirelli e i Gavio. I suoi attacchi al Lingotto hanno fatto scricchiolare persino lo storico legame d’amicizia con Luca Cordero di Montezemolo che, di suo, è indeciso tra Ferrari e Palazzi romani e per questo ha finito per litigare con il potenziale alleato Pierferdinando Casini. La guerra dei Paperoni italiani per ridisegnare il potere tricolore, insomma, è solo al primo tempo e promette ancora scintille. Sperando che a vincere, alla fine, non sia qualche Paperone straniero.
La Repubblica 16.09.12
"Ricchi contro ricchi, con meno soldi il capitalismo va in tilt", di Ettore Livini
Miscrospie e registrazioni clandestine. Documenti riservatissimi che, come in un film di 007, finiscono dritti dritti su Indymedia, il sito dell’antagonismo tricolore. Più insulti a gogò — «arzilli vecchietti», «furbetti cosmopoliti» e «livorosa controfigura di Sgarbi» le ultime perle — e regolamenti di conti da Far West tra manager e imprenditori legati fino a poco tempo fa da sodalizi decennali. Le stanze ovattate del “salotto buono” dove per anni i Paperoni tricolori hanno scritto nel massimo riserbo (e a loro uso e consumo) la storia della finanza nazionale non esistono più. Tra i miliardari — o presunti tali — d’Italia volano gli stracci come in un’assemblea di condominio. Ricchi contro ricchi. Tutti contro tutti. In una partita destinata a ridisegnare nei prossimi mesi la mappa del potere economico (e in parte anche politico) del nostro paese.
Questi scontri, intendiamoci, non sono una novità. La storia del capitalismo tricolore è stata segnata da battaglie cruente in cui non si sono fatti prigionieri. Ma in silenzio e senza titoli sui giornali se non a partita chiusa. Cesare Romiti, sostenuto da Enrico Cuccia, il templare del riservatissimo e ormai defunto sistema di relazioni italiano, è stato protagonista di un lungo e cruento braccio di ferro (vinto) con Umberto Agnelli per il vertice della Fiat. E nemmeno l’Avvocato, con tutto il suo charme e il suo carisma, è riuscito allora a salvare il fratello.
Scontri tra giganti. Come l’interminabile partita a scacchi tra Cuccia e Romano Prodi negli anni ’90 per il controllo di Comit e Credito Italiano, le due ex-Bin. Consumata a corrente alternata tra silenziose coltellate alle spalle, arrocchi, presunti tradimenti (come quelli dei Bragiotti, con il giovane Gerardo licenziato in tronco da Mediobanca mentre stava per partire per i Caraibi) e, alla fine, la vittoria ai punti per l’ex presidente del consiglio.
Altri tempi e altro stile. Niente urla. I panni sporchi lavati tra le mura di casa in un mondo dove i soldi (spesso quelli delle banche, appunto) non mancavano. Con rare eccezioni come lo scontro tra Carlo De Benedetti (editore de La Repubblica) e Silvio Berlusconi per il controllo della Mondadori. O l’agguato teso dalla Fiat alla Mediobanca di Vincenzo Maranghi poco dopo la morte di Cuccia sulla Edison.
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L’elenco dei sanguinosi “derby” del salotto buono in corso sulla pubblica piazza e senza esclusione di colpi è da brividi. «Articolo quinto, chi ha i soldi ha vinto», diceva Cuccia. La regola vale anche oggi nella guerra tra miliardari. Della Valle – lo “scarparo” come l’hanno poco affettuosamente soprannominato i suoi molti nemici – ha ammucchiato una fortuna grazie a giacche e scarpe a pallini. E cavalcando questo arsenale ha guidato a suon di dichiarazioni al vetriolo il blitz in Generali contro Cesare Geronzi, l’ex onnipotente numero uno della Banca di Roma da lui degradato al ruolo di «arzillo vecchietto».
Lo stesso vale per Leonardo Del Vecchio, seduto su un immenso patrimonio grazie alla sua Luxottica. E’ stato lui, non a caso, a liquidare con un’intervista alla vigilia dell’assemblea delle Generali l’ad Giovanni Perissinotto, costringendo il numero uno di Mediobanca Alberto Nagel, da sempre vicinissimo al manager del Leone, a dargli il benservito.
Il passato, quando il gioco si fa duro, non conta più. I Ligresti – sperperati i loro risparmi
(purtroppo anche quelli dei loro soci) in cavalli, villaggi in Sardegna, borsette e investimenti sbagliati – sono stati scaricati senza troppi complimenti dopo quarant’anni di affinità elettive proprio da Mediobanca. Un divorzio dalle tinte forti di un duello rusticano, condito dalle lacrime del capofamiglia Salvatore («minacciava il suicidio», assicura Nagel) e dalle manovre alla Tom Ponzi di Jonnella, figlia dell’ingegnere di Paternò, cablata come il cruscotto dello Shuttle per registrare di nascosto i suoi colloqui in Piazzetta Cuccia. Scene da melodramma, non fosse che in ballo c’era la Fonsai, seconda compagnia d’assicurazione italiana. Il miglio quadrato attorno a Piazza Affari, del resto, si è trasformato in una specie di giungla dove (forse per la prima volta) vale la legge del più forte e non quella delle relazioni. I Salini, outsider romani nel mondo delle grandi opere, hanno sfilato dopo una feroce battaglia a colpi di esposti e denunce l’Impregilo ai Gavio, ritenuti fino a ieri un’intoccabile “specie protetta” nello Zoosafari della Galassia del Nord. Un po’ come vedere il Sassuolo che batte la Juventus.
Questo clima da fine del mondo, o almeno di quel mondo, scatena del resto appetiti impensabili solo un anno fa. I liquidissimi Malacalza, parvenu (nell’ottica del salotto buono) di Bobbio, provincia di Piacenza, stanno provando a sfilare con due lire e metodi un po’ garibaldini la Pirelli a Marco Tronchetti Provera, ritenuto una volta per fascino e carisma l’erede naturale dell’avvocato Agnelli. E anche in questo caso il bon ton è andato a farsi benedire, con i verbali di cda e le lettere riservate tra le parti passate sottobanco a Indymedia e la tradizionale raffica di denunce incrociate in Procura.
Grande è la confusione sotto il cielo, direbbe Mao Tze Tung. In questa Italia un po’ fluida dell’era dei debiti sovrani, economia e politica stanno cambiando pelle allo stesso momento. Forse non a caso al centro del grande risiko della finanza tricolore, oggi come sempre, c’è il Corriere della Sera.
Della Valle vorrebbe usare i suoi soldi per crescere in via Solferino e, guarda caso, Fiat e Mediobanca si sono messe di traverso in una sfida dove recitano come primattori pure Fonsai, Pirelli e i Gavio. I suoi attacchi al Lingotto hanno fatto scricchiolare persino lo storico legame d’amicizia con Luca Cordero di Montezemolo che, di suo, è indeciso tra Ferrari e Palazzi romani e per questo ha finito per litigare con il potenziale alleato Pierferdinando Casini. La guerra dei Paperoni italiani per ridisegnare il potere tricolore, insomma, è solo al primo tempo e promette ancora scintille. Sperando che a vincere, alla fine, non sia qualche Paperone straniero.
La Repubblica 16.09.12
