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"Oligarchie inamovibili e movimenti di plastica", di Francesco Cundari

Anche se non bisognerebbe mai infierire su un avversario a terra, è difficile non commentare l’esultanza della stampa berlusconiana di più stretta osservanza per la spaccatura del Pd prodotta dalle primarie («Tutti contro tutti, e adesso il Pd è morto», titolava ieri, per esempio, il Giornale di Alessandro Sallusti). Un rischio che il Pdl ha deciso prudentemente di non correre, dove ovviamente Pdl sta – come al solito – per Silvio Berlusconi, unico titolato a decidere in materia. D’altra parte, qualora Berlusconi decidesse di non ricandidarsi, e scarseggiassero i delfini ansiosi di provare il trattamento sperimentato quest’estate su Angelino Alfano, non si può escludere che il centrodestra ci ripensi e affidi alle primarie la scelta del suo primo rappresentante (suo di Berlusconi, s’intende).
In molti, tuttavia, sostengono che il centrosinistra non abbia scelto un buon momento per fare le primarie. Ci sono validi argomenti a favore di questa tesi, primo tra tutti il rischio di aprire un confronto nel proprio campo mentre il naturale confronto con l’avversario è di fatto sospeso: il rischio, cioè, che la pressione si scarichi tutta all’interno, con effetti deflagranti. Ma se guardiamo la cosa da un altro punto di vista, è difficile trovare un momento migliore di questo. Basta scorrere le notizie delle ultime settimane: fior di dirigenti e persino ex ministri del Pdl sfilano in tv costretti a pronunciare frasi come «non so se il leader sarà ancora Berlusconi», «bisogna chiederlo a lui», «attendiamo che ci faccia sapere»; il movimento grillino, che doveva rivoluzionare la politica a forza di partecipazione dal basso e democrazia diretta, alla prima critica nei confronti del vertice, caccia via il dissidente tra insulti, accuse e minacce di morte (tanto che ieri la procura di Bologna ha dovuto aprire un’inchiesta); Antonio Di Pietro si conferma intenzionato a lasciare il suo nome nel simbolo, ragion per cui le critiche di Massimo Donadi paiono destinate a cadere nel vuoto, ché fare non diciamo le primarie, ma anche solo una riunioncina per discutere la linea del capo – in un partito che il nome del capo ce l’ha nell’insegna – sarebbe come chiedere a un fan club di John Lennon di intitolare la sede a Toto Cutugno.
Se questi sono quelli che erano scesi in campo contro la «vecchia politica» o contro la «casta» dei nominati, il Pd non poteva scegliere momento migliore per mostrare agli italiani dove stanno le oligarchie inamovibili e indiscutibili, lontane dal Paese e allergiche al confronto. Naturalmente, restano molte buone ragioni per criticare queste primarie, a cominciare dalla confusione tra primarie di coalizione per scegliere il candidato premier del centrosinistra e primarie di partito per cambiare il gruppo dirigente del Pd. Ma sarebbe giusto ricordare sempre che da questo rischio tutti i partiti sopra menzionati sono certamente immuni, non prevedendo al proprio interno alcuna reale forma di democrazia, né diretta né indiretta. Che non è una caratteristica incoraggiante, da parte di chi si candida a governare il Paese.
L’Unità 15.09.12

"Sardegna vittima di spot elettorali", di Marcello Fois*

Lo sprofondo che sta ingoiando la Sardegna non è nient’altro che l’orrendo risultato di una serie impressionante di calcoli sbagliati, di pregiudizi, di errori di valutazione. La piccola patria delle grandi promesse oggi si sgretola di fronte all’impossibilità di mantenerle. Era solo il 2009 quando, accompagnato dal candidato più anonimo a disposizione: il dottor Ugo Cappellacci, l’onorevole Silvio Berlusconi cominciò a battere palmo a palmo l’isola con l’intento di ribadire nell’ordine che, come Caligola, in Sardegna poteva candidare persino il suo cavallo; e che la stagione Soru, a suo dire funerea e luttuosa, andava immantinente archiviata a favore di una stagione di sorrisi e bengodi. Così iniziò la campagna elettorale più capillare che la Sardegna avesse mai visto. E ad ogni tappa si raccoglievano folle di sardi vessati dall’orrido Mister Tiscali che chiedevano pane e circensi. Le barzellette, come nella migliore delle tradizioni berlusconiane, si sprecarono, e tutti risero. Straordinaria la tappa in cui all’onorevole primo ministro fu consegnata dalle mani del segretario Trincas la bandiera quattro mori; straordinaria la competenza archeologica da lui dimostrata quando si espresse a proposito della vera destinazione dei nuraghi in quanto «magazzini per le merci» e non, come erroneamente sostenuto dagli accademici locali, «case fortificate».

Non c’era da stupirsi, dal punto di vista dell’onorevole Berlusconi nessuno meno degli imbelli sardi ha, aveva, avrebbe mai avuto bisogno di case fortificate. Seguirono pranzi dai vescovi e bagni di folle operaie. Nel Sulcis la parola d’ordine fu «non date retta a Soru che vuole chiudere le miniere e mandarvi a casa, ma a me che ho amici ricchi che sono disposti a rilevarle e mantenere tutti i posti di lavoro». Voti a palate. Di fronte agli operai dell’Alcoa la formula cambiò di poco, «ho appena parlato con i miei amici finanzieri che sono interessatissimi a riqualificare la struttura e renderla nuovamente competitiva». Voti a valanga. Ottana e Portovesme capitolarono grazie alla meravigliosa prospettiva di una nuova, imminente, rinascita sostenuta dall’ottimismo e dal sorriso, contro le prospettive di lacrime e sangue minacciate da Mister Tiscali. A La Maddalena si dovette promettere il G8 come risarcimento per essere stata derubata della Base Nato da quel comunista del governatore precedente. Voti su voti. Intanto la congiura dei Boiardi della sinistra locale festeggiava il ripristino di quello status quo, il massimo del risultato col minimo sforzo, che metteva d’accordo tutti. Ai costruttori, frenati da un Piano Paesaggistico severo, si raccontò di un’isola ciambella dove una città continua di villeggianti avrebbe abitato chilometri e chilometri cubi di nuovo cemento, portando prosperità immensa per tutti quei locali che avrebbero fatto i muratori, i manovali, i giardinieri, i guardiani e le cameriere. Ai pastori si raccontò che la loro situazione dipendeva dalle scelte europeiste dei comunisti. Mangiammo e bevemmo tutto. Segno che, con ogni probabilità, la promessa di una speranza supera il realismo della ragionevolezza. E che per quanto asciutto fosse il modello soriano non poteva attecchire in una società annichilita da decenni di abitudine all’assistenzialismo.

I voti dei minatori, degli operai, delle località costiere dimostrarono che il volto anonimo del dottor Cappellacci era come l’oggetto lasciato in pegno ai sardi per l’avverarsi di tutte quelle promesse. A chi diceva che quelle promesse non si potevano mantenere, risposero che il calvinismo soriano era finito e che ora iniziava l’edonismo berlusconiano. Dimostrarono che ai sardi, quando ringhiano, basta allisciare il pelo come si fa con un cane inquieto. Lo sfascio attuale era scritto a lettere di fuoco nella cronaca della caduta del garante. Il suo rappresentante locale, il governatore Cappellacci, pallidamente ha tentato manovre di affrancamento, ma quelle stesse forze che l’hanno portato al governo oggi abbandonano la nave che affonda.

Siamo stati ingannati e abbiamo amato farci ingannare, ora che le miniere del Sulcis non le vuole nessuno; che l’Alcoa Ottana, Porto Torres, e tutto quel polo industriale trapiantato nell’economia di quel territorio come un parrucchino, marciscono in una irrisolvibile crisi di rigetto; che i soldi del G8 hanno attraversato il mare senza più tornare; che le zone interne sono in un completo stato di abbandono; ora che neanche il metadone del cemento senza regole sembra più tanto consolante si ragiona ancora sul breve termine: sul mese prossimo, sull’anno prossimo, sul principio che ai sardi arrabbiati basta il tozzo di pane di un ulteriore differimento della fine. E viene da dire che solo chi vuole vedere una realtà che non esiste può tacere che noi sardi stiamo pagando molto care le scelte che abbiamo fatto. E’ il prezzo della democrazia.

* Scrittore sardo, finalista dei premi Strega e Campiello. I suoi libri sono editi da Einaudi

La Stampa 15.09.12

"Sardegna vittima di spot elettorali", di Marcello Fois*

Lo sprofondo che sta ingoiando la Sardegna non è nient’altro che l’orrendo risultato di una serie impressionante di calcoli sbagliati, di pregiudizi, di errori di valutazione. La piccola patria delle grandi promesse oggi si sgretola di fronte all’impossibilità di mantenerle. Era solo il 2009 quando, accompagnato dal candidato più anonimo a disposizione: il dottor Ugo Cappellacci, l’onorevole Silvio Berlusconi cominciò a battere palmo a palmo l’isola con l’intento di ribadire nell’ordine che, come Caligola, in Sardegna poteva candidare persino il suo cavallo; e che la stagione Soru, a suo dire funerea e luttuosa, andava immantinente archiviata a favore di una stagione di sorrisi e bengodi. Così iniziò la campagna elettorale più capillare che la Sardegna avesse mai visto. E ad ogni tappa si raccoglievano folle di sardi vessati dall’orrido Mister Tiscali che chiedevano pane e circensi. Le barzellette, come nella migliore delle tradizioni berlusconiane, si sprecarono, e tutti risero. Straordinaria la tappa in cui all’onorevole primo ministro fu consegnata dalle mani del segretario Trincas la bandiera quattro mori; straordinaria la competenza archeologica da lui dimostrata quando si espresse a proposito della vera destinazione dei nuraghi in quanto «magazzini per le merci» e non, come erroneamente sostenuto dagli accademici locali, «case fortificate».
Non c’era da stupirsi, dal punto di vista dell’onorevole Berlusconi nessuno meno degli imbelli sardi ha, aveva, avrebbe mai avuto bisogno di case fortificate. Seguirono pranzi dai vescovi e bagni di folle operaie. Nel Sulcis la parola d’ordine fu «non date retta a Soru che vuole chiudere le miniere e mandarvi a casa, ma a me che ho amici ricchi che sono disposti a rilevarle e mantenere tutti i posti di lavoro». Voti a palate. Di fronte agli operai dell’Alcoa la formula cambiò di poco, «ho appena parlato con i miei amici finanzieri che sono interessatissimi a riqualificare la struttura e renderla nuovamente competitiva». Voti a valanga. Ottana e Portovesme capitolarono grazie alla meravigliosa prospettiva di una nuova, imminente, rinascita sostenuta dall’ottimismo e dal sorriso, contro le prospettive di lacrime e sangue minacciate da Mister Tiscali. A La Maddalena si dovette promettere il G8 come risarcimento per essere stata derubata della Base Nato da quel comunista del governatore precedente. Voti su voti. Intanto la congiura dei Boiardi della sinistra locale festeggiava il ripristino di quello status quo, il massimo del risultato col minimo sforzo, che metteva d’accordo tutti. Ai costruttori, frenati da un Piano Paesaggistico severo, si raccontò di un’isola ciambella dove una città continua di villeggianti avrebbe abitato chilometri e chilometri cubi di nuovo cemento, portando prosperità immensa per tutti quei locali che avrebbero fatto i muratori, i manovali, i giardinieri, i guardiani e le cameriere. Ai pastori si raccontò che la loro situazione dipendeva dalle scelte europeiste dei comunisti. Mangiammo e bevemmo tutto. Segno che, con ogni probabilità, la promessa di una speranza supera il realismo della ragionevolezza. E che per quanto asciutto fosse il modello soriano non poteva attecchire in una società annichilita da decenni di abitudine all’assistenzialismo.
I voti dei minatori, degli operai, delle località costiere dimostrarono che il volto anonimo del dottor Cappellacci era come l’oggetto lasciato in pegno ai sardi per l’avverarsi di tutte quelle promesse. A chi diceva che quelle promesse non si potevano mantenere, risposero che il calvinismo soriano era finito e che ora iniziava l’edonismo berlusconiano. Dimostrarono che ai sardi, quando ringhiano, basta allisciare il pelo come si fa con un cane inquieto. Lo sfascio attuale era scritto a lettere di fuoco nella cronaca della caduta del garante. Il suo rappresentante locale, il governatore Cappellacci, pallidamente ha tentato manovre di affrancamento, ma quelle stesse forze che l’hanno portato al governo oggi abbandonano la nave che affonda.
Siamo stati ingannati e abbiamo amato farci ingannare, ora che le miniere del Sulcis non le vuole nessuno; che l’Alcoa Ottana, Porto Torres, e tutto quel polo industriale trapiantato nell’economia di quel territorio come un parrucchino, marciscono in una irrisolvibile crisi di rigetto; che i soldi del G8 hanno attraversato il mare senza più tornare; che le zone interne sono in un completo stato di abbandono; ora che neanche il metadone del cemento senza regole sembra più tanto consolante si ragiona ancora sul breve termine: sul mese prossimo, sull’anno prossimo, sul principio che ai sardi arrabbiati basta il tozzo di pane di un ulteriore differimento della fine. E viene da dire che solo chi vuole vedere una realtà che non esiste può tacere che noi sardi stiamo pagando molto care le scelte che abbiamo fatto. E’ il prezzo della democrazia.
* Scrittore sardo, finalista dei premi Strega e Campiello. I suoi libri sono editi da Einaudi
La Stampa 15.09.12

"Le frequenze TV al mercato dei saldi", di Giovanni Valentini

I beni comuni esigono una diversa forma di razionalità, capace di incarnare i cambiamenti profondi che stiamo vivendo, e che investono la dimensione sociale, economica, culturale, politica. (dalla postfazione di Stefano Rodotà a ‘Oltre il pubblico e il privato’ – Ombre corte, 2012- pag.312). Avete presente il flop del digitale terrestre e i danni prodotti al nostro sistema televisivo, i disturbi arrecati a tutti gli spettatori costretti a procurarsi il decoder o a cambiare il televisore? Quella transizione, dissimulata dietro l’alibi dell’evoluzione tecnologica, in realtà è stata imposta artatamente dall’ex governo di centrodestra – attraverso la famigerata legge Gasparri – allo scopo precipuo di difendere la concentrazione che fa capo a Silvio Berlusconi, a scapito del pluralismo dell’informazione e della libera concorrenza. Ebbene, la storia continua. Proprio un anno fa, su questo giornale, lanciammo l’allarme sul ‘regalo di Stato’ che a quell’epoca si stava tentando di perpetrare sulle nuove frequenze tv. Un pezzo rilevante di quel bene comune strategico che è l’etere rischiava di essere elargito in concessione ai ‘soliti noti’, cioè in primis alla Rai e a Mediaset, a costo zero, praticamente gratis.Ora ci risiamo. Il governo dei tecnici ha riconosciuto nel frattempo l’opportunità di indire un’asta sulle frequenze, per ricavarne un prezzo congruo valutato intorno a un miliardo e mezzo di euro. Ma ha delegato la patata bollente alla nuova Autorità sulle Comunicazioni, affidandole il compito di stabilire il regolamento per la gara. E proprio qui sta il punto.Quale sarà la base d’asta? Quali soggetti verranno ammessi a parteciparvi? Solo gli operatori televisivi o anche quelli telefonici? E come si procederà agli eventuali ribassi, in mancanza di offerte adeguate? Sarà, insomma, un’asta vera o un’asta finta, truccata? Sulla questione, si scontrano due interessi contrapposti. Da una parte, quelli dell’Unione europea che sollecita una maggiore concorrenza nel mercato televisivo italiano, avendo sospeso temporaneamente la procedura d’infrazione contro il nostro Paese. Dall’altra, quelli del governo in carica che – almeno a parole – vorrebbe ricavare il maggiore incasso possibile. Ma anche i tecnici devono fare i conti con la politica. E il governo Monti deve farli in Parlamento con lo stesso centrodestra, cioè con il partitoazienda di Berlusconi. Mentre si sa che Sua Emittenza le nuove frequenze non vuole pagarle affatto o al massimo le vuole ‘low cost’, a prezzi di saldo o di liquidazione. La questione, però, non riguarda esclusivamente i diretti interessati. Riguarda tutti noi, cittadini e contribuenti. Non solo perché l’etere è, appunto, un bene comune, al pari dell’acqua, dell’aria o della conoscenza. Ma soprattutto per il fatto che dalla sua utilizzazione più o meno equa dipende in buona parte il livello d’informazione e di partecipazione, il processo di aggregazione e raccolta del consenso. Si può accettare, allora, che il governo del rigore, dei tagli e delle tasse, della spending review, della riforma delle pensioni e dell’articolo 18, alla fine rinunci a far pagare adeguatamente le frequenze televisive ai ‘signori dell’etere’? Non rischierebbe così di apparire debole con i forti e forte con i deboli? Dopo aver preteso ‘lacrime e sangue’ dai cittadini, perderebbe credibilità e autorevolezza se si arrendesse alle lobby o alle caste.

La Repubblica 15.09.12

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“Mediaset tratta con Telecom vuole La7 e le frequenze”, di GIOVANNI PONS

Anche il gruppo di Berlusconi nell’asta per la rete C’è anche Mediaset nella gara per acquisire Telecom Italia Media, la società che controlla le emittenti tv La7 e Mtv e le infrastrutture per la trasmissione del digitale terrestre. A sorpresa, il gruppo che fa capo a Silvio Berlusconi entra nella partita per conquistare quello che si candida da anni a diventare il terzo polo tv (o quarto se si considera la pay tv di Sky). In estate Telecom Italia ha avviato le procedure di vendita della società, separando i canali televisivi dalle infrastrutture per cercare di attrarre più investitori possibili. Ed entro il 24 settembre dovranno arrivare sul tavolo del cda e degli advisor Mediobanca e Citigroup le offerte non vincolanti dei potenziali interessati. Per il momento si sono fatti avanti il gruppo Cairo, Discovery Channel e, appunto Mediaset per La/7 e Mtv mentre per la società che controlla i multiplex sono in lizza Ei Towers (la società dei ripetitori controllata da Mediaset), gli spagnoli di Abertis e altri fondi specializzati in infrastrutture. Il fondo di private equity Clessidra, che fa capo a Claudio Sposito, dovrebbe poi essere interessato a entrambi i tronconi messi in vendita.
Dalla società del Biscione, comunque, gettano acqua sul fuoco dicendo che è solo una manifestazione di interesse non vincolante volta a conoscere meglio l’oggetto della vendita. Una mossa quasi obbligata dato che la società è quotata in Borsa e il management è obbligato ad andare a vedere le carte quando un concorrente viene messo in vendita. In realtà, è noto che a Berlusconi ha sempre dato fastidio la presenza de La7 sul mercato, soprattutto da quando le news sono dirette da Enrico Mentana e l’audience del canale è salita oltre il 3% grazie agli ascolti di un pubblico considerato politicamente moderato.
Comunque non è detto che la partecipazione di Mediaset sia accettata dai venditori. Secondo le regole antitrust in vigore i gruppi televisivi non possono controllare più di cinque multiplex a testa e la raccolta pubblicitaria allargata conteggiata dal cosiddetto Sic della legge Gasparri pone un tetto al 20%. Sono osservazioni che l’ad di Telecom Italia Franco Bernabè ha già fatto presente ai dirigenti di Mediaset quando nelle settimane scorse hanno manifestato l’idea di partecipare alla gara. Ma evidentemente c’è un forte interesse da parte delle tv di Berlusconi nel mettere il cappello su un gruppo che finora si è dimostrato una piccola spina nel fianco allo strapotere di Mediaset in Italia, intaccato soltanto con la discesa in Italia del gruppo Murdoch nel settore della pay tv. E ora che gli azionisti forti di Telecom, da Mediobanca a Intesa, hanno deciso di mettere il tutto in vendita a pochi mesi dalle elezioni politiche ecco che Berlusconi si fa trovare pronto.

La Repubblica 15.09.12

"Le frequenze TV al mercato dei saldi", di Giovanni Valentini

I beni comuni esigono una diversa forma di razionalità, capace di incarnare i cambiamenti profondi che stiamo vivendo, e che investono la dimensione sociale, economica, culturale, politica. (dalla postfazione di Stefano Rodotà a ‘Oltre il pubblico e il privato’ – Ombre corte, 2012- pag.312). Avete presente il flop del digitale terrestre e i danni prodotti al nostro sistema televisivo, i disturbi arrecati a tutti gli spettatori costretti a procurarsi il decoder o a cambiare il televisore? Quella transizione, dissimulata dietro l’alibi dell’evoluzione tecnologica, in realtà è stata imposta artatamente dall’ex governo di centrodestra – attraverso la famigerata legge Gasparri – allo scopo precipuo di difendere la concentrazione che fa capo a Silvio Berlusconi, a scapito del pluralismo dell’informazione e della libera concorrenza. Ebbene, la storia continua. Proprio un anno fa, su questo giornale, lanciammo l’allarme sul ‘regalo di Stato’ che a quell’epoca si stava tentando di perpetrare sulle nuove frequenze tv. Un pezzo rilevante di quel bene comune strategico che è l’etere rischiava di essere elargito in concessione ai ‘soliti noti’, cioè in primis alla Rai e a Mediaset, a costo zero, praticamente gratis.Ora ci risiamo. Il governo dei tecnici ha riconosciuto nel frattempo l’opportunità di indire un’asta sulle frequenze, per ricavarne un prezzo congruo valutato intorno a un miliardo e mezzo di euro. Ma ha delegato la patata bollente alla nuova Autorità sulle Comunicazioni, affidandole il compito di stabilire il regolamento per la gara. E proprio qui sta il punto.Quale sarà la base d’asta? Quali soggetti verranno ammessi a parteciparvi? Solo gli operatori televisivi o anche quelli telefonici? E come si procederà agli eventuali ribassi, in mancanza di offerte adeguate? Sarà, insomma, un’asta vera o un’asta finta, truccata? Sulla questione, si scontrano due interessi contrapposti. Da una parte, quelli dell’Unione europea che sollecita una maggiore concorrenza nel mercato televisivo italiano, avendo sospeso temporaneamente la procedura d’infrazione contro il nostro Paese. Dall’altra, quelli del governo in carica che – almeno a parole – vorrebbe ricavare il maggiore incasso possibile. Ma anche i tecnici devono fare i conti con la politica. E il governo Monti deve farli in Parlamento con lo stesso centrodestra, cioè con il partitoazienda di Berlusconi. Mentre si sa che Sua Emittenza le nuove frequenze non vuole pagarle affatto o al massimo le vuole ‘low cost’, a prezzi di saldo o di liquidazione. La questione, però, non riguarda esclusivamente i diretti interessati. Riguarda tutti noi, cittadini e contribuenti. Non solo perché l’etere è, appunto, un bene comune, al pari dell’acqua, dell’aria o della conoscenza. Ma soprattutto per il fatto che dalla sua utilizzazione più o meno equa dipende in buona parte il livello d’informazione e di partecipazione, il processo di aggregazione e raccolta del consenso. Si può accettare, allora, che il governo del rigore, dei tagli e delle tasse, della spending review, della riforma delle pensioni e dell’articolo 18, alla fine rinunci a far pagare adeguatamente le frequenze televisive ai ‘signori dell’etere’? Non rischierebbe così di apparire debole con i forti e forte con i deboli? Dopo aver preteso ‘lacrime e sangue’ dai cittadini, perderebbe credibilità e autorevolezza se si arrendesse alle lobby o alle caste.
La Repubblica 15.09.12
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“Mediaset tratta con Telecom vuole La7 e le frequenze”, di GIOVANNI PONS
Anche il gruppo di Berlusconi nell’asta per la rete C’è anche Mediaset nella gara per acquisire Telecom Italia Media, la società che controlla le emittenti tv La7 e Mtv e le infrastrutture per la trasmissione del digitale terrestre. A sorpresa, il gruppo che fa capo a Silvio Berlusconi entra nella partita per conquistare quello che si candida da anni a diventare il terzo polo tv (o quarto se si considera la pay tv di Sky). In estate Telecom Italia ha avviato le procedure di vendita della società, separando i canali televisivi dalle infrastrutture per cercare di attrarre più investitori possibili. Ed entro il 24 settembre dovranno arrivare sul tavolo del cda e degli advisor Mediobanca e Citigroup le offerte non vincolanti dei potenziali interessati. Per il momento si sono fatti avanti il gruppo Cairo, Discovery Channel e, appunto Mediaset per La/7 e Mtv mentre per la società che controlla i multiplex sono in lizza Ei Towers (la società dei ripetitori controllata da Mediaset), gli spagnoli di Abertis e altri fondi specializzati in infrastrutture. Il fondo di private equity Clessidra, che fa capo a Claudio Sposito, dovrebbe poi essere interessato a entrambi i tronconi messi in vendita.
Dalla società del Biscione, comunque, gettano acqua sul fuoco dicendo che è solo una manifestazione di interesse non vincolante volta a conoscere meglio l’oggetto della vendita. Una mossa quasi obbligata dato che la società è quotata in Borsa e il management è obbligato ad andare a vedere le carte quando un concorrente viene messo in vendita. In realtà, è noto che a Berlusconi ha sempre dato fastidio la presenza de La7 sul mercato, soprattutto da quando le news sono dirette da Enrico Mentana e l’audience del canale è salita oltre il 3% grazie agli ascolti di un pubblico considerato politicamente moderato.
Comunque non è detto che la partecipazione di Mediaset sia accettata dai venditori. Secondo le regole antitrust in vigore i gruppi televisivi non possono controllare più di cinque multiplex a testa e la raccolta pubblicitaria allargata conteggiata dal cosiddetto Sic della legge Gasparri pone un tetto al 20%. Sono osservazioni che l’ad di Telecom Italia Franco Bernabè ha già fatto presente ai dirigenti di Mediaset quando nelle settimane scorse hanno manifestato l’idea di partecipare alla gara. Ma evidentemente c’è un forte interesse da parte delle tv di Berlusconi nel mettere il cappello su un gruppo che finora si è dimostrato una piccola spina nel fianco allo strapotere di Mediaset in Italia, intaccato soltanto con la discesa in Italia del gruppo Murdoch nel settore della pay tv. E ora che gli azionisti forti di Telecom, da Mediobanca a Intesa, hanno deciso di mettere il tutto in vendita a pochi mesi dalle elezioni politiche ecco che Berlusconi si fa trovare pronto.
La Repubblica 15.09.12

Sisma, “Stime pazze” su Imu del Ministero dell’Economia

I parlamentari Ghizzoni, Miglioli e Santagata sottolineano il rischio per la Bassa. Surreale vicenda dei Comuni dell’area del terremoto dove la stima del gettito dell’Imu elaborata dal governo e i gettiti reali dell’Imu sono sempre più lontani. Il caso del Comune di Castelfranco Emilia – denunciano i parlamentari modenesi del Pd Ghizzoni, Miglioli e Santagata – è esemplare: la differenza tra la stima e il gettito effettivo è di oltre 6 milioni, con la pretesa che la differenza venga comunque versata alle casse dello Stato. La situazione è ora oggetto di una specifica interrogazione al ministro dell’Economia e delle Finanze

“Riconsiderare la stima del gettito dell’Imu e i tagli ai trasferimenti per i Comuni colpiti dal sisma del 20 e 29 maggio 2012 – è quanto chiedono i parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni, Ivano Miglioli e Giulio Santagata in una interrogazione al ministro dell’Economia e delle Finanze – Sui 104 Comuni dell’area del terremoto, ben 62 registrano, rispetto alla stima effettuata a luglio dal ministero dell’Economia sul gettito Imu, un aumento ben superiore al 50% del precedente valore, definito a maggio. Aumento che coinvolge in questa kafkiana vicenda innescata dal Ministero anche i 6 Comuni modenesi di Nonantola, Bastiglia, Bomporto, Ravarino, Campogalliano, Castelfranco Emilia. A fronte delle nuove stime basate su previsioni alquanto aleatorie – spiegano i parlamentari modenesi – reale e certo è stato il nuovo aggiornamento del taglio ai trasferimenti che ha interessato, in particolare, il Fondo Sperimentale di riequilibrio. Un esempio per tutti proviene dal Comune di Castelfranco Emilia, dove la differenza tra la stima del Ministero e il gettito per il Comune è di oltre 6 milioni di euro, una cifra spropositata che il Ministro Grilli pretende venga restituita alle casse dello Stato, aggiungendo al danno la beffa. Se non si provvederà a rivedere urgentemente le stime su dati reali, che tengano conto del contesto particolare in cui versano i Comuni colpiti dal sima – concludono Ghizzoni, Miglioli e Santagata – non solo ci saranno gravi rischi di tenuta della gestione finanziaria a breve e medio termine, ma soprattutto si avranno conseguenze drammatiche per i servizi ai cittadini, già gravemente provati dalle difficoltà e dalle emergenze causate dal terremoto.”

"Emilia Romagna. Primo giorno di scuola con polemiche", di Ilaria Venturi

La Cgil attacca: il governo non ha concesso i mille docenti promessi per le zone terremotate. Per questo i sindacalisti di tutte le province e la segretaria regionale Raffaella Morsia lunedì si incateneranno a Roma davanti al ministero. Lunedì si parte. Errani: “Entro metà ottobre a pieno regime nelle zone del sisma”. Tra i banchi, dopo il terremoto. Lunedì suonerà la campanella per 526.800 studenti in Emilia Romagna. Ma nelle zone colpite dal sisma le aule saranno tendoni o prefabbricati, si partirà in alcune scuole con doppi turni e attività alternative, tra cui stage e scambi all’estero. E in una decina di casi almeno, il primo giorno slitterà di giorni o di alcune settimane. «Entro metà ottobre l’attività scolastica andrà a regime », assicura la Regione.
Il presidente Vasco Errani parla di «una risposta corale non scontata», di un «risultato per la comunità» rispetto a un dramma che ha coinvolto oltre 65mila studenti, 52mila nelle scuole in area sismica. Ma la Cgil attacca: il governo non ha concesso i mille docenti promessi per le zone terremotate. Per questo i sindacalisti di tutte le province e la segretaria regionale Raffaella Morsia lunedì si incateneranno a Roma davanti al ministero all’Istruzione. «Per onestà e rispetto di chi vive nelle zone terremotate il governo avrebbe dovuto evitare falsi annunci e operazioni mediatiche ».
Al posto di mille cattedre e trenta milioni promessi a luglio, il ministero concederà insegnanti in più solo in base alle richieste delle scuole colpite dal sisma. Il governatore non ne fa una questione politica. «Non sono
interessato ad apparire, mi interessa la sostanza. Non chiederemo un docente o un euro più del necessario, ma quelli di cui avremo bisogno dovranno essere concessi. A noi interessa che ci sia la piena corrispondenza tra le esigenze delle scuole e la risposta del ministero, questo è il punto».
Su questo il ministro Francesco Profumo si è impegnato. Il direttore dell’ufficio scolastico regionale Stefano Versari raccoglierà le richieste dei presidi in più giorni, a cominciare dal 18 settembre, «per calmare le ansie».
«Una procedura che non crea danni alle scuole, anzi è una risposta alle necessità del momento », spiega. La Cgil invece parla di «un sistema burocratico che non dà risposte immediate», di «gioco furbesco del ministero ». I sindacati raccontano anche di situazioni in cui vengono chiesti soldi alle famiglie per le attività extrascolastiche che sostituiranno temporaneamente le lezioni e per i trasferimenti nei plessi agibili. Lunedì l’assessore regionale Patrizio Bianchi porterà in Giunta la delibera che prevede aiuti, per 500mila euro, ai Comuni sul trasporto scolastico. La diretta web del primo giorno di scuola (www. scuolaer. it) sarà con Bianchi e Versari dalle elementari di Cavezzo, mentre Errani sarà a Cento. A Bologna, dove si riparte con 75 cantieri aperti nelle scuole, tornano tra i banchi 110.781 studenti. «Un grande in bocca al lupo», dice il «provveditore» Maria Luisa Martinez nel suo messaggio al mondo della scuola. E «un grazie a chi ha permesso la riapertura delle scuole nelle zone terremotate» dando così «senso di serenità e stabilità a una comunità straziata

da repubblica.it

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Scuole terremotate, la Cgil “Protesta in catene al ministero”

Non sono arrivati i mille docenti in più promessi dal sottosegretario Rossi Doria; l’ufficio scolastico regionale: “Mai stati assegnati”. La situazione provincia per provincia a pochi giorni dall’inizio delle lezioni. A Crevalcore le scuole lunedì non riapriranno: sono tutte inagibili, e gli scolari sono stati indirizzati nei comuni limitrofi, dove la campanella suonerà anche nel pomeriggio per permettere lo svolgimento delle lezioni degli studenti forestieri. I moduli prefabbricati arriveranno solo a inizio ottobre. Nel Modenese la situazione è ancora grave: sono 20mila gli alunni che non possono fare ancora ritorno nella loro classe. “Gli edifici ancora lesionati sono 52 – spiega Stefano Colombini, segretario Flc-Cgil Modena – e in 30 plessi scolastici i presidi hanno chiesto deroghe” rispetto al ritorno regolare in classe. “Molte scuole faranno i doppi turni o saranno alloggiate nei tendoni”.

Una situazione certo non facile. Aggravata, secondo il sindacato, dalle promesse non mantenute dal governo: a inizio luglio il sottosegretario Marco Rossi Doria aveva annunciato l’arrivo di mille docenti in più per le scuole terremotate, ma ancora non vi sono certezze. Per questo la Cgil dell’Emilia-Romagna ha deciso di manifestare in catene a Roma, proprio nel giorno in cui risuonerà la campanella da Piacenza a Rimini, sotto la sede del ministero dell’Istruzione . “Noi li vogliamo quei docenti- rivendica il segretario regionale della Flc-Cgil, Raffaelle Morsia, in un colloquio con l’agenzia Dire- da parte del governo c’è un colpevole ritardo e un’innegabile sottovalutazione del dramma del terremoto. Le scuole si sentono abbandonate e l’atteggiamento del ministro, che dice che tutto è risolto, offende profondamente le popolazioni colpite”.

Secondo il sindacato, la “promessa non mantenuta” da parte del ministero va ad aggravare un inizio di anno scolastico che “e’ il peggiore mai visto in Emilia-Romagna. E non solo per il terremoto- avverte Morsia- abbiamo scuole inagibili anche non nelle zone del sisma, mancano i completamenti orari e non ci sono abbastanza docenti e Ata”.

L’ufficio scolastico. L’Ufficio scolastico dell’Emilia-Romagna ammette: i mille docenti in più promessi dal ministero non sono mai stati assegnati. “Siamo autorizzati a dare solo quelli che ci vengono richiesti dalle scuole”, afferma Stefano Versari, vicedirettore dell’Usr. “I sindacati, legittimamente, possono chiedere conto al ministero dei posti annunciati- alza le mani Versari- questo però è un problema politico, che non riguarda la nostra amministrazione”. Poi conferma: “A noi quei mille posti non sono stati assegnati, siamo autorizzati a dare solo quelli che ci vengono richiesti dalle scuole”.

La situazione. Non ci sono solo difficoltà a Crevalcore e nel Modenese. A Bologna le materne Federzoni aprono con una settimana di ritardo, i bambini delle elementari sono stati spostati in altri istituti. Le materne Carducci saranno accolte nella struttura delle elementari. A Ferrara “ci sono 81 scuole danneggiate, 11 da ricostruire”. Nel territorio di Reggio Emilia, invece, sono una decina i plessi inagibili, con il caso piu’ grave che si registra a Reggiolo. “La scuola riapre il 24 settembre- spiega il segretario provinciale della Flc-Cgil, Roberto Rossetti- stiamo ancora aspettando il prefabbricato”. Con la mensa inagibile, aggiunge il sindacalista, “saranno serviti piatti freddi fino all’inizio di ottobre”.

Errani. Parole più ottimistiche dal commissario per la ricostruzione. ”Abbiamo fatto la scelta – commenta il governatore Vasco Errani, fotografando la situazione – di considerare la scuola come una priorità, il lavoro che stiamo facendo, con tutti i soggetti interessati è molto importante e, soprattutto, non era scontato. Entro il 15 ottobre avremo una situazione a regime, in strutture che, per quanto provvisorie, saranno di qualità La scuola è un elemento fondamentale per l’identità di una comunità e questo ci consente di andare avanti”

da repubblica.it