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"Chi guiderà tra sette mesi il governo e il Quirinale?", di Eugenio Scalfari

I mercati europei festeggiano gli ultimi eventi favorevoli alla tenuta dell’euro che pongono le premesse per un rilancio dell’economia reale, mentre sull’opposta sponda del Mediterraneo si è scatenata una vera e propria ondata di antiamericanismo quale non si vedeva da molto tempo.
Per ora assistiamo a due fenomeni che sembrano svolgersi su due diversi livelli, ma non è questa la realtà; i due livelli sono strettamente intrecciati l’uno con l’altro. Se l’ondata antiamericana non sarà al più presto contenuta il rischio è la sconfitta di Obama nelle presidenziali americane. Per l’economia europea sarebbe un colpo temibilissimo; mancano 50 giorni a quel voto che anche l’Europa attende col fiato sospeso.
Intanto i mercati privilegiano il bicchiere mezzo pieno e le ragioni non mancano: la Corte di Karlsruhe ha definito il fondo “salva-Stati” compatibile con la Costituzione tedesca; la Merkel ha dato a Draghi l’ok definitivo allo scudo anti-spread se sarà richiesto dalla Spagna e dall’Italia; le elezioni olandesi sono state vinte dai partiti europeisti; infine la Fed di Bernanke ha deciso di iniettare nell’economia Usa una marea di liquidità al ritmo di 40 miliardi di dollari al mese per un periodo di almeno due anni.
Le condizioni d’un rilancio generale contro la recessione e a favore di nuova e maggiore occupazione ci sono dunque tutte e il buon andamento delle aste italiane di questi ultimi giorni ne sono la più visibile manifestazione.
Gli effetti sull’economia reale tuttavia non saranno immediati ma dovrebbero manifestarsi fin dall’autunno del 2013.
C’è tuttavia un problema tutt’altro che marginale che ha fatto la sua comparsa in modo imprevisto: che ne sarà della politica di Monti e della sua posizione personale dopo le elezioni del 2013? I governi europei vorrebbero che restasse alla guida d’un nuovo governo ma quest’ipotesi si scontra ora con un quadro politico italiano a dir poco confuso nel quale tutte le prospettive che fino a poco tempo fa sembravano plausibili sono invece saltate, le alleanze previste si sono rotte, la polemica tra i partiti e anche all’interno di essi si è trasformata in una lotta di tutti contro tutti. Infine la nuova legge elettorale il cui varo era stato dato per imminente, è diventato una “araba fenice”.
Dicevamo che i mercati festeggiano ed hanno buone ragioni per farlo, ma sulla politica italiana batte invece la campana a martello. Gli italiani voteranno per l’Europa o contro di essa? Questo è il punto al quale le forze politiche non hanno ancora risposto e che anzi, a guardarle da come si stanno comportando, sembrano ignorare o addirittura non capire.

* * *
Il governo Monti adottò un anno fa una politica di rigore che, pur con molti errori ed eccessivi annunci non sempre seguiti dai fatti, evitò che il paese precipitasse nel baratro del default.
Contemporaneamente ha guadagnato all’estero e in particolare in Europa una credibilità che da tempo i nostri governi avevano perduto. Questa credibilità ci consente di riprendere il nostro posto al tavolo europeo e di esercitare un ruolo non marginale nella costruzione di un’Europa politica e federata. Ma non sono solo queste le novità introdotte dalla svolta “montiana”. Ce n’è un’altra che potrebbe produrre un mutamento addirittura rivoluzionario nella storia dell’Italia repubblicana ed è il ruolo delle istituzioni nel quadro costituzionale e politico.
Noi ci siamo abituati a considerare le istituzioni come altrettanti snodi delle attività dei partiti. Non è così, o meglio non dovrebbe essere così poiché non è questo il ruolo delle istituzioni in uno Stato di diritto nella sua versione di democrazia parlamentare.
Le istituzioni sono titolari dell’interesse generale, ciascuna nell’ambito della propria competenza, e rappresentano lo Stato. Il governoistituzione rappresenta il potere esecutivo dello Stato, il Parlamento ne rappresenta il potere legislativo e quello di controllo sull’operato dell’esecutivo e della pubblica amministrazione; la magistratura rappresenta il potere giudiziario che è un potere diffuso e non gerarchicamente organizzato e per questo motivo i suoi membri necessitano di rigorosi comportamenti e di organi di autocontrollo poiché ogni magistrato è titolare del potere di giurisdizione nell’ambito del suo ruolo e dalle regole previste per quel ruolo non può discostarsi.
Anche le “autorità” sono istituzioni che esercitano le proprie competenze in nome dello Stato e con spirito di “terzietà” che è lo strumento caratterizzante dell’interesse generale.
I partiti non sono titolari dell’interesse generale e non possono ovviamente aver caratteristiche di terzietà proprio perché sono “parti”. Sono invece (o dovrebbero essere) portatori di una loro visione del bene comune. In libere elezioni le varie visioni si confrontano e, secondo le decisioni del popolo sovrano, ne emerge una maggioranza e un’opposizione. In Parlamento vengono discusse e approvate le leggi e ogni intervento del potere esecutivo che abbia valore erga omnes.
È molto delicato il rapporto tra Parlamento e governo: sono due istituzioni e rappresentano poteri distinti, ma la prima è formata da persone alle quali il popolo ha affidato il compito di realizzare la visione del pubblico bene che ha ottenuto la maggioranza dei consensi. Il governo deve dunque operare nel quadro di quella visione per ottenere l’approvazione dei delegati del popolo ma il governo deve anche aver ben presente la totalità dei cittadini e quindi deve inquadrare la visione del bene comune della maggioranza nel quadro dell’interesse generale. Quando queste due diverse angolazioni non trovassero una sintesi il governo va in crisi oppure il Parlamento viene sciolto e si torna dinanzi al popolo sovrano.
All’indomani della fondazione dello Stato unitario centocinquanta anni fa questa delicatissima questione del rapporto tra i partiti e le istituzioni rappresentò uno dei problemi principali dei governi chiamati ad amministrare lo Stato. Uomini come Minghetti, Spaventa, Bonghi, Lanza, Zanardelli, ne discussero a lungo; magistrature speciali furono create a tutela della terzietà della pubblica amministrazione.
A guardar bene, la storia politica dell’Italia è stata scandita principalmente dal rapporto tra le istituzioni e la politica, tra l’interesse generale rappresentato dallo Stato e quello dei partiti e delle associazioni che ne rappresentano varie visioni e interpretazioni. Entrambe queste realtà costituiscono elementi essenziali della politica; compito dei partiti è di imprimere dinamismo allo Stato attraverso riforme che ne modernizzino il funzionamento e ne aggiornino gli obiettivi; compito delle istituzioni è di impedire che le leggi siano violate e che la distinzione dei poteri si indebolisca favorendo così interessi particolari a detrimento della generalità.
La novità che ha avuto Napolitano come autore e Monti come strumento di attuazione è stata esattamente questa: recuperare la terzietà delle
istituzioni e ricondurre i partiti al loro compito che è quello di mettere le istituzioni a contatto con il popolo.
Non è stato e non è un compito facile; la crisi economica in corso e il quadro globale dell’economia hanno accelerato e drammatizzato questo percorso introducendovi un tema ulteriore: la necessaria costruzione di un’Europa federata con cessioni di sovranità dai governi nazionali a quello europeo. In prospettiva dovrà nascere uno Stato europeo con istituzioni europee e popolo europeo. Questo è l’obiettivo del prossimo futuro. Susciterà incomprensioni e resistenze che già sono all’opera. La strada è lunga, la crisi economica ne rende il percorso al tempo stesso più accidentato e più necessario. Tra sette mesi il governo Monti cesserà le sue attività e la legislatura sarà conclusa; negli stessi giorni il Capo dello Stato avrà concluso il suo settennato. Si tratta purtroppo di una coincidenza che rende molto visibile il vuoto al vertice delle istituzioni. Come sarà colmato quel vuoto? Chi ci rappresenterà in Europa? Chi troverà la sintesi tra il rigore economico e il rilancio dello sviluppo e dell’occupazione? Chi risolverà quella questione morale che non è soltanto la lotta alla corruzione e all’evasione ma anche il recupero dell’autonomia delle istituzioni dal predominio dei partiti?
Manderemo Grillo a rappresentarci in Europa? Di Pietro o Diliberto a tutelare la salute degli abitanti di Taranto che respirano da mezzo secolo polvere di carbone e contemporaneamente a mantenere al lavoro i 18mila operai dell’Ilva? Manderemo Renzi a discutere con Draghi e con la Merkel sul futuro dell’euro? Oppure riaffideremo ai vecchi partiti e alle vecchie oligarchie, che hanno fallito l’obiettivo di rinnovarsi e adeguarsi alle nuove mappe del futuro, il compito di riprendere i loro posti dopo una parentesi solo dall’emergenza (che peraltro
dura tuttora)?

* * *
I cittadini chiamati a votare nell’aprile dell’anno prossimo avranno dunque molte questioni da risolvere con il loro voto. Le seguenti: 1 – Vogliono una nuova Europa capace di avere un suo ruolo nel mondo globale dove si confrontano i continenti, le loro economie, le loro monete, le loro politiche? Oppure rifiutano queste prospettive e preferiscono invece tornare alla lira e all’Italietta dei Montecchi e Capuleti?
2 – Vogliono che la nuova Europa – e l’Italia che ne fa parte – abbiano una visione politica dominata dal liberismo economico oppure da un socialismo dirigista oppure da un liberalsocialismo riformista che unisca insieme la libertà di impresa e di mercato con l’equità sociale e la lotta contro le diseguaglianze?
3 – Vogliono che l’interesse generale prevalga sulle lobby e le clientele oppure lo considerano una parola vuota di fronte alla concretezza degli interessi particolari che antepongono il presente alla costruzione del futuro?
Il nuovo Parlamento rispecchierà le risposte che gli elettori avranno dato a queste domande sempre che la legge elettorale registri gli orientamenti degli elettori tutelando la libertà e la governabilità. Il tira e molla sulla predetta legge ha ormai raggiunto un livello non più oltre tollerabile e il Capo dello Stato ha ben ragione di elevare contro questo modo di procedere la sua più indignata protesta.
Spetterà comunque al presidente della Repubblica eletto dal nuovo Parlamento di nominare il nuovo governo tenendo ovviamente conto che esso dovrà ottenere la fiducia delle Camere.
Non vorremmo più vedere il nome dei leader sulle schede elettorali e neppure vorremmo vedere delegazioni di partiti nei governi. Tutto questo appartiene ad un passato che non deve più ritornare. Non si tratta di giovani o vecchi secondo l’anagrafe ma di giovani o vecchi secondo le idee, il talento, la preparazione e l’umanità. Il resto è fuffa demagogica, purtroppo in Italia ce n’è in abbondanza.

La Repubblica 16.09.12

"Chi guiderà tra sette mesi il governo e il Quirinale?", di Eugenio Scalfari

I mercati europei festeggiano gli ultimi eventi favorevoli alla tenuta dell’euro che pongono le premesse per un rilancio dell’economia reale, mentre sull’opposta sponda del Mediterraneo si è scatenata una vera e propria ondata di antiamericanismo quale non si vedeva da molto tempo.
Per ora assistiamo a due fenomeni che sembrano svolgersi su due diversi livelli, ma non è questa la realtà; i due livelli sono strettamente intrecciati l’uno con l’altro. Se l’ondata antiamericana non sarà al più presto contenuta il rischio è la sconfitta di Obama nelle presidenziali americane. Per l’economia europea sarebbe un colpo temibilissimo; mancano 50 giorni a quel voto che anche l’Europa attende col fiato sospeso.
Intanto i mercati privilegiano il bicchiere mezzo pieno e le ragioni non mancano: la Corte di Karlsruhe ha definito il fondo “salva-Stati” compatibile con la Costituzione tedesca; la Merkel ha dato a Draghi l’ok definitivo allo scudo anti-spread se sarà richiesto dalla Spagna e dall’Italia; le elezioni olandesi sono state vinte dai partiti europeisti; infine la Fed di Bernanke ha deciso di iniettare nell’economia Usa una marea di liquidità al ritmo di 40 miliardi di dollari al mese per un periodo di almeno due anni.
Le condizioni d’un rilancio generale contro la recessione e a favore di nuova e maggiore occupazione ci sono dunque tutte e il buon andamento delle aste italiane di questi ultimi giorni ne sono la più visibile manifestazione.
Gli effetti sull’economia reale tuttavia non saranno immediati ma dovrebbero manifestarsi fin dall’autunno del 2013.
C’è tuttavia un problema tutt’altro che marginale che ha fatto la sua comparsa in modo imprevisto: che ne sarà della politica di Monti e della sua posizione personale dopo le elezioni del 2013? I governi europei vorrebbero che restasse alla guida d’un nuovo governo ma quest’ipotesi si scontra ora con un quadro politico italiano a dir poco confuso nel quale tutte le prospettive che fino a poco tempo fa sembravano plausibili sono invece saltate, le alleanze previste si sono rotte, la polemica tra i partiti e anche all’interno di essi si è trasformata in una lotta di tutti contro tutti. Infine la nuova legge elettorale il cui varo era stato dato per imminente, è diventato una “araba fenice”.
Dicevamo che i mercati festeggiano ed hanno buone ragioni per farlo, ma sulla politica italiana batte invece la campana a martello. Gli italiani voteranno per l’Europa o contro di essa? Questo è il punto al quale le forze politiche non hanno ancora risposto e che anzi, a guardarle da come si stanno comportando, sembrano ignorare o addirittura non capire.
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Il governo Monti adottò un anno fa una politica di rigore che, pur con molti errori ed eccessivi annunci non sempre seguiti dai fatti, evitò che il paese precipitasse nel baratro del default.
Contemporaneamente ha guadagnato all’estero e in particolare in Europa una credibilità che da tempo i nostri governi avevano perduto. Questa credibilità ci consente di riprendere il nostro posto al tavolo europeo e di esercitare un ruolo non marginale nella costruzione di un’Europa politica e federata. Ma non sono solo queste le novità introdotte dalla svolta “montiana”. Ce n’è un’altra che potrebbe produrre un mutamento addirittura rivoluzionario nella storia dell’Italia repubblicana ed è il ruolo delle istituzioni nel quadro costituzionale e politico.
Noi ci siamo abituati a considerare le istituzioni come altrettanti snodi delle attività dei partiti. Non è così, o meglio non dovrebbe essere così poiché non è questo il ruolo delle istituzioni in uno Stato di diritto nella sua versione di democrazia parlamentare.
Le istituzioni sono titolari dell’interesse generale, ciascuna nell’ambito della propria competenza, e rappresentano lo Stato. Il governoistituzione rappresenta il potere esecutivo dello Stato, il Parlamento ne rappresenta il potere legislativo e quello di controllo sull’operato dell’esecutivo e della pubblica amministrazione; la magistratura rappresenta il potere giudiziario che è un potere diffuso e non gerarchicamente organizzato e per questo motivo i suoi membri necessitano di rigorosi comportamenti e di organi di autocontrollo poiché ogni magistrato è titolare del potere di giurisdizione nell’ambito del suo ruolo e dalle regole previste per quel ruolo non può discostarsi.
Anche le “autorità” sono istituzioni che esercitano le proprie competenze in nome dello Stato e con spirito di “terzietà” che è lo strumento caratterizzante dell’interesse generale.
I partiti non sono titolari dell’interesse generale e non possono ovviamente aver caratteristiche di terzietà proprio perché sono “parti”. Sono invece (o dovrebbero essere) portatori di una loro visione del bene comune. In libere elezioni le varie visioni si confrontano e, secondo le decisioni del popolo sovrano, ne emerge una maggioranza e un’opposizione. In Parlamento vengono discusse e approvate le leggi e ogni intervento del potere esecutivo che abbia valore erga omnes.
È molto delicato il rapporto tra Parlamento e governo: sono due istituzioni e rappresentano poteri distinti, ma la prima è formata da persone alle quali il popolo ha affidato il compito di realizzare la visione del pubblico bene che ha ottenuto la maggioranza dei consensi. Il governo deve dunque operare nel quadro di quella visione per ottenere l’approvazione dei delegati del popolo ma il governo deve anche aver ben presente la totalità dei cittadini e quindi deve inquadrare la visione del bene comune della maggioranza nel quadro dell’interesse generale. Quando queste due diverse angolazioni non trovassero una sintesi il governo va in crisi oppure il Parlamento viene sciolto e si torna dinanzi al popolo sovrano.
All’indomani della fondazione dello Stato unitario centocinquanta anni fa questa delicatissima questione del rapporto tra i partiti e le istituzioni rappresentò uno dei problemi principali dei governi chiamati ad amministrare lo Stato. Uomini come Minghetti, Spaventa, Bonghi, Lanza, Zanardelli, ne discussero a lungo; magistrature speciali furono create a tutela della terzietà della pubblica amministrazione.
A guardar bene, la storia politica dell’Italia è stata scandita principalmente dal rapporto tra le istituzioni e la politica, tra l’interesse generale rappresentato dallo Stato e quello dei partiti e delle associazioni che ne rappresentano varie visioni e interpretazioni. Entrambe queste realtà costituiscono elementi essenziali della politica; compito dei partiti è di imprimere dinamismo allo Stato attraverso riforme che ne modernizzino il funzionamento e ne aggiornino gli obiettivi; compito delle istituzioni è di impedire che le leggi siano violate e che la distinzione dei poteri si indebolisca favorendo così interessi particolari a detrimento della generalità.
La novità che ha avuto Napolitano come autore e Monti come strumento di attuazione è stata esattamente questa: recuperare la terzietà delle
istituzioni e ricondurre i partiti al loro compito che è quello di mettere le istituzioni a contatto con il popolo.
Non è stato e non è un compito facile; la crisi economica in corso e il quadro globale dell’economia hanno accelerato e drammatizzato questo percorso introducendovi un tema ulteriore: la necessaria costruzione di un’Europa federata con cessioni di sovranità dai governi nazionali a quello europeo. In prospettiva dovrà nascere uno Stato europeo con istituzioni europee e popolo europeo. Questo è l’obiettivo del prossimo futuro. Susciterà incomprensioni e resistenze che già sono all’opera. La strada è lunga, la crisi economica ne rende il percorso al tempo stesso più accidentato e più necessario. Tra sette mesi il governo Monti cesserà le sue attività e la legislatura sarà conclusa; negli stessi giorni il Capo dello Stato avrà concluso il suo settennato. Si tratta purtroppo di una coincidenza che rende molto visibile il vuoto al vertice delle istituzioni. Come sarà colmato quel vuoto? Chi ci rappresenterà in Europa? Chi troverà la sintesi tra il rigore economico e il rilancio dello sviluppo e dell’occupazione? Chi risolverà quella questione morale che non è soltanto la lotta alla corruzione e all’evasione ma anche il recupero dell’autonomia delle istituzioni dal predominio dei partiti?
Manderemo Grillo a rappresentarci in Europa? Di Pietro o Diliberto a tutelare la salute degli abitanti di Taranto che respirano da mezzo secolo polvere di carbone e contemporaneamente a mantenere al lavoro i 18mila operai dell’Ilva? Manderemo Renzi a discutere con Draghi e con la Merkel sul futuro dell’euro? Oppure riaffideremo ai vecchi partiti e alle vecchie oligarchie, che hanno fallito l’obiettivo di rinnovarsi e adeguarsi alle nuove mappe del futuro, il compito di riprendere i loro posti dopo una parentesi solo dall’emergenza (che peraltro
dura tuttora)?
* * *
I cittadini chiamati a votare nell’aprile dell’anno prossimo avranno dunque molte questioni da risolvere con il loro voto. Le seguenti: 1 – Vogliono una nuova Europa capace di avere un suo ruolo nel mondo globale dove si confrontano i continenti, le loro economie, le loro monete, le loro politiche? Oppure rifiutano queste prospettive e preferiscono invece tornare alla lira e all’Italietta dei Montecchi e Capuleti?
2 – Vogliono che la nuova Europa – e l’Italia che ne fa parte – abbiano una visione politica dominata dal liberismo economico oppure da un socialismo dirigista oppure da un liberalsocialismo riformista che unisca insieme la libertà di impresa e di mercato con l’equità sociale e la lotta contro le diseguaglianze?
3 – Vogliono che l’interesse generale prevalga sulle lobby e le clientele oppure lo considerano una parola vuota di fronte alla concretezza degli interessi particolari che antepongono il presente alla costruzione del futuro?
Il nuovo Parlamento rispecchierà le risposte che gli elettori avranno dato a queste domande sempre che la legge elettorale registri gli orientamenti degli elettori tutelando la libertà e la governabilità. Il tira e molla sulla predetta legge ha ormai raggiunto un livello non più oltre tollerabile e il Capo dello Stato ha ben ragione di elevare contro questo modo di procedere la sua più indignata protesta.
Spetterà comunque al presidente della Repubblica eletto dal nuovo Parlamento di nominare il nuovo governo tenendo ovviamente conto che esso dovrà ottenere la fiducia delle Camere.
Non vorremmo più vedere il nome dei leader sulle schede elettorali e neppure vorremmo vedere delegazioni di partiti nei governi. Tutto questo appartiene ad un passato che non deve più ritornare. Non si tratta di giovani o vecchi secondo l’anagrafe ma di giovani o vecchi secondo le idee, il talento, la preparazione e l’umanità. Il resto è fuffa demagogica, purtroppo in Italia ce n’è in abbondanza.
La Repubblica 16.09.12

Sisma: Ghizzoni “C’è luce in fondo al tunnel”

Alacre il lavoro fatto sui presidi sanitari di Carpi e Mirandola, grazie anche al concerto. Il lavoro di tanti sta consentendo la restituzione ai cittadini dei presidi sanitari di Carpi e Mirandola: a questo si aggiungono le risorse raccolte con il “Concerto per l’Emilia” che sono state consegnate proprio oggi. “Si vede la luce in fondo al tunnel”: commenta la parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura della Camera dei deputati. “Si vede la luce in fondo al tunnel, anche grazie alle risorse raccolte con il “concerto per l’Emilia”che ha coinvolto 16 artisti emiliani e tantissimi cittadini che generosamente hanno offerto il loro contributo – lo dichiara la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni, Presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, in occasione della consegna dell’incasso del “Concerto per l’Emilia” a favore della ricostruzione degli ospedali di Carpi e Mirandola. –
Il terremoto ci ha lasciato una pesante eredità, che abbiamo l’obbligo morale di rendere fruttuosa, a parzialissimo risarcimento dei lutti e dei danni sofferti dalle popolazioni della Bassa Modenese. E’ quello che è stato fatto con l’alacre e impegnativo lavoro sui presidi sanitari di Carpi e Mirandola per restituirli ai cittadini e al loro diritto alla salute. Un lavoro – spiega Ghizzoni – reso possibile anche con il contributo delle risorse consegnate oggi durante la visita ai cantieri dei due ospedali a cento giorni dal sisma. Si tratta di risultati importanti che solo ai primi di giugno parevano irraggiungibili e che invece sono stati conseguiti grazie all’impegno mantenuto da tutti i soggetti coinvolti, sia da quelli istituzionali, sia dagli operatori sanitari, le imprese, le associazioni di volontariato e i tanti tantissimi cittadini volenterosi: un impegno – sottolinea la deputata modenese – che testimonia la buona amministrazione al servizio dei cittadini e la preziosa coesione sociale che caratterizza questa terra.
Il terremoto ci ha colpito duramente, ma – ha conclude Ghizzoni – ci ha rafforzato nei valori che fondano la nostra vita di comunità: altruismo, condivisione, socializzazione.”

Roversi: Ghizzoni, vuoto colmato da eredità del suo lavoro

“Oggi è una giornata di lutto per il mondo della cultura per la perdita di un poeta che è riuscito a interpretare pienamente ogni aspetto della scrittura artistica, di un uomo che è stato in grado di trasmettere l’impegno civile e culturale. – lo dichiara Maniela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati – Roversi è stato un esempio della capacità di sviluppare e divulgare l’arte letteraria non solo attraversandone i generi, ma rendendosi divulgatore, con la sua storica libreria bolognese.
Con la scomparsa di Roversi resta un vuoto per la cultura italiana ed europea – conclude Ghizzoni – colmato solo dall’eredità del suo lavoro”

"I silenzi del Governo", di Gad Lerner

Invano abbiamo atteso che il presidente Monti o il ministro Passera convocassero nella giornata di ieri i responsabili della Fiat, in seguito alla disdetta unilaterale del piano di investimenti Fabbrica Italia. Sono intervenuti Diego Della Valle e Cesare Romiti per censurare l’addio annunciato di Marchionne, ma il governo no: forse aspetta, per darsi una mossa, che anche la disperazione degli operai di Mirafiori, Melfi, Cassino, Pomigliano degeneri nelle forme estreme ormai tristemente consuete? Non sono bastate le lezioni dell’Ilva e dell’Alcoa? Capisco che sia difficile per la classe politica riconoscere di essere stata presa in giro dalla multinazionale che nella primavera 2010, già in piena crisi di sovrapproduzione, vaneggiava di un raddoppio delle automobili da fabbricare in Italia, con investimenti (mai pianificati) per la stratosferica cifra di 20 miliardi. Una promessa, mai formulata per iscritto, in cambio della quale Marchionne ha preteso e ottenuto la deroga contrattuale dalle normative vigenti; imponendo sacrifici ai lavoratori dopo aver estromesso dagli stabilimenti il sindacato più rappresentativo.
Se il precedente governo di destra assecondava per convenienza politica la prova di forza della Fiat, e gli stessi dirigenti del Partito Democratico hanno rivelato sudditanza psicologica
nei confronti della presunta “modernità” di Marchionne, l’attuale premier e i suoi ministri tecnici appaiono invece prigionieri di una sorta di integralismo accademico: le aziende devono essere lasciate libere di seguire il loro mercato; investano dove meglio credono; e il governo resti un passo indietro.
Bel risultato. La rinuncia a pretendere una politica industriale concordata si è sposata così all’applicazione ideologica della dottrina secondo cui i posti di lavoro si salvano concedendo maggiore flessibilità all’azienda. È falsa l’equazione “meno diritti uguale più lavoro”, come la storia si è già incaricata di dimostrare, non solo in Italia. Ma proprio lo stesso giorno in cui la Fiat preannunciava la cancellazione degli investimenti promessi, Monti ribadiva questa sua antica certezza: indicando lo Statuto dei Lavoratori, peraltro già modificato per facilitare i licenziamenti, come ostacolo alla crescita dell’occupazione.
Quali interessi tutela il governo: l’economia nazionale o il piano della multinazionale? Cosa ha fatto per armonizzarli o quanto meno per condizionarli? Si è forse udita la voce del sindaco di Torino e del suo predecessore Chiamparino divenuto nel frattempo presidente di una grande fondazione bancaria legata al territorio? Renzi, candidato alle primarie, correggerà il suo appoggio incondizionato a Marchionne? E Bersani saprà offrire risposte credibili all’ansia delle famiglie e delle comunità minacciate nel loro futuro? Qui non si tratta di negare la realtà del drastico calo delle vendite di automobili in Europa; semmai il vertice Fiat dovrebbe spiegare perché nel trend negativo continua a fare peggio dei concorrenti. La sua espansione mondiale in mercati dinamici come gli Usa e il Brasile, grazie a cui gode di un florido bilancio per la gioia degli azionisti, è un fattore positivo imprescindibile che giocoforza modifica la strategia aziendale. Ammettiamo pure che l’amministratore delegato della multinazionale debba privilegiarne gli interessi globali, anche a discapito
della nazione da cui la Fiat ha estratto la sua linfa vitale: se la Fiat fosse rimasta italiana, probabilmente sarebbe morta.
Ma quel che vale per il manager necessariamente “apolide” non vale per il nucleo di controllo dei suoi azionisti. La famiglia Agnelli-Elkann che oggi beneficia di una invidiabile patrimonializzazione miliardaria grazie all’innesto americano, non può d’un colpo prescindere dal suo legame storico con la realtà italiana.
Faceva effetto trovare nei giorni scorsi sulla copertina di
Panoramail
volto sorridente del presidente della Fiat, John Elkann, che annunciava un’iniziativa filantropica a favore di 200 (duecento) studenti meritevoli di Torino, cui sarà fornito un prestito d’onore per la somma totale di 2 (due) milioni di euro. Spiacevole coincidenza, mi auguro involontaria, questa mancetta; a fronte della disdetta del piano d’investimenti che si tradurrà, ormai pare inevitabile, nella distruzione di un patrimonio tecnologico e occupazionale d’inestimabile valore.
Nel capitalismo anglosassone spesso evocato come esempio da seguire, gli azionisti beneficiati da grandi profitti adoperano la parola “restituzione” per indicare le modalità attraverso cui intendono onorare il debito morale contratto con la società in cui si sono arricchiti. Avvertono uno stimolo del genere gli azionisti Fiat nei confronti dell’Italia, di cui sono stati per oltre un secolo classe dirigente? E il governo che pare come ammutolito di fronte alla disperazione sociale, Passera che da banchiere contribuì a salvare la Fiat e ora traccheggia al cospetto della realtà del lavoro penalizzato, vorrà finalmente cimentarsi nell’apprendistato della politica? Chi inchioderà la Fiat alle sue responsabilità storiche, scoprendo che un governo dispone di leve efficaci se vuole farsi dare retta dai capitalisti?
La fuga della Fiat ferisce non solo le famiglie dei suoi dipendenti ma l’intera comunità nazionale; rivelandosi questione politica per eccellenza, se solo la si volesse affrontare.

La Repubblica 15.09.12

"I silenzi del Governo", di Gad Lerner

Invano abbiamo atteso che il presidente Monti o il ministro Passera convocassero nella giornata di ieri i responsabili della Fiat, in seguito alla disdetta unilaterale del piano di investimenti Fabbrica Italia. Sono intervenuti Diego Della Valle e Cesare Romiti per censurare l’addio annunciato di Marchionne, ma il governo no: forse aspetta, per darsi una mossa, che anche la disperazione degli operai di Mirafiori, Melfi, Cassino, Pomigliano degeneri nelle forme estreme ormai tristemente consuete? Non sono bastate le lezioni dell’Ilva e dell’Alcoa? Capisco che sia difficile per la classe politica riconoscere di essere stata presa in giro dalla multinazionale che nella primavera 2010, già in piena crisi di sovrapproduzione, vaneggiava di un raddoppio delle automobili da fabbricare in Italia, con investimenti (mai pianificati) per la stratosferica cifra di 20 miliardi. Una promessa, mai formulata per iscritto, in cambio della quale Marchionne ha preteso e ottenuto la deroga contrattuale dalle normative vigenti; imponendo sacrifici ai lavoratori dopo aver estromesso dagli stabilimenti il sindacato più rappresentativo.
Se il precedente governo di destra assecondava per convenienza politica la prova di forza della Fiat, e gli stessi dirigenti del Partito Democratico hanno rivelato sudditanza psicologica
nei confronti della presunta “modernità” di Marchionne, l’attuale premier e i suoi ministri tecnici appaiono invece prigionieri di una sorta di integralismo accademico: le aziende devono essere lasciate libere di seguire il loro mercato; investano dove meglio credono; e il governo resti un passo indietro.
Bel risultato. La rinuncia a pretendere una politica industriale concordata si è sposata così all’applicazione ideologica della dottrina secondo cui i posti di lavoro si salvano concedendo maggiore flessibilità all’azienda. È falsa l’equazione “meno diritti uguale più lavoro”, come la storia si è già incaricata di dimostrare, non solo in Italia. Ma proprio lo stesso giorno in cui la Fiat preannunciava la cancellazione degli investimenti promessi, Monti ribadiva questa sua antica certezza: indicando lo Statuto dei Lavoratori, peraltro già modificato per facilitare i licenziamenti, come ostacolo alla crescita dell’occupazione.
Quali interessi tutela il governo: l’economia nazionale o il piano della multinazionale? Cosa ha fatto per armonizzarli o quanto meno per condizionarli? Si è forse udita la voce del sindaco di Torino e del suo predecessore Chiamparino divenuto nel frattempo presidente di una grande fondazione bancaria legata al territorio? Renzi, candidato alle primarie, correggerà il suo appoggio incondizionato a Marchionne? E Bersani saprà offrire risposte credibili all’ansia delle famiglie e delle comunità minacciate nel loro futuro? Qui non si tratta di negare la realtà del drastico calo delle vendite di automobili in Europa; semmai il vertice Fiat dovrebbe spiegare perché nel trend negativo continua a fare peggio dei concorrenti. La sua espansione mondiale in mercati dinamici come gli Usa e il Brasile, grazie a cui gode di un florido bilancio per la gioia degli azionisti, è un fattore positivo imprescindibile che giocoforza modifica la strategia aziendale. Ammettiamo pure che l’amministratore delegato della multinazionale debba privilegiarne gli interessi globali, anche a discapito
della nazione da cui la Fiat ha estratto la sua linfa vitale: se la Fiat fosse rimasta italiana, probabilmente sarebbe morta.
Ma quel che vale per il manager necessariamente “apolide” non vale per il nucleo di controllo dei suoi azionisti. La famiglia Agnelli-Elkann che oggi beneficia di una invidiabile patrimonializzazione miliardaria grazie all’innesto americano, non può d’un colpo prescindere dal suo legame storico con la realtà italiana.
Faceva effetto trovare nei giorni scorsi sulla copertina di
Panoramail
volto sorridente del presidente della Fiat, John Elkann, che annunciava un’iniziativa filantropica a favore di 200 (duecento) studenti meritevoli di Torino, cui sarà fornito un prestito d’onore per la somma totale di 2 (due) milioni di euro. Spiacevole coincidenza, mi auguro involontaria, questa mancetta; a fronte della disdetta del piano d’investimenti che si tradurrà, ormai pare inevitabile, nella distruzione di un patrimonio tecnologico e occupazionale d’inestimabile valore.
Nel capitalismo anglosassone spesso evocato come esempio da seguire, gli azionisti beneficiati da grandi profitti adoperano la parola “restituzione” per indicare le modalità attraverso cui intendono onorare il debito morale contratto con la società in cui si sono arricchiti. Avvertono uno stimolo del genere gli azionisti Fiat nei confronti dell’Italia, di cui sono stati per oltre un secolo classe dirigente? E il governo che pare come ammutolito di fronte alla disperazione sociale, Passera che da banchiere contribuì a salvare la Fiat e ora traccheggia al cospetto della realtà del lavoro penalizzato, vorrà finalmente cimentarsi nell’apprendistato della politica? Chi inchioderà la Fiat alle sue responsabilità storiche, scoprendo che un governo dispone di leve efficaci se vuole farsi dare retta dai capitalisti?
La fuga della Fiat ferisce non solo le famiglie dei suoi dipendenti ma l’intera comunità nazionale; rivelandosi questione politica per eccellenza, se solo la si volesse affrontare.
La Repubblica 15.09.12

"Oligarchie inamovibili e movimenti di plastica", di Francesco Cundari

Anche se non bisognerebbe mai infierire su un avversario a terra, è difficile non commentare l’esultanza della stampa berlusconiana di più stretta osservanza per la spaccatura del Pd prodotta dalle primarie («Tutti contro tutti, e adesso il Pd è morto», titolava ieri, per esempio, il Giornale di Alessandro Sallusti). Un rischio che il Pdl ha deciso prudentemente di non correre, dove ovviamente Pdl sta – come al solito – per Silvio Berlusconi, unico titolato a decidere in materia. D’altra parte, qualora Berlusconi decidesse di non ricandidarsi, e scarseggiassero i delfini ansiosi di provare il trattamento sperimentato quest’estate su Angelino Alfano, non si può escludere che il centrodestra ci ripensi e affidi alle primarie la scelta del suo primo rappresentante (suo di Berlusconi, s’intende).
In molti, tuttavia, sostengono che il centrosinistra non abbia scelto un buon momento per fare le primarie. Ci sono validi argomenti a favore di questa tesi, primo tra tutti il rischio di aprire un confronto nel proprio campo mentre il naturale confronto con l’avversario è di fatto sospeso: il rischio, cioè, che la pressione si scarichi tutta all’interno, con effetti deflagranti. Ma se guardiamo la cosa da un altro punto di vista, è difficile trovare un momento migliore di questo. Basta scorrere le notizie delle ultime settimane: fior di dirigenti e persino ex ministri del Pdl sfilano in tv costretti a pronunciare frasi come «non so se il leader sarà ancora Berlusconi», «bisogna chiederlo a lui», «attendiamo che ci faccia sapere»; il movimento grillino, che doveva rivoluzionare la politica a forza di partecipazione dal basso e democrazia diretta, alla prima critica nei confronti del vertice, caccia via il dissidente tra insulti, accuse e minacce di morte (tanto che ieri la procura di Bologna ha dovuto aprire un’inchiesta); Antonio Di Pietro si conferma intenzionato a lasciare il suo nome nel simbolo, ragion per cui le critiche di Massimo Donadi paiono destinate a cadere nel vuoto, ché fare non diciamo le primarie, ma anche solo una riunioncina per discutere la linea del capo – in un partito che il nome del capo ce l’ha nell’insegna – sarebbe come chiedere a un fan club di John Lennon di intitolare la sede a Toto Cutugno.
Se questi sono quelli che erano scesi in campo contro la «vecchia politica» o contro la «casta» dei nominati, il Pd non poteva scegliere momento migliore per mostrare agli italiani dove stanno le oligarchie inamovibili e indiscutibili, lontane dal Paese e allergiche al confronto. Naturalmente, restano molte buone ragioni per criticare queste primarie, a cominciare dalla confusione tra primarie di coalizione per scegliere il candidato premier del centrosinistra e primarie di partito per cambiare il gruppo dirigente del Pd. Ma sarebbe giusto ricordare sempre che da questo rischio tutti i partiti sopra menzionati sono certamente immuni, non prevedendo al proprio interno alcuna reale forma di democrazia, né diretta né indiretta. Che non è una caratteristica incoraggiante, da parte di chi si candida a governare il Paese.

L’Unità 15.09.12