La Cgil attacca: il governo non ha concesso i mille docenti promessi per le zone terremotate. Per questo i sindacalisti di tutte le province e la segretaria regionale Raffaella Morsia lunedì si incateneranno a Roma davanti al ministero. Lunedì si parte. Errani: “Entro metà ottobre a pieno regime nelle zone del sisma”. Tra i banchi, dopo il terremoto. Lunedì suonerà la campanella per 526.800 studenti in Emilia Romagna. Ma nelle zone colpite dal sisma le aule saranno tendoni o prefabbricati, si partirà in alcune scuole con doppi turni e attività alternative, tra cui stage e scambi all’estero. E in una decina di casi almeno, il primo giorno slitterà di giorni o di alcune settimane. «Entro metà ottobre l’attività scolastica andrà a regime », assicura la Regione.
Il presidente Vasco Errani parla di «una risposta corale non scontata», di un «risultato per la comunità» rispetto a un dramma che ha coinvolto oltre 65mila studenti, 52mila nelle scuole in area sismica. Ma la Cgil attacca: il governo non ha concesso i mille docenti promessi per le zone terremotate. Per questo i sindacalisti di tutte le province e la segretaria regionale Raffaella Morsia lunedì si incateneranno a Roma davanti al ministero all’Istruzione. «Per onestà e rispetto di chi vive nelle zone terremotate il governo avrebbe dovuto evitare falsi annunci e operazioni mediatiche ».
Al posto di mille cattedre e trenta milioni promessi a luglio, il ministero concederà insegnanti in più solo in base alle richieste delle scuole colpite dal sisma. Il governatore non ne fa una questione politica. «Non sono
interessato ad apparire, mi interessa la sostanza. Non chiederemo un docente o un euro più del necessario, ma quelli di cui avremo bisogno dovranno essere concessi. A noi interessa che ci sia la piena corrispondenza tra le esigenze delle scuole e la risposta del ministero, questo è il punto».
Su questo il ministro Francesco Profumo si è impegnato. Il direttore dell’ufficio scolastico regionale Stefano Versari raccoglierà le richieste dei presidi in più giorni, a cominciare dal 18 settembre, «per calmare le ansie».
«Una procedura che non crea danni alle scuole, anzi è una risposta alle necessità del momento », spiega. La Cgil invece parla di «un sistema burocratico che non dà risposte immediate», di «gioco furbesco del ministero ». I sindacati raccontano anche di situazioni in cui vengono chiesti soldi alle famiglie per le attività extrascolastiche che sostituiranno temporaneamente le lezioni e per i trasferimenti nei plessi agibili. Lunedì l’assessore regionale Patrizio Bianchi porterà in Giunta la delibera che prevede aiuti, per 500mila euro, ai Comuni sul trasporto scolastico. La diretta web del primo giorno di scuola (www. scuolaer. it) sarà con Bianchi e Versari dalle elementari di Cavezzo, mentre Errani sarà a Cento. A Bologna, dove si riparte con 75 cantieri aperti nelle scuole, tornano tra i banchi 110.781 studenti. «Un grande in bocca al lupo», dice il «provveditore» Maria Luisa Martinez nel suo messaggio al mondo della scuola. E «un grazie a chi ha permesso la riapertura delle scuole nelle zone terremotate» dando così «senso di serenità e stabilità a una comunità straziata
da repubblica.it
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Scuole terremotate, la Cgil “Protesta in catene al ministero”
Non sono arrivati i mille docenti in più promessi dal sottosegretario Rossi Doria; l’ufficio scolastico regionale: “Mai stati assegnati”. La situazione provincia per provincia a pochi giorni dall’inizio delle lezioni. A Crevalcore le scuole lunedì non riapriranno: sono tutte inagibili, e gli scolari sono stati indirizzati nei comuni limitrofi, dove la campanella suonerà anche nel pomeriggio per permettere lo svolgimento delle lezioni degli studenti forestieri. I moduli prefabbricati arriveranno solo a inizio ottobre. Nel Modenese la situazione è ancora grave: sono 20mila gli alunni che non possono fare ancora ritorno nella loro classe. “Gli edifici ancora lesionati sono 52 – spiega Stefano Colombini, segretario Flc-Cgil Modena – e in 30 plessi scolastici i presidi hanno chiesto deroghe” rispetto al ritorno regolare in classe. “Molte scuole faranno i doppi turni o saranno alloggiate nei tendoni”.
Una situazione certo non facile. Aggravata, secondo il sindacato, dalle promesse non mantenute dal governo: a inizio luglio il sottosegretario Marco Rossi Doria aveva annunciato l’arrivo di mille docenti in più per le scuole terremotate, ma ancora non vi sono certezze. Per questo la Cgil dell’Emilia-Romagna ha deciso di manifestare in catene a Roma, proprio nel giorno in cui risuonerà la campanella da Piacenza a Rimini, sotto la sede del ministero dell’Istruzione . “Noi li vogliamo quei docenti- rivendica il segretario regionale della Flc-Cgil, Raffaelle Morsia, in un colloquio con l’agenzia Dire- da parte del governo c’è un colpevole ritardo e un’innegabile sottovalutazione del dramma del terremoto. Le scuole si sentono abbandonate e l’atteggiamento del ministro, che dice che tutto è risolto, offende profondamente le popolazioni colpite”.
Secondo il sindacato, la “promessa non mantenuta” da parte del ministero va ad aggravare un inizio di anno scolastico che “e’ il peggiore mai visto in Emilia-Romagna. E non solo per il terremoto- avverte Morsia- abbiamo scuole inagibili anche non nelle zone del sisma, mancano i completamenti orari e non ci sono abbastanza docenti e Ata”.
L’ufficio scolastico. L’Ufficio scolastico dell’Emilia-Romagna ammette: i mille docenti in più promessi dal ministero non sono mai stati assegnati. “Siamo autorizzati a dare solo quelli che ci vengono richiesti dalle scuole”, afferma Stefano Versari, vicedirettore dell’Usr. “I sindacati, legittimamente, possono chiedere conto al ministero dei posti annunciati- alza le mani Versari- questo però è un problema politico, che non riguarda la nostra amministrazione”. Poi conferma: “A noi quei mille posti non sono stati assegnati, siamo autorizzati a dare solo quelli che ci vengono richiesti dalle scuole”.
La situazione. Non ci sono solo difficoltà a Crevalcore e nel Modenese. A Bologna le materne Federzoni aprono con una settimana di ritardo, i bambini delle elementari sono stati spostati in altri istituti. Le materne Carducci saranno accolte nella struttura delle elementari. A Ferrara “ci sono 81 scuole danneggiate, 11 da ricostruire”. Nel territorio di Reggio Emilia, invece, sono una decina i plessi inagibili, con il caso piu’ grave che si registra a Reggiolo. “La scuola riapre il 24 settembre- spiega il segretario provinciale della Flc-Cgil, Roberto Rossetti- stiamo ancora aspettando il prefabbricato”. Con la mensa inagibile, aggiunge il sindacalista, “saranno serviti piatti freddi fino all’inizio di ottobre”.
Errani. Parole più ottimistiche dal commissario per la ricostruzione. ”Abbiamo fatto la scelta – commenta il governatore Vasco Errani, fotografando la situazione – di considerare la scuola come una priorità, il lavoro che stiamo facendo, con tutti i soggetti interessati è molto importante e, soprattutto, non era scontato. Entro il 15 ottobre avremo una situazione a regime, in strutture che, per quanto provvisorie, saranno di qualità La scuola è un elemento fondamentale per l’identità di una comunità e questo ci consente di andare avanti”
da repubblica.it
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"Ostriche e festini, er Batman del Pdl", di Francesco Merlo
È lo scandalo della casta ciociara, l’antigeografia d’Italia direbbe il politologo americano Robert Kaplan se conoscesse er Batman, come chiamano il ciociaro Francone Fiorito dal giorno in cui cadde da una moto ferma. MA LA guerra civile del Pdl laziale per il malloppo è anche l’evidenza della dissoluzione, proprio nella Roma della Marcia e dell’Impero, della destra italiana sopravvissuta alla storia e definitivamente corrotta dal danaro pubblico. Infine, i 100 milioni di spese annuali del consiglio regionale del Lazio contro gli 86 della Campania, i 38 dell’Emilia Romagna e i 32 della Toscana sono l’ultima prova, nel super laboratorio romano, che il finanziamento dei partiti è in realtà un crimine da Banda Bassotti, una vera aggressione all’erario e, a Roma
come a Napoli e come nella Varese di Bossi, l’evoluzione moderna dell’accattonaggio come professione.
Gessato e gilè sul collo aperto, 180 chili di peso e 1,91 di altezza, l’ex capogruppo ed ex tesoriere Pdl nella regione Lazio, Francone Fiorito, ha dunque maneggiato senza controllo più di otto milioni di euro di danaro pubblico in due anni e va fiero di averlo fatto con metodi spicci: «M’emporta poco dei regolamenti e della costituzione, a me me piace la politica, qui famo amministrazione» dichiarò a Radio Radicale. Figlio di un impiegato della Winchester, 41 anni, Fiorito attaccava i manifesti per le campagne elettorali di Biagio Cacciola che del Msi è la memoria storica e di lui dice: «Non ce lo vedo come ladro, semmai come lussurioso satrapo». Ma Fiorito ha messo in conto alla Regione i suoi week end a Porto Cervo, 109 bonifici a favore di 5 conti esteri intestati a se stesso, cravatte di Marinella, 1200 euro, per tutti… E non mancano le solite ostriche. Anzi, dalle ricevute, sembra che ai suoi colleghi non facesse mangiare altro.
I molluschi, pelosi o lisci che siano, sono ormai un must per il neo arricchito italiano di danaro pubblico. Ostriche e capesante sono infatti i cibi eccessivi di chi viene dai ghetti sociali, la voglia di rifarsi del ciociaro che era l’attacchino del Msi e poi a Roma è diventato portaborse del siciliano Urso. Ecco: in quel vecchio mondo missino Adolfo Urso passava per colto e dunque alla gola di Fiorito era già un’ostrica, cibo prelibato e perla coltivata nell’Osservatorio Parlamentare, parodia delle scuole d’élite in versione destra italiana.
E però all’origine di tutto non c’è solo l’antropologia di guerra e di popolo sudato della Ciociaria, ma c’è il più occulto finanziamento pubblico della politica, un macigno nascosto, una cassaforte dentro un’altra cassaforte. Oltre ai famigerati rimborsi, la casta del Lazio assegna infatti ben 210mila euro l’anno per ogni consigliere regionale, erogati tutti al capogruppo e non ai singoli. Quelli del Pdl sono 17. Ebbene, l’entità di questo bottino ha scatenato la battaglia: i viterbesi di Forza Italia guidati da lontano da Antonio Tajani, contro i ciociari di An, legati ad Alemanno.
È una guerra tra le genti romane, la gens nova contro la gens antica, la Ciociaria contro la Tuscia. E Fiorito è stato detronizzato. Ha perso il posto di capogruppo. Ma, non contento di avergli rubato la lucrosa poltrona, il suo successore Franco Battistoni, già noto come abile compilatore di dossier fratricidi, ha preparato il libro nero della gestione Fiorito che ha reagito — «
me fate ribrezzo» — compilando a sua volta un libro nero contro Battistoni e contro un altro traditore, De Romanis «uno che mi ha minacciato perché come capogruppo non ho voluto finanziare festini con donne semivestite con
abiti romani spacciandoli per manifestazioni storiche». Troppi, in effetti, i 48.000 euro di preventivo per «il grande evento storico» che De Romanis avrebbe voluto al teatro 10 di Cinecittà, «la straordinaria occasione di rivivere il passato » schiave e matrone, lupe e Cornelie sul set di Roma antica.
Fiorito esibisce al collo quattro collane etniche di corda intrecciate, collane serbe e collane croate «perché ama i simboli che si fanno la guerra sotto il suo mento» come le collane degli Hutu e dei Tutsi che si scannarono nel Ruanda. E però questo guerriero ciociaro, che ora rischia il carcere, nel Pdl è trattato come nella Margherita trattarono Lusi. Tutti lo rinnegano. Da Crosetto a Giro gridano «al ladro al ladro», e il partito lo consegna nelle mani sagge, nientemeno, di Denis Verdini, che è un Fiorito nazionale, un Fiorito ripulito e rinverdito, il paradigma dei Fiorito d’Italia. E tutti capiscono che è come affidare la refurtiva a Gambadilegno, è la giustizia alla rovescia, quella che mandò in galera Geppetto, il trionfo del comparaggio, il dettaglio divertente che contiene tutto l’oltraggio della verità.
Fiorito, come Verdini, è stato infatti una risorsa del Pdl, un buon investimento perché aveva quel consenso che evidentemente in politica non è più un valore assoluto. Sono i Fiorito e i Verdini l’antropologia vincente della destra di questi lunghi anni di declino e di degrado italiano, la versione moderna e disarmata dei mendicanti napoletani di Domenico Rea, gente che ha fantasia nell’arraffare, nobilita con la furba spavalderia la vecchia povertà e gli ambienti rancidi di fame, con la corsa alle ostriche al posto della corsa agli spaghetti del Totò di “Miseria e Nobiltà”.
È l’unità d’Italia degli accattoni della politica, senza più differenza tra il maledetto toscano, il guappo ciociaro, il bravaccio padano e il mendicante napoletano a cui la Regina Giovanna concedeva il diritto all’arraffo. E infatti tutti elogiano il turpiloquio come codice che sta a metà tra le allusioni e la chiarezza, un po’ servizi segreti e un po’ servizi igienici,
«nun ci avevate l’onestà che ve passava per cazzo quando ve pagavo er soggiorno con l’amante». La reazione di Fiorito è il cortocircuito tra l’indignazione e la coda di paglia, la resa dei conti dell’accattonaggio politico come professione che sarà giudicata dalla storia.
Fiorito portò in dote al Pdl ben 26mila voti «strappati uno ad uno nel Frosinate» perché è missino da sempre ma è anche e soprattutto ciociaro appunto, e quindi della scuola di Ciarrapico che si dichiarava fascista ma raccoglieva voti per la Dc di Andreotti dicendo «non voto Msi perché nun c’è sta più Mussolini». Anche Fiorito ama i simboli fascisti ma è un raccoglitore di voti alla democristiana. E manda gli auguri di Capodanno con il motto della X Mas. Da sindaco votatissimo di Anagni, che è la città dello schiaffo ed è la sua città, addobbò la sala del Consiglio con due targhe in ricordo della marcia su Roma e di Sua Eccellenza Benito Mussolini. E si dichiara futurista, apre la pagina di Facebook con un quadro di Boccioni, cita Marinetti e D’Annunzio.
Ma seriamente nessuno gli rimprovera il fascismo e infatti i viterbesi di Forza Italia non lo inchiodano al saluto romano, ma raccontano che già da sindaco di Anagni non si negava le ostriche. Si concesse, per esempio, un viaggio in Giappone, 17 mila euro del comune, per seguire i mondiali di calcio. Ma Fiorito replica raccontando le cene degli altri, quelle di Battistoni innanzitutto. I conti del ristorante Pepenero, ora seimila e ora cinquemila euro, contro i conti di Pasqualino al Colosseo, ora novemila e ora settemila euro, e ce n’è abbastanza per sfamare un manipolo, una falange e una squadraccia.
Non esiste l’obbligo di pubblicare i bilanci dei gruppi consiliari del Lazio. I rendiconti sono approvati da un Comitato di controllo contabile che è presieduto da un consigliere del Partito democratico che — ops! — non si è mai accorto di nulla. Poi vengono consegnati al presidente del Consiglio regionale, che si chiama Mario Abbruzzese e sua volta mantiene 18 collaboratori e spende 3,4 milioni per il personale, 8 milioni per consulenze, ha avuto una dotazione di un milione e mezzo di euro sia nel 2010 e sia nel 2011 e guadagna 23mila euro al mese, vale a dire più del presidente Obama. Il consiglio regionale del Lazio ha speso per “manutenzione e messa a norma degli immobili” trenta milioni di euro negli ultimi tre anni e quest’anno ne aveva in previsione altri dieci, bloccati dopo le denunzie alla magistratura dei due consiglieri radicali, Rocco Berardo e Giovanni Rossodivita. Ecco perché il sulfureo Fiorito dice: “
Me sento preso per culo”.
Cresciuto a gassose e rosette e vendicato dal mollusco, si considera il più onesto dei disonesti, e perciò il solo che andrà in galera.
La Repubblica 14.09.12
"Ostriche e festini, er Batman del Pdl", di Francesco Merlo
È lo scandalo della casta ciociara, l’antigeografia d’Italia direbbe il politologo americano Robert Kaplan se conoscesse er Batman, come chiamano il ciociaro Francone Fiorito dal giorno in cui cadde da una moto ferma. MA LA guerra civile del Pdl laziale per il malloppo è anche l’evidenza della dissoluzione, proprio nella Roma della Marcia e dell’Impero, della destra italiana sopravvissuta alla storia e definitivamente corrotta dal danaro pubblico. Infine, i 100 milioni di spese annuali del consiglio regionale del Lazio contro gli 86 della Campania, i 38 dell’Emilia Romagna e i 32 della Toscana sono l’ultima prova, nel super laboratorio romano, che il finanziamento dei partiti è in realtà un crimine da Banda Bassotti, una vera aggressione all’erario e, a Roma
come a Napoli e come nella Varese di Bossi, l’evoluzione moderna dell’accattonaggio come professione.
Gessato e gilè sul collo aperto, 180 chili di peso e 1,91 di altezza, l’ex capogruppo ed ex tesoriere Pdl nella regione Lazio, Francone Fiorito, ha dunque maneggiato senza controllo più di otto milioni di euro di danaro pubblico in due anni e va fiero di averlo fatto con metodi spicci: «M’emporta poco dei regolamenti e della costituzione, a me me piace la politica, qui famo amministrazione» dichiarò a Radio Radicale. Figlio di un impiegato della Winchester, 41 anni, Fiorito attaccava i manifesti per le campagne elettorali di Biagio Cacciola che del Msi è la memoria storica e di lui dice: «Non ce lo vedo come ladro, semmai come lussurioso satrapo». Ma Fiorito ha messo in conto alla Regione i suoi week end a Porto Cervo, 109 bonifici a favore di 5 conti esteri intestati a se stesso, cravatte di Marinella, 1200 euro, per tutti… E non mancano le solite ostriche. Anzi, dalle ricevute, sembra che ai suoi colleghi non facesse mangiare altro.
I molluschi, pelosi o lisci che siano, sono ormai un must per il neo arricchito italiano di danaro pubblico. Ostriche e capesante sono infatti i cibi eccessivi di chi viene dai ghetti sociali, la voglia di rifarsi del ciociaro che era l’attacchino del Msi e poi a Roma è diventato portaborse del siciliano Urso. Ecco: in quel vecchio mondo missino Adolfo Urso passava per colto e dunque alla gola di Fiorito era già un’ostrica, cibo prelibato e perla coltivata nell’Osservatorio Parlamentare, parodia delle scuole d’élite in versione destra italiana.
E però all’origine di tutto non c’è solo l’antropologia di guerra e di popolo sudato della Ciociaria, ma c’è il più occulto finanziamento pubblico della politica, un macigno nascosto, una cassaforte dentro un’altra cassaforte. Oltre ai famigerati rimborsi, la casta del Lazio assegna infatti ben 210mila euro l’anno per ogni consigliere regionale, erogati tutti al capogruppo e non ai singoli. Quelli del Pdl sono 17. Ebbene, l’entità di questo bottino ha scatenato la battaglia: i viterbesi di Forza Italia guidati da lontano da Antonio Tajani, contro i ciociari di An, legati ad Alemanno.
È una guerra tra le genti romane, la gens nova contro la gens antica, la Ciociaria contro la Tuscia. E Fiorito è stato detronizzato. Ha perso il posto di capogruppo. Ma, non contento di avergli rubato la lucrosa poltrona, il suo successore Franco Battistoni, già noto come abile compilatore di dossier fratricidi, ha preparato il libro nero della gestione Fiorito che ha reagito — «
me fate ribrezzo» — compilando a sua volta un libro nero contro Battistoni e contro un altro traditore, De Romanis «uno che mi ha minacciato perché come capogruppo non ho voluto finanziare festini con donne semivestite con
abiti romani spacciandoli per manifestazioni storiche». Troppi, in effetti, i 48.000 euro di preventivo per «il grande evento storico» che De Romanis avrebbe voluto al teatro 10 di Cinecittà, «la straordinaria occasione di rivivere il passato » schiave e matrone, lupe e Cornelie sul set di Roma antica.
Fiorito esibisce al collo quattro collane etniche di corda intrecciate, collane serbe e collane croate «perché ama i simboli che si fanno la guerra sotto il suo mento» come le collane degli Hutu e dei Tutsi che si scannarono nel Ruanda. E però questo guerriero ciociaro, che ora rischia il carcere, nel Pdl è trattato come nella Margherita trattarono Lusi. Tutti lo rinnegano. Da Crosetto a Giro gridano «al ladro al ladro», e il partito lo consegna nelle mani sagge, nientemeno, di Denis Verdini, che è un Fiorito nazionale, un Fiorito ripulito e rinverdito, il paradigma dei Fiorito d’Italia. E tutti capiscono che è come affidare la refurtiva a Gambadilegno, è la giustizia alla rovescia, quella che mandò in galera Geppetto, il trionfo del comparaggio, il dettaglio divertente che contiene tutto l’oltraggio della verità.
Fiorito, come Verdini, è stato infatti una risorsa del Pdl, un buon investimento perché aveva quel consenso che evidentemente in politica non è più un valore assoluto. Sono i Fiorito e i Verdini l’antropologia vincente della destra di questi lunghi anni di declino e di degrado italiano, la versione moderna e disarmata dei mendicanti napoletani di Domenico Rea, gente che ha fantasia nell’arraffare, nobilita con la furba spavalderia la vecchia povertà e gli ambienti rancidi di fame, con la corsa alle ostriche al posto della corsa agli spaghetti del Totò di “Miseria e Nobiltà”.
È l’unità d’Italia degli accattoni della politica, senza più differenza tra il maledetto toscano, il guappo ciociaro, il bravaccio padano e il mendicante napoletano a cui la Regina Giovanna concedeva il diritto all’arraffo. E infatti tutti elogiano il turpiloquio come codice che sta a metà tra le allusioni e la chiarezza, un po’ servizi segreti e un po’ servizi igienici,
«nun ci avevate l’onestà che ve passava per cazzo quando ve pagavo er soggiorno con l’amante». La reazione di Fiorito è il cortocircuito tra l’indignazione e la coda di paglia, la resa dei conti dell’accattonaggio politico come professione che sarà giudicata dalla storia.
Fiorito portò in dote al Pdl ben 26mila voti «strappati uno ad uno nel Frosinate» perché è missino da sempre ma è anche e soprattutto ciociaro appunto, e quindi della scuola di Ciarrapico che si dichiarava fascista ma raccoglieva voti per la Dc di Andreotti dicendo «non voto Msi perché nun c’è sta più Mussolini». Anche Fiorito ama i simboli fascisti ma è un raccoglitore di voti alla democristiana. E manda gli auguri di Capodanno con il motto della X Mas. Da sindaco votatissimo di Anagni, che è la città dello schiaffo ed è la sua città, addobbò la sala del Consiglio con due targhe in ricordo della marcia su Roma e di Sua Eccellenza Benito Mussolini. E si dichiara futurista, apre la pagina di Facebook con un quadro di Boccioni, cita Marinetti e D’Annunzio.
Ma seriamente nessuno gli rimprovera il fascismo e infatti i viterbesi di Forza Italia non lo inchiodano al saluto romano, ma raccontano che già da sindaco di Anagni non si negava le ostriche. Si concesse, per esempio, un viaggio in Giappone, 17 mila euro del comune, per seguire i mondiali di calcio. Ma Fiorito replica raccontando le cene degli altri, quelle di Battistoni innanzitutto. I conti del ristorante Pepenero, ora seimila e ora cinquemila euro, contro i conti di Pasqualino al Colosseo, ora novemila e ora settemila euro, e ce n’è abbastanza per sfamare un manipolo, una falange e una squadraccia.
Non esiste l’obbligo di pubblicare i bilanci dei gruppi consiliari del Lazio. I rendiconti sono approvati da un Comitato di controllo contabile che è presieduto da un consigliere del Partito democratico che — ops! — non si è mai accorto di nulla. Poi vengono consegnati al presidente del Consiglio regionale, che si chiama Mario Abbruzzese e sua volta mantiene 18 collaboratori e spende 3,4 milioni per il personale, 8 milioni per consulenze, ha avuto una dotazione di un milione e mezzo di euro sia nel 2010 e sia nel 2011 e guadagna 23mila euro al mese, vale a dire più del presidente Obama. Il consiglio regionale del Lazio ha speso per “manutenzione e messa a norma degli immobili” trenta milioni di euro negli ultimi tre anni e quest’anno ne aveva in previsione altri dieci, bloccati dopo le denunzie alla magistratura dei due consiglieri radicali, Rocco Berardo e Giovanni Rossodivita. Ecco perché il sulfureo Fiorito dice: “
Me sento preso per culo”.
Cresciuto a gassose e rosette e vendicato dal mollusco, si considera il più onesto dei disonesti, e perciò il solo che andrà in galera.
La Repubblica 14.09.12
«Niente più insegnanti nei piccoli comuni», di Luciana Cimino
«Nelle situazioni di particolare isolamento, limitatamente alle piccole isole e ai comuni montani, ove è presente un ristretto numero di alunni del primo ciclo di istruzione che non consente l’istituzione di classi (…) sono istituiti, a decorrere dall’anno scolastico 2012/2013, centri collegati funzionalmente attraverso l’utilizzo delle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic)». È l’articolo 21 di una bozza del Decreto Innovazione che sarà messo in calendario per le prossime riunioni del Consiglio dei Ministri. Prevede didattica svolta con l’e-learning «sotto la vigilanza di un tutor nominato dall’istituzione scolastica di riferimento, in locali messi a disposizione dal Comune».
LA POLEMICA Un cambiamento radicale, se venisse approvato così com’è, che fa sobbalzare la Flc–Cgil. Ieri mattina il segretario Mimmo Pantaleo ha scritto una lettera aperta al ministro Profumo contro l’ipotesi di «sostituire agli insegnanti i pc». «A noi pare che si vogliano fare tre operazioni: un ulteriore taglio di organico del personale, ammantato dall’alone della modernità e dell’innovazione; lo stravolgimento dell’idea stessa di scuola pubblica, costituzionalmente garantita, che verrebbe privata della essenziale funzione di mediazione culturale e didattica degli insegnanti; una riduzione di risorse a territori già deprivati». E il segretario Flc Cgil, all’indomani dell’inizio dell’anno scolastico, ricorda a Profumo «le classi ancora senza insegnanti, personale ausiliario, tecnico e amministrativo non ancora nominato, grande confusione e difficoltà determinate del dimensionamento scolastico e dai tagli degli ultimi quattro anni, condizioni fatiscenti di tante scuole». Mentre il ministro annuncia l’istituzione di una commissione al Miur per ridurre il diploma di un anno, la Flc Cgil promette: «se l’innovazione è questa ci sarà la più dura opposizione da parte di questa organizzazione sindacale». Intanto il primo giorno di scuola in molte città si è svolto all’insegna della protesta degli studenti e dei precari. Ieri mattina molti istituti dal nord al sud hanno aperto i battenti con cartelli “vendesi” («Docenti, studenti e istituti presto in vendita a prezzi convenienti») attaccati sulle cancellate. Un’«azione comunicativa» che l’Unione degli Studenti (Uds) ha effettuato per lanciare la grande manifestazione studentesca nazionale del 12 ottobre e per ribadire che «la scuola pubblica è in svendita», come spiega Mariano della Rete della conoscenza (che lega gli studenti medi di Uds e gli universitari e ricercatori di Link). «Gli studenti al rientro in classe hanno trovato accorpamenti, scuole a pezzi, qualità della didattica cancellata e tanta retorica a nascondere che il Governo tecnico ha continuato con i tagli alla spesa formativa e alla didattica». Al Margherita di Savoia di Roma gli studenti hanno innalzato lo striscione “Make school, not war” e portato due carrelli della spesa: uno contenete gli investimenti che servirebbero alla scuola e alla ricerca, l’altro invece pieno di armi finte. «La scuola non è una priorità del governo che preferisce investire su altro», spiegano. E la facoltà di lettere di Roma III è stata anche occupata in segno di protesta contro la presenza di Monti e Visco in un convegno dell’ateneo (il presidente del consiglio è poi intervenuto in videoconferenza). «Vogliamo dimostrare che l’università non è d’accordo con il massacro sociale», hanno spiegato gli universitari. Nel pomeriggio “Asta dei Saperi” inscenata da Uds e insegnanti precari sulla scalinata del Miur. Una studentessa ha bandito aule, professori, laboratori. «Abbiamo voluto mettere al centro in maniera provocatoria la situazione concreta nella scuola: le risorse non aumentano però con il ddl ex Aprea entrano i privati, finanziano gli istituti cancellando diritti studenti e docenti. Le scuole trasformate in aziende, gli studenti in merce», dice il coordinatore nazionale dell’Uds, Roberto Campanelli. Per Carmen, dell’Uds di Avellino, «il fatto che l’Ocse indichi l’Italia come fanalino di coda per le spese sull’istruzione non è solo un problema per la competitività ma anche per il fatto che studiare e vivere la scuola è ormai diventato un lusso: il diritto allo studio è stato svuotato, il costo dell’istruzione scaricato sulle spalle delle famiglie, mentre la scuola ha perso la propria missione formativa. Profumo sta continuando la strada della Gelmini e non ascolta le proteste dal basso di studenti e professori». Ma le settimane che verranno si preannunciano caldissime: il 21 settembre, in tutta Italia, mobilitazione della rete degli insegnanti precari con la Flc Cgil, il 22 manifestazione nazionale promossa dai coordinamenti; il 28 università, ricerca e Afam sciopereranno insieme al pubblico impiego di Cgil e Uil, il 12 corteo nazionale degli studenti fino ad arrivare al 20 ottobre con lo sciopero della scuola e la manifestazione nazionale Flc Cgil di tutti i comprarti della conoscenza.
l’Unità 14.09.12
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Tagli, tante scuole chiuse al pomeriggio
Costretti a chiudere tutte le attività extracurriculari, dai corsi di educazione alla cittadinanza a quelli di educazione stradale, dalle attività sportive pomeridiane ai corsi di teatro. Questa la situazione di tanti enti locali che, tra mille difficoltà, hanno assicurato fino ad oggi l’apertura delle scuole il pomeriggio e l’organizzazione di forme di didattica alternative, attività non propriamente curricolari ma sicuramente altrettanto formative. La scure della spending review si é infatti abbattuta non direttamente sul bilancio del Miur ma sui trasferimenti che lo Stato aveva sinora assicurato agli enti locali per assicurare servizi come il trasporto pubblico, le politiche culturali, i servizi sociali ma anche le politiche educative. Era stato l’allora ministro Berlinguer a capire che, se la scuola voleva innovarsi e rendersi utile allo sviluppo del paese, doveva allargare il raggio della propria azione. La scuola aperta il pomeriggio, e con essa le attività extracurriculari, dovevano servire a contrastare l’abbandono e la dispersione scolastica e a costruire una vera e proprio comunità educante, aperta alle associazioni e alle esperienze sociali del territorio. Un’idea ripresa poi dai successivi ministri dell’Istruzione ma che ha avuto sempre difficoltà ad essere sostenuta economicamente dal ministero dell’Economia. A far fronte a queste mancanze hanno spesso supplito gli enti locali. Questo ha significato purtroppo una diversità territoriale, con le scuole meridionali che affrontano sempre maggiori difficoltà a garantire adeguate opportunità formative. Purtroppo quest’anno anche nelle provincie non meridionali sarà difficile assicurare l’apertura pomeridiana delle scuole. É il caso per esempio della provincia di Alessandria e di quella di Pesaro-Urbino, dove i rispettivi assessori hanno annunciato a malincuore che quest’anno non potranno garantire nessuna copertura di bilancio per le attività scolastiche extracurriculari. Alessia Morandi, assessore alle politiche educative della provincia di Pesaro-Urbino, si trova molto in difficoltà nel parlare dei tagli di bilancio che si abbatteranno sulle scuole della Provincia. «Saremo costretti a chiudere le scuole il pomeriggio e la sera perché non abbiamo i soldi per pagare la luce. Ai tagli della spending review si sommano il soldi spesi per il “terremoto bianco” la grande nevicata di febbraio che il governo aveva promesso di rimborsarci, ma che ancora non ha fatto. Tutto questo significa che dovremmo tagliare sui servizi essenziali, addirittura sulla bolletta della luce». Analogo discorso nella provincia di Alessandria, dove l’assessore provinciale Massimo Barbadoro con una accorata lettera indirizzata a presidi, insegnanti e studenti, denuncia tutte le difficoltà che la sua amministrazione affronta nella gestione dei tagli della spending review che inevitabilmente si abbatteranno anche sul settore scolastico. Negli ultimi anni lo scarto tra le scuole del nord e quelle del sud poteva essere colmato attraverso un uso intelligente e creativo dell’autonomia scolastica, innalzando la qualità dell’offerta formativa generale. Oggi purtroppo quelle diseguaglianze rischiano di essere cancellate omologando verso il basso l’offerta didattica che le migliori scuole del paese hanno offerto finora ai nostri studenti.
L’Unità 14.09.12
"Meglio se uniti", di Cesare Damiano e Giorgio Merlo
Il dibattito sempre più infuocato, attorno e dentro al Pd, rischia di avere effetti imprevedibili. Il linciaggio verbale, singolare e curioso, contro il gruppo dirigente, non aiuta a far emergere con chiarezza il nostro progetto per il paese. Il bombardamento mediatico in atto da parte di molti settori dell’informazione, che ha l’obiettivo di mettere in discussione il nostro profilo di governo, confonde il ruolo e il messaggio politico del partito. Per questo motivo si tratta di chiarire alcuni aspetti essenziali che caratterizzano la nostra proposta e la nostra stessa mission.
Innanzitutto il sistema elettorale. Il Pd, quasi tutto, su questo versante ha mantenuto, da sempre, una posizione chiara ed univoca. Certo, i compromessi vanno fatti anche perché non abbiamo la maggioranza alla camera e al senato e la ricerca di un punto di equilibrio è indispensabile. Ma la definizione delle alleanze, il premio di maggioranza alla coalizione (che impedisca che dal voto emerga una posizione di stallo che porterebbe alla riedizione di una improponibile “larga coalizione”) ed il ripristino del rapporto tra gli eletti e gli elettori, sono e restano i punti costitutivi del progetto democratico. Chi ci accusa di voler conservare il Porcellum attraverso la nostra proposta, dice una cosa falsa e priva di fondamento.
In secondo luogo il capitolo delle alleanze. Noi siamo contrari alla riedizione dell’Unione per dar vita a coalizioni potenzialmente vincenti, ma quasi scientificamente ingovernabili. La proposta del Pd, anche su questo aspetto, è molto semplice: un’alleanza di governo tra l’area progressista e l’area moderata senza scivolamenti trasformistici e condizionamenti massimalisti. Dopo la lunga e grigia stagione berlusconiana è doveroso che, a cominciare dal più grande partito riformista e democratico del paese, parta una proposta di governo seria, credibile e realmente percorribile. Non c’è alternativa a questa impostazione. Sostenere che è anacronistico coltivare un’alleanza tra partiti perché si dovrebbe favorire una indistinta ed anomala “alleanza con i cittadini”, è semplicemente ridicolo e pericoloso perché nasconde una deriva trasformistica e di puro potere, al di fuori di qualsiasi coerenza politica, culturale e programmatica.
In terzo luogo l’unità del partito. È abbastanza evidente che c’è il concreto rischio di un possibile dissolvimento dell’esperienza originaria del Pd se non viene salvaguardata e preservata l’unità politica del partito. Cosí come è evidente che molto si gioca attorno alla gestione delle primarie e a come vengono regolamentate.
C’è un obiettivo politico abbastanza evidente, quello di indebolire il Partito democratico ed il suo segretario, che accomuna svariati organi di stampa e, com’è ovvio, i nostri avversari politici. La domanda è molto semplice: il Pd può essere complice, seppur passivo, di questa strategia? O meglio, alcuni settori del Pd possono assecondare questo istinto auto dissolutorio? La domanda non è né retorica né peregrina perché i nostri principali avversari e detrattori osservano compiaciuti questo spettacolo.
Ecco perché la riscoperta dell’unità e la ricerca della sintesi sono, oggi, la precondizione essenziale per garantire il ruolo, la prospettiva e la credibilità del Partito democratico. In questo non si può transigere né sono ammessi equivoci più o meno interessati.
da Europa Quotidiano 14.09.12
"Meglio se uniti", di Cesare Damiano e Giorgio Merlo
Il dibattito sempre più infuocato, attorno e dentro al Pd, rischia di avere effetti imprevedibili. Il linciaggio verbale, singolare e curioso, contro il gruppo dirigente, non aiuta a far emergere con chiarezza il nostro progetto per il paese. Il bombardamento mediatico in atto da parte di molti settori dell’informazione, che ha l’obiettivo di mettere in discussione il nostro profilo di governo, confonde il ruolo e il messaggio politico del partito. Per questo motivo si tratta di chiarire alcuni aspetti essenziali che caratterizzano la nostra proposta e la nostra stessa mission.
Innanzitutto il sistema elettorale. Il Pd, quasi tutto, su questo versante ha mantenuto, da sempre, una posizione chiara ed univoca. Certo, i compromessi vanno fatti anche perché non abbiamo la maggioranza alla camera e al senato e la ricerca di un punto di equilibrio è indispensabile. Ma la definizione delle alleanze, il premio di maggioranza alla coalizione (che impedisca che dal voto emerga una posizione di stallo che porterebbe alla riedizione di una improponibile “larga coalizione”) ed il ripristino del rapporto tra gli eletti e gli elettori, sono e restano i punti costitutivi del progetto democratico. Chi ci accusa di voler conservare il Porcellum attraverso la nostra proposta, dice una cosa falsa e priva di fondamento.
In secondo luogo il capitolo delle alleanze. Noi siamo contrari alla riedizione dell’Unione per dar vita a coalizioni potenzialmente vincenti, ma quasi scientificamente ingovernabili. La proposta del Pd, anche su questo aspetto, è molto semplice: un’alleanza di governo tra l’area progressista e l’area moderata senza scivolamenti trasformistici e condizionamenti massimalisti. Dopo la lunga e grigia stagione berlusconiana è doveroso che, a cominciare dal più grande partito riformista e democratico del paese, parta una proposta di governo seria, credibile e realmente percorribile. Non c’è alternativa a questa impostazione. Sostenere che è anacronistico coltivare un’alleanza tra partiti perché si dovrebbe favorire una indistinta ed anomala “alleanza con i cittadini”, è semplicemente ridicolo e pericoloso perché nasconde una deriva trasformistica e di puro potere, al di fuori di qualsiasi coerenza politica, culturale e programmatica.
In terzo luogo l’unità del partito. È abbastanza evidente che c’è il concreto rischio di un possibile dissolvimento dell’esperienza originaria del Pd se non viene salvaguardata e preservata l’unità politica del partito. Cosí come è evidente che molto si gioca attorno alla gestione delle primarie e a come vengono regolamentate.
C’è un obiettivo politico abbastanza evidente, quello di indebolire il Partito democratico ed il suo segretario, che accomuna svariati organi di stampa e, com’è ovvio, i nostri avversari politici. La domanda è molto semplice: il Pd può essere complice, seppur passivo, di questa strategia? O meglio, alcuni settori del Pd possono assecondare questo istinto auto dissolutorio? La domanda non è né retorica né peregrina perché i nostri principali avversari e detrattori osservano compiaciuti questo spettacolo.
Ecco perché la riscoperta dell’unità e la ricerca della sintesi sono, oggi, la precondizione essenziale per garantire il ruolo, la prospettiva e la credibilità del Partito democratico. In questo non si può transigere né sono ammessi equivoci più o meno interessati.
da Europa Quotidiano 14.09.12
"Che cosa blocca il Paese", di Luca Ricolfi
Ultimamente, non posso nasconderlo, mi è capitato più volte di provare un moto di solidarietà, o quantomento di comprensione, per le cosiddette «parti sociali», Cgil e Confindustria innanzitutto. Che cosa sta succedendo, infatti?
Da alcune settimane sta succedendo che il nostro governo, resosi conto di aver usato la mano troppo pesante sull’economia e di non avere alcuna risorsa, tesoretto o altro da mettere sul piatto, sta caricando sulle parti sociali – sindacati e organizzazioni degli imprenditori – una responsabilità molto maggiore di quella che sindacati e industriali possano assumersi. L’invito a mettersi d’accordo per aumentare la competitività dell’Italia («dobbiamo abbattere lo spread della produttività») è solo il punto di approdo di una strategia comunicativa che va avanti da tempo. Prima c’era stata l’imperiosa esortazione del ministro Fornero agli imprenditori a investire («noi abbiamo fatto la nostra parte, ora tocca a voi»). Poi, alla Fiera del Levante, l’invito del premier a «cambiare mentalità». E infine, giusto ieri, l’attacco di Monti allo Statuto dei lavoratori, che avrebbe danneggiato la creazione di posti di lavoro.
Anche se Monti ha detto una cosa al limite della banalità, ovvia per qualsiasi studioso non troppo ideologizzato, capisco la reazione di Susanna Camusso, secondo cui le parole del premier sono «la dimostrazione che questo governo non ha idee su sviluppo e crescita» e ormai «ha esaurito la spinta propulsiva». Capisco la reazione perché essa rivela uno stato d’animo che, a mio parere, non è di una singola parte sociale, ovvero la Cgil o il mondo sindacale, ma è di tutto il mondo del lavoro, sindacati, imprenditori, artigiani, partite Iva, insomma di chiunque stia sul mercato. Nessuno lo dice esplicitamente, perché Monti è una persona seria e rispettata, ma l’impressione è che le parti sociali si sentano prese un po’ in giro. Dopo aver detto peste e corna della concertazione, il governo le convoca e le invita a concertare per salvare il Paese, come se un accordo fra Confindustria e sindacati sulla produttività potesse dare un contributo decisivo a farci uscire dalla crisi.
A mio modesto parere le perplessità delle parti sociali sono largamente giustificate. E’ chiaro che ogni accordo sulla produttività è benvenuto, e saremo grati a Confindustria e sindacati se ne troveranno uno efficace. Ma la dura realtà è che le parti sociali, anche impegnandosi al massimo, anche rinunciando a ogni egoismo, possono fare pochissimo. L’espressione stessa «produttività del lavoro» è profondamente fuorviante. Suggerisce che il prodotto dipenda essenzialmente dall’impegno dei lavoratori, e che la scarsa produttività sia dovuta a impegno insufficiente, scarsa meritocrazia, cattivi incentivi. Non è così. La produttività è bassa e stagnante innanzitutto perché il sistema Italia ha dei costi smisurati, che nessun governo è stato in grado fin qui di rimuovere.
Costi degli input del processo produttivo, innanzitutto. Facciamo un esempio concreto e di estrema attualità: il caso di un’azienda che ha un grande input di energia elettrica, e che non è sussidiata come Alcoa. Qual è il suo valore aggiunto? Poiché il valore aggiunto è la differenza fra i ricavi e i costi, il fatto di pagare l’energia 100 anziché 50 dilata i costi e contrae il valore aggiunto. Ma la produttività non è altro che il valore aggiunto per occupato, quindi il fatto di pagare l’energia uno sproposito abbassa la produttività del lavoro, e questo a parità di impegno dei lavoratori. Lo stesso discorso potrebbe essere ripetuto per decine di altre voci di costo delle imprese italiane (assicurazioni, burocrazia, prestiti bancari, etc.), che fanno lievitare i costi e quindi abbattono la produttività. Anche per questo «La Stampa» e la Fondazione David Hume stanno conducendo la loro inchiesta su «Che cosa soffoca l’Italia».
Non è tutto, purtroppo. La produttività dipende anche dai macchinari e dalle tecnologie con cui i lavoratori operano. Cento operai con macchine moderne producono più pezzi che cento operai con macchine obsolete. Cento impiegati con una contabilità ben informatizzata sbrigano più pratiche di cento impiegati che usano ancora la carta, o che lavorano con un software di bassa qualità. Ma le tecnologie dipendono dagli investimenti, e gli investimenti li fanno gli imprenditori, non gli operai e gli impiegati di cui pretendiamo di misurare la produttività. Ha dunque ragione il ministro Fornero che invita gli imprenditori a fare la loro parte investendo di più?
Direi proprio di no, anche gli imprenditori hanno molte ragioni per essere irritati. Non tanto per l’insufficienza di sgravi e incentivi agli investimenti in ricerca e sviluppo, bensì per la elementare ragione che per investire ci vogliono due condizioni: una domanda che tira e un regime fiscale che lasci ai produttori una quota ragionevole del loro profitto. Invece la domanda va malissimo in quasi tutti i settori, e la tassazione del profitto commerciale in Italia (68.6%) è fra le più alte del mondo, ed è addirittura la più alta fra quelle dei 34 Paesi appartenenti all’Ocse, l’organizzazione che riunisce le economie avanzate.
La realtà, purtroppo, è che la crescita dipende dalla produttività, ma la produttività dipende pochissimo dalla buona volontà delle parti sociali e moltissimo dai costi che i produttori sono costretti a sostenere, essenzialmente costi degli input e costi fiscali. Su questo fronte, purtroppo, l’azione del governo ha peggiorato e non migliorato la vita a chi produce ricchezza. Può darsi che non si potesse fare diverso. Ma come stupirsi se alle parti sociali suona un po’ strano che, dopo essere state vessate «per salvare il Paese», ora si faccia intendere che a salvarci debbano essere proprio loro, e che per la salvezza possa essere decisivo un accordo sulla produttività.
La Stampa 14.09.12
