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"Tra libertà e responsabilità", di Barbara Spinelli

Ancora una volta, come l’11 settembre 2001, il volto stupefatto dell’America s’è accampato davanti ai nostri occhi. L’ambasciatore Christopher Stevens era appena stato ucciso, e Hillary Clinton non si capacitava.
«Perché è potuto succedere tutto questo? Perché in un paese, la Libia, che abbiamo aiutato a liberare? In una città, Bengasi, che abbiamo salvato dalla distruzione?» Dall’attentato alle Torri sono passati undici anni, e l’angoscia resta muta, quasi l’occhio non vedesse che orrore e buio.
Ancora una volta si risponde con le armi o con i droni, ma la parola è lenta a venire. Ieri Hillary Clinton ha denunciato il video anti-Islam, ma l’attonimento iniziale è significativo. L’occidente lancia al mondo la sua domanda — Perché non ci amate? — e mai fornisce una risposta, mai lo sguardo smette d’appannarsi, disperatamente miope. Il male è nero, e il nero non è dicibile. C’è il rischio di giustificarlo, se provi a vederlo, a capirlo. C’è il rischio di sovvertire il bene di cui ti credi l’artefice: le rivoluzioni arabe, le primavere democratiche, la guerra senza screzi in Libia. Il dilemma è comprensibile: se fai «parlare» il male, gli dai diritto di parola e di esistenza.
Invece bisogna capirlo, il nemico: e studiarlo, osservarlo, anche quando lo combatti, proprio se lo vuoi combattere. È evidente che il video sul Corano è un pretesto, che dopo l’uccisione di Bin Laden si voleva punire l’America, nell’anniversario dell’11 settembre, e scommettere sul peggio: la disfatta elettorale di Obama. Cercare di capire è tutt’altra cosa che giustificare, e non è nemmeno restare neutrali. Nella sua Teoria del Partigiano, Carl Schmitt scrive una cosa su cui vale la pena riflettere, in questi giorni d’ira contro il filmato trasmesso da organizzazioni vicine a Terry Jones, il reverendo che invoca i roghi del Corano: «Il nemico è la forma che assume la nostra questione ». Conoscerlo e misurarlo significa conoscere se stessi, la «questione su chi siamo».
Un video distruttore della figura di Maometto ha scatenato in vari paesi musulmani la furia di piccoli ma bene armati gruppi di estremisti. Furia divenuta sanguinaria, a Bengasi: non stupisce che abbia colpito un giusto, un ambasciatore che il Corano lo conosceva e lo rispettava. Anche i morti nel crollo delle Torri, nel 2001, erano innocenti — a loro modo giusti — delle malvagie politiche attribuite ai governi americani. Ma se vogliamo analizzare quello che chiamiamo nemico, e non ripetere sempre la stessa intontita domanda davanti alle telecamere, dobbiamo tentare qualche risposta, e cominciare a formulare quel che la violenza in Libia, Egitto, Yemen dice su di noi, sulle nostre illusioni, sulla «nostra questione».
La nostra questione è la forza prima infamante e infine incendiaria che può emanare da un video diffuso mondialmente su YouTube. Può emanare anche da vignette anti-islamiche, come si è visto in Danimarca nel 2005, o più recentemente da un libro, come quello scritto da Richard Millet in Francia
(Langue fantôme — Lingua fantasma, Gallimard). Questa forza di offendere ha un nome sacro, sancito dalle leggi liberali e specialmente inviolabile nella cultura politica statunitense: si chiama libertà di opinione, di espressione, di pubblicazione. È una libertà che non ammette limiti, che si fa forte dello spirito di tolleranza, che si inventa un Voltaire permissivo che non è mai esistito (non è sua la frase «Disapprovo quel che dite, ma lotterò fino alla morte perché possiate dirlo»). Voltaire difese dalla censura dei benpensanti testi e autori che esecrava: bisognava tuttavia che i testi contenessero qualcosa che per lui era una «verità, anche se triviale». Wikileaks e Assange per esempio portano alla luce fatti veri, e il loro diritto di parola va difeso: cosa che non accade. Non sputano bugie come quelle dette, solo per insultare, sul fondatore della religione musulmana.
La libertà d’opinione professata in democrazia diventa una questione nostra
— interpella innanzitutto noi occidentali, dice qualcosa su di noi — quando si trasforma in forza sovranamente indifferente alle conseguenze di quel che viene detto, ignara del rapporto fra parola e azione, negatrice della propria responsabilità. Quest’ultima non ha come scudo leggi egualmente cogenti, e articoli inviolabili delle costituzioni liberali. La responsabilità per le conseguenze di quel che diciamo o scriviamo o filmiamo non è egualmente protetta. È l’uomo pensante che mette insieme quel che l’istinto bruto disgiunge: la libertà e la responsabilità, il diritto di dire qualsiasi cosa capiti e il dovere di non sprezzare e declassare persone e religioni diverse. Un dovere che nelle società liberali abbiamo comunque, con o senza reciprocità.
Gli autori del video non sentivano questo dovere pensante, erano solo sicuri della propria libertà e delle leggi che la tutelano. Che importa se dico che Muhammed era un pedofilo, o quant’altro? Importa invece molto, come Max Weber insegna a proposito della vocazione dell’intellettuale e del politico: chi esercita tali professioni deve saper combinare l’etica delle convinzioni e quella della responsabilità, senza far prevalere l’una sull’altra e sapendo che l’equilibrio fra le due è fragile e sempre scabroso.
La libertà senza confini pensa di essere puro convincimento, e per questo la sua energia desta spesso ammirazione. Ma quando viene meno la responsabilità anche la convinzione vacilla, perde la purezza cui pretende: diventa non solo irresponsabile, ma falsificatrice della realtà. È quel che viene da dire sulle convinzioni dello scrittore Millet. Il suo libro, che sta dividendo i francesi, contiene una riflessione sull’attentato di Breivik nell’isola norvegese di Utoya, il 22 luglio 2011 (69 morti, più otto uccisi a Oslo). La convinzione di Millet è la seguente: Breivik è «il segno disperato, e disperante, del fatto che l’Europa ha sottostimato le devastazioni del multiculturalismo, e segnala anche la disfatta dello spirituale a vantaggio del denaro ». I giovani uccisi nel meeting socialdemocratico incarnano un’Europa «uscita dalla Storia», perché islamizzata e contrassegnata dalla «conversione dell’individuo in piccoloborghese meticciato, mondializzato, incolto e socialdemocratico — ossia la tipologia delle persone uccise da Breivik ».
Contrariamente a Millet, non credo che l’eccidio di Utoya sia una catastrofe perché gli europei sono affetti dalle malattie elencate nel libro (più precisamente, nel brano che ha per titolo «Elogio letterario di Anders Breivik », apparso sul Foglio il 30 agosto): malattie cui l’autore dà il nome di nichilismo multiculturale, perdita di identità, islamizzazione, denatalità, irenica fraternità. Quel che è stato veramente tragico a Utoya, è più semplice e quasi indicibile. Perché i ragazzi presenti nella riunione socialdemocratica non hanno organizzato una difesa, a Utoya? Perché non hanno escogitato espedienti, gettando sassi o tendendo tranelli, per limitare la furia di Breivik? Come mai sono andati come agnelli al macello? Alcuni di loro hanno reagito: tre adolescenti ceceni, abituati a una vita di guerriglia, hanno salvato ventitré ragazzi, prima gettando pietre poi nascondendoli in una grotta, e in Norvegia sono ricordati come eroi. Anche le vittime hanno responsabilità: questo è quasi indicibile. Il tremendo è che a volte, perché imprigionati o minacciati, hanno solo quella. Ecco un’altra
questione nostra.
Ma è diversa da quella di Millet o dei video anti-musulmani.
Lasciamo stare le false citazioni di Voltaire, quando parliamo di tolleranza. Voltaire non ha detto che bisogna esser tolleranti con gli intolleranti. Limitiamoci a constatare che la scelta è tragica (ci sono perle incomparabili nei pamphlet più antisemiti di Céline, non ve ne sono, pare, nel libro di Millet e tanto meno nei video contro il Corano) e che la frontiera tra libertà e responsabilità è un’esilissima linea. Ma una risposta dobbiamo cercarla, in noi stessi, se davanti alla violenza non vogliamo divenire sordomuti senza speranza.

La Repubblica 14.09.12

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“IL TEMPO LUNGO DELLE PRIMAVERE”, di BERNARDO VALLI

È lì che ho saputo della morte dell’ambasciatore americano a Bengasi. Me l’ha comunicato il giornale attraverso il cellulare. Ho subito dato la notizia ai miei interlocutori, una ventina di guerriglieri appartenenti al «Battaglione dell’Unità nazionale », uno dei tanti gruppi in guerra contro il regime di Bashar el Assad. Il pezzo di Siria che quei ribelli, attendati in un bosco, hanno finora “liberato” in più di un anno, come dicono, non deve superare qualche chilometro quadrato, a giudicare dalla vicinanza delle postazioni dei soldati lealisti che potevo vedere a occhio nudo.
Alla notizia hanno subito reagito con una domanda: «Perché proprio l’ambasciatore americano?». Non li stupiva tanto che fosse stato ucciso un ambasciatore ma che fosse quello americano. «Perché ce l’avevano con lui se l’America è contro Assad? ». Saputo del film offensivo per i musulmani, che sarebbe servito come pretesto, hanno voluto che specificassi se l’aveva fatto proprio lui, l’ambasciatore, insieme agli altri diplomatici ammazzati. Chiarito che era stato ucciso benché non ne fosse l’autore, ma perché rappresentava gli Stati Uniti dove l’opera blasfema è stata girata, si è accesa una breve discussione. Quello che era forse il capo, un barbuto dallo sguardo dolce, ha sostenuto che l’ambasciatore, a suo parere, non c’entrava. Mica era stato lui a offendere Maometto e l’Islam. Il più anziano della banda, con una bella faccia severa, e pure lui barbuto, ha invece suggerito di consultare il Corano. Sapendo che appartenevano a un’unità nazionalista, non salafita, e ancor meno jiadhista, ho chiesto se pensassero che la sharia dovesse essere la legge nella futura Siria liberata. C’è stata un’altra discussione dalla quale è uscito un verdetto: «Perché no? Non siamo musulmani?». Allora volete una repubblica democratica ma anche islamica, regolata dalla sharia, alla quale saranno sottoposti anche i cristiani e i laici? La parola “laici” li ha confusi. L’interrogativo li ha lasciati perplessi.
Quel che è importante per loro, questo è chiaro, è abbattere il raìs. Poi si vedrà. Il resto è nebbioso. Per ora, non solo nella stretta valle di Astra, ma dall’Atlantico al Mar Rosso, imperversa un ciclone di idee. Non pretendo di far passare la mia piccola esperienza nel bosco siriano come un esempio assoluto dello stato d’animo nel mondo arabo. Ma come in Siria, dove la “primavera” è degenerata in una interminabile guerra civile, anche nei paesi dove la transizione è meno violenta regna un grande caos ideologico. E di questo caos, che non è un’intrinseca intolleranza, approfittano facilmente gruppi di estremisti. Lontani affiliati o imitatori di Al Qaeda. Ce ne sono ovunque che possono essere catalogati così, a Tunisi, al Cairo, a Sanaa, a Damasco, ad Aleppo, a Bengasi. Non sono molti, ma si muovono in società vulnerabili, dove la religione è un’identità collettiva. Dove non c’è stata la bonifica illuminista. Ci vorrà del tempo per riassorbire il veleno. Le “primavere”, più o meno sfiorite, appassite, agitate, tuttavia sopravvivono. Sia pure sbatacchiate da ondate islamiche e a tratti agonizzanti. Conoscono anche forti sussulti di dignità dopo la vergogna. Nella colpevole Libia, non certo esempio d’ordine e di saggezza, la folla ha sfilato chiedendo scusa per l’uccisione di un americano amico, quale era l’ambasciatore Stevens. Anche le nostre democrazie hanno chiesto tempo. Viviamo un’epoca dominata dalla velocità, ma le idee non maturano con la rapidità di Internet. La loro lentezza è esasperante perché intanto cola il
sangue a Bengasi e ad Aleppo.
Sulle piazze delle insurrezioni all’inizio non c’erano tracce di antiamericanismo. Neppure in piazza Tahrir. Neppure sul litorale libico. Neppure in viale Burghiba. Ed era un’assenza sorprendente, perché era un sentimento diffuso. L’avvento di Barack Obama alla Casa Bianca, e in particolare il suo discorso del giugno 2009 al Cairo, quando tese la mano al mondo arabo, avevano attenuato i pregiudizi nei confronti della superpotenza. E poi ci fu il sostegno della Casa Bianca alle insurrezioni contro i rais. Al tempo stesso c’è stata però, una profonda delusione per l’evidente incapacità dell’amministrazione Obama di sbloccare il problema israelo – palestinese. La dichiarata illegittimità delle colonie nei Territori ha fatto spuntare molte speranze tra i palestinesi, negli arabi in generale, e ha ferito la fiducia israeliana nel grande alleato. E poiché non è poi accaduto nulla di nuovo la speranza dei primi è diventata rancore, e la ferita dei secondi non si è cicatrizzata. Anzi si è approfondita.
Insomma l’impegno iniziale di Obama in Medio Oriente, tanto carico di promesse, ha dato scarsi frutti. Quelli raccolti si sono dispersi per strada. Le morti di Bengasi non hanno certo migliorato la situazione. Hanno inevitabilmente ridotto il raggio d’azione degli Stati Uniti. La dichiarata decisione di non intervenire in Siria non potrà subire variazioni, se mai ci fossero programmi segreti. Gli americani dovranno anzitutto imporsi per ottenere la giustizia cui hanno diritto, anche perché non sia intaccata la loro autorità di potenza; ma al tempo stesso dovranno adottare misure di sicurezza eccezionali, quindi difensive, per le loro rappresentanze diplomatiche e i loro cittadini. E questo non giova all’immagine della superpotenza costretta a erigere cortine di sicurezza attorno a sé. Il caos ideologico arabo può sprigionare reazioni imprevedibili.
A poche settimane dall’elezione di novembre, Barak Obama ha visto entrare in crisi, più o meno profonde, i rapporti con quelli che erano considerati i principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente. Israele lo è ancora, ma il primo ministro, Benjamin Netanyahu, parteggia apertamente per il candidato repubblicano alla Casa Bianca. Tra l’altro molto più ben disposto a partecipare all’operazione auspicata da Netanyahu contro i siti nucleari iraniani, di quanto non lo sia il più che riluttante Obama. Ma l’ultimo colpo il presidente uscente l’ha ricevuto dall’Egitto, al quale l’America garantisce dal 1979 un aiuto economico secondo soltanto a quello riservato a Israele. Non a caso, con la piccola Giordania, il grande Egitto è il paese che ha rapporti diplomatici con Israele, appunto dal 1979. Benché l’abbia definito «né alleato, né nemico», il regime del Cairo è uno dei punti chiave della politica americana in Medio Oriente. Anche per questo, dopo essere stati da sempre demonizzati, i Fratelli Musulmani, sia pur rinsaviti, sono diventati validi interlocutori della Casa Bianca, appena si è prospettata la loro ascesa al potere. Mohammed Morsi, il loro presidente, è tuttavia andato in Cina e poi a Teheran prima di andare a Washington. E nelle ore drammatiche in cui si misurano le amicizie, quando Obama gli ha telefonato per chiedergli di proteggere con maggior energia l’ambasciata del Cairo presa d’assalto, Morsi avrebbe risposto che l’avrebbe fatto, ma che anche lui, Obama, doveva tenere a bada chi negli Stati Uniti insulta Maometto e l’Islam. Ha poi dichiarato che lui appoggiava comunque le manifestazioni pacifiche contro i blasfematori. Non erano in effetti le
condoglianze di un alleato.

La Repubblica 14.09.12

"Tra libertà e responsabilità", di Barbara Spinelli

Ancora una volta, come l’11 settembre 2001, il volto stupefatto dell’America s’è accampato davanti ai nostri occhi. L’ambasciatore Christopher Stevens era appena stato ucciso, e Hillary Clinton non si capacitava.
«Perché è potuto succedere tutto questo? Perché in un paese, la Libia, che abbiamo aiutato a liberare? In una città, Bengasi, che abbiamo salvato dalla distruzione?» Dall’attentato alle Torri sono passati undici anni, e l’angoscia resta muta, quasi l’occhio non vedesse che orrore e buio.
Ancora una volta si risponde con le armi o con i droni, ma la parola è lenta a venire. Ieri Hillary Clinton ha denunciato il video anti-Islam, ma l’attonimento iniziale è significativo. L’occidente lancia al mondo la sua domanda — Perché non ci amate? — e mai fornisce una risposta, mai lo sguardo smette d’appannarsi, disperatamente miope. Il male è nero, e il nero non è dicibile. C’è il rischio di giustificarlo, se provi a vederlo, a capirlo. C’è il rischio di sovvertire il bene di cui ti credi l’artefice: le rivoluzioni arabe, le primavere democratiche, la guerra senza screzi in Libia. Il dilemma è comprensibile: se fai «parlare» il male, gli dai diritto di parola e di esistenza.
Invece bisogna capirlo, il nemico: e studiarlo, osservarlo, anche quando lo combatti, proprio se lo vuoi combattere. È evidente che il video sul Corano è un pretesto, che dopo l’uccisione di Bin Laden si voleva punire l’America, nell’anniversario dell’11 settembre, e scommettere sul peggio: la disfatta elettorale di Obama. Cercare di capire è tutt’altra cosa che giustificare, e non è nemmeno restare neutrali. Nella sua Teoria del Partigiano, Carl Schmitt scrive una cosa su cui vale la pena riflettere, in questi giorni d’ira contro il filmato trasmesso da organizzazioni vicine a Terry Jones, il reverendo che invoca i roghi del Corano: «Il nemico è la forma che assume la nostra questione ». Conoscerlo e misurarlo significa conoscere se stessi, la «questione su chi siamo».
Un video distruttore della figura di Maometto ha scatenato in vari paesi musulmani la furia di piccoli ma bene armati gruppi di estremisti. Furia divenuta sanguinaria, a Bengasi: non stupisce che abbia colpito un giusto, un ambasciatore che il Corano lo conosceva e lo rispettava. Anche i morti nel crollo delle Torri, nel 2001, erano innocenti — a loro modo giusti — delle malvagie politiche attribuite ai governi americani. Ma se vogliamo analizzare quello che chiamiamo nemico, e non ripetere sempre la stessa intontita domanda davanti alle telecamere, dobbiamo tentare qualche risposta, e cominciare a formulare quel che la violenza in Libia, Egitto, Yemen dice su di noi, sulle nostre illusioni, sulla «nostra questione».
La nostra questione è la forza prima infamante e infine incendiaria che può emanare da un video diffuso mondialmente su YouTube. Può emanare anche da vignette anti-islamiche, come si è visto in Danimarca nel 2005, o più recentemente da un libro, come quello scritto da Richard Millet in Francia
(Langue fantôme — Lingua fantasma, Gallimard). Questa forza di offendere ha un nome sacro, sancito dalle leggi liberali e specialmente inviolabile nella cultura politica statunitense: si chiama libertà di opinione, di espressione, di pubblicazione. È una libertà che non ammette limiti, che si fa forte dello spirito di tolleranza, che si inventa un Voltaire permissivo che non è mai esistito (non è sua la frase «Disapprovo quel che dite, ma lotterò fino alla morte perché possiate dirlo»). Voltaire difese dalla censura dei benpensanti testi e autori che esecrava: bisognava tuttavia che i testi contenessero qualcosa che per lui era una «verità, anche se triviale». Wikileaks e Assange per esempio portano alla luce fatti veri, e il loro diritto di parola va difeso: cosa che non accade. Non sputano bugie come quelle dette, solo per insultare, sul fondatore della religione musulmana.
La libertà d’opinione professata in democrazia diventa una questione nostra
— interpella innanzitutto noi occidentali, dice qualcosa su di noi — quando si trasforma in forza sovranamente indifferente alle conseguenze di quel che viene detto, ignara del rapporto fra parola e azione, negatrice della propria responsabilità. Quest’ultima non ha come scudo leggi egualmente cogenti, e articoli inviolabili delle costituzioni liberali. La responsabilità per le conseguenze di quel che diciamo o scriviamo o filmiamo non è egualmente protetta. È l’uomo pensante che mette insieme quel che l’istinto bruto disgiunge: la libertà e la responsabilità, il diritto di dire qualsiasi cosa capiti e il dovere di non sprezzare e declassare persone e religioni diverse. Un dovere che nelle società liberali abbiamo comunque, con o senza reciprocità.
Gli autori del video non sentivano questo dovere pensante, erano solo sicuri della propria libertà e delle leggi che la tutelano. Che importa se dico che Muhammed era un pedofilo, o quant’altro? Importa invece molto, come Max Weber insegna a proposito della vocazione dell’intellettuale e del politico: chi esercita tali professioni deve saper combinare l’etica delle convinzioni e quella della responsabilità, senza far prevalere l’una sull’altra e sapendo che l’equilibrio fra le due è fragile e sempre scabroso.
La libertà senza confini pensa di essere puro convincimento, e per questo la sua energia desta spesso ammirazione. Ma quando viene meno la responsabilità anche la convinzione vacilla, perde la purezza cui pretende: diventa non solo irresponsabile, ma falsificatrice della realtà. È quel che viene da dire sulle convinzioni dello scrittore Millet. Il suo libro, che sta dividendo i francesi, contiene una riflessione sull’attentato di Breivik nell’isola norvegese di Utoya, il 22 luglio 2011 (69 morti, più otto uccisi a Oslo). La convinzione di Millet è la seguente: Breivik è «il segno disperato, e disperante, del fatto che l’Europa ha sottostimato le devastazioni del multiculturalismo, e segnala anche la disfatta dello spirituale a vantaggio del denaro ». I giovani uccisi nel meeting socialdemocratico incarnano un’Europa «uscita dalla Storia», perché islamizzata e contrassegnata dalla «conversione dell’individuo in piccoloborghese meticciato, mondializzato, incolto e socialdemocratico — ossia la tipologia delle persone uccise da Breivik ».
Contrariamente a Millet, non credo che l’eccidio di Utoya sia una catastrofe perché gli europei sono affetti dalle malattie elencate nel libro (più precisamente, nel brano che ha per titolo «Elogio letterario di Anders Breivik », apparso sul Foglio il 30 agosto): malattie cui l’autore dà il nome di nichilismo multiculturale, perdita di identità, islamizzazione, denatalità, irenica fraternità. Quel che è stato veramente tragico a Utoya, è più semplice e quasi indicibile. Perché i ragazzi presenti nella riunione socialdemocratica non hanno organizzato una difesa, a Utoya? Perché non hanno escogitato espedienti, gettando sassi o tendendo tranelli, per limitare la furia di Breivik? Come mai sono andati come agnelli al macello? Alcuni di loro hanno reagito: tre adolescenti ceceni, abituati a una vita di guerriglia, hanno salvato ventitré ragazzi, prima gettando pietre poi nascondendoli in una grotta, e in Norvegia sono ricordati come eroi. Anche le vittime hanno responsabilità: questo è quasi indicibile. Il tremendo è che a volte, perché imprigionati o minacciati, hanno solo quella. Ecco un’altra
questione nostra.
Ma è diversa da quella di Millet o dei video anti-musulmani.
Lasciamo stare le false citazioni di Voltaire, quando parliamo di tolleranza. Voltaire non ha detto che bisogna esser tolleranti con gli intolleranti. Limitiamoci a constatare che la scelta è tragica (ci sono perle incomparabili nei pamphlet più antisemiti di Céline, non ve ne sono, pare, nel libro di Millet e tanto meno nei video contro il Corano) e che la frontiera tra libertà e responsabilità è un’esilissima linea. Ma una risposta dobbiamo cercarla, in noi stessi, se davanti alla violenza non vogliamo divenire sordomuti senza speranza.
La Repubblica 14.09.12
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“IL TEMPO LUNGO DELLE PRIMAVERE”, di BERNARDO VALLI
È lì che ho saputo della morte dell’ambasciatore americano a Bengasi. Me l’ha comunicato il giornale attraverso il cellulare. Ho subito dato la notizia ai miei interlocutori, una ventina di guerriglieri appartenenti al «Battaglione dell’Unità nazionale », uno dei tanti gruppi in guerra contro il regime di Bashar el Assad. Il pezzo di Siria che quei ribelli, attendati in un bosco, hanno finora “liberato” in più di un anno, come dicono, non deve superare qualche chilometro quadrato, a giudicare dalla vicinanza delle postazioni dei soldati lealisti che potevo vedere a occhio nudo.
Alla notizia hanno subito reagito con una domanda: «Perché proprio l’ambasciatore americano?». Non li stupiva tanto che fosse stato ucciso un ambasciatore ma che fosse quello americano. «Perché ce l’avevano con lui se l’America è contro Assad? ». Saputo del film offensivo per i musulmani, che sarebbe servito come pretesto, hanno voluto che specificassi se l’aveva fatto proprio lui, l’ambasciatore, insieme agli altri diplomatici ammazzati. Chiarito che era stato ucciso benché non ne fosse l’autore, ma perché rappresentava gli Stati Uniti dove l’opera blasfema è stata girata, si è accesa una breve discussione. Quello che era forse il capo, un barbuto dallo sguardo dolce, ha sostenuto che l’ambasciatore, a suo parere, non c’entrava. Mica era stato lui a offendere Maometto e l’Islam. Il più anziano della banda, con una bella faccia severa, e pure lui barbuto, ha invece suggerito di consultare il Corano. Sapendo che appartenevano a un’unità nazionalista, non salafita, e ancor meno jiadhista, ho chiesto se pensassero che la sharia dovesse essere la legge nella futura Siria liberata. C’è stata un’altra discussione dalla quale è uscito un verdetto: «Perché no? Non siamo musulmani?». Allora volete una repubblica democratica ma anche islamica, regolata dalla sharia, alla quale saranno sottoposti anche i cristiani e i laici? La parola “laici” li ha confusi. L’interrogativo li ha lasciati perplessi.
Quel che è importante per loro, questo è chiaro, è abbattere il raìs. Poi si vedrà. Il resto è nebbioso. Per ora, non solo nella stretta valle di Astra, ma dall’Atlantico al Mar Rosso, imperversa un ciclone di idee. Non pretendo di far passare la mia piccola esperienza nel bosco siriano come un esempio assoluto dello stato d’animo nel mondo arabo. Ma come in Siria, dove la “primavera” è degenerata in una interminabile guerra civile, anche nei paesi dove la transizione è meno violenta regna un grande caos ideologico. E di questo caos, che non è un’intrinseca intolleranza, approfittano facilmente gruppi di estremisti. Lontani affiliati o imitatori di Al Qaeda. Ce ne sono ovunque che possono essere catalogati così, a Tunisi, al Cairo, a Sanaa, a Damasco, ad Aleppo, a Bengasi. Non sono molti, ma si muovono in società vulnerabili, dove la religione è un’identità collettiva. Dove non c’è stata la bonifica illuminista. Ci vorrà del tempo per riassorbire il veleno. Le “primavere”, più o meno sfiorite, appassite, agitate, tuttavia sopravvivono. Sia pure sbatacchiate da ondate islamiche e a tratti agonizzanti. Conoscono anche forti sussulti di dignità dopo la vergogna. Nella colpevole Libia, non certo esempio d’ordine e di saggezza, la folla ha sfilato chiedendo scusa per l’uccisione di un americano amico, quale era l’ambasciatore Stevens. Anche le nostre democrazie hanno chiesto tempo. Viviamo un’epoca dominata dalla velocità, ma le idee non maturano con la rapidità di Internet. La loro lentezza è esasperante perché intanto cola il
sangue a Bengasi e ad Aleppo.
Sulle piazze delle insurrezioni all’inizio non c’erano tracce di antiamericanismo. Neppure in piazza Tahrir. Neppure sul litorale libico. Neppure in viale Burghiba. Ed era un’assenza sorprendente, perché era un sentimento diffuso. L’avvento di Barack Obama alla Casa Bianca, e in particolare il suo discorso del giugno 2009 al Cairo, quando tese la mano al mondo arabo, avevano attenuato i pregiudizi nei confronti della superpotenza. E poi ci fu il sostegno della Casa Bianca alle insurrezioni contro i rais. Al tempo stesso c’è stata però, una profonda delusione per l’evidente incapacità dell’amministrazione Obama di sbloccare il problema israelo – palestinese. La dichiarata illegittimità delle colonie nei Territori ha fatto spuntare molte speranze tra i palestinesi, negli arabi in generale, e ha ferito la fiducia israeliana nel grande alleato. E poiché non è poi accaduto nulla di nuovo la speranza dei primi è diventata rancore, e la ferita dei secondi non si è cicatrizzata. Anzi si è approfondita.
Insomma l’impegno iniziale di Obama in Medio Oriente, tanto carico di promesse, ha dato scarsi frutti. Quelli raccolti si sono dispersi per strada. Le morti di Bengasi non hanno certo migliorato la situazione. Hanno inevitabilmente ridotto il raggio d’azione degli Stati Uniti. La dichiarata decisione di non intervenire in Siria non potrà subire variazioni, se mai ci fossero programmi segreti. Gli americani dovranno anzitutto imporsi per ottenere la giustizia cui hanno diritto, anche perché non sia intaccata la loro autorità di potenza; ma al tempo stesso dovranno adottare misure di sicurezza eccezionali, quindi difensive, per le loro rappresentanze diplomatiche e i loro cittadini. E questo non giova all’immagine della superpotenza costretta a erigere cortine di sicurezza attorno a sé. Il caos ideologico arabo può sprigionare reazioni imprevedibili.
A poche settimane dall’elezione di novembre, Barak Obama ha visto entrare in crisi, più o meno profonde, i rapporti con quelli che erano considerati i principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente. Israele lo è ancora, ma il primo ministro, Benjamin Netanyahu, parteggia apertamente per il candidato repubblicano alla Casa Bianca. Tra l’altro molto più ben disposto a partecipare all’operazione auspicata da Netanyahu contro i siti nucleari iraniani, di quanto non lo sia il più che riluttante Obama. Ma l’ultimo colpo il presidente uscente l’ha ricevuto dall’Egitto, al quale l’America garantisce dal 1979 un aiuto economico secondo soltanto a quello riservato a Israele. Non a caso, con la piccola Giordania, il grande Egitto è il paese che ha rapporti diplomatici con Israele, appunto dal 1979. Benché l’abbia definito «né alleato, né nemico», il regime del Cairo è uno dei punti chiave della politica americana in Medio Oriente. Anche per questo, dopo essere stati da sempre demonizzati, i Fratelli Musulmani, sia pur rinsaviti, sono diventati validi interlocutori della Casa Bianca, appena si è prospettata la loro ascesa al potere. Mohammed Morsi, il loro presidente, è tuttavia andato in Cina e poi a Teheran prima di andare a Washington. E nelle ore drammatiche in cui si misurano le amicizie, quando Obama gli ha telefonato per chiedergli di proteggere con maggior energia l’ambasciata del Cairo presa d’assalto, Morsi avrebbe risposto che l’avrebbe fatto, ma che anche lui, Obama, doveva tenere a bada chi negli Stati Uniti insulta Maometto e l’Islam. Ha poi dichiarato che lui appoggiava comunque le manifestazioni pacifiche contro i blasfematori. Non erano in effetti le
condoglianze di un alleato.
La Repubblica 14.09.12

"Opporsi alla deriva", di Antonio Valentino

Ha ragione Tiriticco. L’avvio di quest’anno scolastico si prospetta come uno tra i più travagliati di questi ultimi anni, che pure sono stati segnati da gravissimi problemi e da difficoltà enormi. La deriva di cui parla Tiriticco nella sua ultima riflessione è ormai sotto gli occhi di tutti.
Non sto a parlare di questo pasticcio del concorsone che ha gettato nel panico i tanti insegnanti titolati – ma in una situazione di precarietà – che si sono fatte le ossa in questi anni difficili e in molti casi hanno assecondato progetti di innovazione e buon funzionamento nelle nostre scuole. Né della vergogna degli ultimi concorsi gestiti con superficialità e pressappochismo, né del disastro delle reggenze che continua e si aggrava paurosamente anche quest’anno o delle questioni irrisolte del dimensionamento.

Quest’anno per gli istituti superiori comincia la riforma del triennio: nuove linee guida per i curricoli, più centrate indicazioni metodologiche su competenze, laborialità, comitati tecnico-scientifici aperti al contributo di figure territoriali della cultura, del lavoro, dell’amministrazione pubblica.

Se chiedete in giro, anche agli insegnanti più attenti e forse anche a qualche dirigente, la risposta che vi arriva è che “ sì, se ne è parlato forse in qualche collegio. Ma non siamo in grado di partire perché non siamo preparati”.

Entrano anche in vigore le Nuove Indicazioni per il primo ciclo. Ma non si sente parlare di corsi di aggiornamento e formazione.

Di fronte a questo stato di cose (e c’è dell’altro, come richiama Tiriticco), credo che siano in tanti quelli che nelle nostre scuole cominciano a non poterne più di questo stato di cose che non li fa vivere bene e che alimenta delusione e frustrazione.

Ci rendiamo sempre più conto che il Ministero, anche nelle sue articolazioni territoriali, non è in grado di lavorare alle condizioni soltanto minime per assicurare fattibilità alle riforme che, disattese ormai per quanto riguarda gli aspetti innovativi, si stanno rivelando, almeno per le scuole del secondo ciclo, per quello che una classe politica miope e senza visione aveva forse messo nel conto come il vero obiettivo: tagliare risorse linearmente e ferocemente, vendendo tagli i indiscriminati e spesso insensati come misure per risparmi doverosi e necessari.

Si sono mostrati soggetti finora inconcludenti anche le Regioni e gli Enti Locali (le eccezioni, anche in questi caso, confermano la regola). Per non parlare delle Università. Le ragioni possono essere molteplici. Comunque è mancata la volontà politica di farsi carico dei problemi e avviarli a soluzione, per quanto di competenza.

Nessun progetto, nessuna volontà evidente di pensare alla scuola come risorsa per la cittadinanza e lo sviluppo. Una ignavia diffusa e spesso disperante. Per quanto non manchino singole situazioni, come ho incidentalmente annotato, che stanno invece a dimostrare che una ripartenza è possibile.

Comunque …

Va comunque detto che la scuola è, nonostante tutto, una delle istituzioni che, almeno nella percezione dei più, ha ancora credito. Questo ci dicono inchieste anche recenti.

E questo grazie soprattutto – è facile riconoscerlo – a insegnanti e dirigenti (non tantissimi, ma comunque ce n’è) che, all’interno delle singole scuole, con generosità e competenza lasciano aperta la speranza per una risalita.

Continuo a pensare che sono proprio nelle scuole le risorse più importanti e su cui far leva per arginare una condizione sempre più pesante, e lanciare messaggi del rinnovamento possibile.

Va aggiunto che altri soggetti, in questa fase, fanno sentire la propria voce, non solo per denunciare, ma anche per costruire. Penso a una risorsa che ha ben funzionato negli ultimi anni: quella delle Associazioni professionali e non (penso alle Associazioni dei Genitori), legate al mondo della scuola.

Anche i siti ‘scolastici’ telematici sono stati in questi anni strumenti importanti di sviluppo della consapevolezza e di socializzazione di esperienze innovative.

Creare movimento per la ricostruzione, puntando sul protagonismo delle scuole

– meglio: di quanti, nelle scuole, e non sono pochi, e purtroppo neanche tanti, lavorano con passione e professionalità, al di là dei loro doveri professionali, per il buon funzionamento del loro Istituto, cercando di coinvolgere anche gli altri): è questa forse la parola d’ordine su cui, in questa fase, sviluppare impegno e progetti e recuperare credibilità. Anche correndo il rischio di sentirsi tacciare di essere fuori dalla realtà.

Ovviamente questo impegno, vissuto con la consapevolezza della posta in gioco, non può significare rinuncia alle opportune rivendicazioni, perché si inverta nella politica e nelle scelte governative lo sfacelo dell’attuale situazione. Il messaggio dovrebbe essere quello che la scuola non può accettare una situazione che degrada un servizio pubblico fondamentale. E per contrastare tale situazione rilancia obiettivi di rinnovamento e miglioramento.

Qualche esemplificazione per provarci

Urgenze e sollecitazioni – da mettere al centro di questo più consapevole impegno e tra le quali selezionare – sono tante e qualificanti, come ben sanno docenti e dirigenti. A partire dagli stessi provvedimenti e regolamenti normativi recenti, che, se continuasse questo stato di cose, continuerebbero a restare lettera morta.

E così, dare il giusto rilievo alle Linee guida (LG), che da quest’anno cominceranno a interessare anche il triennio degli Istituti Tecnici e Professionali, potrebbe permettere di recuperare un’ottica nuova che per molti può significare un modo diverso di approcciare l’insegnamento disciplinare.

E non tanto per l’elenco, in ciascuna scheda delle LG, degli argomenti disciplinari (da assumere comunque, credo, come trama concettuale nella quale i vari argomenti avranno peso e collocazione diversi in rapporto alle finalità che si tenderà a privilegiare e alla tipologia di studenti), ma anche per le correlazioni con saperi e competenze con altre discipline della stessa area che si vorranno programmare all’interno di progetti comuni di corso o di classi parallele.

Un discorso analogo penso si possa fare con le Indicazioni Nazionali per il primo ciclo.

D’altra parte, parlare di una didattica per competenze obbliga in qualche modo a fare i conti anche con le metodologie di insegnamento in cui si intrecciano operatività e riflessività e con l’idea di laboratorio come spazio dell’apprendere in autonomia, guidata attraverso il fare .

Che dire inoltre della necessità di mettere definitivamente in crisi il modello che fa dell’insegnamento frontale e trasmissivo la modalità più largamente diffusa nelle nostre aule – e finanche nei laboratori -? Potrebbe ben essere questa una parola d’ordine quasi rivoluzionaria, se ad essa si legassero pratiche sperimentali tendenzialmente cooperative.

Altro terreno di impegno non più rinviabile (ovviamente lo si dice da sempre): la valutazione degli apprendimenti; certamente fondamentale se venisse assunto – come dovrebbe essere – come strumento per conoscere, stimolare, gratificare; e perdesse definitivamente la natura, ancora prevalente, di strumento di potere e sanzionatorio che mal si concilia con la formatività del fare scuola. E se, con riferimento al discorso delle competenze, si puntasse sulla centratura non tanto su quello che si sa, quanto, piuttosto, su quello che si sa fare con quello che si sa.

E ancora: dare dignità all’operazione di certificazione delle competenze che ora fa acqua da tutte le parti: il riferimento è a quella di fine primo ciclo e del primo biennio; ma, sensatamente, la questione va riproposta anche per la conclusione degli studi del secondo ciclo.

Infine (si fa per dire): a due anni dall’entrata in vigore del decreto attuativo del rioridino, le sperimentazioni del CTS (in prima battuta come luoghi dell’autonalisi e/o di autovalutazione di Istituto e di collaborazioni, ove possibile, con il territorio) e dei Dipartimenti (come spazio di recupero di un sapere tendenzialmente unitario) non sarebbe il caso che diventino meno episodiche e più diffuse?

Anche senza voler ‘strafare’ (anche qui si fa per dire), un uso intelligente e pieno delle 80 ore previste dal Contratto di categoria, potrebbe – anch’esso – rappresentare uno strumento utile per rilanciare la ricerca e l’autoformazione nelle varie articolazione del collegio, per pensare e progettare sperimentazioni in un’ottica sana di autonomia, per aprirsi ad altre esperienze e stimoli (Di autoreferenzialità si muore).

Esemplificazioni così, a caldo.

L’importante è comunque – credo – rimettersi in moto e ridarsi fiducia per dare fiducia a studenti e famiglie; e non solo.

Segnalo qui l’utile contributo al riguardo di Stefano Stefanel (“Un orizzonte possibile”) del maggio scorso che, su questa stessa rivista, prospetta e argomenta su terreni di impegno possibile, con l’obiettivo di ridare senso e dignità al lavoro nelle scuole e chance per un futuro meno rassegnato e grigio.

Ma altri stimoli vengono, come già detto, anche dalle diverse riviste telematiche (penso soprattutto a quella dell’ADI o a Education 2.0, se non altro per la ricchezza dei contributi proposti) che sono fiorite in questi anni.

La rassegnazione non paga

Una seconda parola d’ordine da declinare con maggiore frequenza è che “non si parte mai da zero” e che la valorizzaione delle esperienze pregresse è linfa straordinaria per pensare ad un futuro meno ingarbugliato e più soddisfacente.

Rassegnarsi alla deriva – mettiamola così – non è neanche conveniente; se non altro perché ci rende tutti più rassegnati o frustrati.

Certamente per tutto questo occorrerebbe una regia o più regie coordinate e democratiche.

Penso comunque che i DS dovrebbero, in questa fase, porsi come soggetti motore in possibili azioni di promozione e coinvolgimento, a partire dalle proprie scuole.

Come pure andrebbero consolidate e socializzate esperienze di coordinamento e promozione di quegli enti locali che si sono spesi su questi terreni.

Su tali questione appare urgente anche una riflessione su quale funzione, oggi, debba ricoprire il sindacalismo confederale, che mi piace sempre pensare come soggetto imprescindibile per un discorso sul rinnovamento della scuola in questa fase. Solo che ci fossero più coraggio e meno contraddizioni. O no?

Comunque, darsi – dovunque è possibile e come è possibile – un progetto per una ripartenza sensata, è una idea che la scuola militante e l’universo interessato che gli sta intorno non possono continuare a rinviare ad altra stagione. La stagione è questa. Diversamente non si parte mai. E continueremmo a macerarci nelle nostre rabbie e insoddisfazioni.

E saremmo punto e a capo. Saremmo.

da scuolaoggi.org

******

“Cari amici! Una riflessione a tutto campo!”, di Maurizio Tiriticco

Confesso che ho difficoltà a seguire le tappe di questa deriva, che si succedono giorno dopo giorno. Lo spappolamento progressivo è così veloce e inarrestabile che – vi assicuro – rimango basito! Come quei poveretti che nelle sale macchine del Titanic tentavano invano di tappare le falle che si aprivano una dopo l’altra! E ciò che mi addolora è anche il fatto che i “poveri” insegnanti, costretti a seguire il particulare, purtroppo, non hanno né forza né voglia né tempo di dare un’occhiata, almeno, all’universale. So anche di questi “esami di riparazione” – tutti li chiamano così – anche se non dovrebbero esserlo. In talune scuole non si riparano materie, ma parti soltanto: nella “contrattazione” docente/alunno si decide che in un pezzo di materia che riguarda il primo quadrimestre c’era la sufficienza, per cui “si porta” a settembre solo il secondo pezzo! Oppure: si deve riparare solo l’orale e non lo scritto, o viceversa! Studenti e genitori ormai contrattano con i prof promozioni, recuperi, voti! Altrimenti c’è il ricorso! Altro che sperequazioni! L’esito è che produrremo solo somari!!! E poi c’è un Miur che ha la faccia tosta di dire che tonnellate di item sono errati, che pubblica pure i nomi dei responsabili, e nessuno chiede scusa… nessuno è preso a pedate… tutto va ben madama la marchesa! Fino a qualche tempo fa il fronte di combattimento era più articolato: i punti deboli erano quelli, ma le retrovie ancora reggevano! Che bei tempi – solo qualche anno fa – quando il fronte era segnato dalle “formichine” delle prove Invalsi per i bambini della primaria!!! Ora mi sembra una Caporetto e tutto puzza – o profuma – di sonora sconfitta! Ci sarà una linea del Piave? Non lo so!

Ora con il con dl 953 disarticoleranno pure ciò che è rimasto del Miur: tutto andrà alle scuole cosiddette autonome, tutto alle Regioni, tutto a Checco e Nina! E, perché no? anche alle camarille di quartiere e al mafioso di turno! L’unità nazionale va a carte quarantotto! Tanto, una dopo l’altra chiuderanno tutte le fabbriche (penso alla Fiat di Marchionne, all’Ilva, al Sulcis, all’Alcoa) perché i prodotti cinesi, brasiliani, giapponesi, coreani ecc. saranno competitivi! Già lo sono! E diventeremo colonia!? I ricorsi storici! L’Europa stessa è in crisi! Speriamo che dopo i disperati delle carrette del mare vengano i nuovi padroni – o forse già ci sono e non ne abbiamo ancora la netta percezione! A dettare che cosa si deve chiudere e come si deve… esodare! Almeno ci sarà qualcuno che “metterà le cose a posto”! Quando penso che i nostri cosiddetti politici sono anni che non riescono a tirare fuori uno straccio di legge elettorale!!! Pare che il porcellum sia l’unico toccasana! E chiacchierano e chiacchierano! L’ignoranza la fa da padrona: Casini, Di Pietro, Giovanardi, Borghezio… e ora ci si mettono pure Salvini e Renzi: i rottamatori di destra e di sinistra! E dobbiamo anche ascoltarli!!! Non capiscono un’acca di economia o di finanza e hanno dovuto cedere il passo ai tecnici! In silenzio e con la coda tra le gambe! INAUDITOOO!!! Insomma, una intera “classe dirigente” – si chiama così? – che appena qualche mese fa ha alzato le mani, si è arresa al dictat di Napolitano, che oggi ha la faccia tosta di ripresentarsi tale e quale, chiacchierando a tutti i microfoni che frotte di giornalisti incollano alle loro bocche, pronta per le prossime elezioni! Per cominciare da capo, tra una chiacchiera e un’altra, un talk show ed un altro! E ci saranno pure le americanate delle primarie… che pena! Sarebbe questa la nuova democrazia? Non erano meglio i comitati centrali, i congressi PC? E le correnti DC?

Rottamiamo tutto, oggi! Ricordo che i nostri Padri Costituenti in meno di un anno ci hanno dato una Carta costituzionale che è tra le migliori del mondo, e la più chiara e semplice da leggere (ricordo l’analisi linguistica che ne fece De Mauro)! E nel bailamme dilagante c’è un Grillo che riscuote successo!!! E produrremo altri Grillo! L’Italia è il Paese dei grilli, dopo essere stato anche il paese delle cicale e delle cavallette, che da decenni ci hanno succhiato tutte le risorse e ci hanno indebitato! E nessuno sapeva niente? E dov’erano allora i “tecnici” che oggi pontificano? Qualcuno ci ha mai detto che ci stavamo indebitando? Che comprando la macchina nuova ieri avremmo perduto la pensione oggi? E dobbiamo, purtroppo, ringraziare Monti, che almeno due parole insieme le sa mettere e sa confrontarsi con i big europei! Dopo i cucù di Berlusconi e le ironie di Sarkozy e della Merkel! Che pena! Vi assicuro che comincio a vergognarmi un po’ di essere italiano! Però a volte mi faccio forte! Dante se la prendeva con la “serva Italia”, però scriveva la Commedia! Ci sarà un Dante nascosto che ancora non conosciamo??? Mah! E per tornare a noi, possiamo pensare che qualcuno al Miur si preoccupi del fatto che tra tre anni dovremo certificare le competenze dei 19enni e che occorrerà riformare l’esame di Stato? Un secondo e un infinito mah!!!

Io purtroppo non sono capace di essere un arringatore di folle! Ma di un Grillo nostro, parlante e pensante, abbiamo tutti bisogno! Io so soltanto buttare giù qualche rigo, come sapete! E’ certo che la situazione è brutta! Il PD di fatto non c’è! E’ un’altra cosa rispetto a un PD che avrebbe veramente dovuto incarnare quei tre filoni, cattolico popolare, socialista e comunista su cui e con cui abbiamo costruito la nostra Repubblica! Molti di voi sono piccoli, ma io ho vissuto quegli anni dell’antifascismo, della Resistenza, della Repubblica, della Ricostruzione, delle prime grandi lotte operaie e contadine! Quando Togliatti e Di Vittorio avevano le palle così! E ce l’aveva pure De Gasperi! Erano lotte dure! Eppure andavamo “avanti”! Ogni giorno che nasceva era migliore del precedente! Così è stato per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta! Le grandi lotte operaie, la riforma agraria, l’epopea di Di Vittorio e ci furono anche i morti perché la Celere di Scelba sparava. Oggi dei no-Tav avrebbe fatto polpette! Non è un caso che nel ’55 producemmo la Fiat 600! Fu l’avvio del “benessere”!!! Dell’usa e getta, dei frigoriferi e delle lavatrici… più tardi vennero le lavastoviglie!!! Fu una grande “liberazione” dal “lavoro/fatica” domestico! E poi l’automazione e la progressiva liberazione del “lavoro/fatica” in fabbrica! Nel ’62 innalzammo l’obbligo di istruzione! Nel ’67 Don Milani scrisse la sua lettera! E nel ’68 scoppiò il Sessantotto! E poi? E poi… un lento declino. A mio vedere il casino scoppia con la Bassanini del ’97 e con quella riscrittura del Titolo V 2001! Si doveva passare dal centralismo all’autonomia, ma… quale autonomia? Con quali criteri? Con quali finalità? Penso alla dappochezza di chi negli anni Novanta ha scritto cose lunghe e impasticciate che ci hanno creato un sacco di guai E poi la cerniera dell’amministrazione Berlinguer: luci e ombre su cui dovremmo riflettere! Subito dopo ebbe inizio il diluvio! Con il nuovo Millennio! Penso alla Moratti!! L’analisi che sto facendo è molto povera e lo so! E non mi accusate di qualunquismo! Comunque, sono alcuni spunti per pensare! Il fatto è che il PD non incarna nulla del filone migliore di questa nostra lunga storia, perché ne è stato anche coautore in negativo, purtroppo, dalla Bolognina in poi! Ma il discorso si fa difficile e non sono capace di farlo…

da scuolaoggi.org

"Opporsi alla deriva", di Antonio Valentino

Ha ragione Tiriticco. L’avvio di quest’anno scolastico si prospetta come uno tra i più travagliati di questi ultimi anni, che pure sono stati segnati da gravissimi problemi e da difficoltà enormi. La deriva di cui parla Tiriticco nella sua ultima riflessione è ormai sotto gli occhi di tutti.
Non sto a parlare di questo pasticcio del concorsone che ha gettato nel panico i tanti insegnanti titolati – ma in una situazione di precarietà – che si sono fatte le ossa in questi anni difficili e in molti casi hanno assecondato progetti di innovazione e buon funzionamento nelle nostre scuole. Né della vergogna degli ultimi concorsi gestiti con superficialità e pressappochismo, né del disastro delle reggenze che continua e si aggrava paurosamente anche quest’anno o delle questioni irrisolte del dimensionamento.
Quest’anno per gli istituti superiori comincia la riforma del triennio: nuove linee guida per i curricoli, più centrate indicazioni metodologiche su competenze, laborialità, comitati tecnico-scientifici aperti al contributo di figure territoriali della cultura, del lavoro, dell’amministrazione pubblica.
Se chiedete in giro, anche agli insegnanti più attenti e forse anche a qualche dirigente, la risposta che vi arriva è che “ sì, se ne è parlato forse in qualche collegio. Ma non siamo in grado di partire perché non siamo preparati”.
Entrano anche in vigore le Nuove Indicazioni per il primo ciclo. Ma non si sente parlare di corsi di aggiornamento e formazione.
Di fronte a questo stato di cose (e c’è dell’altro, come richiama Tiriticco), credo che siano in tanti quelli che nelle nostre scuole cominciano a non poterne più di questo stato di cose che non li fa vivere bene e che alimenta delusione e frustrazione.
Ci rendiamo sempre più conto che il Ministero, anche nelle sue articolazioni territoriali, non è in grado di lavorare alle condizioni soltanto minime per assicurare fattibilità alle riforme che, disattese ormai per quanto riguarda gli aspetti innovativi, si stanno rivelando, almeno per le scuole del secondo ciclo, per quello che una classe politica miope e senza visione aveva forse messo nel conto come il vero obiettivo: tagliare risorse linearmente e ferocemente, vendendo tagli i indiscriminati e spesso insensati come misure per risparmi doverosi e necessari.
Si sono mostrati soggetti finora inconcludenti anche le Regioni e gli Enti Locali (le eccezioni, anche in questi caso, confermano la regola). Per non parlare delle Università. Le ragioni possono essere molteplici. Comunque è mancata la volontà politica di farsi carico dei problemi e avviarli a soluzione, per quanto di competenza.
Nessun progetto, nessuna volontà evidente di pensare alla scuola come risorsa per la cittadinanza e lo sviluppo. Una ignavia diffusa e spesso disperante. Per quanto non manchino singole situazioni, come ho incidentalmente annotato, che stanno invece a dimostrare che una ripartenza è possibile.
Comunque …
Va comunque detto che la scuola è, nonostante tutto, una delle istituzioni che, almeno nella percezione dei più, ha ancora credito. Questo ci dicono inchieste anche recenti.
E questo grazie soprattutto – è facile riconoscerlo – a insegnanti e dirigenti (non tantissimi, ma comunque ce n’è) che, all’interno delle singole scuole, con generosità e competenza lasciano aperta la speranza per una risalita.
Continuo a pensare che sono proprio nelle scuole le risorse più importanti e su cui far leva per arginare una condizione sempre più pesante, e lanciare messaggi del rinnovamento possibile.
Va aggiunto che altri soggetti, in questa fase, fanno sentire la propria voce, non solo per denunciare, ma anche per costruire. Penso a una risorsa che ha ben funzionato negli ultimi anni: quella delle Associazioni professionali e non (penso alle Associazioni dei Genitori), legate al mondo della scuola.
Anche i siti ‘scolastici’ telematici sono stati in questi anni strumenti importanti di sviluppo della consapevolezza e di socializzazione di esperienze innovative.
Creare movimento per la ricostruzione, puntando sul protagonismo delle scuole
– meglio: di quanti, nelle scuole, e non sono pochi, e purtroppo neanche tanti, lavorano con passione e professionalità, al di là dei loro doveri professionali, per il buon funzionamento del loro Istituto, cercando di coinvolgere anche gli altri): è questa forse la parola d’ordine su cui, in questa fase, sviluppare impegno e progetti e recuperare credibilità. Anche correndo il rischio di sentirsi tacciare di essere fuori dalla realtà.
Ovviamente questo impegno, vissuto con la consapevolezza della posta in gioco, non può significare rinuncia alle opportune rivendicazioni, perché si inverta nella politica e nelle scelte governative lo sfacelo dell’attuale situazione. Il messaggio dovrebbe essere quello che la scuola non può accettare una situazione che degrada un servizio pubblico fondamentale. E per contrastare tale situazione rilancia obiettivi di rinnovamento e miglioramento.
Qualche esemplificazione per provarci
Urgenze e sollecitazioni – da mettere al centro di questo più consapevole impegno e tra le quali selezionare – sono tante e qualificanti, come ben sanno docenti e dirigenti. A partire dagli stessi provvedimenti e regolamenti normativi recenti, che, se continuasse questo stato di cose, continuerebbero a restare lettera morta.
E così, dare il giusto rilievo alle Linee guida (LG), che da quest’anno cominceranno a interessare anche il triennio degli Istituti Tecnici e Professionali, potrebbe permettere di recuperare un’ottica nuova che per molti può significare un modo diverso di approcciare l’insegnamento disciplinare.
E non tanto per l’elenco, in ciascuna scheda delle LG, degli argomenti disciplinari (da assumere comunque, credo, come trama concettuale nella quale i vari argomenti avranno peso e collocazione diversi in rapporto alle finalità che si tenderà a privilegiare e alla tipologia di studenti), ma anche per le correlazioni con saperi e competenze con altre discipline della stessa area che si vorranno programmare all’interno di progetti comuni di corso o di classi parallele.
Un discorso analogo penso si possa fare con le Indicazioni Nazionali per il primo ciclo.
D’altra parte, parlare di una didattica per competenze obbliga in qualche modo a fare i conti anche con le metodologie di insegnamento in cui si intrecciano operatività e riflessività e con l’idea di laboratorio come spazio dell’apprendere in autonomia, guidata attraverso il fare .
Che dire inoltre della necessità di mettere definitivamente in crisi il modello che fa dell’insegnamento frontale e trasmissivo la modalità più largamente diffusa nelle nostre aule – e finanche nei laboratori -? Potrebbe ben essere questa una parola d’ordine quasi rivoluzionaria, se ad essa si legassero pratiche sperimentali tendenzialmente cooperative.
Altro terreno di impegno non più rinviabile (ovviamente lo si dice da sempre): la valutazione degli apprendimenti; certamente fondamentale se venisse assunto – come dovrebbe essere – come strumento per conoscere, stimolare, gratificare; e perdesse definitivamente la natura, ancora prevalente, di strumento di potere e sanzionatorio che mal si concilia con la formatività del fare scuola. E se, con riferimento al discorso delle competenze, si puntasse sulla centratura non tanto su quello che si sa, quanto, piuttosto, su quello che si sa fare con quello che si sa.
E ancora: dare dignità all’operazione di certificazione delle competenze che ora fa acqua da tutte le parti: il riferimento è a quella di fine primo ciclo e del primo biennio; ma, sensatamente, la questione va riproposta anche per la conclusione degli studi del secondo ciclo.
Infine (si fa per dire): a due anni dall’entrata in vigore del decreto attuativo del rioridino, le sperimentazioni del CTS (in prima battuta come luoghi dell’autonalisi e/o di autovalutazione di Istituto e di collaborazioni, ove possibile, con il territorio) e dei Dipartimenti (come spazio di recupero di un sapere tendenzialmente unitario) non sarebbe il caso che diventino meno episodiche e più diffuse?
Anche senza voler ‘strafare’ (anche qui si fa per dire), un uso intelligente e pieno delle 80 ore previste dal Contratto di categoria, potrebbe – anch’esso – rappresentare uno strumento utile per rilanciare la ricerca e l’autoformazione nelle varie articolazione del collegio, per pensare e progettare sperimentazioni in un’ottica sana di autonomia, per aprirsi ad altre esperienze e stimoli (Di autoreferenzialità si muore).
Esemplificazioni così, a caldo.
L’importante è comunque – credo – rimettersi in moto e ridarsi fiducia per dare fiducia a studenti e famiglie; e non solo.
Segnalo qui l’utile contributo al riguardo di Stefano Stefanel (“Un orizzonte possibile”) del maggio scorso che, su questa stessa rivista, prospetta e argomenta su terreni di impegno possibile, con l’obiettivo di ridare senso e dignità al lavoro nelle scuole e chance per un futuro meno rassegnato e grigio.
Ma altri stimoli vengono, come già detto, anche dalle diverse riviste telematiche (penso soprattutto a quella dell’ADI o a Education 2.0, se non altro per la ricchezza dei contributi proposti) che sono fiorite in questi anni.
La rassegnazione non paga
Una seconda parola d’ordine da declinare con maggiore frequenza è che “non si parte mai da zero” e che la valorizzaione delle esperienze pregresse è linfa straordinaria per pensare ad un futuro meno ingarbugliato e più soddisfacente.
Rassegnarsi alla deriva – mettiamola così – non è neanche conveniente; se non altro perché ci rende tutti più rassegnati o frustrati.
Certamente per tutto questo occorrerebbe una regia o più regie coordinate e democratiche.
Penso comunque che i DS dovrebbero, in questa fase, porsi come soggetti motore in possibili azioni di promozione e coinvolgimento, a partire dalle proprie scuole.
Come pure andrebbero consolidate e socializzate esperienze di coordinamento e promozione di quegli enti locali che si sono spesi su questi terreni.
Su tali questione appare urgente anche una riflessione su quale funzione, oggi, debba ricoprire il sindacalismo confederale, che mi piace sempre pensare come soggetto imprescindibile per un discorso sul rinnovamento della scuola in questa fase. Solo che ci fossero più coraggio e meno contraddizioni. O no?
Comunque, darsi – dovunque è possibile e come è possibile – un progetto per una ripartenza sensata, è una idea che la scuola militante e l’universo interessato che gli sta intorno non possono continuare a rinviare ad altra stagione. La stagione è questa. Diversamente non si parte mai. E continueremmo a macerarci nelle nostre rabbie e insoddisfazioni.
E saremmo punto e a capo. Saremmo.
da scuolaoggi.org
******
“Cari amici! Una riflessione a tutto campo!”, di Maurizio Tiriticco
Confesso che ho difficoltà a seguire le tappe di questa deriva, che si succedono giorno dopo giorno. Lo spappolamento progressivo è così veloce e inarrestabile che – vi assicuro – rimango basito! Come quei poveretti che nelle sale macchine del Titanic tentavano invano di tappare le falle che si aprivano una dopo l’altra! E ciò che mi addolora è anche il fatto che i “poveri” insegnanti, costretti a seguire il particulare, purtroppo, non hanno né forza né voglia né tempo di dare un’occhiata, almeno, all’universale. So anche di questi “esami di riparazione” – tutti li chiamano così – anche se non dovrebbero esserlo. In talune scuole non si riparano materie, ma parti soltanto: nella “contrattazione” docente/alunno si decide che in un pezzo di materia che riguarda il primo quadrimestre c’era la sufficienza, per cui “si porta” a settembre solo il secondo pezzo! Oppure: si deve riparare solo l’orale e non lo scritto, o viceversa! Studenti e genitori ormai contrattano con i prof promozioni, recuperi, voti! Altrimenti c’è il ricorso! Altro che sperequazioni! L’esito è che produrremo solo somari!!! E poi c’è un Miur che ha la faccia tosta di dire che tonnellate di item sono errati, che pubblica pure i nomi dei responsabili, e nessuno chiede scusa… nessuno è preso a pedate… tutto va ben madama la marchesa! Fino a qualche tempo fa il fronte di combattimento era più articolato: i punti deboli erano quelli, ma le retrovie ancora reggevano! Che bei tempi – solo qualche anno fa – quando il fronte era segnato dalle “formichine” delle prove Invalsi per i bambini della primaria!!! Ora mi sembra una Caporetto e tutto puzza – o profuma – di sonora sconfitta! Ci sarà una linea del Piave? Non lo so!
Ora con il con dl 953 disarticoleranno pure ciò che è rimasto del Miur: tutto andrà alle scuole cosiddette autonome, tutto alle Regioni, tutto a Checco e Nina! E, perché no? anche alle camarille di quartiere e al mafioso di turno! L’unità nazionale va a carte quarantotto! Tanto, una dopo l’altra chiuderanno tutte le fabbriche (penso alla Fiat di Marchionne, all’Ilva, al Sulcis, all’Alcoa) perché i prodotti cinesi, brasiliani, giapponesi, coreani ecc. saranno competitivi! Già lo sono! E diventeremo colonia!? I ricorsi storici! L’Europa stessa è in crisi! Speriamo che dopo i disperati delle carrette del mare vengano i nuovi padroni – o forse già ci sono e non ne abbiamo ancora la netta percezione! A dettare che cosa si deve chiudere e come si deve… esodare! Almeno ci sarà qualcuno che “metterà le cose a posto”! Quando penso che i nostri cosiddetti politici sono anni che non riescono a tirare fuori uno straccio di legge elettorale!!! Pare che il porcellum sia l’unico toccasana! E chiacchierano e chiacchierano! L’ignoranza la fa da padrona: Casini, Di Pietro, Giovanardi, Borghezio… e ora ci si mettono pure Salvini e Renzi: i rottamatori di destra e di sinistra! E dobbiamo anche ascoltarli!!! Non capiscono un’acca di economia o di finanza e hanno dovuto cedere il passo ai tecnici! In silenzio e con la coda tra le gambe! INAUDITOOO!!! Insomma, una intera “classe dirigente” – si chiama così? – che appena qualche mese fa ha alzato le mani, si è arresa al dictat di Napolitano, che oggi ha la faccia tosta di ripresentarsi tale e quale, chiacchierando a tutti i microfoni che frotte di giornalisti incollano alle loro bocche, pronta per le prossime elezioni! Per cominciare da capo, tra una chiacchiera e un’altra, un talk show ed un altro! E ci saranno pure le americanate delle primarie… che pena! Sarebbe questa la nuova democrazia? Non erano meglio i comitati centrali, i congressi PC? E le correnti DC?
Rottamiamo tutto, oggi! Ricordo che i nostri Padri Costituenti in meno di un anno ci hanno dato una Carta costituzionale che è tra le migliori del mondo, e la più chiara e semplice da leggere (ricordo l’analisi linguistica che ne fece De Mauro)! E nel bailamme dilagante c’è un Grillo che riscuote successo!!! E produrremo altri Grillo! L’Italia è il Paese dei grilli, dopo essere stato anche il paese delle cicale e delle cavallette, che da decenni ci hanno succhiato tutte le risorse e ci hanno indebitato! E nessuno sapeva niente? E dov’erano allora i “tecnici” che oggi pontificano? Qualcuno ci ha mai detto che ci stavamo indebitando? Che comprando la macchina nuova ieri avremmo perduto la pensione oggi? E dobbiamo, purtroppo, ringraziare Monti, che almeno due parole insieme le sa mettere e sa confrontarsi con i big europei! Dopo i cucù di Berlusconi e le ironie di Sarkozy e della Merkel! Che pena! Vi assicuro che comincio a vergognarmi un po’ di essere italiano! Però a volte mi faccio forte! Dante se la prendeva con la “serva Italia”, però scriveva la Commedia! Ci sarà un Dante nascosto che ancora non conosciamo??? Mah! E per tornare a noi, possiamo pensare che qualcuno al Miur si preoccupi del fatto che tra tre anni dovremo certificare le competenze dei 19enni e che occorrerà riformare l’esame di Stato? Un secondo e un infinito mah!!!
Io purtroppo non sono capace di essere un arringatore di folle! Ma di un Grillo nostro, parlante e pensante, abbiamo tutti bisogno! Io so soltanto buttare giù qualche rigo, come sapete! E’ certo che la situazione è brutta! Il PD di fatto non c’è! E’ un’altra cosa rispetto a un PD che avrebbe veramente dovuto incarnare quei tre filoni, cattolico popolare, socialista e comunista su cui e con cui abbiamo costruito la nostra Repubblica! Molti di voi sono piccoli, ma io ho vissuto quegli anni dell’antifascismo, della Resistenza, della Repubblica, della Ricostruzione, delle prime grandi lotte operaie e contadine! Quando Togliatti e Di Vittorio avevano le palle così! E ce l’aveva pure De Gasperi! Erano lotte dure! Eppure andavamo “avanti”! Ogni giorno che nasceva era migliore del precedente! Così è stato per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta! Le grandi lotte operaie, la riforma agraria, l’epopea di Di Vittorio e ci furono anche i morti perché la Celere di Scelba sparava. Oggi dei no-Tav avrebbe fatto polpette! Non è un caso che nel ’55 producemmo la Fiat 600! Fu l’avvio del “benessere”!!! Dell’usa e getta, dei frigoriferi e delle lavatrici… più tardi vennero le lavastoviglie!!! Fu una grande “liberazione” dal “lavoro/fatica” domestico! E poi l’automazione e la progressiva liberazione del “lavoro/fatica” in fabbrica! Nel ’62 innalzammo l’obbligo di istruzione! Nel ’67 Don Milani scrisse la sua lettera! E nel ’68 scoppiò il Sessantotto! E poi? E poi… un lento declino. A mio vedere il casino scoppia con la Bassanini del ’97 e con quella riscrittura del Titolo V 2001! Si doveva passare dal centralismo all’autonomia, ma… quale autonomia? Con quali criteri? Con quali finalità? Penso alla dappochezza di chi negli anni Novanta ha scritto cose lunghe e impasticciate che ci hanno creato un sacco di guai E poi la cerniera dell’amministrazione Berlinguer: luci e ombre su cui dovremmo riflettere! Subito dopo ebbe inizio il diluvio! Con il nuovo Millennio! Penso alla Moratti!! L’analisi che sto facendo è molto povera e lo so! E non mi accusate di qualunquismo! Comunque, sono alcuni spunti per pensare! Il fatto è che il PD non incarna nulla del filone migliore di questa nostra lunga storia, perché ne è stato anche coautore in negativo, purtroppo, dalla Bolognina in poi! Ma il discorso si fa difficile e non sono capace di farlo…
da scuolaoggi.org

Scuola: Ghizzoni, disabilità è ancora sinonimo di diritti negati

“Parlare di disabilità in Italia vuol dire, purtroppo, parlare di diritti negati. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, Presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati, dopo l’incontro con una delegazione di genitori di alunni disabili – È necessario che chi ha responsabilità di governo, e la politica nel suo complesso, operino per invertire una tendenza che pone il nostro Paese al di sotto della soglia di civiltà sui temi della disabilità. Per questo motivo – annuncia Ghizzoni – la Commissione Cultura ha invitato le associazioni dei genitori degli alunni disabili in audizione: un primo passo per predisporre interventi volti a ristabilire, a partire dalla scuola e, più in generale, dalla formazione, valori di inclusione. È una questione improcrastinabile se l’Italia vuole ancora dirsi Stato di diritto.”

"Il rischio dell’autogol", di Michele Prospero

Questa storia dei referendum rischia di combinare guai seri. La destra ha lasciato in eredità la decomposizione della politica e lo sfilacciamento della società. L’unico argine alla caduta del paese passa ora attraverso la ricostruzione di una sinistra coesa che tamponi la cecità rovinosa mostrata dalla borghesia italiana. Con i loro media omologati, i poteri economici e finanziari civettano sempre più con l’antipolitica. Anzi, la alimentano per servirsene come un’arma per bloccare il cambiamento e ottenere, in nome dell’emergenza, il commissariamento del governo.
Oltre che dai nemici esterni, che sono ricchi, agguerriti e capaci di costruire con la loro fabbrica della deviazione semantica un senso comune ostile alla politica, la sinistra deve però guardarsi anche dai suoi brutti malanni interiori. Le primarie, così come sono da taluni interpretate, cioè come un duello tra rottamazione e referendum di classe, non mostrano un senso costruttivo e rigonfiano anzi un male oscuro pronto a favorire la perdizione. La ragione sobria della politica, che persegue una sintesi culturale alta per governare una ardua transizione di sistema, è sfidata dal virus dell’antipolitica.
Con il vento maligno delle primarie trionfano uno stile falso della semplificazione e un dialetto della banalizzazione, figli di un tempo degenerato da combattere. Le metafore sulla rottamazione o l’uso della clava referendaria appartengono entrambe a questa deriva populistica che strapazza l’analisi politica e amplifica la ricerca di una visibilità a buon mercato. Dominano perciò il gesto plateale, le scappatoie furbesche che più assicurano la differenziazione su temi simbolici. Il referendum sull’articolo 18 non solo reintroduce i macabri squarci che nel 2008 provocarono la caduta di Prodi (con ministri di piazza e di palazzo) ma manipola il corso reale degli eventi. Mette infatti in sordina i significativi miglioramenti che, dopo un duro braccio di ferro con il governo, portato da Bersani ai limiti della crisi, il Pd riuscì a ottenere, ispirandosi al modello tedesco.
In generale, lo spazio della legge, dell’intervento autoritativo, andrebbe ridimensionato per affidare le relazioni sindacali al libero conflitto tra le parti sociali o alla pratica della concertazione. Certo il referendum sulle materie del lavoro non può essere uno strumento agitato per accaparrarsi qualche manciata di voti ai gazebo. Non si gioca in maniera così spregiudicata sulla pelle del lavoro, che versa in una condizione drammatica. Le classi lavoratrici hanno bisogno di unità, non sanno che farsene di una artificiale linea di rottura tra i partiti e i sindacati.
La sinistra radicale sembra essere caduta nella trappola tesa da Di Pietro. Con il terzo referendum per ora tenuto in ombra, ma che in realtà diventerà presto qualificante per attirare la partecipazione dei cittadini alle urne, quello contro la casta, contro il finanziamento pubblico della politica, la sinistra radicale accetta di tramutarsi in una imbarazzante ruota di scorta del populismo. Che tristezza vedere il nucleo più combattivo della classe operaia italiana, la gloriosa Fiom, arruolato nella banda dell’antipolitica che, con il referendum contro la casta, marcerà di sicuro al fianco di molti imprenditori già ora con l’elmetto pronto!
Di Pietro, si sa, non è di sinistra, e nemmeno di centro o di destra. È solo un populista astuto che sa giocare il suo ruolo di guastatore per sopravvivere ancora un po’ sulla scena. Per questo, mentre in Italia recita le prove tecniche di un biennio rosso alle porte, in Europa fa parte organica del gruppo liberale. A Bruxelles è in compagnia delle formazioni più ultraliberiste e antisolidaristiche del vecchio continente, che sono al governo con la Merkel e con Cameron.
La sinistra non può stare al gioco del populista. La sua leadership più seria deve in gran fretta recuperare il mestiere della grande sintesi, della proposta politica innervata dalla analisi e dal pensiero. Per sconfiggere il populismo che è fuori e che dal governo ha distrutto l’Italia, occorre anche guardarsi dal populismo che cerca di insinuarsi dentro, e che pretende di trasformare le primarie in una grande opera di distruzione nichilista.

L’Unità 13.09.12

"Il rischio dell’autogol", di Michele Prospero

Questa storia dei referendum rischia di combinare guai seri. La destra ha lasciato in eredità la decomposizione della politica e lo sfilacciamento della società. L’unico argine alla caduta del paese passa ora attraverso la ricostruzione di una sinistra coesa che tamponi la cecità rovinosa mostrata dalla borghesia italiana. Con i loro media omologati, i poteri economici e finanziari civettano sempre più con l’antipolitica. Anzi, la alimentano per servirsene come un’arma per bloccare il cambiamento e ottenere, in nome dell’emergenza, il commissariamento del governo.
Oltre che dai nemici esterni, che sono ricchi, agguerriti e capaci di costruire con la loro fabbrica della deviazione semantica un senso comune ostile alla politica, la sinistra deve però guardarsi anche dai suoi brutti malanni interiori. Le primarie, così come sono da taluni interpretate, cioè come un duello tra rottamazione e referendum di classe, non mostrano un senso costruttivo e rigonfiano anzi un male oscuro pronto a favorire la perdizione. La ragione sobria della politica, che persegue una sintesi culturale alta per governare una ardua transizione di sistema, è sfidata dal virus dell’antipolitica.
Con il vento maligno delle primarie trionfano uno stile falso della semplificazione e un dialetto della banalizzazione, figli di un tempo degenerato da combattere. Le metafore sulla rottamazione o l’uso della clava referendaria appartengono entrambe a questa deriva populistica che strapazza l’analisi politica e amplifica la ricerca di una visibilità a buon mercato. Dominano perciò il gesto plateale, le scappatoie furbesche che più assicurano la differenziazione su temi simbolici. Il referendum sull’articolo 18 non solo reintroduce i macabri squarci che nel 2008 provocarono la caduta di Prodi (con ministri di piazza e di palazzo) ma manipola il corso reale degli eventi. Mette infatti in sordina i significativi miglioramenti che, dopo un duro braccio di ferro con il governo, portato da Bersani ai limiti della crisi, il Pd riuscì a ottenere, ispirandosi al modello tedesco.
In generale, lo spazio della legge, dell’intervento autoritativo, andrebbe ridimensionato per affidare le relazioni sindacali al libero conflitto tra le parti sociali o alla pratica della concertazione. Certo il referendum sulle materie del lavoro non può essere uno strumento agitato per accaparrarsi qualche manciata di voti ai gazebo. Non si gioca in maniera così spregiudicata sulla pelle del lavoro, che versa in una condizione drammatica. Le classi lavoratrici hanno bisogno di unità, non sanno che farsene di una artificiale linea di rottura tra i partiti e i sindacati.
La sinistra radicale sembra essere caduta nella trappola tesa da Di Pietro. Con il terzo referendum per ora tenuto in ombra, ma che in realtà diventerà presto qualificante per attirare la partecipazione dei cittadini alle urne, quello contro la casta, contro il finanziamento pubblico della politica, la sinistra radicale accetta di tramutarsi in una imbarazzante ruota di scorta del populismo. Che tristezza vedere il nucleo più combattivo della classe operaia italiana, la gloriosa Fiom, arruolato nella banda dell’antipolitica che, con il referendum contro la casta, marcerà di sicuro al fianco di molti imprenditori già ora con l’elmetto pronto!
Di Pietro, si sa, non è di sinistra, e nemmeno di centro o di destra. È solo un populista astuto che sa giocare il suo ruolo di guastatore per sopravvivere ancora un po’ sulla scena. Per questo, mentre in Italia recita le prove tecniche di un biennio rosso alle porte, in Europa fa parte organica del gruppo liberale. A Bruxelles è in compagnia delle formazioni più ultraliberiste e antisolidaristiche del vecchio continente, che sono al governo con la Merkel e con Cameron.
La sinistra non può stare al gioco del populista. La sua leadership più seria deve in gran fretta recuperare il mestiere della grande sintesi, della proposta politica innervata dalla analisi e dal pensiero. Per sconfiggere il populismo che è fuori e che dal governo ha distrutto l’Italia, occorre anche guardarsi dal populismo che cerca di insinuarsi dentro, e che pretende di trasformare le primarie in una grande opera di distruzione nichilista.
L’Unità 13.09.12