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"Che cosa blocca il Paese", di Luca Ricolfi

Ultimamente, non posso nasconderlo, mi è capitato più volte di provare un moto di solidarietà, o quantomento di comprensione, per le cosiddette «parti sociali», Cgil e Confindustria innanzitutto. Che cosa sta succedendo, infatti?
Da alcune settimane sta succedendo che il nostro governo, resosi conto di aver usato la mano troppo pesante sull’economia e di non avere alcuna risorsa, tesoretto o altro da mettere sul piatto, sta caricando sulle parti sociali – sindacati e organizzazioni degli imprenditori – una responsabilità molto maggiore di quella che sindacati e industriali possano assumersi. L’invito a mettersi d’accordo per aumentare la competitività dell’Italia («dobbiamo abbattere lo spread della produttività») è solo il punto di approdo di una strategia comunicativa che va avanti da tempo. Prima c’era stata l’imperiosa esortazione del ministro Fornero agli imprenditori a investire («noi abbiamo fatto la nostra parte, ora tocca a voi»). Poi, alla Fiera del Levante, l’invito del premier a «cambiare mentalità». E infine, giusto ieri, l’attacco di Monti allo Statuto dei lavoratori, che avrebbe danneggiato la creazione di posti di lavoro.
Anche se Monti ha detto una cosa al limite della banalità, ovvia per qualsiasi studioso non troppo ideologizzato, capisco la reazione di Susanna Camusso, secondo cui le parole del premier sono «la dimostrazione che questo governo non ha idee su sviluppo e crescita» e ormai «ha esaurito la spinta propulsiva». Capisco la reazione perché essa rivela uno stato d’animo che, a mio parere, non è di una singola parte sociale, ovvero la Cgil o il mondo sindacale, ma è di tutto il mondo del lavoro, sindacati, imprenditori, artigiani, partite Iva, insomma di chiunque stia sul mercato. Nessuno lo dice esplicitamente, perché Monti è una persona seria e rispettata, ma l’impressione è che le parti sociali si sentano prese un po’ in giro. Dopo aver detto peste e corna della concertazione, il governo le convoca e le invita a concertare per salvare il Paese, come se un accordo fra Confindustria e sindacati sulla produttività potesse dare un contributo decisivo a farci uscire dalla crisi.
A mio modesto parere le perplessità delle parti sociali sono largamente giustificate. E’ chiaro che ogni accordo sulla produttività è benvenuto, e saremo grati a Confindustria e sindacati se ne troveranno uno efficace. Ma la dura realtà è che le parti sociali, anche impegnandosi al massimo, anche rinunciando a ogni egoismo, possono fare pochissimo. L’espressione stessa «produttività del lavoro» è profondamente fuorviante. Suggerisce che il prodotto dipenda essenzialmente dall’impegno dei lavoratori, e che la scarsa produttività sia dovuta a impegno insufficiente, scarsa meritocrazia, cattivi incentivi. Non è così. La produttività è bassa e stagnante innanzitutto perché il sistema Italia ha dei costi smisurati, che nessun governo è stato in grado fin qui di rimuovere.
Costi degli input del processo produttivo, innanzitutto. Facciamo un esempio concreto e di estrema attualità: il caso di un’azienda che ha un grande input di energia elettrica, e che non è sussidiata come Alcoa. Qual è il suo valore aggiunto? Poiché il valore aggiunto è la differenza fra i ricavi e i costi, il fatto di pagare l’energia 100 anziché 50 dilata i costi e contrae il valore aggiunto. Ma la produttività non è altro che il valore aggiunto per occupato, quindi il fatto di pagare l’energia uno sproposito abbassa la produttività del lavoro, e questo a parità di impegno dei lavoratori. Lo stesso discorso potrebbe essere ripetuto per decine di altre voci di costo delle imprese italiane (assicurazioni, burocrazia, prestiti bancari, etc.), che fanno lievitare i costi e quindi abbattono la produttività. Anche per questo «La Stampa» e la Fondazione David Hume stanno conducendo la loro inchiesta su «Che cosa soffoca l’Italia».
Non è tutto, purtroppo. La produttività dipende anche dai macchinari e dalle tecnologie con cui i lavoratori operano. Cento operai con macchine moderne producono più pezzi che cento operai con macchine obsolete. Cento impiegati con una contabilità ben informatizzata sbrigano più pratiche di cento impiegati che usano ancora la carta, o che lavorano con un software di bassa qualità. Ma le tecnologie dipendono dagli investimenti, e gli investimenti li fanno gli imprenditori, non gli operai e gli impiegati di cui pretendiamo di misurare la produttività. Ha dunque ragione il ministro Fornero che invita gli imprenditori a fare la loro parte investendo di più?
Direi proprio di no, anche gli imprenditori hanno molte ragioni per essere irritati. Non tanto per l’insufficienza di sgravi e incentivi agli investimenti in ricerca e sviluppo, bensì per la elementare ragione che per investire ci vogliono due condizioni: una domanda che tira e un regime fiscale che lasci ai produttori una quota ragionevole del loro profitto. Invece la domanda va malissimo in quasi tutti i settori, e la tassazione del profitto commerciale in Italia (68.6%) è fra le più alte del mondo, ed è addirittura la più alta fra quelle dei 34 Paesi appartenenti all’Ocse, l’organizzazione che riunisce le economie avanzate.
La realtà, purtroppo, è che la crescita dipende dalla produttività, ma la produttività dipende pochissimo dalla buona volontà delle parti sociali e moltissimo dai costi che i produttori sono costretti a sostenere, essenzialmente costi degli input e costi fiscali. Su questo fronte, purtroppo, l’azione del governo ha peggiorato e non migliorato la vita a chi produce ricchezza. Può darsi che non si potesse fare diverso. Ma come stupirsi se alle parti sociali suona un po’ strano che, dopo essere state vessate «per salvare il Paese», ora si faccia intendere che a salvarci debbano essere proprio loro, e che per la salvezza possa essere decisivo un accordo sulla produttività.
La Stampa 14.09.12

"Cosa c'è in quel camper", di Massimo Giannini

LA «discesa in camper» di Matteo Renzi è una novità politica oggettiva. Va giudicata senza pregiudizi. In un Paese marchiato a fuoco dal delirio di potenza berlusconiano e da un establishment impermeabile al ricambio, la sfida lanciata a viso aperto da un trentasettenne è di per sé una scossa salutare. Il problema, per l’Italia che chiede un governo credibile e per il Pd che si candida a guidarlo, è capire la natura della scossa, e la cultura che la muove. Il sindaco di Firenze comincia a dare qualche risposta. Ma i dubbi restano. Nessuno vuole rivivere gli incubi della «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto: ma dove porta il camper di Renzi? Nessuno vuole rivangare i sogni delle antiche famiglie politiche del Novecento: ma cosa c’è oltre la «dottrina del nuovismo» purchessia?
Il «manifesto di Verona», con il quale avvia ufficialmente la sua corsa per le primarie, è la cosa migliore che Renzi abbia prodotto in politica finora. Il mezzo è vecchio (il camper lo usò Craxi nei ruggenti Anni Ottanta, con esiti non proprio felici). Il messaggio è abusato («Adesso» è lo stesso slogan adottato a suo tempo da Dario Franceschini, esponente dell’esecrata «nomenklatura »). Ma nell’insieme, il sindaco ha fatto un discorso brillante nella forma, qua e là persino convincente nella sostanza. Soprattutto, forse per la prima volta, ha azzardato uno sforzo per riempire di contenuti una piattaforma programmatica che fino ad oggi era apparsa clamorosamente vuota.
L’obiettivo è stato raggiunto solo in parte. Il «sincretismo» renziano, da generico qual era, diventa ora magmatico, a furia di distinguere tutto quello che serve all’Italia «dei prossimi 25 anni». Dentro c’è di tutto. E c’è anche troppo (mutuato dalla collaudata residenza fiorentina e dalla recente esperienza alla convention obamiana di Charlotte). La «civil partnership» e il «freedom information act». La difesa dello «ius soli» e la critica all’articolo 18. La richiesta di aiuti fiscali alla famiglia e lo stop ai vitalizi dei parlamentari. L’attacco alla «burocrazia forte» dentro il partito e l’accusa all’«Italia dei capi di gabinetto » asserragliati dentro i ministeri. Renzi, una volta tanto, prova ad uscire dai panni del truce e semplice rottamatore degli «apparatciki». Tenta di accreditarsi anche come «costruttore» di un progetto nuovo e diverso, con il quale non vuole limitarsi a vincere la battaglia per la leadership del Pd, ma anche quella per la premiership del Paese. Ma in questo la strada da fare è ancora lunghissima. Non basta evocare «l’agenda Monti» come fosse un esorcismo. Non basta invocare la triade «Europa, futuro e merito» come fosse una formula magica. La proposta politica renziana resta incerta e sfocata, soprattutto dal punto di vista identitario.
Il sindaco ha ragione a bollare la «foto del Palazzaccio» che immortala Vendola, Di Pietro e Diliberto, simbolo di un pezzo di sinistra irriducibile e minoritaria che non vuole vincere mai. Ma ha il dovere di spiegare qual è il centrosinistra responsabile e maggioritario che lui propone agli elettori delle primarie. Quali sono i suoi valori nella crisi violenta del lavoro e del Welfare, e come si declinano e si bilanciano tra loro l’uguaglianza, la libertà, la solidarietà. Allo stesso modo, il sindaco ha ragione a voler predicare in «terra di infedeli», andando a cercare consensi anche nella metà del campo dei tanti delusi da Berlusconi. Ma non può non vedere che la ricerca affannata del Sacro Graal del voto moderato al centro rischia di far perdere al partito quello del voto radicato a sinistra. Non può non accorgersi che se Angelino Alfano si spinge a dire «Renzi è uno dei nostri, se perde le primarie voterà per il Pdl», la sua piattaforma culturale e politica è a dir poco ambigua, se non addirittura ambivalente.
Certo, è anche seducente. Ma alla fine rischia di esserlo perché intercetta l’onda d’urto del «rinnovamento » a ogni costo, che tutto convoglia e tutto travolge. Un’onda alta che c’è nel Paese e che c’è anche nella sinistra. Che andrebbe ascoltata. Ma anche «domata» e depurata di quel tanto di qualunquismo e di populismo che la fa crescere. Non solo cavalcata in nome del «nuovo che avanza», spesso privo di altri obiettivi se non quello di spazzare via il «vecchio che resiste». Su quest’onda il camper di Renzi sale con oggettiva destrezza mediatica. E poiché l’onda si gonfia, Bersani farebbe bene comunque a non sottovalutare un avversario che persino da perdente potrebbe scompaginare il campo già squassato del Pd.
Qui si apre un altro problema. La debolezza identitaria di Renzi è speculare a quella nella quale sta lentamente e pericolosamente scivolando lo stesso Bersani. Preda di troppe pressioni esterne e di troppe contraddizioni interne, il segretario rischia a sua volta di vagare nella zona grigia che si apre tra il movimentismo dell’ala renziana e il radicalismo dell’anima «socialdemocratica ». È il difetto di fabbrica di questo Pd, che arriva alle primarie senza ancora sapere cos’è. Un partito che spera sia proprio il rito purificatore delle primarie a forgiare il suo profilo identitario. Senza capire che un’identità, se c’è, esiste prima e resiste anche dopo. Le primarie servono solo a selezionare il leader più capace a incarnarla. A trasformarla in programma. Ad offrirla, condivisa e risolta, ai cittadini-elettori.

La Repubblica 14.09.12

"Cosa c'è in quel camper", di Massimo Giannini

LA «discesa in camper» di Matteo Renzi è una novità politica oggettiva. Va giudicata senza pregiudizi. In un Paese marchiato a fuoco dal delirio di potenza berlusconiano e da un establishment impermeabile al ricambio, la sfida lanciata a viso aperto da un trentasettenne è di per sé una scossa salutare. Il problema, per l’Italia che chiede un governo credibile e per il Pd che si candida a guidarlo, è capire la natura della scossa, e la cultura che la muove. Il sindaco di Firenze comincia a dare qualche risposta. Ma i dubbi restano. Nessuno vuole rivivere gli incubi della «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto: ma dove porta il camper di Renzi? Nessuno vuole rivangare i sogni delle antiche famiglie politiche del Novecento: ma cosa c’è oltre la «dottrina del nuovismo» purchessia?
Il «manifesto di Verona», con il quale avvia ufficialmente la sua corsa per le primarie, è la cosa migliore che Renzi abbia prodotto in politica finora. Il mezzo è vecchio (il camper lo usò Craxi nei ruggenti Anni Ottanta, con esiti non proprio felici). Il messaggio è abusato («Adesso» è lo stesso slogan adottato a suo tempo da Dario Franceschini, esponente dell’esecrata «nomenklatura »). Ma nell’insieme, il sindaco ha fatto un discorso brillante nella forma, qua e là persino convincente nella sostanza. Soprattutto, forse per la prima volta, ha azzardato uno sforzo per riempire di contenuti una piattaforma programmatica che fino ad oggi era apparsa clamorosamente vuota.
L’obiettivo è stato raggiunto solo in parte. Il «sincretismo» renziano, da generico qual era, diventa ora magmatico, a furia di distinguere tutto quello che serve all’Italia «dei prossimi 25 anni». Dentro c’è di tutto. E c’è anche troppo (mutuato dalla collaudata residenza fiorentina e dalla recente esperienza alla convention obamiana di Charlotte). La «civil partnership» e il «freedom information act». La difesa dello «ius soli» e la critica all’articolo 18. La richiesta di aiuti fiscali alla famiglia e lo stop ai vitalizi dei parlamentari. L’attacco alla «burocrazia forte» dentro il partito e l’accusa all’«Italia dei capi di gabinetto » asserragliati dentro i ministeri. Renzi, una volta tanto, prova ad uscire dai panni del truce e semplice rottamatore degli «apparatciki». Tenta di accreditarsi anche come «costruttore» di un progetto nuovo e diverso, con il quale non vuole limitarsi a vincere la battaglia per la leadership del Pd, ma anche quella per la premiership del Paese. Ma in questo la strada da fare è ancora lunghissima. Non basta evocare «l’agenda Monti» come fosse un esorcismo. Non basta invocare la triade «Europa, futuro e merito» come fosse una formula magica. La proposta politica renziana resta incerta e sfocata, soprattutto dal punto di vista identitario.
Il sindaco ha ragione a bollare la «foto del Palazzaccio» che immortala Vendola, Di Pietro e Diliberto, simbolo di un pezzo di sinistra irriducibile e minoritaria che non vuole vincere mai. Ma ha il dovere di spiegare qual è il centrosinistra responsabile e maggioritario che lui propone agli elettori delle primarie. Quali sono i suoi valori nella crisi violenta del lavoro e del Welfare, e come si declinano e si bilanciano tra loro l’uguaglianza, la libertà, la solidarietà. Allo stesso modo, il sindaco ha ragione a voler predicare in «terra di infedeli», andando a cercare consensi anche nella metà del campo dei tanti delusi da Berlusconi. Ma non può non vedere che la ricerca affannata del Sacro Graal del voto moderato al centro rischia di far perdere al partito quello del voto radicato a sinistra. Non può non accorgersi che se Angelino Alfano si spinge a dire «Renzi è uno dei nostri, se perde le primarie voterà per il Pdl», la sua piattaforma culturale e politica è a dir poco ambigua, se non addirittura ambivalente.
Certo, è anche seducente. Ma alla fine rischia di esserlo perché intercetta l’onda d’urto del «rinnovamento » a ogni costo, che tutto convoglia e tutto travolge. Un’onda alta che c’è nel Paese e che c’è anche nella sinistra. Che andrebbe ascoltata. Ma anche «domata» e depurata di quel tanto di qualunquismo e di populismo che la fa crescere. Non solo cavalcata in nome del «nuovo che avanza», spesso privo di altri obiettivi se non quello di spazzare via il «vecchio che resiste». Su quest’onda il camper di Renzi sale con oggettiva destrezza mediatica. E poiché l’onda si gonfia, Bersani farebbe bene comunque a non sottovalutare un avversario che persino da perdente potrebbe scompaginare il campo già squassato del Pd.
Qui si apre un altro problema. La debolezza identitaria di Renzi è speculare a quella nella quale sta lentamente e pericolosamente scivolando lo stesso Bersani. Preda di troppe pressioni esterne e di troppe contraddizioni interne, il segretario rischia a sua volta di vagare nella zona grigia che si apre tra il movimentismo dell’ala renziana e il radicalismo dell’anima «socialdemocratica ». È il difetto di fabbrica di questo Pd, che arriva alle primarie senza ancora sapere cos’è. Un partito che spera sia proprio il rito purificatore delle primarie a forgiare il suo profilo identitario. Senza capire che un’identità, se c’è, esiste prima e resiste anche dopo. Le primarie servono solo a selezionare il leader più capace a incarnarla. A trasformarla in programma. Ad offrirla, condivisa e risolta, ai cittadini-elettori.
La Repubblica 14.09.12

"Università, questi concorsi non la salveranno", di Luciano Modica

I concorsi universitari sono un argomento maledetto: piace troppo ai professori universitari e disgusta tutti gli altri. Un argomento su cui si discute da sempre e per il quale non esistono soluzioni perfette. Un argomento fonte di molti scandali, anche se di impatto effettivo minore di quanto si voglia far credere. Un argomento comunque importante perché regola lo sviluppo della ricerca e l’emergere dei migliori talenti.
Sono molti anni che i concorsi universitari sono andati in tilt. Dopo diciannove anni di rari e criticati (all’epoca) concorsi nazionali, dopo otto anni di frequenti e criticati concorsi locali, la legge Moratti del 2005 aveva introdotto nuove procedure. Ma la fretta con cui furono emanati i decreti applicativi all’approssimarsi delle elezioni politiche del 2006 fece sì che questi risultassero tecnicamente inapplicabili. Così, dopo due anni di blocco, una legge del governo Prodi riaprì temporaneamente i concorsi locali per il solo 2008. Ne è seguito, dal 2009, un nuovo blocco che si sarebbe dovuto sciogliere con l’applicazione della legge Gelmini del dicembre 2010. Però, a due anni di distanza, siamo ancora nelle fasi preliminari e quindi, in sostanza, da sette anni il sistema del reclutamento e delle promozioni è entrato in crisi, con gravi conseguenze sul mondo universitario delle quali al suo esterno nessuno sembra rendersi davvero conto. L’effetto più perverso è che molti giovani e brillanti ricercatori italiani, in assenza di prospettive certe, hanno accettato proposte di assunzione di università straniere. Ma non è l’unico.
Il nuovo sistema della legge Gelmini, che segue peraltro proposte avanzate dagli esperti sin dal 2004, ha spezzato la procedura del reclutamento e delle promozioni in due fasi. La prima nazionale, che porta al conseguimento di un’abilitazione scientifica (a numero aperto); la seconda locale, riservata ai soli abilitati, che permette ad un ateneo, dopo una selezione competitiva, di reclutare un nuovo professore. Attualmente è aperto il primo bando per il conseguimento dell’abilitazione nazionale ma nuvole nere si addensano già sul suo futuro. Fioccano gli interventi critici sulla stampa e sui siti specializzati (uno di questi ha raggiunto il milione di accessi in soli dieci mesi di vita), come non mancano le prese di distanza degli organi rappresentativi universitari e anche i ricorsi ai tribunali amministrativi proposti da autorevoli giuristi. L’argomento del contendere è, in fondo, uno solo. Nel giugno scorso un decreto ministeriale ha fissato, su indicazione dell’Agenzia nazionale di valutazione universitaria (Anvur), i criteri e i parametri per valutare i curricula dei candidati e la qualificazione dei commissari. Questi criteri e parametri sono ampiamente condivisibili, al di là di questioni di dettaglio, e costituiscono una profonda e interessante analisi dei numerosi e disparati fattori che contribuiscono a delineare la qualità scientifica di un docente universitario. In un punto il decreto ha però voluto strafare, introducendo alcuni indicatori qualiquantitativi di tipo sostanzialmente bibliometrico, per i quali sembra che occorra superare alcune soglie numeriche (le famose mediane) per essere ammessi rispettivamente all’abilitazione o al sorteggio per le commissioni giudicatrici. Sembra? Il punto è proprio questo. Il decreto, il cui testo non fa onore agli estensori tanto è intricato, in un comma afferma che possono essere abilitati esclusivamente i candidati che superano le soglie numeriche previste, in un altro che le commissioni possono utilizzare criteri diversi.
Tutti gli indicatori bibliometrici sono interessanti ma presentano forti limiti di descrittività, documentate da miriadi di analisi pubblicate sulle riviste specializzate, tanto che in nessun paese sono utilizzati in modo automatico e vincolante per reclutare o promuovere i docenti. Speriamo che l’Italia non si lanci incautamente nell’essere il primo a farlo, perché le conseguenze potrebbero essere addirittura disastrose per il futuro dell’università, come è stato ripetutamente segnalato da alcuni tra i più validi intellettuali italiani di varie discipline. Recentemente i componenti del consiglio direttivo dell’Anvur hanno diffuso l’idea che il superamento delle mediane non sia in realtà prescrittivo. Ma, in temi di diritto, il decreto ministeriale prevale evidentemente su ogni altra pur autorevole considerazione. Avanzo allora una modesta proposta al ministro Profumo: intervenga autorevolmente e chiarisca una volta per tutte, meglio se con un provvedimento normativo erga omnes, che il superamento delle mediane è uno dei fattori di cui le commissioni dovranno tener conto e non la condizione necessaria per conseguire l’abilitazione. È forse il modo migliore per salvare l’intera procedura dell’abilitazione, per rimettere in moto il sistema concorsuale bloccato, per garantire parità di trattamento contro ogni gattopardismo universitario, per raccogliere con saggezza le critiche motivate riguardanti i parametri bibliometrici. Ma soprattutto è il modo migliore per salvaguardare l’irriducibile e positiva complessità della mappa dei saperi nelle università e quindi la sopravvivenza di intere nicchie disciplinari di grande prestigio internazionale e valore culturale, anche quando fanno capo a piccole comunità o si caratterizzano per approcci innovativi o interdisciplinari.

da Europa Quotidiano 14.09.12

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“Il modo sbagliato per valutare i prof universitari”, di Carlo Rimini

Si è rimessa in moto la macchina dei concorsi per professore universitario. È una buona notizia, ma ieri il Cun (Consiglio Universitario Nazionale) ha presentato una mozione in cui chiede che il ministro dell’Istruzione intervenga per garantire «trasparenza in merito alle procedure».

Si è rimessa in moto la macchina dei concorsi per professore universitario. È una buona notizia, ma ieri il Cun (Consiglio Universitario Nazionale) ha presentato una mozione in cui chiede che il ministro dell’Istruzione intervenga per garantire «trasparenza in merito alle procedure». È un segno forte del fatto che qualche cosa non sta funzionando nel modo giusto. Il Cun chiede anche al ministro di «voler autorevolmente intervenire affinché sia chiaramente stabilito… se il superamento dei valori mediani degli indicatori quantitativi abbia o meno natura vincolante ai fini del conseguimento dell’abilitazione». Ad una prima lettura non si capisce nulla: solo che è in atto un oscuro confronto fra gli organi amministrativi che stanno definendo le regole della procedura e il Cun. Un contrasto che preoccupa perché dall’applicazione di queste norme dipende la scelta di coloro che educheranno le prossime generazioni di studenti italiani, dipende la qualità della nostra futura ricerca scientifica.
La riforma Gelmini ha previsto che il reclutamento avvenga con una procedura che si articola in due fasi: un ricercatore diventa professore se vince un concorso bandito localmente da ciascuna università, ma al concorso possono partecipare solo candidati che siano stati preventivamente dichiarati idonei da una commissione nazionale. Il 22 luglio scorso è stata indetta la procedura per il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale e durante l’estate il ministero e l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario (Anvur) hanno prodotto la normativa destinata a regolare i lavori della commissione nazionale per il conferimento delle idoneità. A giugno il ministero ha definito gli «indicatori di attività scientifica» ed ha affermato che la commissione dovrà «misurare l’impatto della produzione scientifica del candidato». Questa frase nasconde una scelta filosofica: la ricerca scientifica è una quantità suscettibile di essere misurata. Ma come si misura la quantità della ricerca? La norma fondamentale del decreto di giugno afferma che «l’abilitazione può essere attribuita esclusivamente ai candidati i cui indicatori dell’importanza e dell’impatto della produzione scientifica complessiva presentino i valori richiesti». E quali sono questi valori? Il parametro fondamentale è la «mediana», cioè la media della produttività scientifica di coloro che sono già professori. Il candidato a conseguire l’abilitazione deve avere prodotto pubblicazioni superiori alla media, altrimenti è escluso. Le pubblicazioni – almeno nel calcolo di uno degli indicatori – sono valutate per il loro numero. Ciò significa che, per partecipare alla procedura di valutazione nazionale, bisogna avere scritto un certo numero di libri, oppure un certo numero di articoli pubblicati su riviste scientifiche. Non conta la serietà dell’editore e la diffusione dell’articolo o del libro e neppure conta il numero di pagine che lo studioso ha scritto: tre libri di cento pagine ciascuno che nessuno ha letto consentono di partecipare alla selezione; un libro di mille pagine che ha dato un contributo decisivo alla ricerca in un certo settore scientifico invece non basta. Il senso dell’interrogazione del Cun al ministro è dunque questo: possibile che il sistema sia così stolto?

Conosco un giovane studioso italiano che, nel giugno scorso, ha saputo che un’importante università canadese aveva bandito un concorso per un professore nella sua materia. Ha mandato per posta la domanda e l’elenco delle sue pubblicazioni. Dopo qualche settimana è stato contattato: i professori del dipartimento che aveva bandito il concorso volevano conoscerlo, assieme ad alcuni degli altri candidati. Hanno passato assieme una giornata, confrontando le rispettive esigenze e discutendo dei loro progetti di ricerca. Lo studioso italiano è stato scelto, come spesso succede, perché ha una preparazione eccellente (l’Italia ha speso molti denari per formarlo!). Prenderà servizio a ottobre: i suoi colleghi italiani intanto aspettavano che l’Anvur calcolasse le mediane. Ecco perché i cervelli italiani fuggono.

La Stampa.it

"Università, questi concorsi non la salveranno", di Luciano Modica

I concorsi universitari sono un argomento maledetto: piace troppo ai professori universitari e disgusta tutti gli altri. Un argomento su cui si discute da sempre e per il quale non esistono soluzioni perfette. Un argomento fonte di molti scandali, anche se di impatto effettivo minore di quanto si voglia far credere. Un argomento comunque importante perché regola lo sviluppo della ricerca e l’emergere dei migliori talenti.
Sono molti anni che i concorsi universitari sono andati in tilt. Dopo diciannove anni di rari e criticati (all’epoca) concorsi nazionali, dopo otto anni di frequenti e criticati concorsi locali, la legge Moratti del 2005 aveva introdotto nuove procedure. Ma la fretta con cui furono emanati i decreti applicativi all’approssimarsi delle elezioni politiche del 2006 fece sì che questi risultassero tecnicamente inapplicabili. Così, dopo due anni di blocco, una legge del governo Prodi riaprì temporaneamente i concorsi locali per il solo 2008. Ne è seguito, dal 2009, un nuovo blocco che si sarebbe dovuto sciogliere con l’applicazione della legge Gelmini del dicembre 2010. Però, a due anni di distanza, siamo ancora nelle fasi preliminari e quindi, in sostanza, da sette anni il sistema del reclutamento e delle promozioni è entrato in crisi, con gravi conseguenze sul mondo universitario delle quali al suo esterno nessuno sembra rendersi davvero conto. L’effetto più perverso è che molti giovani e brillanti ricercatori italiani, in assenza di prospettive certe, hanno accettato proposte di assunzione di università straniere. Ma non è l’unico.
Il nuovo sistema della legge Gelmini, che segue peraltro proposte avanzate dagli esperti sin dal 2004, ha spezzato la procedura del reclutamento e delle promozioni in due fasi. La prima nazionale, che porta al conseguimento di un’abilitazione scientifica (a numero aperto); la seconda locale, riservata ai soli abilitati, che permette ad un ateneo, dopo una selezione competitiva, di reclutare un nuovo professore. Attualmente è aperto il primo bando per il conseguimento dell’abilitazione nazionale ma nuvole nere si addensano già sul suo futuro. Fioccano gli interventi critici sulla stampa e sui siti specializzati (uno di questi ha raggiunto il milione di accessi in soli dieci mesi di vita), come non mancano le prese di distanza degli organi rappresentativi universitari e anche i ricorsi ai tribunali amministrativi proposti da autorevoli giuristi. L’argomento del contendere è, in fondo, uno solo. Nel giugno scorso un decreto ministeriale ha fissato, su indicazione dell’Agenzia nazionale di valutazione universitaria (Anvur), i criteri e i parametri per valutare i curricula dei candidati e la qualificazione dei commissari. Questi criteri e parametri sono ampiamente condivisibili, al di là di questioni di dettaglio, e costituiscono una profonda e interessante analisi dei numerosi e disparati fattori che contribuiscono a delineare la qualità scientifica di un docente universitario. In un punto il decreto ha però voluto strafare, introducendo alcuni indicatori qualiquantitativi di tipo sostanzialmente bibliometrico, per i quali sembra che occorra superare alcune soglie numeriche (le famose mediane) per essere ammessi rispettivamente all’abilitazione o al sorteggio per le commissioni giudicatrici. Sembra? Il punto è proprio questo. Il decreto, il cui testo non fa onore agli estensori tanto è intricato, in un comma afferma che possono essere abilitati esclusivamente i candidati che superano le soglie numeriche previste, in un altro che le commissioni possono utilizzare criteri diversi.
Tutti gli indicatori bibliometrici sono interessanti ma presentano forti limiti di descrittività, documentate da miriadi di analisi pubblicate sulle riviste specializzate, tanto che in nessun paese sono utilizzati in modo automatico e vincolante per reclutare o promuovere i docenti. Speriamo che l’Italia non si lanci incautamente nell’essere il primo a farlo, perché le conseguenze potrebbero essere addirittura disastrose per il futuro dell’università, come è stato ripetutamente segnalato da alcuni tra i più validi intellettuali italiani di varie discipline. Recentemente i componenti del consiglio direttivo dell’Anvur hanno diffuso l’idea che il superamento delle mediane non sia in realtà prescrittivo. Ma, in temi di diritto, il decreto ministeriale prevale evidentemente su ogni altra pur autorevole considerazione. Avanzo allora una modesta proposta al ministro Profumo: intervenga autorevolmente e chiarisca una volta per tutte, meglio se con un provvedimento normativo erga omnes, che il superamento delle mediane è uno dei fattori di cui le commissioni dovranno tener conto e non la condizione necessaria per conseguire l’abilitazione. È forse il modo migliore per salvare l’intera procedura dell’abilitazione, per rimettere in moto il sistema concorsuale bloccato, per garantire parità di trattamento contro ogni gattopardismo universitario, per raccogliere con saggezza le critiche motivate riguardanti i parametri bibliometrici. Ma soprattutto è il modo migliore per salvaguardare l’irriducibile e positiva complessità della mappa dei saperi nelle università e quindi la sopravvivenza di intere nicchie disciplinari di grande prestigio internazionale e valore culturale, anche quando fanno capo a piccole comunità o si caratterizzano per approcci innovativi o interdisciplinari.
da Europa Quotidiano 14.09.12
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“Il modo sbagliato per valutare i prof universitari”, di Carlo Rimini
Si è rimessa in moto la macchina dei concorsi per professore universitario. È una buona notizia, ma ieri il Cun (Consiglio Universitario Nazionale) ha presentato una mozione in cui chiede che il ministro dell’Istruzione intervenga per garantire «trasparenza in merito alle procedure».
Si è rimessa in moto la macchina dei concorsi per professore universitario. È una buona notizia, ma ieri il Cun (Consiglio Universitario Nazionale) ha presentato una mozione in cui chiede che il ministro dell’Istruzione intervenga per garantire «trasparenza in merito alle procedure». È un segno forte del fatto che qualche cosa non sta funzionando nel modo giusto. Il Cun chiede anche al ministro di «voler autorevolmente intervenire affinché sia chiaramente stabilito… se il superamento dei valori mediani degli indicatori quantitativi abbia o meno natura vincolante ai fini del conseguimento dell’abilitazione». Ad una prima lettura non si capisce nulla: solo che è in atto un oscuro confronto fra gli organi amministrativi che stanno definendo le regole della procedura e il Cun. Un contrasto che preoccupa perché dall’applicazione di queste norme dipende la scelta di coloro che educheranno le prossime generazioni di studenti italiani, dipende la qualità della nostra futura ricerca scientifica.
La riforma Gelmini ha previsto che il reclutamento avvenga con una procedura che si articola in due fasi: un ricercatore diventa professore se vince un concorso bandito localmente da ciascuna università, ma al concorso possono partecipare solo candidati che siano stati preventivamente dichiarati idonei da una commissione nazionale. Il 22 luglio scorso è stata indetta la procedura per il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale e durante l’estate il ministero e l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario (Anvur) hanno prodotto la normativa destinata a regolare i lavori della commissione nazionale per il conferimento delle idoneità. A giugno il ministero ha definito gli «indicatori di attività scientifica» ed ha affermato che la commissione dovrà «misurare l’impatto della produzione scientifica del candidato». Questa frase nasconde una scelta filosofica: la ricerca scientifica è una quantità suscettibile di essere misurata. Ma come si misura la quantità della ricerca? La norma fondamentale del decreto di giugno afferma che «l’abilitazione può essere attribuita esclusivamente ai candidati i cui indicatori dell’importanza e dell’impatto della produzione scientifica complessiva presentino i valori richiesti». E quali sono questi valori? Il parametro fondamentale è la «mediana», cioè la media della produttività scientifica di coloro che sono già professori. Il candidato a conseguire l’abilitazione deve avere prodotto pubblicazioni superiori alla media, altrimenti è escluso. Le pubblicazioni – almeno nel calcolo di uno degli indicatori – sono valutate per il loro numero. Ciò significa che, per partecipare alla procedura di valutazione nazionale, bisogna avere scritto un certo numero di libri, oppure un certo numero di articoli pubblicati su riviste scientifiche. Non conta la serietà dell’editore e la diffusione dell’articolo o del libro e neppure conta il numero di pagine che lo studioso ha scritto: tre libri di cento pagine ciascuno che nessuno ha letto consentono di partecipare alla selezione; un libro di mille pagine che ha dato un contributo decisivo alla ricerca in un certo settore scientifico invece non basta. Il senso dell’interrogazione del Cun al ministro è dunque questo: possibile che il sistema sia così stolto?
Conosco un giovane studioso italiano che, nel giugno scorso, ha saputo che un’importante università canadese aveva bandito un concorso per un professore nella sua materia. Ha mandato per posta la domanda e l’elenco delle sue pubblicazioni. Dopo qualche settimana è stato contattato: i professori del dipartimento che aveva bandito il concorso volevano conoscerlo, assieme ad alcuni degli altri candidati. Hanno passato assieme una giornata, confrontando le rispettive esigenze e discutendo dei loro progetti di ricerca. Lo studioso italiano è stato scelto, come spesso succede, perché ha una preparazione eccellente (l’Italia ha speso molti denari per formarlo!). Prenderà servizio a ottobre: i suoi colleghi italiani intanto aspettavano che l’Anvur calcolasse le mediane. Ecco perché i cervelli italiani fuggono.
La Stampa.it

"Vecchie e a rischio terremoto L’identikit delle scuole italiane", di Flavia Amabile

Dopo anni di promesse mai mantenute, il ministro Francesco Profumo ha deciso di fare quello che i suoi predecessori non erano riusciti: rendere pubblici i dati disponibili sull’Anagrafe dell’edilizia scolastica. Sono cifre non belle da leggere, lo stesso ministero parla di una «situazione fatta di luci e ombre, con eccellenze e situazioni più difficili sulle quali è necessario intervenire». E promette interventi, infatti: 680 milioni di euro e fondi immobiliari.

I dati sono ancora incompleti, nonostante si lavori da circa vent’anni alla costruzione dell’Anagrafe. In questo caso la responsabilità è degli istituti: su 10.219 istituzioni scolastiche hanno risposto all’appello in 9.806; gli edifici censiti sono stati 36.220 (un’istituzione scolastica può includere più edifici).

Le scuole sono vecchie: 4 su 100 risalgono addirittura all’Ottocento in particolare in Piemonte dove questa percentuale sale a 10 edifici su 100. Quasi la metà delle scuole italiane, il 44%, risale agli anni tra il 1961 e il 1980. quando si costruiva con poca sensibilità verso i criteri antisismici, come spiega il Miur che ammette: gli istituti di questo periodo andrebbero ricostruiti Il 14,8% è stato riadattato per uso scolastico e il 4% è di proprietà di enti religiosi o privati.

Soltanto una minoranza, il 17,7% degli edifici, è in possesso del certificato di prevenzione incendi. Tuttavia il 66,5% delle scuole possiede un impianto idrico antincendio, il 49,3% dispone di una scala interna di sicurezza, il 61,5% possiede la dichiarazione di conformità dell’impianto elettrico,il 63% è munito di un sistema di allarme, il 98,3% è in possesso di estintori portatili, il 95,1% possiede un sistema di segnaletica di sicurezza.

I maggiori problemi appaiono nelle regioni del Sud. In Calabria soltanto il 33,7% ha una scala esterna e la metà degli edifici siciliani, il 49%, ha impianti elettrici non in regola.

Altissimo il rischio sismico. Su 25.532 edifici per i quali è stata comunicata la classificazione sismica, 2.328 edifici sorgono nelle zone più pericolose dal punto di vista sismico e 11.414 si trovano in territori in cui in passato si sono avuti danni rilevanti a causa di terremoti abbastanza forti. Per quanto riguarda la certificazione 3.745 edifici sono progettati rispettando la normativa antisismica e 1.614 sono in possesso del certificato di conformità, vale a dire un certificato che attesta la perfetta rispondenza dell’opera eseguita alle norme per le costruzioni in zona sismica. La percentuale più alta di edifici scolastici classificati in Zona 1 (la più pericolosa) si registra in Calabria, 53,6%, seguita da Basilicata (33,5%) e Abruzzo (20,7%).

I primi interventi sono in arrivo per le regioni del Sud, sono 680 milioni di euro ricavati da risorse europee per interventi di riqualificazione e messa in sicurezza degli immobili scolastici. Saranno coinvolte 1.565 scuole: in Calabria 111,6 milioni di euro per interventi in 257 scuole, in Campania 273,5 milioni per 625 scuole, in Puglia 51,6 milioni di euro per 121 scuole, in Sicilia 244,3 milioni di euro per 562 scuole.

Ma il Miur intende anche lanciare fondi immobiliari a livello locale per costruire nuove strutture superando in questo modo i limiti di spesa imposti dal Patto di stabilità interno.

La Stampa 14.09.12

"Vecchie e a rischio terremoto L’identikit delle scuole italiane", di Flavia Amabile

Dopo anni di promesse mai mantenute, il ministro Francesco Profumo ha deciso di fare quello che i suoi predecessori non erano riusciti: rendere pubblici i dati disponibili sull’Anagrafe dell’edilizia scolastica. Sono cifre non belle da leggere, lo stesso ministero parla di una «situazione fatta di luci e ombre, con eccellenze e situazioni più difficili sulle quali è necessario intervenire». E promette interventi, infatti: 680 milioni di euro e fondi immobiliari.
I dati sono ancora incompleti, nonostante si lavori da circa vent’anni alla costruzione dell’Anagrafe. In questo caso la responsabilità è degli istituti: su 10.219 istituzioni scolastiche hanno risposto all’appello in 9.806; gli edifici censiti sono stati 36.220 (un’istituzione scolastica può includere più edifici).
Le scuole sono vecchie: 4 su 100 risalgono addirittura all’Ottocento in particolare in Piemonte dove questa percentuale sale a 10 edifici su 100. Quasi la metà delle scuole italiane, il 44%, risale agli anni tra il 1961 e il 1980. quando si costruiva con poca sensibilità verso i criteri antisismici, come spiega il Miur che ammette: gli istituti di questo periodo andrebbero ricostruiti Il 14,8% è stato riadattato per uso scolastico e il 4% è di proprietà di enti religiosi o privati.
Soltanto una minoranza, il 17,7% degli edifici, è in possesso del certificato di prevenzione incendi. Tuttavia il 66,5% delle scuole possiede un impianto idrico antincendio, il 49,3% dispone di una scala interna di sicurezza, il 61,5% possiede la dichiarazione di conformità dell’impianto elettrico,il 63% è munito di un sistema di allarme, il 98,3% è in possesso di estintori portatili, il 95,1% possiede un sistema di segnaletica di sicurezza.
I maggiori problemi appaiono nelle regioni del Sud. In Calabria soltanto il 33,7% ha una scala esterna e la metà degli edifici siciliani, il 49%, ha impianti elettrici non in regola.
Altissimo il rischio sismico. Su 25.532 edifici per i quali è stata comunicata la classificazione sismica, 2.328 edifici sorgono nelle zone più pericolose dal punto di vista sismico e 11.414 si trovano in territori in cui in passato si sono avuti danni rilevanti a causa di terremoti abbastanza forti. Per quanto riguarda la certificazione 3.745 edifici sono progettati rispettando la normativa antisismica e 1.614 sono in possesso del certificato di conformità, vale a dire un certificato che attesta la perfetta rispondenza dell’opera eseguita alle norme per le costruzioni in zona sismica. La percentuale più alta di edifici scolastici classificati in Zona 1 (la più pericolosa) si registra in Calabria, 53,6%, seguita da Basilicata (33,5%) e Abruzzo (20,7%).
I primi interventi sono in arrivo per le regioni del Sud, sono 680 milioni di euro ricavati da risorse europee per interventi di riqualificazione e messa in sicurezza degli immobili scolastici. Saranno coinvolte 1.565 scuole: in Calabria 111,6 milioni di euro per interventi in 257 scuole, in Campania 273,5 milioni per 625 scuole, in Puglia 51,6 milioni di euro per 121 scuole, in Sicilia 244,3 milioni di euro per 562 scuole.
Ma il Miur intende anche lanciare fondi immobiliari a livello locale per costruire nuove strutture superando in questo modo i limiti di spesa imposti dal Patto di stabilità interno.
La Stampa 14.09.12