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Milioni di oriundi possono diventare “cittadini italiani”. Un diritto negato ai minori stranieri che vivono in Italia


L’immagine è tratta dal sito web L’Italia sono anch’io

Tutti i discendenti di seconda, terza, quarta generazione ed oltre, di italiani maschi (dal 13/6/1912 fino al 31/12/1947) e di donne italiane (dall’entrata in vigore della Costituzione, anche se c’è voluta una sentenza della Corte Costituzionale del 1983 per ribadire il principio di parità tra uomo e donna anche in questo ambito) sono da considerarsi a tutti gli effetti cittadini italiani e per l’ottenimento della cittadinanza dovranno solamente seguire un determinata procedura (molto italica, data la quantità di documenti da riprodurre…).
In altre parole, per lo Stato italiano può diventare cittadino un ragazzo nato e cresciuto, ad esempio, in Sud America da discendenti italiani: poco importa che, essendo magari di quarta generazione, non parli la lingua bensì il dialetto dei nonni probabilmente corrotto dai decenni di contaminazione linguistica con il paese “ospite”, che non conosca la storia e la cultura italiana o che non vi abbia mai messo piede. È di questi giorni la notizia che migliaia venezuelani di origine italiana – stante l’incertezza politica di quel Paese – hanno avanzato istanza del passaporto (300mila le domande da “orinundi” ancora inevase). Per la loro “italianità” garantisce il sangue degli avi…
È questo il principio dello iure sanguinis: ovunque tu sia nato, acquisisci comunque la cittadinanza se discendi da un avo italiano. Una norma voluta all’inizio del secolo scorso (e transitata nella legge 91 del 1992) per far fronte all’emorragia di cittadini italiani che emigravano, soprattutto nelle Americhe, e che individua il fondamento giuridico dell’appartenenza ad un comunità nella teoria “genetica”, cioè sul legame sanguineo.
“Sentirsi” parte di una famiglia è condizione che va ben oltre il sangue e il patrimonio genetico di chi ci ha generato. A maggior ragione, sentirsi componente a tutti gli effetti di una comunità nazionale è una elaborazione soprattutto culturale, che parte dalla lingua ma transita per “gli usi e costumi” quotidiani, come il cibo, la moda, le espressioni artistiche, i modi di interpretare la vita… Eppure ad un/una ragazzo/a giunti giovanissimi nel nostro Paese ma nati da genitori stranieri non comunitari, che magari hanno frequentato tutto il percorso scolastico e sono arrivati a laurearsi (è il caso – non isolato – di Ilham Mounssif, di 22 anni, marocchina che racconta la sua storia oggi su Repubblica), si esprimono in un italiano più corretto di molti coetanei e vivono quotidianamente la condizione di “essere italiano”, la cittadinanza non viene concessa. Va richiesta secondo una procedura che, attualmente, dispone vincoli rigidi: essere nati in Italia e risiedervi legalmente e ininterrottamente fino alla maggiore età, nonché avere un reddito personale di 9000 euro, che nemmeno la stragrande maggioranza dei giovani italiani ha a 18 anni. Si tratta di condizioni molto restrittive rispetto a quanto richiesto al giovane venezuelano… I tempi peraltro sono lunghi, una media di 4/5 anni, e nel frattempo quel/la giovane resterà comunque “ospite straniero” in quella che è ormai anche la sua Patria…
Questa lunga premessa per dichiarare il mio rammarico per il rinvio dell’approvazione, al Senato, della legge sulla cittadinanza ai figli di immigrati, erroneamente definita ius soli (vedremo dove sta l’errore). Rammarico perché è una legge di buon senso, molto meditata e nata dall’approfondimento delle richiesta avanzate dai “nuovi italiani”.
Secondo il testo all’esame del Senato e già approvato dalla Camera – nel lontano 13 ottobre 2015 con ben 310 sì, 66 no e 83 astenuti – il diritto alla cittadinanza italiana da parte di un minore straniero si acquisisce alle seguenti condizioni, previa dichiarazione di volontà espressa da parte di un genitore legalmente residente in Italia:
1. essere nato in Italia da genitori stranieri di cui almeno uno in possesso del permesso per soggiornanti di lungo periodo, che viene rilasciato solo a chi ha già avuto un permesso di 5 anni, ha un reddito superiore all’assegno sociale, ha un alloggio che risponde ai requisiti di legge e ha superato un test di italiano. Questo diritto non è uno ius soli puro, bensì temperato da condizioni economiche e sociali, ma che individua il luogo di nascita come luogo di radicamento, di integrazione e di crescita;
2. essere nato in Italia o vi abbia fatto ingresso prima dei 12 anni e abbia frequentato per almeno cinque anni uno o più cicli scolastici (questo è lo ius culturae).
Il dibattito pubblico, a proposito della proposta di legge, si rivolge quindi ad una platea circoscritta e che conosciamo bene se solo abbiamo occasione di frequentare, ad esempio, una scuola italiana.
Eppure dai tanti interventi che si leggono sui social si ha l’impressione che molti giudizi non siano espressi nel merito (forse fuorviati anche dalla definizione ius soli), ma si poggino sul sentito dire, sulle proprie convinzioni ideali o ideologiche, a prescindere dalla questione, e sui sentimenti che si materializzano davanti agli attuali sbarchi di migranti. Vero, il legislatore deve tenere conto del tempo storico in cui si agisce – non può astrarsene – ma non può nemmeno esserne condizionato fino alle estreme conseguenze (a meno di non volere una politica orientata solo alla ricerca del consenso e piegata alle esigenze del quotidiano e non a quelle del futuro). Oltre la metà degli italiani (53,1%), interpellati da un recente sondaggio di Euromedia, afferma di essere contrario alla proposta di legge per due motivi: il primo è che altre sono le emergenze del Paese – soprattutto quelle di carattere economico – mentre il secondo è che le nuove modalità per acquisire la cittadinanza sarebbero un invito rivolto ai migranti per approdare ancora più numerosi sulle nostre coste.
Sono ragioni legittime, evidentemente, ma che non condivido.
La prima motivazione, quella “benaltrista”, è destituita di fondamento, poiché una seduta del Senato da dedicare all’approvazione della legge né inficia né preclude l’attività parlamentare sulle questioni economiche, come peraltro dimostra il recente varo della “manovrina” che, insieme al complesso delle precedenti misure approvate dal 2014, permetteranno di affrontare la prossima legge di bilancio con maggiore tranquillità.
La tesi del presunto invito che la legge invierebbe ai migranti economici e richiedenti asili, poi, è smentita dal trend dello stesso fenomeno migratorio, che da tempo non è più emergenziale ma consolidato e in costante crescita per l’instabilità dall’area africana e medio-orientale: quanto accade nel mare nostrum e sulle nostre coste è conseguenza di un fenomeno che ha radici lontane, storiche e geografiche, che necessita di soluzioni sovranazionali – come sta facendo l’Italia in Europa – e che di certo non si intensificherà per l’approvazione di una legge che tende a certificare legalmente quella che è già una appartenenza fisica e materiale alla comunità italiana.
Sui social ho letto anche considerazioni più articolate e caute sull’opportunità ora – stante il pericolo del terrorismo jihadista – di concedere la cittadinanza ai minori per il tramite di un genitore, per evitare che ci si possa ritrovare con un “potenziale terrorista con tanto di Diploma, che ha frequentato le scuole ma odia lo stato in cui è cresciuto e non ha nessuna voglia di essere cittadini”. Vero, quanto accaduto di recente in Francia e in Belgio – e quanto avvenuto nella banlieu parigina e nel quartiere Molenbeek di Brussels nei decenni scorsi, per citare qualche esempio – deve indurci a riflettere sulle pratiche attive dell’integrazione, fondate su inclusione e rispetto della legalità, ma non sarà l’attendere il 18 anno di età per richiedere la cittadinanza a scongiurare istanze fraudolente negli intenti: noi che abbiamo vissuto la stagione dello stragismo nero e delle Brigate Rosse sappiamo cosa significhi l’attacco allo Stato da parte dei propri figli.
Nonostante le mie convinzioni personali, comprendo la cautela politica del Governo Gentiloni nell’annunciare il rinvio dell’esame del provvedimento all’autunno, poiché al Senato mancano i voti – anche da parte di un pezzo della maggioranza – necessari per l’approvazione. Se si è realmente interessati alla legge, non c’è bisogno, come suggerisce qualcuno nel nome della funzione legislativa che spetta al Parlamento, di procedere comunque con i voti in Aula per verificare se i numeri siano davvero insufficienti: se durante l’esame venisse approvato un qualsiasi emendamento contrario alla spirito della proposta, la norma sarebbe definitivamente morta. E non si può mettere a repentaglio l’esecutivo, a poco più di due mesi dalla presentazione della legge di bilancio, stante la posizione contraria assunta da un alleato di Governo, Ap, mentre i voti di SEL non sarebbero sufficienti a compensare le defezioni della maggioranza.
Quello descritto è un mesto quadro di real politik: così come mesti sono i tanti giovani “nuovi italiani” promotori della campagna L’Italia sono anch’io. Per loro, il tempo dell’attesa non è finito.

P.s.: immagino che non pochi lettori di Carpi e dintorni, leggendo questa nota, possano etichettarla come il solito pistolotto buonista di sinistra, insensibile ai veri problemi degli italiani, anche perché è ancora nei loro occhi il danno compiuto da tre giovani non italiani, studenti di due scuole superiori carpigiane e che non avendo meglio da fare nel corso di una notte hanno danneggiato pesantemente 4 minubus di linea oltre che l’ingresso dell’Istituto Meucci. Danni per centinai di migliaia di euro. È giusto che paghino le conseguenze del loro comportamento insensato. Ma il comportamento deplorevole di tre ragazzi non può e non deve obliterare tutte le storie di vita dei loro coetanei che frequentano la scuola con profitto (ne ho premiati alcuni consegnando loro il diploma di maturità del liceo scientifico), che proseguono gli studi universitari (li ho avuti come studenti all’Ateneo di Bologna) e che cercano di inserirsi nel mondo del lavoro. Esattamente come i loro coetanei italiani.