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Jacques Attali «Senza federalismo europeo la moneta unica sarà travolta», di Umberto De Giovannangeli

È uno dei guru dell’economia francese, ex consigliere di Mitterrand e primo presidente della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo. Le misure tampone possono tenere a bada i mercati ma così non si garantirà il futuro Ue. Cedere quote di sovranità nazionale a organismi sovranazionali. Occorre rilanciare la produttività e creare Project bonds, cioè del debito buono. Bisogna finanziare solo progetti generatori di futuri redditi. «Le misure tampone possono forse “calmierare” per un po’ i mercati e cercare di tenere a bada la speculazione finanziaria. Ma non è così che si garantirà un futuro all’Europa: il salto di qualità sta nel cedere sempre più quote di sovranità nazionale a organismi sovranazionali. Si tratta di una scelta politica: oggi più che mai, l’obiettivo a cui tendere, quello su cui convogliare tutte le energie migliori, è il federalismo europeo. Attorno a questo discrimine occorre verificare le alleanze. Il vero “scudo” per l’Europa si chiama federalismo» Governo europeo o la fine stessa dell’euro sarà solo una questione di tempo! A sostenerlo è uno dei guru dell’economia francese: Jacques Attali, 69 anni, ex consigliere di François Mitterrand all’Eliseo, primo presidente della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, ideatore di Planet France, organizzazione non governativa che sostiene progetti di microcredito. «Bisogna pensare più in grande: – rimarca Attali avere non solo una moneta unica, ma anche un bilancio comune, un’unica politica fiscale e uno stesso sistema di monitoraggio del deficit. Non è possibile avere una valuta credibile, se questa valuta non ha dietro una politica di bilancio sostenibile, così come va realizzato, e al più presto, quel percorso, approvato a Bruxelles, verso un’unione bancaria e fiscale. Poi deve ripartire la ripresa, quella vera, fatta di investimenti privati. E deve ripartire in fretta perché l’economia peggiora sempre più».
Il Consiglio Europeo di fine giugno è ancora al centro del dibattito nei singoli Paesi dell’Unione e a livello internazionale. C’è chi si è sbizzarrito a indicare vincitori e vinti.
«È un esercizio che non mi affascina neanche un po’, convinto come sono che una Europa divisa favorisce la speculazione e che compromessi al ribasso finiscono per aggravare la crisi. Una crisi che non è solo finanziaria, economica ma è anche, e soprattutto, crisi politica».
Il che ci porta ad un tema a lei molto caro: quello del federalismo europeo.
«Per fortuna non sono il solo a ritenere che l’Unione europea non potrà uscire da questa crisi senza un cambio di paradigma. Ma ciò che più conta è che un’altra via di uscita è possibile. Essa consiste nel correggere gli squilibri dell’Unione economica e monetaria superando le insufficienze del trattato di Lisbona per andare al di là del coordinamento fra Stati membri. Essa consiste nel denunciare, ridurre e progressivamente annullare i costi della non-Europa. Per giungere a questi risultati occorre rilanciare la produttività attraverso riforme strutturali in particolare nel settore dei servizi ed investimenti in progetti generatori di crescita. Essi esistono già: nella trasmissione di energia e nell’efficienza energetica, nei trasporti puliti e nelle politiche urbane, nell’aeronautica e nella ricerca… gli industriali dispongono di progetti su scala europea per i quali è necessario il concorso finanziario di tutti i Paesi».
Si muove in questa direzione il fondo di 130miliardi di euro per la crescita voluto da Francois Hollande e rilanciato dal vertice di Bruxelles?
«Diciamo che è un primo passo, ma molta altra strada andrà fatta perché si possa parlare di una vera svolta nell’aggredire le ragioni della crisi. Il fattore-tempo è importante tanto quanto la direttrice di marcia a cui tendere. In questa ottica, resta di fondamentale importanza creare dei Project bonds, cioè del debito buono, finanziando esclusivamente progetti generatori di futuri redditi. La Bei potrà senza difficoltà assumere a proprio carico questi progetti sulla base di proposte della Commissione europea. Occorre circoscrivere poi i debiti del passato mutualizzandone una parte, Ripeto: il Consiglio di fine giugno ha rappresentato l’inizio di un percorso, guai se ritenessimo di essere in uscita dal tunnel della crisi». Professor Attali, l’Europa che lei agogna può nascere solo dall’alto?
«Direi decisamente di no. Quanto più impegnative, e per certi versi impopolari, sono le misure da adottare per uscire dalla crisi e dar corpo a una prospettiva di crescita, tanto più è necessario una forte legittimazione democratica. Le faccio un esempio: soltanto un’imposta europea nel quadro di un bilancio federale potrà dare credibilità adeguata a questo strumento di crescita. Per finanziare il bilancio federale si può pensare a un punto in percentuale dell’Iva, a una carbon tax e a una tassa sulle transazioni finanziarie. Sarà allora possibile generare con i project bonds più di 1000 miliardi di euro per investire in progetti di avvenire, rilanciare una vera crescita, proporre una visione convincente dell’Europa e creare i meccanismi per la soluzione degli squilibri che sono all’origine dell’ Unione economica e monetaria. Ma nessuna imposta potrà essere tuttavia decisa senza legittimità democratica e senza risolvere la crisi di fiducia fra la Ue e i suoi cittadini, offrendo agli Europei una nuova prospettiva. L’euro non potrà sopravvivere senza un progresso politico democratico decisivo. Se non facciamo un passo verso un maggiore federalismo l’euro sparirà, non si tratta di essere federalisti o anti-federalisti, è un dato di fatto. L’Europa non sopravviverà senza un budget federale un po’ più consistente, perché esiste un budget europeo».
I riflettori restano puntati sul più forte: la Germania di Merkel. L’opinione dominante, al di là del giudizio di valore sulle politiche adottate da Berlino in chiave europea, è che la Germania ha l’egemonia economica dell’Europa.
«È qui che si sbaglia. Non mi interessa l’opinione dominante. Io dico che la Germania sarà il malato dell’Europa da qui a vent’anni, perché la debolezza di una nazione si misura essenzialmente con la sua demografia e la sua capacità di concepire una strategia di lungo periodo. Si tratta di progredire verso un maggiore federalismo europeo, ma allo stesso tempo senza spingere i tedeschi ad opporsi, ma al contrario provando a far capire loro che hanno interesse nel progredire verso un federalismo europeo. Questo perché se l’Eurozona continuasse a indebolirsi, o addirittura dovesse ristringersi, estendendo l’area di crisi dalla Grecia a Paesi cruciali come Italia e Spagna, l’euro salirebbe moltissimo, è già troppo forte, e la Germania che ha fondato il suo modello di sviluppo interamente sulle esportazioni e non sul mercato interno, si ritroverebbe in una situazione tragica».

l’Unità 08.07.12

"Riforma elettorale, il Pd vuole il testo in settimana", di C. Fus.

Finocchiaro (Pd): «Il tempo è scaduto, adesso è necessario arrivare presto in Parlamento con la nuova legge». Ma il Pdl punta alla “grande coalizione” Le tre settimane sono scadute. Si entra nella quarta e l’unica cosa che rimbalza dai tavoli del Pdl addetti alla riforma della legge elettorale sono messaggi un po’ provocatori. Il Corsera, ad esempio, mette nero su bianco l’opzione “grande coalizione” per il dopo Monti e, di conseguenza, una legge elettorale che renda più difficile al vincitore comporre una maggioranza. Tutti insieme appassionatamente e che nessuno prenda il sopravvento. Un’opzione che fa comodo solo al Pdl inchiodato nei sondaggi tra il 18 e il 20 per cento. Mentre il Pd è saldamente il primo partito con il 25 per cento e quindi non ha alcun interesse a lavorare su un’ipotesi di legge elettorale ten-ten, di quelle che non scontentano nessuno. Ma che farebbe fuggire definitivamente gli elettori.
Così, di fronte alle carte calate dal Corriere della sera con tanto di schemi e schede e quadri sinottici sui punti controversi, il Pd non può che reagire in modo netto. Per dire che non ci sta.
Non solo: ancora qualche giorno di attesa e poi la squadra di Bersani presenterà la propria proposta di modifica della legge elettorale. Con buona pace dei propositi sottoscritti quattro settimane fa da Alfano, Casini e Bersani: «Tre settimane di tempo e troveremo l’accordo sulla legge elettorale». Ne sono passate quattro e siamo ancora soltanto alle ipotesi.
Di fronte ai messaggi mezzo stampa del Pdl, che hanno anche il sottile obiettivo di irritare gli elettori, diventa categorica la capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro. Non si può «fallire sulla legge elettorale» così come è avvenuto con le riforme costituzionali. «Si arrivi presto in Parlamento perché il tempo è scaduto. Non c’è forza politica che non abbia annunciato che la priorità sia quella di cancellare il Porcellum e di fare una nuova legge. La politica farebbe una pessima figura, forse l’ultima, se non riuscisse a fare la riforma».
Il Pd, quindi, prova ad accelerare. Vietato fallire, come è già successo per le riforme istituzionali grazie alla rinnovata saldatura Pdl-Lega. Il partito di Bersani fa sapere di essere pronto a presentare alle Camere un progetto di legge di modifica al vigente Porcellum per riportare «nelle aule parlamentari» un dibattito che si svolge «da troppo tempo», come osserva l’Idv, «nelle segrete stanze». L’Assemblea nazionale del Pd, convocata per sabato 14, potrebbe essere un’occasione per discutere anche di questo.
Al tavolo della riforma sono impegnati Maurizio Migliavacca per il Pd, Denis Verdini per il Pdl, Cesa e Adornato per il Terzo Polo. «Noi siamo pronti al confronto», ribatte il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri, facendo capire però come su alcuni punti il suo partito non sembri intenzionato a mollare. Ma una vera intesa tra Pd-Pdl e Terzo Polo non è stata ancora raggiunta. Anche perché nessuno sa con certezza cosa succederà da qui alle elezioni, quali le formazioni sono pronte a scendere in campo. Difficile, in queste condizioni, ritagliare ora una legge elettorale su misura.
Il Pd sostiene di avere le idee chiare: «Schema bipolare, sapere la sera chi ha vinto, scelta dei parlamentari attraverso i collegi» spiega uno dei tecnici. Sul premio di maggioranza, al partito o alla coalizione che è la vera questione dirimente anche nel Pd non è stata ancora raggiunta una soluzione condivisa. «Sul punto manteniamo ancora un po’ di flessibilità» si spiega. È un punto decisivo per le alleanze. Comprensibile.
I nodi restano sempre gli stessi: preferenze sì, preferenze no; premio di maggioranza, quanto? Al partito? Alla coalizione? Soglia di sbarramento. Opinioni diverse anche all’interno degli stessi partiti. Carmelo Briguglio (Fli) invoca le preferenze mentre Fini «chiede l’uninominale per un futuro anglosassone». «Tanto rumore per nulla sintetizza Felice Belisario (Idv) tutti dicono di voler cambiare la legge elettorale, ma nessuno lo fa davvero…»

L’Unità 08.07.12

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Legge elettorale, ultimatum Pd: subito l’intesa o avanti da soli «Pronti ad andare in Aula con la modifica del Porcellum», di Alessandro Trocino

«Tempo scaduto, si vada in Parlamento». Il Pd accelera e minaccia di portare in Aula con un ordine del giorno la sua proposta, se non si troverà un accordo sulla legge elettorale in tempi brevissimi. Lo fa con Anna Finocchiaro e Luigi Zanda. Due le incognite principali: il premio di maggioranza (al primo partito o alla coalizione vincente?) e l’uscita dal voto bloccato (collegi o preferenze?). Scelte non soltanto tecniche, che hanno a che fare con lo stato di salute dei partiti (vedi alla voce sondaggi) e con le alleanze possibili (vedi alla voce grande coalizione).
Per Beppe Fioroni si è alla «tecnica del gambero»: un passo avanti e due indietro. Tutti vorrebbero correggere i due principali difetti del Porcellum, l’attuale legge elettorale: le liste bloccate (che creano un Parlamento di nominati dai partiti) e l’abnorme premio di maggioranza alla coalizione, che incoraggia alleanze eterogenee incapaci poi di governare.
Per uscire dalle liste bloccate, ci sono, semplificando, tre sistemi: quello simile al tedesco, che prevede un 40 per cento di seggi assegnati in collegi uninominali; il Provincellum (gli eletti dei collegi sono quelli con la percentuale più alta nel partito); le preferenze. Il Pd è sulla prima posizione, sgradita al Pdl, che vuole le preferenze. In particolare le vuole Angelino Alfano, per risolvere (delegando la scelta agli elettori) i problemi di convivenza tra le varie anime (FI, An, ecc) e di scelta dei candidati (le poltrone pdl saranno meno stavolta). Maurizio Gasparri non ha dubbi: «Il vero problema da risolvere sono le preferenze. Collegi e Provincellum sono una truffa, che impediscono ai cittadini di scegliere. Dicono: facciamo le primarie. Ma mica possiamo fare 700 primarie di quartiere. Le preferenze sono l’unica soluzione». Bersani non le apprezza: fanno aumentare i costi elettorali e sono a rischio brogli. «E nei Comuni allora? — insiste Gasparri — Lì si è appena votato così, senza problemi».
L’altra questione da risolvere è il premio di maggioranza. Il Pd preferisce darlo alla coalizione: attribuirlo ai partiti ha senso soprattutto se ci sono due partiti forti, ma così non è. E poi i democratici temono che Alfano riesca a coagularsi con altri, vincendo la sfida. Ma, naturalmente, il premio non è una variabile indipendente e darlo ai partiti è soluzione più compatibile, se si va verso un governo di grande coalizione. Gasparri la vede così: «In nessun Paese la grande coalizione può essere oggetto di programma elettorale. È il risultato di uno stato di emergenza o di uno stallo nei risultati. Io preferisco vincere. Comunque, dico no a premi che sfalsino le coalizioni e le portino dal 30 per cento dei voti al 55 per cento dei seggi».

Il Corriere della Sera 08.07.12

Sanità, Bersani lancia l’allarme: «Rischiamo il bis degli esodati», di Maria Zegarelli

Cambiare le norme decise dal Cdm sulla spending review ai capitoli «sanità» e «enti locali». Al Nazareno stavolta c’è grande preoccupazione perché i tagli previsti da Giulio Tremonti (8 miliardi nel triennio) sommati a quelli stabiliti da Mario Monti, 4,5 miliardi, rischiano di essere una stangata ulteriore per i cittadini in termini di assistenza sanitaria e servizi erogati dagli Enti Locali. Ieri il segretario Pier Luigi Bersani ha lanciato un vero e proprio allarme: «Si rischia il bis della vicenda esodati». Al governo la richiesta è di cambiare le norme rimodulando le misure e gli interventi anche sulla base delle indicazioni che arriveranno dai governatori delle Regioni.
«Nel decreto dice il segretario Pd che l’altro ieri aveva parlato di una «mazzata al servizio sanitario» ci sono cose buone e le appoggeremo con convinzione. Ci sono anche cose da correggere, quello che soprattutto non va riguarda il taglio delle risorse agli enti locali, già troppo indeboliti e l’intervento sulla sanità, in particolare, per ciò che riguarda la sanità, l’errore è prima di tutto tecnico. Non c’è sufficiente comprensione di come funzioni nella realtà il servizio sanitario». Il ministro della Salute Renato Balduzzi risponde a stretto giro di posta: «Una mazzata al servizio sanitario nazionale io proprio non la vorrei dare, proprio perché voglio bene al servizio sanitario nazionale. Si tratta di riuscire, in condizioni che non sono
facili e nelle quali anche alla sanità è stato chiesto di fare la propria parte nella revisione della spesa, a fare, come dice il titolo del decreto legge, una “revisione della spesa a invarianza di servizi per i cittadini”. È una sfida importante in cui sono coinvolti tutti: dai livelli di governo a tutti noi come utenti del servizio sanitario nazionale, agli operatori e ai professionisti della sanità, ai quali stiamo chiedendo molto, ed è giusto che il Ministro della Salute lo faccia presente».
TAGLI LINEARI
Ma il Pd definisce le misure previste nel decreto niente altro che tagli lineari, in stile Tremonti, e su questo punto Bersani non intende cedere e non è vero, come hanno fatto sapere da Palazzo Chigi che sul tema sono stati sentiti i partiti. Dal Nazareno precisano che l’unico contatto tra il Cdm e il segretario è avvenuto «per altre materie oggetto del provvedimento» anche se il ministro Renato Balduzzi conosceva bene la posizione e le preoccupazioni del Partito democratico. Di questo si discuterà anche lunedì, nella sede del Pd a Roma, per un’iniziativa nazionale sulla Sanità alla quale è stato invitato lo stesso ministro oltre a diversi governatori tra cui quelli di Toscana e Umbria. Già in quella sede gli stessi presidenti di Regione avanzeranno le proprie proposte alternative tra cui quella di lasciare a loro la facoltà di intervenire per raggiungere sì l’obiettivo di risparmio fissato dal decreto ma potendo decidere dove e in che modo tagliare e razionalizzare.
Critica anche la presidente del Pd, Rosy Bindi: «Non basta resistere sui piccoli ospedali ed averli salvati è stato il commento perché in questi anni la Sanità ha già dato. Noi faremo le nostre proposte in Parlamento ma il governo deve capire che c’è bisogno di modificare il provvedimento». Beppe Fioroni proprio su servizi e sanità traccia la linea: «Ben vengano la lotta allo spreco e allo sperpero, e il dimagrimento dello Stato: Monti ha tutto il nostro appoggio. Ma non è pensabile che dietro il motto “non aumentare le tasse al cittadino” gli si mettano pesantemente le mani in tasca per fargli pagare la propria salute e la propria assistenza».
Intanto martedì è fissata anche la segretaria durante la quale Bersani deciderà la linea da tenere in Parlamento e con Palazzo Chigi. È un passaggio delicatissimo quello che si consuma sulla spending review: da un lato l’Udc di Pier Ferdinando Casini che appoggia senza dubbi il provvedimento, dall’altra Sel e Idv sul piede di guerra. E tutti guardano a come il Partito democratico gestirà il passaggio in Parlamento del decreto da approvare prima della pausa estiva delle Camere. I probabili, possibili, futuri alleati anche su questo tema sono agli opposti. Bersani stretto tra la pressione che arriva dagli Enti locali, la sua stessa base elettorale e le forze del futuro centro-sinistra lancia un appello: «Siamo pronti a ragionare su altre soluzioni discutendo con il governo e le regioni e in Parlamento. Ci auguriamo che tutte le forze politiche vogliano impegnarsi costruttivamente su un tema così delicato e che in particolare il Pdl sia disposto ad occuparsi, oltre che della Rai, anche della salute degli italiani». Dal Pdl è Osvaldo Napoli a rispondere: «L’altolà di Bersani sulla sanità appare prematuro e incomprensibile. Il segretario del Pd continua nella sua politica di sostegno basata sul “sì, ma…” e rischia di vanificare l’azione dell’esecutivo sul capitolo della spesa pubblica ritenuto, in Europa e negli organismi economici, decisivo per la credibilità del Paese». Pronto a fare le barricate Antonio Di Pietro: «Tra tutte le porcherie che questo governo ha fatto con tanta sobrietà, il decreto sulla spending review è una delle peggiori. Monti ha fatto l’esatto opposto di quello che aveva promesso: è andato giù con l’accetta». E promette proteste in «piazza, in Parlamento e con i lavoratori».

L’Unità 08.07.12

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“Bersani: sulla sanità misure confuse”, di Ugo Magri

Il segretario del Partito democratico attacca il governo: c’è il rischio di fare il bis della vicenda esodati
Stefano Fassina, Responsabile economico Partito democratico: «I risparmi siano fatti sugli acquisti di armi e sia introdotta un’imposta sui grandi patrimoni». Certi tagli Bersani proprio non li manda giù, quelli alla sanità in modo speciale. Dopo aver denunciato in un crescendo che mordono la carne viva della gente, ora il segretario Pd ne fa pure una questione di efficacia, solleva il dubbio che le misure del governo siano in grado di colpire gli sprechi.
«C’è il rischio di fare il bis della vicenda esodati», mette in guardia Bersani, «cioè di creare più confusione che risparmi». Già nei giorni scorsi aveva cautamente suggerito ai professori di non fare pasticci e magari di chiedere consiglio «visto che un po’ di competenza ce l’abbiamo anche noi…. Inascoltato, il leader democratico contesta l’«errore che deriva dalla insufficiente comprensione di come funziona il servizio sanitario».
In pratica dà degli ignoranti a coloro che hanno materialmente redatto il decreto. Dietro di lui c’è tutto un partito in rivolta, particolarmente duro Beppe Fioroni. È un po’ come se giorno dopo giorno il segretario del Pd volesse marcare le lacune dei tanto acclamati «tecnici», e preparare il terreno al grande ritorno dei governi eletti dal popolo.
A Palazzo Chigi nessuno si altera. Porta aperta a eventuali correzioni del decreto, approdato l’altra notte in Senato. Per rispettare i tempi, serve il varo entro il 25 luglio, insomma non c’è spazio per discussioni interminabili. Comunque il governo darà l’ok, se ne può ragionare. A patto che restino invariati i saldi (tanto entra, tanto esce), e che il Partito democratico avanzi proposte concrete. Martedì si riunisce la segreteria, qualche idea verrà senz’altro estratta dal cilindro. Le due al momento più gettonate, come le anticipa il responsabile economico del partito Fassina, consistono nei «risparmi sugli acquisti di armamenti» e in «un’imposta ordinaria sui grandi patrimoni».
Entrambe le proposte piaceranno moltissimo all’elettorato più di sinistra, e faranno da scudo contro gli attacchi di Vendola e di Di Pietro ( il quale si lancia a sostenere che «tra tutte le sobrie porcherie di questo governo, la spending review è una delle peggiori»). Si può bene immaginare lo scetticismo dipinto sulla faccia di Monti, il giorno che questi emendamenti saranno formalizzati. Specie sulla patrimoniale, il Prof sostiene di avere già fatto il possibile con l’Imu e non solo, andare oltre sarebbe molto molto difficile…
Il pressing di Bersani è a tutto campo. Considerato che a Palazzo Madama la maggioranza ce l’ha il Pdl, eccolo pungolare Alfano, «ci auguriamo che da quella parte siano disposti ad occuparsi, oltre che della Rai, della salute degli italiani…. Lo sfottò è bonario, ma di questi tempi i berlusconiani hanno poco da ridere, cosicché le risposte sono state piccatissime.
Cicchitto: «Non siamo un partito a sovranità limitata che fa da sponda al Pd». Il governo non si faccia intimidire da Bersani, protestano la Gelmini e Osvaldo Napoli.
Decisamente sopra le righe il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri: «Bersani avrebbe dovuto fare la spending review al suo amico Penati a Milano, scoprendo cose interessanti». Si affida «all’intelligenza degli italiani» Pier Ferdinando Casini perché stavolta «ci sono costi da pagare, e forse voti da perdere….

La Stampa 08.07.12

"Il bisogno di sinistra", di Claudio Sardo

Così non va. La manovra del governo Monti dovrà essere corretta in parlamento, altrimenti il suo costo sociale rischia di diventare insostenibile: per il taglio dei servizi che penalizza le famiglie e i ceti più deboli, per l’ulteriore spinta recessiva che induce all’economia già depressa. È soprattutto sulla Sanità, sulle Regioni, sui Comuni che si abbatte la mannaia, seguendo purtroppo la filosofia tremontiana dei tagli lineari assai più che l’annunciato proposito di una spending review capace di selezionare ed eliminare gli sprechi.
La più pericolosa continuità con il governo Berlusconi sta proprio nell’accanimento con il quale si colpiscono le amministrazioni locali, e in special modo quelle più virtuose, che potrebbero fornire un contributo alla ripresa con tanti piccoli e medi investimenti e che invece vengono bloccate da tagli ormai indiscriminati ai trasferimenti e dai vincoli tafazziani del patto di stabilità. Sottrarre un altro miliardo al Fondo sanitario nazionale, dopo aver tagliato almeno 14 miliardi in quattro anni, e senza aver ancora definito i costi standard delle prestazioni, vuol dire incidere sulla carne viva del Paese e spingere settori del ceto medio verso la povertà. Aggiungere altri 500 milioni di tagli ai trasferimenti verso i Comuni nell’ultimo quadrimestre del 2012, mentre lo Stato trattiene per sè la quota maggiore dell’Imu, vuol dire eliminare di netto servizi ai cittadini, dall’assistenza ai nidi, dai trasporti alla manutenzione delle città. E, come già è accaduto in passato, i tagli lineari contengono l’annuncio di oneri ancora più gravosi per gli anni successivi: così anche Monti ha seguito la strada di caricare il governo che verrà nel 2013 di autentici macigni, dall’aumento dell’Iva (slittato di un anno) ad ulteriori, già promessi all’Europa, tagli dei servizi sociali.
Certo, la manovra è necessaria per evitare che due punti di Iva soffochino tutto e subito. E va detto anche che nel decreto ci sono interventi positivi di risparmio e buoni propositi. La razionalizzazione degli uffici giudiziari, con la sforbiciata ai piccoli tribunali, può aiutare a migliorare l’amministrazione della giustizia. L’accorpamento delle Province più piccole può favorire una razionalizzazione dei governi territoriali: ci auguriamo che segua una capacità dei piccoli Comuni di realizzare sinergie nella gestione dei servizi e, perché no?, anche un accorpamento delle Regioni più piccole. Le pubbliche amministrazioni pesano per oltre il 50% del Pil: ridurre questo carico è una delle imprese politicamente più importanti. Ma non è vero che basta «tagliare» per meritare una medaglia, come sostengono i sacerdoti del liberismo. Non è vero neppure che il taglio è di per sé meno recessivo di qualunque aumento delle tasse. Il punto è scegliere il come, il dove, il quanto.
Non serve tagliare per tagliare. Le riforme sono meglio dei tagli. Non a caso nei settori in cui il governo era più preparato le misure di questo decreto sono state migliori. Dove invece ha prevalso il bisogno di fare cassa, il viceministro Grilli ha operato seguendo il fallimentare criterio del suo amico e predecessore Tremonti. Ora non sarà facile correggere il tiro. Dopo anni in cui si parla di federalismo, e dopo una gestione del centrodestra segnata dal più radicale centralismo, ancora non sono stati definiti i costi standard, criterio indispensabile per ottenere migliore gestione e maggiore uguaglianza nelle prestazioni. Il tempo della conversione del decreto forse non basterà per arrivare a un risultato soddisfacente.
La fase di emergenza è un limite, un giogo. Ma è anche il tempo di una battaglia politica e sociale, che da un lato deve risollevare l’onore dell’Italia in Europa dopo l’umiliazione dei governi Berlusconi, dall’altro deve preparare il confronto alle elezioni del 2013 tra due alternative programmatiche. Del resto, è chiaro che non c’è una bacchetta magica: anche gli effetti positivi dell’ultimo Consiglio europeo si sono troppo presto diradati e la prossima riunione dell’Eurogruppo si annuncia difficile e incerta.
I tagli vanno corretti, gli interventi calibrati su una maggiore equità sociale, la stessa maggiore credibilità europea del governo Monti va utilizzata per favorire finalmente misure per la crescita. La spesa pubblica non è cattiva, come dicono i liberisti. La spesa pubblica è necessaria per garantire i diritti e per regolare il mercato. Bisogna renderla più efficiente. Bisogna porla al servizio di una governance più intelligente, più lungimirante, meno condizionata da corporativismi e poteri forti. Occorre ridurre la spesa corrente e aumentare la spesa per investimenti. Ma al fondo, come ha scritto nei giorni scorsi Massimo D’Antoni, occorre costruire una nuova idea di pubblico. Sta qui il fronte decisivo della battaglia contro quel liberismo, che ci ha fatto sprofondare nella crisi e ha imposto il paradigma individualista: può esistere invece un pubblico efficiente e utile ad uno sviluppo equilibrato, ad un rinnovamento del modello sociale europeo, ad una tutela dei diritti. Un pubblico che non concida con la dimensione dello Stato. Ma un pubblico forte, capace di sanzionare il mercato, talvolta anche di competere in prima persona (guai a privatizzare le aziende pubbliche più efficienti e tenere i carrozzoni che nessuno vuole).
Nel tempo che ci separa dalla elezioni bisogna lottare. E preparare il dopo. Sono d’accordo con Mario Tronti: dobbiamo liberarci, insieme a questa declinante Seconda Repubblica, anche del vecchio schema delle «due sinistre», quella che si confronta con il liberalismo fino a restarne accecata e quella che rifiuta la compatibilità, e dunque il governo. La sfida ora è il cambiamento. Possibile solo in una dimensione europea, in collegamento con i progressisti europei. La notizia migliore degli ultimi mesi è stata la vittoria di Hollande in Francia. Ora tocca a noi costruire un progetto di governo per il 2013: siamo ad un tornante storico, siamo di fronte ad un rischio democratico, dobbiamo essere capaci di cogliere il nesso tra la battaglia per la democrazia e quella per l’uguaglianza, per i diritti sociali, per un nuovo sviluppo. Guai a sprecare i prossimi mesi. Guai a ripetere le dispute politiciste dell’Unione. Guai pensare che il superamento delle «due sinistre» possa riportare a una vecchia sinistra. L’orizzonte della battaglia è democratico: dei valori e del radicamento sociale della sinistra devono farsi carico anche i cattolici, i liberali di sinistra, gli ambientalisti che vogliono partecipare all’impresa. Perché una cosa è certa: se i democratici non sapranno rispondere a questo nuovo bisogno di sinistra non riusciranno neppure a costruire quel progetto di alleanza tra progressisti e moderati, che ha il compito di riscattare il senso della politica.

L’Unità 08.07.12

"Soffocati dal solito conflitto di interessi", di Giovanni Valentini

La Rai per il governo. Viale Mazzini per palazzo Chigi. Il controllo della tv pubblica per la tutela dell’interesse pubblico. Siamo alle solite. Ma questa volta il ricatto del centrodestra si gioca sulla pelle del Paese, di tutti noi cittadini, sudditi del regime televisivo, proprio in un momento cruciale per le sorti dell’economia nazionale e dell’intera collettività nazionale. Ricatto, non c’è termine più appropriato per definire l’ultimatum del partito-azienda. O la borsa o la vita, insomma. O la consegna della Rai oppure la sopravvivenza del governo.
È fin troppo trasparente ed esplicito il senso dell’avvertimento lanciato dall’ex ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, per giudicare l’affidabilità del quale basterebbe constatare lo stato di crisi in cui è ridotto il sistema produttivo italiano. Se non fosse stato per l’intransigenza dell’ex presidente della Rai, Lucia Annunziata, a suo tempo l’azienda pubblica avrebbe speso cento milioni di euro per acquistare un “pacchetto” di frequenze televisive di cui non aveva bisogno, già appartenute in gran parte a emittenti locali gestite in precedenza proprio dall’ineffabile ex ministro. Un “affare” di Stato che fortunatamente non andò a buon fine.
All’insegna del più bieco avventurismo, la protervia del centrodestra si spinge fino a minacciare la “vita” del governo in cambio della “borsa” della Rai. Pazienza per lo spread, per il risanamento dei conti pubblici, per gli impegni e gli accordi europei. E quanto alla signora Merkel — come hanno auspicato con eleganza intellettuale i giornali dell’azienda-partito, all’indomani della vittoria (calcistica) dell’Italia sulla Germania — la Cancelliera può anche andare a quel paese, per non usare qui espressioni più volgari. Ciò che conta è tenere sotto controllo la televisione pubblica, per tenere sotto controllo l’opinione pubblica: e contemporaneamente, per salvaguardare la televisione privata che fa capo ancora all’ex premier-tycoon.
Dire che tutto questo è indecente e inaccettabile, è troppo poco. A che cosa serve rievocare l’eterno conflitto di interessi che grava come un’ipoteca inestinguibile sul nostro sventurato Paese? A questo punto dovrebbe risultare evidente a tutti che al Cavaliere la conservazione dello “statu quo” televisivo preme come e più della normalizzazione della giustizia, più di qualsiasi altra questione o riforma, anche più dell’interesse generale.
Al centrodestra non è bastato desertificare la Rai, espellendo giornalisti e dirigenti “scomodi”, molti dei quali sono passati alla concorrenza. Né insediare alla direzione del Tg1 e dei Gr “fiduciari” di palazzo Grazioli o del Vaticano.
E neppure inscenare l’indegna pantomima rappresentata nei giorni scorsi sul palcoscenico della Commissione parlamentare di Vigilanza, secondo il più classico copione dei giochi di potere, sotto la discutibile regia di un presidente del Senato che ha dismesso i panni e le responsabilità della seconda autorità dello Stato, per agevolare la sua parte politica.
No, tutto questo non basta ancora alla voracità predatoria di un partito-azienda che ormai equivale a una ristretta minoranza del Paese. Adesso il centrodestra impugna come un’arma letale la scellerata legge firmata dall’ex ministro Gasparri, per imporre un “voto di scambio” sulla nuova presidenza della Rai che deve ottenere la maggioranza qualificata dei due terzi nella Vigilanza: o la “governance” dell’azienda resta in mano al consiglio di amministrazione nominato dalla partitocrazia oppure salta il banco, magari anche quello del governo. Ed è appena il caso di rilevare che in questa bassa manovra di sottopotere romano la Lega di Maroni si ritrova di nuovo al fianco del Pdl, a dispetto delle più recenti dichiarazioni di distacco e d’indipendenza padana.
Per un grottesco paradosso che assume il valore di una clamorosa autosconfessione, ora il centrodestra rivendica al Parlamento il controllo della Rai, dopo averlo indebitamente trasferito al governo proprio in forza della pseudo-riforma televisiva introdotta con l’autoritarismo di un editto. Quello che andava bene ieri, non va più bene oggi. Quello che valeva per Berlusconi, Gasparri e Romani, non vale più per Monti e per Passera. In un tale cortocircuito mediatico e politico, si arriva così a ricattare il “governo di impegno nazionale” per paralizzare la Rai e favorire la principale azienda concorrente, vale a dire Mediaset. Ma soprattutto per continuare a condizionare la formazione e l’aggregazione del consenso attraverso la tv, pubblica e privata, in vista delle prossime elezioni. È questa la maggiore preoccupazione del centrodestra, la sua priorità assoluta, mentre la disoccupazione aumenta, i salari diminuiscono, il debito pubblico incombe e il Paese, mortificato da vent’anni di berlusconismo, rischia di regredire ulteriormente.

La repubblica 08.07.12

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“Sulla presidenza Rai no ai ricatti Pdl o sarà commissariata”, di ALBERTO CUSTODERO

È scontro sui maxi poteri alla neo presidente Rai Anna Maria Tarantola. Il Pdl si mette di traverso, ma il premier Monti non è intenzionato a fare retromarcia. Al contrario. Nel caso si tentasse di bloccare la nomina della Tarantola, il Professore potrebbe persino ventilare il commissariamento della tv pubblica. «Dopo l’elezione del cda della Rai, ora è urgente la convocazione della commissione di Vigilanza per votare subito il presidente, in modo da affidare deleghe e poteri adeguati ad affrontare la gravità della situazione che sta attraversando la Rai». L’ultimatum del Pd, reso noto in un comunicato del partito, acuisce la tensione fra i maggiori partiti che sostengono il governo Monti sulla questione televisiva.
«Qualora ciò non accada — avvertono i democratici — e vi siano ulteriori resistenze a completare l’iter di nomina dei vertici aziendali, per il Pd sarebbe inevitabile chiedere il commissariamento della Rai, con la stessa determinazione e rapidità avuta in occasione di altri provvedimenti». Se per il partito di Bersani «la modifica della governance del servizio pubblico radio-televisivo è una priorità» da porre «come uno dei primi provvedimenti di cui si dovrà occupare il prossimo governo», per gli “alleati” del Pdl la questione Rai resta un tema di scontro. Nel mirino del partito di Berlusconi restano soprattutto le super-deleghe alla nuova presidente designata dell’azienda di viale Mazzini. Anna Maria Tarantola, secondo il progetto del governo, dovrebbe infatti assumere maggiori poteri rispetto a quelli del suo predecessore.
L’altro ieri Paolo Romani ha minacciato di non dare la fiducia a Tarantola martedì prossimo. Ieri, l’ex ministro dello Sviluppo — plenipotenziario del Pdl per le questioni tv — è tornato alla carica. E ha lanciato al governo l’accusa di violare la legge. «Ho un grande rispetto e stima nei confronti di Tarantola
e Gubitosi — dice Romani — ma resta il problema del rispetto delle procedure e della legge ». La competenza sulla Rai, secondo Romani, spetta al Parlamento e non al governo, che, in questo caso, sarebbe intervenuto, appunto, «al di fuori della legge». L’ex ministro si «dispiace poi che una richiesta da parte nostra di rispettare la norma e le procedure conseguenti venga interpretata come un no alla nuova governance del servizio pubblico radiotelevisivo». Rodolfo De Laurentiis, confermato in cda coi voti del Terzo polo, tenta una mediazione. «Non facciamo guerre — esorta — sono convinto che all’interno del cda si troveranno le formule migliori». Ma la tensione resta al calor bianco. Per il deputato pd Michele Meta, al Pdl «interessano più le nomine che il rilancio dell’azienda». Anche Giuseppe Giulietti, di Articolo 21, attacca. E riferendosi alla Mediaset di Berlusconi, respinge «le minacce del partito del conflitto di interessi».
Tra i berlusconiani, tuttavia, si registra un accenno di “fronda”. «Tarantola — dice Raffaele Lauro, componente pdl in commissione Vigilanza — rappresenta l’ultima spiaggia per evitare il commissariamento». «La sosterrò — aggiunge — con convinzione e con determinazione nell’azione di risanamento finanziario, e per porre fine alla dissennata e suicida pratica degli appalti esterni e degli intoccabili orticelli di potere dei partiti».

08.07.12

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“Paralizzano la tv di Stato per fare favori a Mediaset”

«Il governo ha già subìto un veto non riformando la governance della Rai. Sono certo che non vorrà subirne un altro sulle deleghe alla nuova presidente». L’ex ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni, pd, sprona Monti a non farsi intimidire. Perché dietro le minacce — dice — c’è sempre «un insostenibile conflitto di interessi».
Il Pdl va avanti con le sue richieste. Cosa accadrà martedì?
«Le minacce hanno un obiettivo evidente. Lasciare in Rai le cose come stanno. Sono dieci anni, dal febbraio 2002, che la Rai ha una maggioranza di centrodestra, e sono dieci anni che la legge Gasparri ha esasperato la lottizzazione come criterio di gestione dell’azienda. Se le cose non cambiano, il futuro della Rai è a rischio».
«Noi ci aspettavamo, dopo l’annuncio fatto da Monti a gennaio, un cambiamento radicale, basato sull’efficienza aziendale, sul recupero della diversità del servizio pubblico e su una Rai che finalmente investe su Internet e sul futuro. Ci siamo accontentati di una minicorrezione della governance che almeno dia più forza ai vertici e meno potere di paralisi ai partiti».
«Non posso credere che Monti, che ha alzato la voce con Angela Merkel, si faccia intimidire da Gasparri. Se il Pdl facesse i giochetti che qualcuno preannuncia, il governo non potrebbe fare altro che introdurre una norma che consenta un commissariamento di fatto».
Cosa c’è dietro l’atteggiamento del Pdl?
«Il congelamento di una Rai paralizzata e immobile non è solo un danno al servizio pubblico. È
un’assicurazione sulla vita per Mediaset, che dopo le difficoltà legate all’operazione Endemol e alla crisi della sua pay-tv ha un bilancio che non naviga in acque sicure. Ancora una volta sulla tv si resuscitano cose che apparivano sepolte: il patto di ferro tra Lega e Pdl, e il conflitto di interessi».
Stallo a parte, non sarebbe ora di fare una nuova legge?
«Ce l’aspettavamo da questo governo perché aveva una maggioranza che numericamente lo consentiva. Sicuramente ha subìto un veto, sono certo che non cederà ancora».
Sulla tv si resuscitano cose che apparivano sepolte: il patto di ferro tra Lega e Pdl e il conflitto di interessi.

08.07.12

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“Il governo: nessun passo indietro rispetto dei patti o intervento drastico”, di Annalisa Cuzzocrea

Risponde con la fermezza, Mario Monti, alle minacce del Pdl. Chi gli ha parlato in queste ore si è sentito dire che sulla Rai il governo non intende fare alcun passo indietro. Anzi, potrebbe farne uno avanti. Se davvero il centrodestra decidesse di bloccare la nomina della presidente Anna Maria Tarantola, e di andare avanti con un cda a 8 che sarebbe presieduto dal membro più anziano, Guglielmo Rositani, il premier non esiterebbe a tirare fuori la carta del commissariamento. Anche perché, erano stati fatti degli accordi. E il partito di Silvio Berlusconi se li sta rimangiando uno a uno.
Monti aveva avuto il via libera dal Pdl sia sui nomi di Tarantola e Gubitosi, sia sull’estensione delle deleghe. Aveva deciso di sua iniziativa, ma Gianni Letta gli aveva comunicato il consenso di Berlusconi sul manager Wind e sul vicedirettore di Bankitalia prima ancora che il centrosinistra ne sapesse
nulla. E quindi, è davanti a un patto violato che si trova ora il presidente del Consiglio. Ovviamente, non gli passa neanche per la mente di rinunciare ad Anna Maria Tarantola. Sa bene, il premier, che non è quello il punto. La minaccia verte su quel nome – che la Vigilanza martedì deve ratificare con i due terzi – solo perché il Pdl ha bisogno di “alzare la voce”. La vera questione in ballo è quella delle deleghe, che sia Monti che l’assemblea degli azionisti hanno chiarito dovranno andare alla nuova presidente. Si tratta della possibilità di gestire – insieme al solo direttore generale – i contratti fino a 10 milioni, e di quella di occuparsi delle nomine considerate “non editoriali”. È questo, il boccone più indigesto per il Pdl. Tranne che per i direttori di Rai Uno, Rai Due e Rai Tre, e dei rispettivi tg, infatti, le altre caselle (ce ne sono circa duecento) sarebbero scelte senza il contributo dei consiglieri. Che tradotto significa, senza l’ingerenza della politica.
Finora, dai compromessi e dagli scambi fatti al tavolo del cda sono
dipesi i direttori di Rai Trade, Rai Fiction, Rai Cinema, i responsabili dell’intrattenimento, quelli del personale, gli amministrativi. Le attrici da piazzare, le veline da promuovere, i manager da premiare. La cosidetta “miniriforma” di Monti, quella che ha convinto il Pd a scendere dall’Aventino su cui era salito dopo aver chiesto un totale cambio di governance, voleva evitare tutto questo. Ora, però, tutto è rimesso in discussione. E come in un perverso gioco dell’oca, tutto rischia di ripartire
da zero.
Perché se davvero la Vigilanza non votasse Tarantola con i 27 voti necessari, a sostituirla in cda sarebbe il membro anziano Rositani.
Così, il blocco del centrodestra – che oltre a quelli di Antonio Verro, Antonio Pilati e Luisa Todini avrebbe il voto “doppio” del presidente – straccerebbe su ogni decisione i due rappresentanti delle associazioni eletti dal Pd, Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi, il consigliere Udc de Laurentiis e quello espresso dal Tesoro Marco Pinto. Che tra l’altro, non sono certo un blocco omogeneo. Basti pensare che de Laurentiis ha già espresso tutti i suoi dubbi sulle deleghe “forti” della Tarantola, lui che è già consigliere dal 2009, e che a quelle decisioni, alle auto blu, agli appuntamenti settimanali e alle mille telefonate si era già abituato.
Perché il punto è anche questo: il disegno che Monti ha cercato di attuare è quello di un cda meno costoso, cui sono stati ridotti gli stipendi e i benefit, e che non dovrà certo riunirsi ogni mercoledì come era solito fare, ma – libero dalle scelte che spettano solo a presidente e direttore generale potrebbe vedersi una volta al mese, «come i cda delle aziende normali », commentano a palazzo Chigi.
Davanti a questo, i plenipotenziari televisivi di Silvio Berlusconi, Maurizio Gasparri e Paolo Romani, sono pronti a nuove barricate. «Con questa forzatura sulle deleghe, con quella già fatta sul direttore generale, il governo sta creando un pericoloso precedente – dice l’ex ministro dello Sviluppo – ci sono tre sentenze della Corte costituzionale che dicono che non può farlo. Noi vogliamo solo far rispettare la legge». Agiamo «in punto di diritto», ripete più volte. E quindi, se non ci sarà un ripensamento dell’esecutivo, la Tarantola rischia di essere bocciata dalla Vigilanza, dove l’avvento del senatore Viespoli al posto del dissidente Amato ha riportato i numeri a favore del centrodestra.
«È chiaro che fanno sul serio dice il responsabile Cultura del Pd Matteo Orfini – e questo dimostra quanto sia stato sbagliato non fare la riforma della governance». Le forzature, però, a Mario Monti non sono mai piaciute. Lo ha dimostrato in Europa, lo ha fatto sulla spending review. Potrebbe farlo sulla Rai, commissariandola direttamente o attraverso un decreto. Che poi il Parlamento dovrebbe votare, certo, ma il Pdl è disposto a far cadere il governo sulla Rai? Per saperlo, basta aspettare martedì.

La repubblica 08.07.12

"Ho parlato con Draghi di Balotelli e di Germania", di Eugenio Scalfari

La situazione economica si è di nuovo imbruttita. Non parlo di quella italiana e neppure soltanto di quella europea, parlo della situazione mondiale, compresi i colossi emergenti, la Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica. La recessione che ha fatto la sua comparsa già da un paio d’anni ed è diventata una realtà da sei mesi, si aggrava; nuove «bolle» si profilano su alcuni mercati: quella immobiliare – pensate – in Cina; quella dei derivati un po’ dovunque perché le banche occidentali sono quasi tutte inquinate di titoli sporchi, di scommesse, di «Corporate bond» e di obbligazioni sovrane che stentano a mantenere i valori nominali e perdono colpi sotto le ondate speculative.
Ma il fatto nuovo di questi ultimi giorni viene dalla Germania: la locomotiva europea è ferma. Non accadeva da molto tempo. I tedeschi consumano poco ma esportano e investono molto e il saldo tra questi «fondamentali » era positivo e consentiva al treno tedesco di correre con buona velocità. La novità sgradevole è che quel saldo ormai è in pareggio, perciò la locomotiva si è fermata. Non a caso Angela Merkel nella sua visita a Roma dell’altro giorno ha detto: «Anche noi sentiamo il morso della recessione, perciò dobbiamo rilanciare la crescita tutti insieme ».
Parole sante anche se alquanto tardive. Però – ed ecco un’altra novità di questi giorni – politicamente la Merkel è in minoranza. Quel suo «adesso noi europei dobbiamo agire tutti insieme » non è piaciuto né ad alcuni «poteri forti» né alla gente.Non è piaciuto all’alleato storico della Cdu, il Csm cattolico che ha la sua base in Baviera, non è piaciuto alla Bundesbank che critica perfino il suo rappresentante nel direttorio della Bce e quasi sempre solidarizza con Draghi. Non è piaciuto ai magistrati della Corte costituzionale tedesca che vegliano a tutela della sovranità nazionale. E alla gente, cioè al tedesco medio che rimpiange ancora il marco e assiste frastornato a quanto accade o rischia di accadere anche in patria.
Per capir meglio in quale modo questi diversi umori si combinano tra loro e quale ne sia il risultato ho pensato che la persona più adatta a farmi da Virgilio attraverso l’inferno economico di questi mesi fosse Mario Draghi. Con lui ho da tempo una consuetudine di amicizia, perciò l’ho cercato e ci siamo scambiati sensazioni e opinioni.
* * *
Draghi non rilascia interviste. Spesso si esterna pubblicamente e l’ultima volta è di pochi giorni fa quando ha illustrato i motivi che hanno suggerito alla Bce di abbassare d’un quarto di punto il tasso di sconto ufficiale.
Decisione unanime, come ha voluto precisare. Ma in quella stessa occasione ha anche ricordato che l’economia reale non va bene, che recessione e disoccupazione sono preoccupanti e che i Paesi europei sotto attacco dei mercati debbono muoversi con la massima celerità e nel modo appropriato per scongiurare pericoli maggiori.
Queste sue parole – appaiate a quelle analoghe pronunciate contemporaneamente da Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale – hanno avuto come conseguenza che
la decisione positiva del taglio del tasso di sconto non ha avuto alcun effetto sui mercati che hanno dato maggior peso al pessimismo manifestato dalla Lagarde e dallo stesso Draghi e hanno depresso le Borse e fatto di nuovo impennare gli «spread» dell’Italia e soprattutto della Spagna. Insomma un flop (così è stato definito) sia della Bce, sia della Banca d’Inghilterra che aveva iniettato sul mercato notevole liquidità supplementare quello stesso giorno.
Della mia conversazione con il presidente della Bce non ho molto da riferire, non perché mi abbia rivelato misteri da custodire con la bocca cucita, ma perché una chiacchierata tra due amici non fa notizia. Tutt’al più contiene un po’ di colore e quello a volte aiuta ad orientarsi.
Ho cominciato infatti con una battuta che l’ha fatto ridere di gusto. Gli ho detto: fino alla scorsa settimana l’Italia aveva tre Super Mario che facevano titolo su tutti i giornali, tu, Monti e Balotelli. Debbo dire che il terzo vi superava di gran lunga anche perché aveva segnato due gol proprio alla Germania eliminandola dalla gara. Adesso però non è più così. Dopo la sconfitta con la Spagna Balotelli si è addirittura inginocchiato piangendo.
Siete rimasti in due. Non è che finirete anche voi come il Super Mario in maglia azzurra?
«Spero di no» ha risposto, e ancora rideva. «Ma come mai hanno perso in quel modo con la Spagna? ».
Hai visto la partita? Gli ho chiesto, Monti c’è andato.
«No, non ho visto niente, sono stati giorni per me molto pieni e poi il calcio non è il mio forte. Però mi stupisce, quattro a zero. E con la Spagna…».
Non credere che la Spagna a causa dello «spread» non sia degna di aggiudicarsi il Campionato
europeo, gli ho detto.
Anzi è addirittura campione del Mondo. «Questo lo so, ma vorrei capire in che consiste la sua forza». Debbo ammettere che non sono un esperto ma un po’ ne mastico e gliel’ho spiegato così: gli spagnoli si schierano su due linee orizzontali di cinque giocatori ciascuna, quando sono sulla difensiva sono dunque in dieci nella loro metà campo ed è difficilissimo aprirsi un varco per gli attaccanti avversari. Ma quando avanzano si muovono sempre tutti insieme e sono in dieci nella metà campo avversaria.
Non passano mai la palla in avanti, se la passano orizzontalmente avanzando come una macchina da guerra. Non hanno una o due o tre punte ma ne hanno cinque ed altrettante alle spalle. Vincono così.
Mi stava a sentire ma evidentemente pensava ad altro.
Infatti mi ha detto: «Noi abbiamo lavorato in quattro per preparare il memorandum sulla futura architettura dell’Unione europea. Un po’ come gli spagnoli, quelli del calcio s’intende».
Quelli del calcio, certo. Gli altri, i ministri, i capi delle banche, non lavorano affatto tutti insieme e soprattutto sono molto lenti. Sanno che debbono promulgare una legge, firmare un documento, avviare una procedura, ma rinviano e tutto resta fermo. Queste considerazioni Draghi le ha fatte più volte pubblicamente e più volte le ha comunicate alle autorità spagnole interessate, ma i risultati finora non si sono visti, gli spagnoli continuano a rinviare con il risultato che le loro banche sono ancora in pessima situazione. Per far intervenire il fondo «Salva Stati» e «Salva banche» ci vuole una richiesta del governo ma il governo finora tergiversa.
Gli spagnoli sono molto orgogliosi, sono hidalghi, ti guardano in faccia con occhi di sfida e battono il tacco con rabbia se tu rispondi a loro con lo stesso sguardo.
Come nel ballo flamenco, dove inarcano la schiena e le sopracciglia.
Trattare con loro non deve essere facile.
Ti piace la Spagna? gli chiedo. Circospetto: «In che senso?» il paesaggio, dico. «Certo, ma negli ultimi tempi ci vado tra un aereo e l’altro, di paesaggio ne vedo assai poco». Una domanda: spetta a te la vigilanza sulle banche?
«Spetta alla Bce, sì, lo ha deciso l’Eurosummit, lo sai, è una decisione ufficiale. Vigilanza sulle banche, garanzia sui depositi e assicurazione per le banche in crisi. Ma la vigilanza sarà nettamente separata dalla nostra politica monetaria. È tutto scritto nel comunicato dell’Eurosummit».
Ma mi piace sentirlo ripetere. «Però il governo interessato lo deve chiedere e ancora non l’ha chiesto ». Sono hidalghi.
Possono fallire se non lo chiedono? «Penso a Balotelli».
Che c’entra? «Niente, ma mi viene in mente quando piangeva ».
* * *
Dunque ricapitoliamo. La Merkel è politicamente in minoranza nel suo Paese.
Non era mai accaduto. Il governo spagnolo balla il flamenco dell’orgoglio e perde tempo prezioso per non piegarsi a chiedere l’intervento del fondo «Salva banche». I mercati guidati dalle banche d’affari americane e dagli Hedge Fund speculano al ribasso sui titoli bancari europei, la Bundesbank e l’opinione pubblica tedesca sognano un euro di prima classe insieme alla Finlandia e all’Austria, in Italia crescono i movimenti antipolitici che predicano l’uscita dall’euro. Intanto il cambio eurodollaro è a 123 e tende a scendere
ancora.
La battuta di Draghi su Balotelli che piange mi dà da pensare sicché, per concludere sparo qualche domanda finale: ti preoccupa l’inflazione? Risposta: «È l’ultimo dei miei pensieri». Ti preoccupa il ribasso dell’euro sul dollaro? «Favorisce le esportazioni, è uno stimolo ». Allora ce la faremo? «Napolitano ha detto che ce la dobbiamo fare. Io ho grande affetto e stima per lui, mi associo alla sua esortazione e al suo impegno per quanto mi riguarda».
Personalmente continuo ad essere ottimista ma le stelle stanno a guardare.
Tocca a ciascuno di noi fare la sua parte e non allo stellone che è stato soltanto e sempre un’invenzione
consolatoria.
Post scriptum:
alcuni giornali conducono da tempo una campagna sul cosiddetto caso Mancino per mettere in difficoltà il Presidente della Repubblica. Negli ultimi giorni lo esortano a rendere pubbliche le telefonate che ha avuto con Nicola Mancino e che sono stare registrate dalla Procura di Palermo.
Non entro nel merito, che riguarda le Procure interessate, i gip che ne autorizzano gli interventi, il Procuratore generale della Cassazione che ha la vigilanza sul corretto esercizio della giurisdizione e detiene l’iniziativa di eventuali procedimenti disciplinari. Osservo soltanto che quei giornali così legittimamente desiderosi di chiarire eventuali misteri e possibili ipotesi di reato scrivono come se sia un fatto ovvio che il Presidente della Repubblica è stato intercettato e che il nastro dell’intercettazione è tuttora esistente e custodito dalla Procura di Palermo. Quei giornali dicono il vero perché l’esistenza delle intercettazioni è stata confermata da uno dei quattro sostituti procuratori palermitani in un’intervista al nostro giornale.
Quando qualche settimana fa Nicola Mancino, la cui utenza era vigilata dalla suddetta Procura, chiese al centralino del Quirinale di metterlo in comunicazione col Presidente, gli intercettatori avrebbero dovuto interrompere immediatamente il contatto. Non lo fecero. Forse l’agente di polizia giudiziario incaricato dell’operazione non sapeva o aveva dimenticato che da quel momento in poi stava commettendo un gravissimo illecito.
Ma l’illecito divenne ancora più grave quando il nastro fu consegnato ai sostituti procuratori i quali lo lessero, poi dichiararono pubblicamente che la conversazione risultava irrilevante ai fini processuali, ma anziché distruggerlo lo conservarono nella cassaforte del loro ufficio dove tuttora si trova.
La gravità di questo comportamento sfugge del tutto ai giornali che pungolano il Capo dello Stato senza però dire una sola sillaba sulla grave infrazione compiuta da quella Procura la quale deve sapere che il Capo dello Stato non può essere né indagato né intercettato né soggetto a perquisizione fino a quando – in seguito ad un “impeachment” – non sia stato sospeso dalle sue funzioni con sentenza della Corte Costituzionale eretta in Suprema Corte di Giustizia. Si tratta di norme elementari della Costituzione e trovo stupefacente che né i Procuratori interessati, né i giudici che autorizzano i loro interventi, né i magistrati preposti al rispetto della legge, né gli opinionisti esperti in diritto costituzionale abbiamo detto una sola sillaba in proposito con l’unica eccezione dell’ex senatore Giovanni Pellegrino, già presidente della Commissione parlamentare sulle stragi.

La Repubblica 08.07.12

"Il ventennio perduto dell'Italia", di Marco Alfieri

Dagli all’Europa, che inchioda i cittadini a pagare per scelte su cui non possono decidere. In questi mesi non si sente altro: se la crisi è diventata una camicia di forza è colpa di Bruxelles e della Bce; se i governi sono costretti all’austerity di bilancio è colpa della moneta unica. Nel gran ballo mediatico l’Europa è sempre tirata per la giacca: c’è chi la critica perché avrebbe avallato alla guida dei paesi membri tecnocrati graditi ai mercati internazionali, sospendendo il gioco democratico. E chi ne vorrebbe di più per imporre alla Germania di Angela Merkel maggiore solidarietà verso la casa comune europea.

In tutti i casi è diventata l’alibi comodo dei nostri fallimenti, anche se la sua sovranità è sempre ciò che gli stati nazionali lasciano che sia. Se ci sono leader coraggiosi progredisce verso gli Stati Uniti d’Europa, dando fondamento alla moneta unica, altrimenti rincula miseramente come in questi anni.

L’impressione è che con il baratro italiano l’Europa matrigna, lo spread, la Bce e l’euro c’entrano nella misura in cui una moneta comune senza istituzioni condivise resta appesa ad ogni vento. E’ questa l’ambiguità di Maastricht. Ma la bassa crescita e le non riforme che ci espongono alla speculazione sono un problema che ci trasciniamo da 20 anni, il riflesso del fallimento della Seconda Repubblica, morta delle troppe promesse mancate di chi (destra e sinistra ognuno pro quota per gli anni di governo) ha preso in mano un paese uscito dall’abisso del 92-93, doveva riformarlo per tenerlo al passo della globalizzazione, invece lo ha ricacciato nel baratro, costringendo i tecnici a tornare in campo. Un’altra volta. Lo dicono i numeri. Se compariamo 20 anni dopo i principali indicatori del sistema paese (debito, spesa pubblica, Pil, redditi, evasione, pressione fiscale, produttività, Borsa, dualismo nordsud e commercio mondiale) scopriamo infatti che l’Italia del 2011 ereditata dal governo Monti è messa uguale, se non peggio, al terribile 1993, quando nasce in emergenza la Seconda Repubblica e, da Maastricht, comincia il lungo viaggio verso la moneta unica.

Debito pubblico
Un buco più grande nonostante 800 miliardi di euro di minori tassi
La crisi mondiale ci restituisce un paese con un debito pubblico che a fine 2011 ha toccato il 122% del Pil, 6,5 punti sopra il livello del 1993, quando il salvataggio della lira varato dai governi Amato e Ciampi avvia la ritirata dello stato imprenditore. In 15 anni (1993-2007) l’Italia ha fatto meglio di qualsiasi altro paese europeo, privatizzando 186 società e incamerando 146 miliardi di euro (il 24% di tutte le dismissioni Ue). Sono gli anni dello yacht Britannia, la leggenda delle privatizzazioni all’italiana, quando i finanzieri anglosassoni avrebbero deciso la spartizione del patrimonio industriale tricolore. Peccato che, ex post, si sia trattato di una rivoluzione mutilata: il patrimonio netto dello Stato non è praticamente diminuito e la maxi vendita si è ridotta ad una grande operazione di cassa a parziale e temporanea riduzione del debito pubblico (sceso al 103% del 2004 ma poi riesploso oltre il 120%). Soprattutto, il paese ha gettato al vento la grande occasione dei bassi tassi di interesse. «Per quasi 15 anni, fino alla prima metà del 2011 – calcola l’economista Giovanni Ferri, ex Banca Mondiale oggi membro del Banking Stakeholder Group dell’Eba – grazie all’euro abbiamo pagato tassi ‘tedeschi’. Contando un calo prudenziale dello spread di 400 punti sul periodo pre euro, si arriva a 60 miliardi di minori interessi l’anno. Ottocento miliardi nei 15 anni di bonus tedesco. Se li avessimo usati per ridurre il debito pubblico oggi avremmo un rapporto debito/Pil del 70% invece che del 120, e non saremmo nel mirino della speculazione. Per questo, un giorno, qualcuno dovrà chiedere conto ai nostri politici, di destra e di sinistra, che cosa ci avete fatto col bonus tedesco?»

Pil e redditi
Il Paese non sa più crescere: giù ricchezza e produttività
L’Italia, nord produttivo compreso, nell’ultimo ventennio ha perso per strada un punto e mezzo medio di crescita strutturale, passando dall’1,5% allo «0 virgola» degli anni duemila. La distanza accumulata rispetto agli altri paesi dell’eurozona vale circa 300 miliardi di minor ricchezza prodotta ogni anno. Se accorciamo il focus, nel 2010 il Pil tricolore era appena il 3,8% sopra il livello del 2000. Significa che in rapporto alla popolazione, nel frattempo salita del 6,2% grazie all’immigrazione, è sceso in termini reali del 2,3%. Si tratta della peggior performance tra i paesi avanzati: ha fatto +7,6% il Giappone (in deflazione da 20 anni), +9,5 la Germania, +11,8 la Francia, +16,7 gli Usa, +18,1 la Gran Bretagna. Se dunque la crisi mondiale, la speculazione e la dittatura dello spread cominciano dal 2008, la stagnazione italiana è precedente. Lo dimostra anche la serie storica del Pil pro capite: nel 1990 era del 2% inferiore a quello dei tedeschi, nel 2010 il solco si è allargato al 15%, nonostante i pesanti oneri dell’unificazione tedesca. Quello con la Francia si è ampliato dal -3 al -7%. Con Londra si è addirittura passati da un vantaggio del 6% a un delta negativo di 12 punti. Il risultato è che nel 1990 il nostro Pil per abitante valeva il 107% della media Ue, nel 2011 è sceso al 94%. «Il reddito medio annuo delle famiglie italiane nel 2010, al netto delle imposte e dei contributi sociali, risulta pari a 32.714 euro, cioè 2.726 euro al mese, una cifra inferiore in termini reali del 2,4% rispetto a quello riscontrato nel 1991», conferma Bankitalia. E ancora. Fatta cento la produttività (Pil per ora lavorata) degli Usa, nel 1990 l’Italia misurava 87. Nel 2010 è crollata a 75, 12 punti meno. Dov’è la colpa dell’euro?

Nord-Sud
20 anni sprecati aumenta il divario tra le due Italie
In termini di reddito prodotto, quello meridionale resta inchiodato al 59-60% di quello del nord Italia. Un divario cresciuto nell’ultimo ventennio (nel 1993 si attestava intorno al 63%), quando in Italia si afferma il paradigma leghista del Paese duale alla cui base c’è un dogma: il Sud è la palla al piede del Nord. Il Meridione è solo spreco e il Nord deve liberarsene altrimenti sprofonda. Una lettura dei «territori separati» che ha egemonizzato il discorso pubblico, trasformando il sud nella panacea di tutti i mali del Nord, anch’esso in crisi. Persino la stagione dei Patti per lo sviluppo promossa da Carlo Azeglio Ciampi, e la strategia di far passare le risorse finanziarie direttamente attraverso le regioni, hanno risentito di questa impostazione localista.

Quel che invece non si è interrotta è la spirale spesa pubblica buona/ spesa pubblica cattiva. Quella cosiddetta discrezionale, cioè per sussidi e servizi, fatta 100 la quota a disposizione di un cittadino del nord, è schizzata a 106 per ogni abitante del sud; quella in conto capitale, cioè per gli investimenti, fatta sempre 100 la quota girata al nord, al sud è crollata a 87. In sostanza nell’ultimo ventennio (dopo che nel trentennio 1950-1970 si era ridotto di 20 punti) non solo si è riallargato il gap Nord-Sud nelle risorse prodotte, ma si sono perpetuati i vizi nei trasferimenti dallo stato centrale al mezzogiorno: più risorse per consumi e clientele, meno per strade, scuole e infrastrutture.

Economia sommersa
Evasione fiscale invincibile anche dopo Mani Pulite
L’Italia del Dopoguerra è un paese che fonda il proprio accumulo di benessere su una costituzione materiale distorta: un settore pubblico sterminato e inefficiente usato da ammortizzatore sociale; un settore privato e di piccola industria spina dorsale del paese a cui si concede, quasi a compensazione, il vizietto dell’evasione. Col tempo la prassi degenera: il piccolo «nero» si fa grande evasione, coinvolgendo fette sempre più larghe di popolazione. Dai «giovani» pensionati ai doppiolavoristi del pubblico impiego e delle grandi aziende private, dalle casalinghe che fanno i mestieri agli insegnanti che danno lezioni private. Finchè il patto improprio ha funzionato ha prodotto ricchezza per tutti, ma da fine anni 90, con l’ingresso in Europa e la concorrenza globale, il Bengodi è finito. Secondo stime recenti dell’Istat, il valore aggiunto dell’economia sommersa vale tra il 16 e il 17,5% dell’intero Pil. Vuol dire che nel nostro paese ogni anno circolano abusivamente tra i 255 e i 275 miliardi non dichiarati. In termini di gettito, si tratta di almeno 7 punti di prodotto interno lordo, grosso modo 100 miliardi l’anno di mancati incassi per l’erario. Una cifra mostre, simile a quella di 20 anni fa, quando il sommerso oscillava tra il 15 e il 18% del Pil. Se poi guardiamo i redditi dichiarati da imprenditori e liberi professionisti, si scopre che in Italia il peso delle loro tasse sul totale delle imposte riscosse è sceso dal 13,2% del 1993 al 5% del 2010 per i primi, dal 7,6% al 4,2% per i secondi.

Economia sommersa
Evasione fiscale invincibile anche dopo Mani Pulite
L’Italia del Dopoguerra è un paese che fonda il proprio accumulo di benessere su una costituzione materiale distorta: un settore pubblico sterminato e inefficiente usato da ammortizzatore sociale; un settore privato e di piccola industria spina dorsale del paese a cui si concede, quasi a compensazione, il vizietto dell’evasione. Col tempo la prassi degenera: il piccolo «nero» si fa grande evasione, coinvolgendo fette sempre più larghe di popolazione. Dai «giovani» pensionati ai doppiolavoristi del pubblico impiego e delle grandi aziende private, dalle casalinghe che fanno i mestieri agli insegnanti che danno lezioni private. Finchè il patto improprio ha funzionato ha prodotto ricchezza per tutti, ma da fine anni 90, con l’ingresso in Europa e la concorrenza globale, il Bengodi è finito.

Secondo stime recenti dell’Istat, il valore aggiunto dell’economia sommersa vale tra il 16 e il 17,5% dell’intero Pil. Vuol dire che nel nostro paese ogni anno circolano abusivamente tra i 255 e i 275 miliardi non dichiarati. In termini di gettito, si tratta di almeno 7 punti di prodotto interno lordo, grosso modo 100 miliardi l’anno di mancati incassi per l’erario. Una cifra mostre, simile a quella di 20 anni fa, quando il sommerso oscillava tra il 15 e il 18% del Pil. Se poi guardiamo i redditi dichiarati da imprenditori e liberi professionisti, si scopre che in Italia il peso delle loro tasse sul totale delle imposte riscosse è sceso dal 13,2% del 1993 al 5% del 2010 per i primi, dal 7,6% al 4,2% per i secondi.

Borsa e made in Italy
Piazza Affari in caduta libera Export in frenata
La globalizzazione ha stravolto la mappa economica planetaria, trasferendo a Oriente ricchezza, potere e commerci. Nella classifica del commercio globale l’Italia è scesa dal 4,8% del 1993 al 3,1% del 2011, dal quinto al settimo posto. Certo la nostra forza rimane l’export. Ma secondo l’Ocse stiamo rallentando. Nell’ultimo ventennio quello italiano è cresciuto del 113% contro il 260% della Germania e il 152% della Francia. Nel 1990 le nostre esportazioni valevano il 54% di quelle di Berlino e il 96% di quello di Parigi; l’anno scorso siamo scesi rispettivamente al 32 e all’81%.

Se poi guardiamo alla Borsa, la foresta rimane pietrificata: il 40% delle aziende di Piazza Affari mantiene un’azionista di riferimento pubblico. Lo stesso numero di società quotate al 2011 (271) è fermo da un decennio. Nel 1993 erano poco meno: 222. Non basta. Tra le cosiddette multinazionali tascabili del «Quarto capitalismo», meno di 20 sono quotate. La Borsa nell’ultimo ventennio è dunque servita a fare cassa in vista dell’euro, non a creare un moderno mercato dei capitali. Il risultato è che a fine 2011 Piazza Affari, con una capitalizzazione pari al 20,7% del Pil, si colloca al 20esimo posto al mondo, preceduta anche dai listini dei mercati emergenti: Brasile (64,9% del Pil), Russia (72,8%) e Sudafrica (207%). E dire che ancora nel 2001 la piazza milanese era ottava al mondo, con una capitalizzazione pari al 50% del Pil.

Tasse
«Flat tax», il sogno tradito della Seconda Repubblica
La progressione delle tasse in Italia comincia negli anni 80, quando la pressione fiscale era del 30%, per salire al 35 a metà decennio, in parallelo all’esplosione del debito pubblico. Nel ’92, sull’orlo della bancarotta, sfonda la soglia del 40% per non tornare più indietro, anzi. Il record del 43,9% del 1997 verrà infranto alla fine di quest’anno quando le tasse saliranno all’astronomico 45,1% (+2,1% sul 2011). E ancora di più nel 2013, quando la proiezione è di un insostenibile 45,4% nominale, perché depurato dall’evasione schizza al 55% per chi le imposte è costretto a pagarle fino all’ultimo centesimo.

Solo negli ultimi 7 anni, tra il 2005 e il 2012, la pressione fiscale è salita di 4,7 punti di Pil. In media un punto di tasse in più ogni 532 giorni. Altro che aliquota unica Irpef al 33%, la mitica «flat tax» annunciata dal Berlusconi del 1994, scritta a chiare lettere nel programma economico firmato Antonio Martino che tanto fece sognare gli italiani. Se analizziamo la speciale classifica del salasso, calcolata sull’arco temporale 1995-2011, le rispettive coalizioni che si sono alternate al governo ,si sono praticamente equivalse: una media pressione fiscale del 42,6% per i governi di centrosinistra, una media pressione fiscale del 42% per i governi di centrodestra. Entrambi, liberisti immaginari!

Spesa pubblica
Il trionfo del partito unico della spesa (corrente)
Nell’ultimo decennio la spesa pubblica primaria, al netto degli interessi sul debito, è aumentata di 141,7 miliardi di euro (+24,4%). Toccando, nel 2010, quota 723,3 miliardi (46,7% del Pil), pari a 11.931 euro spesi per ciascun cittadino (1.875 in più rispetto al 2000). Nel 2011 lo stato ha invece speso il 45,5% del Pil, superando il livello del 1993 (43,5%).

La cruda verità è che nella Seconda Repubblica si è fatto pochissimo per intervenire sui flussi di spesa pubblica. Tranne il governo Ciampi (-0,54% nel biennio 93-94) e il primo Berlusconi (-1,20% nel 94-95), tutti gli esecutivi l’hanno aumentata: +6% il Prodi 96-98, addirittura +16,9% il Berlusconi 2001-2006, intaccando l’avanzo primario, fondamentale nei paesi ad alto debito per garantire la sostenibilità dei conti. Non solo. In questo ventennio la forte riduzione della spesa per interessi si è accompagnata ad un’esplosione delle uscite correnti, per quasi 2/3 fatte da stipendi della Pa e prestazioni sociali. In un raffronto impietoso 1995-2012 fatto dall’Eurostat, l’Italia è il paese che ha registrato la maggior crescita cumulata di spesa corrente primaria: +5,9% contro il 3,6% della Francia, il 3,3% della Spagna, il -0,8% della Germania e una media dell’Eurozona pari al 2,2%. Troppe cicale al governo e troppo poche formiche.

La Stampa 08.07.12