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La matematica aiuta a vivere meglio a 30 anni il picco dell’istinto dei numeri", di Elena Dusi

La matematica è un istinto che cresce e invecchia con noi. Come la forza dei muscoli, la capacità di manipolare i numeri si rafforza rapidamente nei bambini, raggiunge il massimo intorno ai 30 anni di età, poi inizia lentamente a decadere. In maniera sempre simile allo sport, un buon allenamento sui banchi di scuola migliora il rapporto con cifre e insiemi. E fa sì che l’agilità nelle operazioni resti intatta nonostante gli anni.
Il senso dell’uomo per la matematica ha la forma di una curva a forma di scudo, con il picco che coincide con la tarda gioventù. L’hanno messa insieme per la prima volta i ricercatori dell’università di Baltimora sottoponendo a un test numerico 10mila persone tra gli 11 e gli 85 anni. Raccogliere un numero così grande di “cavie” è stato possibile grazie a Internet,
che sempre più spesso viene sfruttato negli esperimenti scientifici su larga scala per la sua capacità di riunire grandi coorti di volontari provenienti da tutti i paesi del mondo.
Il test proposto dai ricercatori (ancora disponibile in rete su www.panamath.org) misura una funzione innata del nostro cervello: il sistema numerico approssimativo. Sullo schermo di un computer, per un tempo brevissimo, vengono proiettati due gruppi di cerchi di due colori diversi. I volontari devono decidere quale dei due gruppi è più numeroso. La capacità di soppesare e confrontare due quantità anche senza calcolarne la cifra esatta ha accompagnato la storia della nostra specie. Insieme alla geometria
appartiene (in forme meno specializzate) anche ai bambini di pochi mesi e ad alcune tribù aborigene o amazzoniche che non hanno mai affrontato la matematica sui banchi. Alcuni esperimenti l’hanno riscontrata perfino in scimmie, piccioni e ratti. E i neurologi hanno individuato l’area dell’“istinto per i numeri” nel solco intraparietale: una delle pieghe della corteccia del cervello situata verso la nuca.
Lo studio uscito su
Proceedings of the National Academy of Sciences
(Pnas) conferma che ottenere buoni voti, dalle elementari all’università, rende l’istinto più acuto e meno vulnerabile all’età. Curiosamente però, lo stesso numero della rivista pubblica un altro articolo che bacchetta gli scienziati. Loro per primi sarebbero troppo refrattari all’uso dei calcoli, con buona pace di Galileo secondo cui il grandissimo libro
della natura è scritto in lingua matematica. Le pubblicazioni scientifiche che contengono molte equazioni, secondo lo studio di
Pnas,
vengono citate negli articoli scientifici successivi il 50% in meno rispetto a quelli scritti completamente nel “linguaggio delle lettere”. I ricercatori dell’università di Bristol che hanno misurato la pigrizia numerica dei loro colleghi suggeriscono di migliorare la preparazione matematica dei
laureati nelle materie scientifiche. Ma secondo gli esperti di Baltimora, svolgere più operazioni sui banchi può migliorare l’“istinto dei numeri” nella popolazione in generale, aiutando chi invecchia a mantenere l’agilità mentale. «Abbiamo scoperto — scrivono gli autori — che la sensibilità ai numeri cresce durante l’età scolare e diventa massima intorno ai 30 anni. Questo miglioramento è comune a tutti, ma ci
sono profonde diffidenze tra individui della stessa età. Quelli che vanno meglio in matematica a scuola, restano i più bravi per tutta la vita». Il sistema numerico approssimativo serviva ai nostri antenati a misurare, ancorché a spanne, il mondo della natura per decidere quale fonte di cibo era più abbondante o per darsi alla fuga nel momento in cui i nemici erano troppo numerosi. Oggi saper confrontare due insiemi può aiutare a scegliere la fila più corta o a sommare a grandi linee le calorie introdotte con la dieta. Cambiato il contesti, affidarsi al senso del cervello per i numeri conviene ancora.

La Repubblica 29.06.12

"I Progressisti Ue: decisivo il vincolo di solidarietà", di Ninni Andriolo

Il vertice dei socialisti e dei democratici rilancia le proposte per la crescita e per la riduzione degli spread. Bersani: «Vanno prese decisioni chiare e incisive». È dell’Italia che si parla molto nel preconsiglio dei primi ministri e dei leader socialisti e progressisti europei che si riunisce in preparazione del summit Ue dei 27. «Possiamo anche discutere della struttura dell’Ue per i prossimi dieci giorni così Martin Schulz, annunciava il suo intervento al Consiglio europeo sul suo profilo twitter Ma la crisi dei debiti sovrani in Italia e in altri Paesi ha bisogno di risposte adesso». Crescita da una parte e misure per ridurre la pressione degli spread sugli Stati dall’altra: questa la ricetta del presidente tedesco del Parlamento di Strasburgo che chiama indirettamente in causa la cancelliera tedesca Angela Merkel.
L’esponente Spd è intervenuto per primo, ieri, al summit dei capi di Stato e di governo ponendo con forza il tema dei prezzi altissimi che potrebbe pagare l’Europa se non si opera subito per «allentare la pressione dei tassi che pesa su alcuni Stati membri»: Italia, Spagna, Portogallo, ecc. Schulz, così, si fa interprete della preoccupazione evidente nel prevertice al quale hanno partecipato, tra gli altri, gli italiani Bersani, D’Alema, Bresso e Nencini, il belga Di Rupo, i greci Venizelos e Papandreou, gli spagnoli Almunia e Rubalcaba, il portoghese Seguro. «L’Europa si smarrisce se si sgretola il vincolo di solidarietà che deve tenere assieme i suoi popoli e i suoi stati», spiega chi ha contribuito alla preparazione del documento finale.
Lo stesso documento che ripropone idee elaborate anche in Italia in un’ottica europea. «Non per interessi di bottega di questa o quella nazione, ma perché farsi carico di un Paese in difficoltà impedisce che vada in crisi l’intera Europa». E il testo approvato ieri a Bruxelles ripropone, con parole diverse, la golden rule che consente di scorporare dal computo del debito le spese per investimenti; misure per assicurare «la stabilità finanziaria» attraverso la riproposizione degli scudi anti-spread per i Paesi che hanno avviato un percorso «virtuoso». Misure immediate che tuttavia non archiviano la discussione sugli eurobond che «rimane sul tavolo», queste. Iniziative di cui si è parlato in Italia in queste settimane e che lo stesso Monti ha messo in campo tenendo conto dei veti di Angela Merkel. Mentre un esponente del Pd come Vincenzo Visco aveva elaborato già un anno e mezzo fa l’idea di un Redemption fund per la messa in comune del debito che supera il 60% del Pil con garanzie chiare sulle esposizioni dei singoli Paesi in modo che questi non gravino sugli altri. Una proposta fatta propria dal documento dei socialisti e dei progressisti europei.
«Il Pd lavora in un ottica europea guardando all’Italia, ma non solo agli interessi del nostro Paese», spiegano da Largo del Nazareno. Il Pd e Monti si danno reciprocamente una mano nell’allargare il campo delle alleanze europee per intaccare le rigidezze della Merkel. «Devono essere prese decisioni chiare che spieghino bene al mondo quali sono le intenzioni dell’Europa spiega Bersani. Bisogna mettere un freno alla speculazione sugli spread, adottare misure per la riduzione degli interessi sul debito, trovare coordinamenti per la sicurezza dei conti bancari, dare margini per la ripresa di una politica di investimenti e per il lavoro». Questi obiettivi, aggiunge il segretario democratico, «hanno dentro molte proposte tecniche che incrociano ciò che stiamo dicendo in Italia sia come Pd che come governo Monti».
Messaggio alla Germania, quindi. «Tutte queste proposte non comportano azzardi morali assicura il leader Pd o il fatto che un Paese faccia regali all’altro. Ma implicano meccanismi di cooperazione che fanno guadagnare l’intero sistema». Gli eurobond? «In questo momento non sono il punto essenziale aggiunge Bersani bisogna continuare a discuterne, ma i due obiettivi di limitare la forbice tra gli spread e di abbassare gli interessi sul debito si possono raggiungere a prescindere». La Spd tedesca, in realtà, non ha voluto spingersi in là sul tema degli eurobond. Nel documento finale del prevertice di ieri si propone, tra l’altro, una tassa europea sulle transazioni finanziarie che potrebbe dare un gettito di 100 miliardi di euro l’anno. Pse e progressisti chiedono anche i project bond e la separazione fra banche commerciali e banche di investimento. Il preambolo del documento, infine, invita la Ue a riallocare «tutti i fondi disponibili» per la formazione e l’occupazione giovanile. Mentre la priorità deve riguardare «la crescita»

l’Unità 29.06.12

Sedi distaccate tribunali: “Razionalizzare con criteri oggettivi”

La parlamentare Pd Ghizzoni e l’assessore Tosi hanno partecipato a un incontro Anci. “E’ giusto razionalizzare, ma lo si deve fare seguendo criteri oggettivi quali il bacino d’utenza e il numero di pratiche evase dalle singole strutture”: la parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni e l’assessore del Comune di Carpi Simone Tosi hanno partecipato, in mattinata, a un incontro, presso la sede dell’Anci regionale, nel corso del quale si è discusso del piano di razionalizzazione delle sedi distaccate dei tribunali e di quelle dei giudici di pace.

Il piano generale era stata annunciato nell’agosto scorso dall’allora ministro della giustizia del Governo Berlusconi, oggi si conoscono le indicazioni che vengono dall’attuazione della delega per la razionalizzazione delle sedi dei giudici di pace e delle sedi distaccate dei tribunali. Il principio sembra essere quello dei tagli lineari: via tutte le sedi distaccate dei tribunali e nel modenese sono a rischio, quindi, le strutture di Pavullo, Carpi e Sassuolo. Di tutto questo si è parlato in mattinata a Bologna presso la sede dell’Anci regionale, incontro a cui hanno partecipato anche la deputata Manuela Ghizzoni, in rappresentanza dei parlamentari Pd, e l’assessore Simone Tosi, a nome del Comune di Carpi. “Riteniamo che le sedi di giustizia siano un presidio per la tenuta sociale ed economica di un territorio. – hanno commentato Ghizzoni e Tosi all’uscita dell’incontro – Siamo consapevoli che è necessario contrarre le spese e tagliare gli sprechi laddove si verifichino, ma condividiamo quanto emerso nel corso dell’incontro odierno, secondo noi particolarmente proficuo. La razionalizzazione è senz’altro necessaria, ma non secondo la logica dei tagli lineari. Occorre seguire un criterio oggettivo che tenga conto sia del bacino di utenza e sia del numero delle pratiche evase dalle singole sedi distaccate. Teniamo presente, inoltre, – hanno sottolineato Ghizzoni e Tosi – che la chiusura generalizzata delle sedi distaccate dei tribunali potrebbe, paradossalmente, portare ad un aggravio di spesa, piuttosto che a un risparmio. I singoli Comuni, infatti, concorrono, in quota parte, alle spese ordinarie delle strutture dislocate sui loro territori. Se tutto convergesse su Modena, il Tribunale si troverebbe nella necessità di trovare nuovi locali e sostenerne le spese correlate. Siamo d’accordo, quindi, – concludono Ghizzoni e Tosi – con quanto sostenuto in mattinata dagli amministratori locali: la razionalizzazione, pur giusta, deve tenere conto non solo dei risparmi di spesa, ma anche dell’efficacia del servizio erogato. Deve avvenire, inoltre, in maniera congiunta tra tribunali e giudici di pace in modo da salvaguardare il principio della “giustizia di prossimità”.

"Il momento della verità", di Guglielmo Epifani

I dati dell’ufficio studi di Confindustria offrono una fotografia davvero preoccupante: un Pil in calo di oltre il 2% per quest’anno, e in calo ancora per il 2013, un pareggio di bilancio che si allontana, una flessione degli investimenti, dei consumi e del potere di acquisto delle famiglie, un aumento costante della disoccupazione. Questo quadro, per quanto noto a chi conosce la realtà vera del Paese, rende però indifferibile una verifica onesta dei provvedimenti presi fino ad oggi dal governo e della loro efficacia, non tanto ai fini di una ritrovata credibilità internazionale, che fortunatamente è stata ristabilita, quanto dell’effettivo contrasto alla crisi. Da questo punto di vista il vertice dei capi di governo ha una responsabilità storica. Una parte dell’edificio europeo sta bruciando e il contagio sta crescendo, creando una trappola che mette in ginocchio cittadini e imprese, minando le fondamenta stesse della moneta unica e dei trattati. Ogni Paese arriva a Bruxelles con le proprie ragioni e i propri interessi ma la moneta unica esige un compromesso comune, in assenza del quale la crisi da monetaria diventerà immediatamente una crisi politica. Per l’Italia il passaggio assume le caratteristiche di un guado decisivo, e non perché tocca agli altri affrontare o risolvere problemi che sono nostri, ma perché non è giusto né accettabile che l’incertezza europea renda ancora più pesante la strada del nostro risanamento. Un compromesso basato su una delle tante soluzioni presentate ci può aiutare nelle scelte che dovremo fare comunque; un risultato negativo renderebbe tutto più difficile ma altrettanto necessario. Quello che difficilmente può essere accettato dai nostri interessi è il protrarsi di una situazione di stallo e di incertezza, nella quale non si delinei nessuna via di uscita dalla crisi. Altri possono aspettare, come in fondo propongono le ultime considerazioni del cancelliere tedesco: noi abbiamo il bisogno di non perdere altro tempo e trovare da subito un bandolo per dipanare una matassa tanto complessa quanto pericolosa. Da questo punto di vista, i dati di Confindustria hanno il merito di non abbellire né di sfumare la durezza del momento, riportando al centro dell’attenzione l’economia reale, con i problemi in carne e ossa di giovani, lavoratori e imprese. E anche di distribuire critiche e osservazioni, per la prima volta dopo tanti anni, sufficientemente oneste ed equilibrate. Per questo da lunedì, chiuso il vertice con i risultati che vedremo, ci sarà in ogni caso la necessità di provare a cambiare registro. Se il Paese non può restare in una lunga agonia e in una troppo lunga transizione verso non si sa dove, e se i provvedimenti presi fino ad oggi su tasse sulla casa, riforma previdenziale (pesantissima e iniqua), stimoli all’economia (modesti fino all’eccesso), e riforma del mercato del lavoro (assolutamente discutibile) non danno risultati effettivi, allora bisognerà pensare di cambiare l’asse e le priorità degli interventi. Laddove non arrivano i suggerimenti della Banca centrale, altre strade fino ad oggi non prese in considerazione possono essere percorse. Da un lato bisogna provare a ridurre e ristrutturare lo stock del debito, dall’altro stimolare investimenti e domanda, anche trovando i modi per fare affluire la liquidità necessaria a imprese e famiglie. Qualcuno, negli ultimi giorni, l’ha chiamata la soluzione B; altri da tempo hanno avanzato proposte per un’operazione dai caratteri straordinari. Lo stesso governo ultimamente ha predisposto contenitori e società con finalità che si possono avvicinare, anche se non ancora nelle quantità, allo stesso obiettivo. Si tratta ora di scegliere, studiando bene le soluzioni anche dal punto di vista dell’equità sociale, e di affrontare il nodo dal suo fondamento. Insieme, utilizzando una parte di tali risorse, bisogna sostenere l’economia reale, dopo che per responsabilità del centrodestra restiamo l’unico Paese in Europa che non ha fatto, durante l’arco della crisi, alcuna manovra di stimolo anticlica. Non si tratta di scelte facili, ma abbiamo una ragionevole possibilità di uscire dalla spirale recessione-debito in altro modo? E ancora: possiamo continuare a galleggiare, bruciando risorse e lavoro giorno dopo giorno? Stare fermi, mettere tamponi dalla discutibile utilità, sommare tanti piccoli interventi iniqui e anche occasionali, è forse una via migliore? L’unico vero problema può essere rappresentato dalla fragilità dell’equilibrio politico, e dagli incerti atteggiamenti di una parte dello schieramento che sostiene il governo. Ma anche su questo aspetto vale in fondo la stessa considerazione: meglio misurarsi con un progetto alto e con una scommessa di fondo che tirare a campare, finendo con il logorare tutti, la parte buona e quella che ha le responsabilità più grandi, chi ha a cuore il destino comune e chi lavora per propri e circoscritti interessi.

L’Unità 29.06.12

Prodi: “Serve una svolta l’Europa si unisca attorno alla Germania”, di Andrea Bonanni

Allora, Professore, ce la faranno i leader europei a salvare la moneta unica? Intercettato a Bruxelles all’uscita di una riunione del gruppo Spinelli, Romano Prodi si ferma un attimo per riflettere. «Da questo vertice non mi aspetto miracoli. Sarebbe già un buon risultato se finisse la disputa dottrinaria che ha dominato il dibattito negli ultimi tempi, e se si cominciasse a discutere in modo empirico su cosa fare».
Pessimista?
«No. Ma non è ancora pienamente maturata nei circoli economici e politici che contano la piena consapevolezza che il tracollo dell’euro sarebbe un disastro per tutti. Solo da poco hanno cominciato a comparire studi come quello fatto da Roland Berger in Germania e dalla Confindustria in Italia, o appelli come quello dell’industria chimica europea pubblicato dal
Financial Times.
Lo scontro tra la dottrina economica astratta e la realtà della vita di tutti i giorni non è ancora arrivato ad un punto di drammaticità tale da spingere tutti a prendere le decisioni necessarie. Quindi ci saranno passi in avanti, ma non ancora quel cambiamento radicale che sarebbe necessario. Ci vogliono misure tali da ribaltare le aspettative dei mercati. Oggi l’Europa è un cane piccolo che tutti si permettono di azzannare. Bisogna che diventi un cane tanto grosso che nessuno si azzardi a tentare di morderlo».
Fuor di metafora, che cosa vuol dire?
«Oggi nel mondo ci sono solo due governi veramente sovrani: gli Stati Uniti e la Cina. Tutti gli altri non sono liberi di attuare le politiche che vorrebbero per paura degli spread e dei mercati. Non capire che, per i Paesi europei, l’unico modo di riacquistare la propria sovranità è quello di condividerla con gli altri, denota una totale mancanza di senso storico. In Asia si sta creando un complesso industriale multinazionale di dimensioni mai viste al mondo. O l’Europa si mette insieme condividendo non solo le politiche monetarie, ma anche quelle economiche e industriali, oppure è condannata a perdere il primato che ancora detiene. Tutto questo può avvenire solo attorno alla Germania, che è la maggiore potenza industriale del continente. In Germania il settore manifatturiero è pari al 25 per cento del Pil, mentre in Francia è meno della metà e in Gran Bretagna è sotto al 10 per cento. Ma neppure la Germania ce la può fare da sola: ha bisogno dell’apporto di Paesi come la Francia, l’Italia, la Polonia, la Repubblica Ceca. Purtroppo, però, per capire la portata della posta in gioco ci vogliono grandi statisti».
Ma secondo lei, tra dieci anni ci sarà ancora l’euro e l’Italia ne farà ancora parte?
«Sono sicuro di sì. Avremo ancora tre, quattro mesi di rimedi parziali. Mesi passati ad inseguire la storia con rimedi insufficienti. Ma più ci si avvicina al baratro, più la leadership politica ed economica si renderà conto della situazione e prenderà le misure necessarie.
Non solo tra dieci anni ci sarà ancora la moneta unica, ma l’Europa sarà integrata in modo tale che i mercati non potranno più farla a fette applicando una tattica da Orazi e Curiazi come fanno ora».
Lei è stato presidente della Commissione che ha tenuto trionfalmente a battesimo l’euro. Si sarebbe mai aspettato una crisi di queste proporzioni?
«Il problema l’avevo più volte sollevato, ma senza successo. Quando leader come Kohl, Mitterrand, Chirac avevano dato vita all’unione monetaria, erano ben consapevoli che si trattasse di un’opera incompiuta, e che sarebbe stato necessario completarla strada facendo con una vera unione economica. Poi però il clima politico è cambiato. Quando nel 2003 proposi di rafforzare la sorveglianza sulle politiche economiche, perfino Francia e Germania bocciarono la proposta. Non accettarono neppure la mia richiesta di dare a Eurostat i poteri per controllare i dati di bilancio che arrivavano dalle capitali. Questo, almeno, avrebbe impedito al governo greco di truccare i conti per anni. L’aria era cambiata: cominciava l’era delle diffidenze reciproche, la paura dell’idraulico polacco che ha portato alla bocciatura della Costituzione in Francia».
Anche la strategia di Lisbona sulla competitività, lanciata dalla sua Commissione, si è risolta in un fallimento…
«Si. Se si fossero rispettati quegli impegni oggi non saremmo a questo punto. Ma i governi avevano tolto troppo piume dalle ali di quel progetto. Hanno abolito ogni vincolo e ogni potere di controllo sulle politiche nazionali. La strategia di Lisbona è rimasta una dichiarazione di buona volontà. I Paesi che l’hanno messa in pratica,
come la Germania di Schroeder che ha lavorato in collaborazione con i sindacati, oggi hanno i conti in ordine e continuano a crescere. Ma lo hanno fatto per semplice buon senso. Non perché vincolati da un obbligo europeo».
E l’Italia non ha fatto nulla?
«Quando tornai al governo in Italia ci provai. Ma mi scontrai con una sinistra molto dura e con una maggioranza troppo ristretta per poter portare a termine il lavoro che Schroeder aveva fatto in Germania. In ogni modo le liberalizzazioni di Bersani restano l’unico inizio concreto di riforma dei mercati. E con Tommaso Padoa Schioppa riuscimmo comunque a ridurre il debito pubblico. Ma queste politiche hanno bisogno di respiro lungo. E il mio governo, purtroppo, non lo ha avuto».

la Repubblica 29.06.12

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“TRE PROPOSTE PER SALVARE LA SECONDA MONETA DEL PIANETA”, di VALÉRY GISCARD D’ESTAING

La crisi dell’euro si trascina da più di due anni e avvelena l’economia europea. Per essere precisi, non si tratta di una crisi monetaria, perché l’euro è una moneta di cui nessuno cerca di disfarsi ed è ben gestita dalla Banca centrale europea. È una crisi legata all’evoluzione speculativa del sistema bancario, liberato da ogni regolamentazione sotto la pressione dell’Amministrazione Clinton-Rubin, e aggravata dalla irresponsabile gestione dei conti pubblici di diversi Stati dell’Eurozona, che si credevano protetti dalla nuova moneta.
L’agitazione disordinata e quotidiana dei partecipanti, la maggior parte dei quali appartiene alle lobby anti-euro e che guarda con cupidigia ai profitti che potrebbe realizzare con un tracollo della moneta unica, confonde gli spiriti e ostacola il ritorno alla tranquillità. Appena si trova un rimedio alla crisi bancaria spagnola subito rispunta fuori il problema del debito italiano!
Di fronte a questa offensiva, la difesa fatica a farsi sentire, e il motivo del suo silenzio sta in un’evidente lacuna: l’eurozona non dispone di
alcuna organizzazione che possa difenderla e coordinare le reazioni dei suoi componenti. Per quanto strano, la seconda moneta del pianeta non dispone di alcuna istanza permanente in grado di coordinare l’attività economica e le prese di posizione degli Stati che la utilizzano.
Sì, c’è l’Eurogruppo, presieduto con convinzione e talento dal lussemburghese Jean-Claude Juncker, ma è semplicemente una riunione periodica dei ministri dell’Economia, e tutti sanno che non sono questi a prendere le decisioni più importanti, bensì i presidenti e i primi ministri.
Le istituzioni di Bruxelles, in particolare la Commissione, mai riformata dal momento del grande allargamento, cercano di inserirsi nel meccanismo, ma ottengono solo l’effetto di complicare le cose, perché un terzo dei loro membri non utilizza l’euro e una minoranza potente si oppone a qualsiasi passo avanti nell’integrazione europea. Diventa quindi impossibile affidare a queste istituzioni il compito di gestire i problemi della moneta unica. In compenso, conservano tutte le competenze non
monetarie che i trattati di Maastricht e di Lisbona assegnano loro.
Il panorama è dunque chiaro: spetta agli Stati dell’eurozona, e solo a loro, dotarsi degli strumenti per coordinare le loro politiche di bilancio e creare progressivamente l’unione economica, simmetrica dell’unione monetaria. Hanno bisogno solo di alcuni strumenti indispensabili, che loro stessi potranno decidere se utilizzare. Ne vedo tre: 1 — Una riunione regolare dei capi di Stato o di governo dell’eurozona, per un «Consiglio dell’euro»: una scadenza mensile mi sembra appropriata. La riunione fisserà le regole riguardo alla sua presidenza e non serve alcuna modifica dei trattati.
2 — La designazione di un segretario generale dell’eurozona, sull’esempio di Robert Marjolin ai tempi dell’Organizzazione per la cooperazione economica europea: grande levatura personale, buon diplomatico, profondo conoscitore delle questioni economiche; si tratterebbe di un alto funzionario, circondato da una squadra ristretta, che prenderebbe nota delle
decisioni, ne seguirebbe l’applicazione e riferirebbe ai capi di Governo. La decisione di insediarlo può essere presa dai capi di Governo dell’eurozona.
3 — La vigilanza sugli impegni assunti in materia di finanze pubbliche sarebbe esercitata dal «Consiglio dell’euro», dove sederebbero sia i creditori che gli eventuali debitori, vale a dire chi paga e chi chiede soldi, garantendo un vincolo più efficace rispetto al ricorso a un sistema amministrativo. Un accordo tra gli Stati dell’eurozona, che riprenda alcune proposte avanzate dal Parlamento europeo, organizzerebbe la vigilanza. L’accordo dovrebbe essere ratificato dai parlamenti nazionali.
L’eurozona è ancora orfana, e questo spiega il suo smarrimento. I suoi dirigenti diano prova di volontà politica dotandola rapidamente della struttura istituzionale di cui è gravemente sprovvista. Questo farebbe tornare la calma sui mercati e segnerebbe la fine della crisi dell’euro.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica 29.06.12

"Non sarà l’ultima volta del quizzone", da Tuttoscuola

Molti organi di stampa hanno salutato la terza prova d’esame, quella interna, come se fosse l’ultima volta, ricordando come l’ex-ministro Gelmin i avesse dichiarato che intendeva sostituirla con una prova nazionale sul tipo di quella Invalsi per l’esame di terza media. Ma il ministro Gelmini non ha potuto dar seguito al suo disegno e non si sa se il suo successore, Francesco Profumo – che non mai fatto cenno al problema – voglia portare a compimento quel progetto.

L’unico a parlarne è stato Ricci dell’Invalsi, intervistato alla vigilia della terza prova, che ha fatto cenno non alle eventuali intenzioni del ministro Profumo, ma ad una fase propedeutica a carattere sperimentale, voluta dalla Gelmini. Sperimentazione che, come ha fatto capire, è ben lontana dal varo.

In ogni modo è bene ricordare che il quizzone, come i ragazzi chiamano la terza prova d’esame, è stata espressamente prevista tra le tre prove d’esame dalla legge di riforma dell’esame (legge 425/1997) che, a proposito delle tre prove, precisa che la “terza, a carattere pluridisciplinare, verte sulle materie dell’ultimo anno di corso e consiste nella trattazione sintetica di argomenti, nella risposta a quesiti singoli o multipli ovvero nella soluzione di problemi o di casi pratici e professionali o nello sviluppo di progetti; tale ultima prova è strutturata in modo da consentire, di norma, anche l’accertamento della conoscenza di una lingua straniera”. “I testi relativi alla prima e alla seconda prova scritta sono inviati dal ministero della Pubblica istruzione; il testo della terza prova scritta è predisposto dalla Commissione d’esame con modalità predefinite”.

Per cambiare il quizzone, dunque, serve una nuova legge che modifichi la riforma del 1997.

E soltanto a nuova legge approvata si potrà parlare di fase sperimentale e di successiva applicazione. Ammesso (e non concesso) che Profumo voglia riformare il quizzone, la legge non potrebbe essere pronta prima dell’anno nuovo 2013, e il regolamento di attuazione richiederebbe almeno 8-10 mesi.

La modifica, tutta sperimentale per alcuni istituti-campione, potrebbe partire con la maturità 2014 e la modifica – se proprio la si vuole – potrebbe entrare in vigore con le nuove classi quinte che nel 2015 porteranno a regime la riforma della secondaria superiore.

da Tuttoscuola 29.06.12

"La compagnia dello sfascio", di Curzio Maltese

Sulla scena cupa della crisi europea s’avanza da qualche giorno in Italia un nuovo e vecchio partito dello sfascio che gioca con gli scenari del possibile disastro. La disfatta dell’Unione europea? Il fallimento della missione di Monti e la caduta del governo tecnico? La bancarotta di Stato e l’uscita dall’euro? Sarebbero tragedie senza rimedio per milioni di cittadini. Ma per un pugno di oligarchi, l’occasione di tornare alla ribalta e forse al potere. C’è sempre uno che ride dopo un terremoto. Ed è contro questo partito dello sfascio che il presidente Napolitano oggi è intervenuto con un paio di chiari messaggi.
Non esiste in Parlamento, prende atto Napolitano, il clima, lo spirito costituente e il coraggio di fare vere riforme. Ma questo non impedisce che i partiti lavorino al programma minimo di riforme, in particolare a una legge elettorale decente. Il secondo messaggio è a chi vuole le elezioni a ottobre, ovvero Berlusconi. Il Quirinale, cui spetta il compito di sciogliere le Camere, farà il possibile per evitare la caduta anzitempo del governo Monti e il conseguente, prevedibile bagno di sangue sui mercati internazionali del Paese.
È il contrario di quanto vuole il partito dello sfascio, che ha affidato infatti a Fabrizio Cicchitto una querula replica. L’asse Pdl e Lega, che ha dominato il decennio, è rinato negli ultimi giorni proprio intorno alla volontà di boicottare le riforme, accorciare il più possibile la vita al governo Monti e
impedire il ricambio dei vertici Rai. Questo fronte del “no” oggi conta un quarto dell’elettorato, ma è ancora maggioranza in Parlamento e intende usare fino alla fine il diritto di veto sul cambiamento. Su qualsiasi cambiamento. I gruppi dirigenti di Pdl e Lega non hanno anzitutto alcun interesse a riformare le istituzioni, sulle quali mangiano benissimo così come sono, e tantomeno a cambiare la legge elettorale. Negli incontri con Napolitano, Berlusconi e la Lega hanno sempre ribadito la volontà di cambiare il Porcellum. Ma nei fatti e con l’aria che tira, restituire ai cittadini la possibilità di scegliersi i rappresentanti significherebbe manda-
re via i gruppi dirigenti di quasi tutti i partiti, a cominciare da quelli del centrodestra. Il Porcellum conserva invece ai capibastone la facoltà di nominare in Parlamento le rispettive bande. L’altro vantaggio dell’attuale sistema elettorale è di produrre maggioranze fragili e quindi ben disposte a trattare con l’opposizione. Un vantaggio, s’intende, per gli sfascisti e soltanto per loro.
Sulla questione Rai la strategia di Berlusconi è altrettanto ovvia. Le aziende televisive del Cavaliere nell’ultimo decennio hanno campato del fatto di esprimere il presidente del consiglio e ora sono in caduta libera sul mercato, in Borsa e nella raccolta pubblicitaria.
Manca soltanto che il governo nomini alla concorrenza Rai un vertice capace e indipendente. Senza contare il puro panico scatenato nel sottobosco televisivo dalla possibilità che uno come Gherardo Colombo possa mettere il naso nel favoloso mondo degli appalti.
Berlusconi ha deciso di uscire dall’angolo con l’unica cosa che ha dimostrato di saper fare bene, un’altra lunga e spregiudicata campagna elettorale. Accada quel che deve accadere. La bancarotta, lo spread a mille, l’uscita dall’euro e dall’Europa. Può sembrare una strategia disperata di morti che camminano, il berlusconismo, i rimasugli di bossismo, l’asse del Nord. Ma nella terra dell’eterno ritorno tutto è possibile. Conforta l’esito del voto in Grecia, dove gli elettori sono tornati a premiare Nuova Democrazia, il partito di centrodestra che ha le maggiori responsabilità del fallimento nazionale. Quello che con Kostas Karamanlis aveva governato dal 2004, portando in soli cinque anni la percentuale del debito dal 100 al 170 per cento di Pil, truccando i bilanci di Stato, imbrogliando l’opinione pubblica sull’entità della crisi. Hanno abboccato i greci, possono ricaderci anche gli italiani, pensano ad Arcore e dintorni. Tanto alla fine, pure se italiani e greci hanno votato per anni leader impresentabili e truffatori, sarà sempre colpa della Germania.

La repubblica 29.06.12

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Domina il timore che ogni mediazione fallisca”, di MARCELLO SORGI

Espresso da Napolitano insieme con la speranza che un ripensamento dell’ultima ora possa consentire un recupero ormai molto improbabile, il timore che il voto Lega-Pdl sul Senato federale rappresenti la pietra tombale sul progetto di riforme costituzionali faticosamente concepito in Senato s’è diffuso a macchia d’olio tra tutte le forze politiche.

Le dimissioni del presidente della commissione in cui l’accordo era maturato, Carlo Vizzini, già mercoledì sera avevano fatto scendere un velo di pessimismo. Ed anche se Berlusconi, ieri a Bruxelles, ha cercato di minimizzare la portata dell’allarme lanciato dal Capo dello Stato, la sensazione è che anche per questa legislatura la Grande Riforma sia tramontata di nuovo.

Napolitano non si rassegna, anche perché il cambiamento della Costituzione, dopo quasi vent’anni di transizione, era stato il più importante obiettivo dichiarato della sua presidenza. E tuttavia il Capo dello Stato può spingere, stimolare, pungolare, ma alla fine tocca ai partiti in Parlamento discutere e approvare i testi.

Stavolta il programma limitato (rafforzamento dei poteri del premier, differenziazione dei compiti delle Camere e riduzione del numero di senatori e deputati, nuova legge elettorale), condiviso da centrodestra e centrosinistra, sembrava destinato a realizzarsi. Ma a farlo saltare, prima ancora dell’iniziativa a sorpresa di Berlusconi sul semipresidenzialismo alla francese, valutata da tutti come un modo di far saltare il tavolo, sono arrivati i risultati delle elezioni amministrative, con quel boom dell’antipolitica e del Movimento 5 stelle di Beppe Grillo che ha fatto dilagare il panico tra le forze politiche. A quel punto, è scattato una specie di «si salvi chi può».

Per la stragrande maggioranza degli attuali parlamentari, che non sanno più se saranno ricandidati e rieletti e se i loro partiti continueranno ad esistere tra qualche mese, accostarsi all’idea di una riduzione per legge del numero dei loro scranni è diventato impossibile

L’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in altre parole, non si sa quanto ingenuamente, è stato solo il killer finale di una Grande Riforma già moribonda.

La cui archiviazione adesso, – a meno che non si trovi la strada per un salvataggio in extremis – rischia di trasformarsi nell’ennesimo tentativo suicida di una classe politica agli occhi di un’opinione pubblica sempre più scettica.

La Stmapa 29.06.12