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Prodi: “Serve una svolta l’Europa si unisca attorno alla Germania”, di Andrea Bonanni

Allora, Professore, ce la faranno i leader europei a salvare la moneta unica? Intercettato a Bruxelles all’uscita di una riunione del gruppo Spinelli, Romano Prodi si ferma un attimo per riflettere. «Da questo vertice non mi aspetto miracoli. Sarebbe già un buon risultato se finisse la disputa dottrinaria che ha dominato il dibattito negli ultimi tempi, e se si cominciasse a discutere in modo empirico su cosa fare».
Pessimista?
«No. Ma non è ancora pienamente maturata nei circoli economici e politici che contano la piena consapevolezza che il tracollo dell’euro sarebbe un disastro per tutti. Solo da poco hanno cominciato a comparire studi come quello fatto da Roland Berger in Germania e dalla Confindustria in Italia, o appelli come quello dell’industria chimica europea pubblicato dal
Financial Times.
Lo scontro tra la dottrina economica astratta e la realtà della vita di tutti i giorni non è ancora arrivato ad un punto di drammaticità tale da spingere tutti a prendere le decisioni necessarie. Quindi ci saranno passi in avanti, ma non ancora quel cambiamento radicale che sarebbe necessario. Ci vogliono misure tali da ribaltare le aspettative dei mercati. Oggi l’Europa è un cane piccolo che tutti si permettono di azzannare. Bisogna che diventi un cane tanto grosso che nessuno si azzardi a tentare di morderlo».
Fuor di metafora, che cosa vuol dire?
«Oggi nel mondo ci sono solo due governi veramente sovrani: gli Stati Uniti e la Cina. Tutti gli altri non sono liberi di attuare le politiche che vorrebbero per paura degli spread e dei mercati. Non capire che, per i Paesi europei, l’unico modo di riacquistare la propria sovranità è quello di condividerla con gli altri, denota una totale mancanza di senso storico. In Asia si sta creando un complesso industriale multinazionale di dimensioni mai viste al mondo. O l’Europa si mette insieme condividendo non solo le politiche monetarie, ma anche quelle economiche e industriali, oppure è condannata a perdere il primato che ancora detiene. Tutto questo può avvenire solo attorno alla Germania, che è la maggiore potenza industriale del continente. In Germania il settore manifatturiero è pari al 25 per cento del Pil, mentre in Francia è meno della metà e in Gran Bretagna è sotto al 10 per cento. Ma neppure la Germania ce la può fare da sola: ha bisogno dell’apporto di Paesi come la Francia, l’Italia, la Polonia, la Repubblica Ceca. Purtroppo, però, per capire la portata della posta in gioco ci vogliono grandi statisti».
Ma secondo lei, tra dieci anni ci sarà ancora l’euro e l’Italia ne farà ancora parte?
«Sono sicuro di sì. Avremo ancora tre, quattro mesi di rimedi parziali. Mesi passati ad inseguire la storia con rimedi insufficienti. Ma più ci si avvicina al baratro, più la leadership politica ed economica si renderà conto della situazione e prenderà le misure necessarie.
Non solo tra dieci anni ci sarà ancora la moneta unica, ma l’Europa sarà integrata in modo tale che i mercati non potranno più farla a fette applicando una tattica da Orazi e Curiazi come fanno ora».
Lei è stato presidente della Commissione che ha tenuto trionfalmente a battesimo l’euro. Si sarebbe mai aspettato una crisi di queste proporzioni?
«Il problema l’avevo più volte sollevato, ma senza successo. Quando leader come Kohl, Mitterrand, Chirac avevano dato vita all’unione monetaria, erano ben consapevoli che si trattasse di un’opera incompiuta, e che sarebbe stato necessario completarla strada facendo con una vera unione economica. Poi però il clima politico è cambiato. Quando nel 2003 proposi di rafforzare la sorveglianza sulle politiche economiche, perfino Francia e Germania bocciarono la proposta. Non accettarono neppure la mia richiesta di dare a Eurostat i poteri per controllare i dati di bilancio che arrivavano dalle capitali. Questo, almeno, avrebbe impedito al governo greco di truccare i conti per anni. L’aria era cambiata: cominciava l’era delle diffidenze reciproche, la paura dell’idraulico polacco che ha portato alla bocciatura della Costituzione in Francia».
Anche la strategia di Lisbona sulla competitività, lanciata dalla sua Commissione, si è risolta in un fallimento…
«Si. Se si fossero rispettati quegli impegni oggi non saremmo a questo punto. Ma i governi avevano tolto troppo piume dalle ali di quel progetto. Hanno abolito ogni vincolo e ogni potere di controllo sulle politiche nazionali. La strategia di Lisbona è rimasta una dichiarazione di buona volontà. I Paesi che l’hanno messa in pratica,
come la Germania di Schroeder che ha lavorato in collaborazione con i sindacati, oggi hanno i conti in ordine e continuano a crescere. Ma lo hanno fatto per semplice buon senso. Non perché vincolati da un obbligo europeo».
E l’Italia non ha fatto nulla?
«Quando tornai al governo in Italia ci provai. Ma mi scontrai con una sinistra molto dura e con una maggioranza troppo ristretta per poter portare a termine il lavoro che Schroeder aveva fatto in Germania. In ogni modo le liberalizzazioni di Bersani restano l’unico inizio concreto di riforma dei mercati. E con Tommaso Padoa Schioppa riuscimmo comunque a ridurre il debito pubblico. Ma queste politiche hanno bisogno di respiro lungo. E il mio governo, purtroppo, non lo ha avuto».

la Repubblica 29.06.12

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“TRE PROPOSTE PER SALVARE LA SECONDA MONETA DEL PIANETA”, di VALÉRY GISCARD D’ESTAING

La crisi dell’euro si trascina da più di due anni e avvelena l’economia europea. Per essere precisi, non si tratta di una crisi monetaria, perché l’euro è una moneta di cui nessuno cerca di disfarsi ed è ben gestita dalla Banca centrale europea. È una crisi legata all’evoluzione speculativa del sistema bancario, liberato da ogni regolamentazione sotto la pressione dell’Amministrazione Clinton-Rubin, e aggravata dalla irresponsabile gestione dei conti pubblici di diversi Stati dell’Eurozona, che si credevano protetti dalla nuova moneta.
L’agitazione disordinata e quotidiana dei partecipanti, la maggior parte dei quali appartiene alle lobby anti-euro e che guarda con cupidigia ai profitti che potrebbe realizzare con un tracollo della moneta unica, confonde gli spiriti e ostacola il ritorno alla tranquillità. Appena si trova un rimedio alla crisi bancaria spagnola subito rispunta fuori il problema del debito italiano!
Di fronte a questa offensiva, la difesa fatica a farsi sentire, e il motivo del suo silenzio sta in un’evidente lacuna: l’eurozona non dispone di
alcuna organizzazione che possa difenderla e coordinare le reazioni dei suoi componenti. Per quanto strano, la seconda moneta del pianeta non dispone di alcuna istanza permanente in grado di coordinare l’attività economica e le prese di posizione degli Stati che la utilizzano.
Sì, c’è l’Eurogruppo, presieduto con convinzione e talento dal lussemburghese Jean-Claude Juncker, ma è semplicemente una riunione periodica dei ministri dell’Economia, e tutti sanno che non sono questi a prendere le decisioni più importanti, bensì i presidenti e i primi ministri.
Le istituzioni di Bruxelles, in particolare la Commissione, mai riformata dal momento del grande allargamento, cercano di inserirsi nel meccanismo, ma ottengono solo l’effetto di complicare le cose, perché un terzo dei loro membri non utilizza l’euro e una minoranza potente si oppone a qualsiasi passo avanti nell’integrazione europea. Diventa quindi impossibile affidare a queste istituzioni il compito di gestire i problemi della moneta unica. In compenso, conservano tutte le competenze non
monetarie che i trattati di Maastricht e di Lisbona assegnano loro.
Il panorama è dunque chiaro: spetta agli Stati dell’eurozona, e solo a loro, dotarsi degli strumenti per coordinare le loro politiche di bilancio e creare progressivamente l’unione economica, simmetrica dell’unione monetaria. Hanno bisogno solo di alcuni strumenti indispensabili, che loro stessi potranno decidere se utilizzare. Ne vedo tre: 1 — Una riunione regolare dei capi di Stato o di governo dell’eurozona, per un «Consiglio dell’euro»: una scadenza mensile mi sembra appropriata. La riunione fisserà le regole riguardo alla sua presidenza e non serve alcuna modifica dei trattati.
2 — La designazione di un segretario generale dell’eurozona, sull’esempio di Robert Marjolin ai tempi dell’Organizzazione per la cooperazione economica europea: grande levatura personale, buon diplomatico, profondo conoscitore delle questioni economiche; si tratterebbe di un alto funzionario, circondato da una squadra ristretta, che prenderebbe nota delle
decisioni, ne seguirebbe l’applicazione e riferirebbe ai capi di Governo. La decisione di insediarlo può essere presa dai capi di Governo dell’eurozona.
3 — La vigilanza sugli impegni assunti in materia di finanze pubbliche sarebbe esercitata dal «Consiglio dell’euro», dove sederebbero sia i creditori che gli eventuali debitori, vale a dire chi paga e chi chiede soldi, garantendo un vincolo più efficace rispetto al ricorso a un sistema amministrativo. Un accordo tra gli Stati dell’eurozona, che riprenda alcune proposte avanzate dal Parlamento europeo, organizzerebbe la vigilanza. L’accordo dovrebbe essere ratificato dai parlamenti nazionali.
L’eurozona è ancora orfana, e questo spiega il suo smarrimento. I suoi dirigenti diano prova di volontà politica dotandola rapidamente della struttura istituzionale di cui è gravemente sprovvista. Questo farebbe tornare la calma sui mercati e segnerebbe la fine della crisi dell’euro.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica 29.06.12