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"Bersani: ricostruzione assieme all’emergenza" di Maria Zegarelli

«L’ho detto più volte a Monti: “o si arriva a uno slargo europeo o dobbiamo porre un problema italiano». Pier Luigi Bersani parla dai luoghi del terremoto dove ha trascorso la festa della Repubblica insieme a Dario Franceschini, il segretario regionale Stefano Bonaccini e il presidente della Regione Vasco Errani. Un viaggio tra le macerie, le fabbriche ferme, gli sfollati, i volontari che
lavorano per cercare di rimettere in piedi una regione dove la terra continua a tremare giorno e notte. Il segretario ha incontrato gli amministratori locali e i dirigenti Pd prima nel ferrarese, a Poggio Renatico, e poi nel modenese, a Camposanto, per fare il punto della situazione: cosa può fare il partito, attraverso le sue strutture e la sua organizzazione per coordinare i volontari, raccogliere i fondi, mettere a disposizione le proprie sedi e cosa può fare il partito nazionale, a Roma, in Parlamento e con il governo «per dare un proprio contributo al decreto che il premier ha varato».
IL TERREMOTO E LA CRISI
Un terremoto che è arrivato in quella regione dove le imprese stavano reggendo meglio che altrove alla morsa della crisi e che ora è come sospesa malgrado la voglia di ripartire e ripartire subito.Una crisi nella crisi, di una regione, di un Paese e dell’Europa. «C’è troppa recessione – dice Bersani – dobbiamo avere dei margini per fronteggiarla». E il tempo che resta per agire non è molto, secondo il segretario Pd. «Nei prossimi 15-20 giorni o un mese devono venire fuori a livello europeo due o tre cose: evitare l’uscita dall’euro della Grecia; evitare il contagio delle banche spagnole; allestire quel che chiediamo da tempo, e pare se ne stiano accorgendo anche altri, cioè un fondo di garanzia comune europeo per una quota del debito ». Una misura, quest’ultima, ritenuta fondamentale per far abbassare i tassi e quindi caricare meno sulla finanza pubblica, cioè su welfare e lavoro. Al Nazareno guardano con grande allarme i dati sulla disoccupazione e il crescente disagio sociale che ormai investe
una fetta sempre maggiore della società. E se il Pd ha appoggiato le misure del governo per il rigore e il risanamento, chiedendo che fossero affiancate da quelle per la crescita, adesso inizia a sentire il peso di questo sostegno se non si avvia in maniera concreta la fase due dell’azione dell’esecutivo tecnico. Lo esplicita senza giri di parole Matteo
Orfini in un intervista al Manifesto: «Il
cambio di passo che Monti chiede nella
Ue vogliamo vederlo anche in Italia.
C’è bisogno di politiche per i ceti più deboli del Paese. E se non dovessero arrivare, il Pd si dovrebbe porre il problema della prosecuzione del governo Monti». Non si spingono a tanto i più
convinti supporter del premier, come Enrico Letta, ma è chiaro che tra i dirigenti democratici si inizia ad avvertire una certa fatica a difendere il governo da una parte e a dare risposte al loro bacino elettorale dall’altro. Perché se è vero che gli elettori Pd sembrano aver capito la necessità delle misure di rigore adottate dall’esecutivo è pur vero che ora non vedono in prospettiva i risultati degli enormi sacrifici a cui sono stati chiamati i contribuenti.
E l’immagine che il segretario Pd rimanda dai luoghi del sisma potrebbe sovrapporsi a quella della crisi: «L’estensione del cratere è enorme». Enorme il cratere e «la popolazione investita numerosissima, però abbiamo in campo degli amministratori e, lasciatemi dire, anche un partito che in queste zone è riuscito a essere in campo fin dal primo momento». «Io credo che qui si stia facendo di tutto e di più. Sono stato – aggiunge – in un capannone del Pd allestito per una festa: ora sta ospitando un matrimonio, ieri ha ospitato una cresimae, insomma, è diventato il luogo della
comunità».
Se «i provvedimenti del governo danno il segno di una volontà di intervenire», Bersani sottolinea che in Emilia non dovrà ripetersi quanto avvenuto in Abruzzo: «Vogliamo collegare il tema dell’emergenza e quello della ricostruzione, a differenza di quello che è successo a L’Aquila. Siamo impegnati a trovare le normative per far ripartire al più presto le attività produttive e anche a mettere in moto un meccanismo di ripristino delle abitazioni che sia efficiente».

l’Unità 03.06.12

"Reclutamento e ricerca, così resta tutto fermo", di Antonio Banfi

Ha creato scompiglio nelle università la notizia di un decreto legge che, fra l’altro, rivede le procedure di reclutamento previste dalla legge gelmini.Da anni si discute del problema e si tentano nuovi sistemi. Risultato di questa disordinata ricerca: tutto si ferma sempre. Le ultime tornate concorsuali di prima e seconda fascia risalgono al 2008. Il reclutamento È da allora sostanzialmente bloccato: si vanno riducendo gli organici, mettendo a rischio interi corsi di laurea, mentre la totale incertezza scoraggia i giovani migliori dal tentare la carriera accademica. Nelle università italiane lavora un gran numero di precari, che premono non senza ragione per avere l’opportunità di concorrere a una posizione accademica stabile e di ricercatori a tempo indeterminato, messi a esaurimento dalla riforma, che sperano di ottenere il passaggio alla fascia superiore dei professori associati. Nel frattempo, l’accademia È governata da un numero sempre più esiguo di ordinari, un ruolo falcidiato dai pensionamenti. Il quadro È preoccupante: se, per effetto di politiche scriteriate, la possibilità dei giovani studiosi di entrare nei ruoli universitari dovesse essere ulteriormente compromessa, si creerebbe un irrimediabile danno al sistema della ricerca che, nonostante i tagli, tiene ancora la sua posizione nello scenario internazionale. D’altro canto il meccanismo disegnato dalla riforma stenta a decollare. La legge prevede abilitazioni nazionali a lista aperta. I candidati ritenuti meritevoli da una commissione nazionale composta da docenti selezionati in base a criteri fissati dal ministero e chiamata a sua volta a valutare secondo criteri stabiliti, potranno concorrere nelle diverse università per divenire professori associati o ordinari sulla base di ulteriori regole e procedure che la legge lascia definire alle singole sedi. un meccanismo solo in apparenza capace di garantire il reclutamento dei più meritevoli. Le abilitazioni a lista aperta lasciano immaginare una platea di abilitati troppo vasta, che andrà a sommarsi agli idonei dei precedenti concorsi ancora in attesa di prendere servizio, e che il sistema non potrà assorbire. Infatti, altre disposizioni limitano drasticamente la possibilità degli Atenei di reclutare. per quanto riguarda i criteri di abilitazione, si sa che per alcune discipline prevederebbero il ricorso a indicatori bibliometrici, per altre l’uso di classifiche di riviste compilate in modo opaco sulla base di criteri non accertabili oggettivamente. In entrambi i casi si suppone la disponibilità di banche dati che non esistono e si dovranno costruire in urgenza. questi criteri, se irragionevoli o mal congegnati perché troppo macchinosi o basati su dati non adeguati, potranno produrre effetti distorsivi e condurre alla paralisi del sistema facendo incagliare la procedura nei ricorsi. FFa ribadito che il sistema universitario necessita di un reclutamento, anche limitato, ma continuo, per evitare che si impoverisca totalmente. proprio per questo sarebbe opportuno inserire un vincolo alle abilitazioni, rendendole a numero chiuso: si eviterebbe la concessione di abilitazioni a pioggia e si renderebbe il numero degli abilitati proporzionale alle disponibilità degli atenei. Occorre consentire ai precari della ricerca di concorrere a parità di condizioni con i ricercatori a esaurimento senza che per questi ultimi vengano costruiti percorsi preferenziali destinati a penalizzare i più giovani. Nessun tipo di promozione ope legis È accettabile, se davvero si vuole perseguire il merito. I criteri di selezione dei commissari e di valutazione dei candidati devono essere sufficientemente robusti nei confronti del contenzioso giuridico, pena il naufragio dell’intera operazione. Occorre fissare le regole in base alle quali le università procederanno ai reclutamenti per garantire che il merito prevalga sul nepotismo e il localismo, anche, e soprattutto, nella fase cruciale: quella che porta gli abilitati a diventare professori. Da ultimo, È urgente porre rimedio a quanto previsto dalla riforma Gelmini che, modificando il sistema precedente, sottrae a regole chiare il reclutamento per chiamata diretta di soggetti che, nell’attuale situazione di stallo, possono beneficiare di avanzamenti di carriera fuori sacco aggirando le procedure concorsuali. Cosa che con il “merito” ha davvero poco a che fare.

l’Unità 04.06.12

Le tracce della maturità via email «Codici» per respingere i pirati. Pri-mo test telematico. No del Pd al pacchetto merito di Profumo", di Mariolina Iossa

Hanno avuto successo e non ci sono stati intoppi. Le prove generali disposte dal ministero nel corso del mese di maggio per rodare il nuovo sistema telematico di invio dei testi per le prove scritte di maturità sono andate a buon fine. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che nessun hacker, interessato a entrare in possesso delle tracce del prossimo 20 giugno, si sarebbe messo all’opera in anticipo per una simulazione. Hacker, in casi come questo vuole dire studente molto bravo nel decrittare codici segreti, nell’entrare nei sistemi informatici altrui, insomma capace di fare cose che la maggior parte della gente ha visto solo nei film.
Comunque la si voglia vedere, le prove sono andate bene e il 20 giugno farà la sua comparsa reale, per la prima volta in Italia, il «plico telematico» per la maturità, ovvero niente più buste che arrivano dal ministero sigillate ma «chiavi», cioè codici, che arrivano comunque dal ministero ma saranno resi disponibili telematicamente dal Miur direttamente sul computer di ciascun istituto superiore sede di esame.
Nei licei, infatti, verranno scelti uno o più referenti, che non potranno far parte ovviamente della commissione d’esame, tantomeno potranno essere uno dei membri interni; i referenti riceveranno la «chiave ministeriale», un codice di decrittazione, che assieme alla «chiave scolastica», quella di cui sono già in possesso le scuole, aprirà la «porta telematica» del testo d’esame.
Nessun pericolo hacker, assicurano al ministero. Non sarà possibile conoscere in anticipo i temi d’italiano così come le versioni di greco e le tracce di matematica, non è possibile come non era possibile negli anni scorsi, quando pure prima di essere stampate e consegnate su carta, quegli stessi temi e quelle stesse versioni «riposavano» negli antri segreti di qualche computer ministeriale. Eppure su Internet girano già parole canzonatorie come quelle lette su un sito: «Scommettiamo che la craccano al primo giro?». E ancora: «Una volta capito come funziona il sistema, dopo la prova d’italiano, sarà facile decrittare le altre prove».
«Dovrebbero essere bravi come Lisbeth Salander della trilogia di Millennium» è la replica, come dire quelli sono romanzi, la realtà è tutt’altra cosa. I collaboratori del ministro Francesco Profumo, che tanto ha a cuore la smaterializzazione intesa come uso della tecnologia per risparmiare risorse, assicurano che la prova d’esame sarà a prova di hacker.
In pratica, spiegano al Miur, le cose andranno in questo modo: esattamente alle 8,30 del mattino del 20 giugno, e poi ancora il 21 per la seconda prova e tutti gli altri giorni già calendarizzati per le prove successive, nello stesso momento in tutte le tremila scuole in cui si staranno svolgendo gli esami di maturità, verranno aperti i file, inserendo le due «chiavi» per decrittare. Quindi ogni scuola dovrà avere il computer acceso, la stampante a disposizione (sarà infatti possibile, una volta aperta la pagina ministeriale con le tracce, segnare il numero di copie da stampare per ogni sede) e un addetto (il referente) che seguirà la procedura e aiuterà le 14 mila commissioni esaminatrici a far funzionare tutto alla perfezione.
Tra quindici giorni c’è l’esame di maturità, e il banco di prova telematico, oggi c’è il dibattito molto più serio sul cosiddetto pacchetto merito del ministro Profumo che il Corriere ha anticipato qualche giorno fa e che continua a far discutere dopo che il ministro è nuovamente intervenuto per spiegare che premiare l’eccellenza è un modo per trainare verso livelli qualitativi più alti tutto il sistema dell’istruzione pubblica.
Belle parole, dicono al Pd, chi non è a favore del merito? Eppure potrebbero nascondere una grossa trappola, quella di «creare un’istruzione elitaria». «La scuola italiana — commenta l’ex ministro Giuseppe Fioroni — è una grande risorsa per il Paese e deve avere l’ambizione di essere per tutti di qualità. L’emergenza, rispetto all’Europa, non è la certificazione del merito, ma la grande dispersione scolastica e la necessità di migliorare le competenze dei nostri studenti che sono sotto la media Ocse». Anche la Cisl chiede di procedere «senza fretta». E Francesca Puglisi, responsabile scuola del Pd, boccia il pacchetto: «In un momento di vera emergenza nazionale chiediamo al governo di fare ciò che fanno le famiglie: guardano quanti soldi hanno in tasca per darsi delle priorità, a partire dai bisogni dei più piccoli e dei più deboli».

Il Corriere della Sera 04.06.12

"Nuova forte scossa, paura in tutto il Nord in Emilia la gente fugge in strada di notte", di Jenner Meletti

Non molla la presa un attimo. Altre scosse, due medie e una forte, mentre scendeva la sera su una giornata imprudentemente definita “tranquilla”. Alle 21.20 di nuovo tutti in strada, per primi quei pochi che si erano avventurati nelle case non lesionate.
Ore 21.20: trema tutto il Nord in Emilia crollano altri campanili. Scossa del 5.1: fuga nelle strade. L´epicentro a Novi di Modena
Stava in piedi per miracolo, la Torre dell´orologio. Il sindaco, Luisa Turci, alle 5 del pomeriggio la mostrava con orgoglio. «Resiste ancora, non si sa come. È filiforme. Ma ogni ora e ogni mezza ora il suo orologio suona. Per me è un segno di speranza». La speranza è finita alle 21,20. Una scossa pesante, magnitudo 5,1, ha fatto cadere a terra la Torre e anche le speranze di donne e uomini che credevano di essere ormai verso la fine del tunnel. Epicentro fra Novi, Concordia e San Possidonio, profondità 9,2 chilometri. Adesso, nella notte, il sindaco non sa nascondere la propria paura. «Ma cosa possiamo fare? Chi riuscirà a convincere i miei cittadini a rientrare nella case?».
Sirene di ambulanze, dopo il tuono del sisma. «Due donne sono state male, per la paura, non perché siano state colpite dalle pietre. Sono svenute, le abbiamo portate al pronto soccorso, sembra che stiano meglio. Dio mio, ma cosa sta succedendo? Oggi mio figlio è andato a correre in campagna, verso Moglia. Mi ha detto che sui campi ci sono tante crepe e che da queste crepe è uscita tanta sabbia. Ma cosa sta succedendo sotto i nostri piedi?».
La provinciale che parte da Novi supera il ponte sul Secchia e arriva subito a Concordia. Il sindaco Carlo Marchini è in auto, sta correndo nella frazioni dove si temono i danni peggiori. «Che botta. Ma per fortuna non sembra ci siano stati nuovi crolli. I ragazzi volontari che fanno la guardia al centro storico, perché nessuno entri in zona rossa, mi dicono che hanno sentito solo il rumore del terremoto, non quello di altri crolli. Ecco, qui nella frazione di San Giovanni – non è zona rossa, dentro ci sono tante famiglie – non sembra che ci siano altre case rotte. Mi dicono che anche a Fossa non ci sono novità pesanti. Ho capito subito che le cose non erano messe malissimo quando sono uscito dal centro di coordinamento dei soccorsi, nell´asilo nido, con la macchina dei vigili. Strade piene di gente, ma nessuno ci fermava. Questa sarà una notte di paura, anche nella tendopoli. Ho quattrocento posti tutti occupati, ma a dire la verità ci sono tende ovunque. Stanotte tutta Concordia è una tendopoli. Dalle case sono scappati tutti, anche quelli che dopo una giornata quasi calma avevano ritrovato il coraggio di mettersi sotto il loro tetto». A Mirandola, dove c´è la zona rossa più grande, non è stato accertato nessun nuovo crollo.
La nuova scossa è stata sentita in grande parte del nord Italia, da Bologna a Milano, da Padova al Trentino Alto Adige. Secondo i primi rilievi della Protezione civile ci sono stati, oltre alla caduta della Torre di Novi, altri crolli a Finale Emilia e San Possidonio ma per fortuna tutti in «zona rossa», senza più abitanti.
Ieri, in una domenica che voleva essere quasi come un´altra domenica, si parlava soprattutto di ricostruzione. I primi fondi ci sono, 500 milioni nel 2012, due miliardi per i prossimi due anni. Era arrivato anche Johannes Hahn, commissario europeo alla politica regionale. Ha visto il cratere del sisma da un elicottero, ha detto che «questa è una catastrofe nazionale» e che l´Europa non sarà assente. Centocinquanta, forse 200 milioni saranno stanziati dal Fondo di solidarietà europeo, altri 50 verranno stornati per l´agricoltura. «Non abbiamo ancora una stima precisa dei danni – ha detto il commissario – ma pensiamo che ammontino a 5 miliardi».
A fare paura, purtroppo, non sono soltanto le nuove scosse. Secondo un allarme della Protezione, civile, proprio nei comuni terremotati potranno esserci oggi dei veri e propri nubifragi. Cinquanta millimetri di pioggia in poche ore e anche grandinate. Questo dopo giorni di afa pesante, con temperature che dentro le tende superavano i 40 gradi. Anche a Moglia, nel mantovano che confina con il modenese, ci sono stati malori provocati dalla paura. Oggi doveva essere il nuovo primo giorno di scuola in tanti Comuni vicino alla zona più colpita. Ma almeno a Sassuolo e a Mantova il via libera è stato subito revocato. La sola buona notizia arriva alle 23 dal capo della Protezione civile regionale, Demetrio Egidi. «Ho sentito tutti i Comuni più colpiti. Non ci sono danni alle persone».

La Repubblica 04.06.12

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Nelle tendopoli tornano le lacrime “Così muore anche la speranza”. Via dalle case, si dorme in auto. I sismologi: durerà a lungo

“Che botto: non ho neanche sentito la torre cadere, l´ho capito solo dalla nuvola di fumo”. “Invece di fare le parate a Roma devono venire qui a vedere come siamo ridotti”, di Michele Smargiassi e Luigi Spezia

La speranza crolla in una manciata di secondi. «È un incubo, non ci lascia più», riesce a dire soltanto una donna anziana a cui chiediamo informazioni per raggiungere Novi che risulta essere il nuovo epicentro. Ovunque lungo il percorso, crisi di nervi nelle strade, volti che dicono che queste scosse hanno allontanato forse per molto tempo la normalità, la speranza che il terremoto infinito potesse finire prima possibile.
Invece il terremoto che cammina colpisce ancora, verso il margine ovest della lunga faglia padana, oltrepassa Novi, si sposta verso Concordia, Moglia, il mantovano, e la paura lo segue come una scia. L´epicentro è dunque a Novi: nella cittadina a nord di Carpi è appena crollata la torre del municipio, già lesionata, si trova nel cuore della zona rossa, evacuata da martedì scorso, e dunque fortunatamente non ci sono feriti, ma l´ansia è oltre i livelli di guardia. Il sisma senza soste continua a sgranocchiare ferocemente, pezzo per pezzo, il cuore e la storia dei paesi della Bassa modenese. Non sanno ancora che un sismologo dell´Ingv, Alessandro Amato, già toglie ogni ottimismo: «il periodo sismico di questi giorni durerà a lungo». Le scuole del modenese oggi non riapriranno.
Verso le dieci le strade della zona, molte delle quali già interrotte per precedenti crolli, diventano un labirinto di automobili, chi era lontano dai parenti si è messo subito in movimento per cercare di raggiungerli, mentre le linee dei telefoni cellulari sovraccariche come è accaduto sempre in questi frangenti nei giorni scorsi, si rifiutano di inoltrare le chiamate, e questo amplifica l´incertezza, la paura e gli spostamenti improvvisi. Il sindaco Luisa Turci tranquillizza: «Nessun ferito, eravamo già tutti fuori di casa, qui ci sono 11.500 sfollati, tutta la popolazione, anche io e mio marito dormiamo in tenda. Solo due anziani hanno avuto piccoli malori».
A ridosso della zona rossa, attorno al chiosco bar che aveva riaperto, esplode l´esasperazione della gente comune. Una donna grida: «Deve finire, o ce ne andiamo tutti! Invece di fare le parate a Roma devono venire qui a vedere come siamo ridotti!». Spontaneamente gli abitanti del paese si riversano a ridosso delle transenne della zona proibita, arrivano a piedi, in bicicletta, vogliono vedere il mostro sotterraneo che si sta prendendo il loro paese, molti hanno le lacrime agli occhi, la polizia li tiene fuori con qualche fatica. Una signora sui cinquanta, sconvolta, non vuole crederci. «La torre? No, il botto della scossa è stato troppo forte non ho sentito la torre cadere, l´ho capito solo dalla nuvola di fumo». C´è vera e propria rabbia, senso di impotenza, «proprio oggi che mi stavo tranquillizzando», «io ero tornato a farmi una doccia in casa, per la prima volta a una settimana». I pochi che stavano pensando di risistemare casa sono i più sconvolti, «ci toccherà dormire in auto per sempre?». Anche nelle tendopoli, dove il pericolo è solo nella memoria dei rifugiati, la protezione civile deve passa tenda per tenda a rassicurare, «solo qualche crollo in più dei palazzi vecchi, state tranquilli». Il dirigente della Protezione civile dell´Emilia Romagna Demetrio Egidi conferma: «nessun ferito al momento» solo qualche malore e qualche contuso mentre fuggiva».
A Concordia sul Secchia, a dieci chilometri da Novi, la gente che era già per strada (anche qui in casa non vive più nessuno, e una parte del paese è deserto perché molti sono corsi a trovare rifugio al mare) ha di nuovo provato la paura della grande scossa di martedì, e per alcuni addirittura la sensazione è stata che questa fosse anche più forte: “Ero al campo della Protezione civile qui vicino – racconta Lorella – e mi son detta che qui non avremo mai pace. Io dormo qui dentro l´ufficio del mio distributore. Ho paura, ho tanta paura che ne venga un´altra più forte questa notte”.
Un gruppo di sfollati guardano RaiNews e si domandano che cosa sia successo davvero a Novi. Intanto le pattuglie dei carabinieri perlustrano tutto il centro del paese e tornano in piazza sollevati: “Non sembra sia successo niente di grave». La loro caserma ha un torretta che è intarsiata dalle crepe, ma non è caduta. “Il vero problema è che nessuno sa, nessuno può dirci quando questo finirà. Qui a Concordia c´è una complicazione in più: alle nostre spalle abbiamo l´acquedotto pericolante. L´hanno svuotato dall´acqua e i palazzi nelle vicinanze sono deserti”.
Roberto Stefanini racconta che in campagna lui dorme in casa, ma con le porte aperte e al piano terra: «I miei genitori di settant´anni invece non si fidano e dormono in tenda nel giardino. Per me quella di martedì era più forte di 5 punto 9 come dicono. E nel pozzo del fondo c´è solo sabbia melmosa sgorgata dalla profonità delle terra».
La scossa è stata sentita molto forte anche a Rolo (Reggio Emilia) e nel mantovano, non nel ferrarese. Crolli anche a Finale Emilia e San Possidonio. Fino a tarda notte la campagna lampeggia di lampeggianti blu, le lucciole inquietanti della paura. Le forze dell´ordine passan casa per casa, bisogna capire se davvero non è successo nulla a nessuno. Si va avanti così, come in una guerra, metro per metro, dentro questo terremoto che sembra non possedere un dopo-terremoto, ma un solo unico snervante infinito «durante».

La Repubblica 04.06.12

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“Il sorriso perduto di Ferrara la mia città di bambino che non conosceva la paura”, di Arnoldo Foa

Penso con dolore agli anziani ma anche ai teatri: non è vero che per un attore sono tutti uguali. Andavamo in bici fino a Bologna e ritorno: oggi sembra impossibile, allora era normale. Confesso che oltre al grande dolore, provo imbarazzo a parlare oggi di Ferrara: io sono un ferrarese che se n´è andato via presto, prima a Firenze e poi a Roma, e per ventura in questi giorni non vivo le paure immediate e che spingono ad uscire di casa per le scosse o a trovare una nuova sistemazione, perché la propria casa non è più in grado di dare sicurezza. Ma l´animo è con i ferraresi, cui mi lega un affetto fraterno, e con la terra da cui orgogliosamente provengo, che solo un evento catastrofico e imponderabile riesce a piegare.
Da vecchio, il mio pensiero è soprattutto per i vecchi, che io chiamo affettuosamente bambini. Quando invecchi diventi legato alle tue abitudini, alla casa che hai costruito o conquistato con tanto lavoro, ai luoghi familiari che frequenti sicuro, e quando all´improvviso accade un evento così drammatico ti senti perduto e niente è più sicuro e amichevole. Devi farti forza in modo diverso da un giovane. Ricominciare non si può, non ci sono più le forze, solo abituarsi pian piano a nuovi punti di riferimento: questo accadrà per gli anziani costretti a lasciare le proprie case, o a rientrarci con tanta paura. Penso a loro, e mi piange il cuore!
Io sono nato a Ferrara, in via Giuoco del Pallone, dopo pochi anni ho seguito la famiglia a Firenze, ma Ferrara la porto da sempre nel cuore. Rivedo me e mio fratello Piero bambini, che partiamo in un giorno di prima estate da Ferrara, in bicicletta, e senza sentire fatica o avvertire pericoli, pedaliamo felici macinando i chilometri che ci separano da Bologna, dove veniamo accolti e rifocillati in casa dei Roversi Monaco. Ripartiamo poi per Ferrara, per passare l´estate con gli zii, i Levi di Ferrara. Oggi sembra impossibile che dei ragazzini possano fare tanta strada in bicicletta da soli!

Ferrara mia, mi vedo
non ancora ragazzo
in groppa a un mulo pazzo
me ne andavo al galoppo
sul vecchio Montagnone.
E poi, io non so come
per quella via insicura
io me ne ritornavo
alla lavanderia
dello zio Arrigo Levi
che fu anche il padrone
della pasticceria
più bella di Ferrara…

Pochi infantili versi da una poesia che ho dedicato a Ferrara, coi miei ricordi di bambino orgoglioso delle attività degli zii, in campagna e nel commercio. La simpatia e la dolcezza, sono le prime cose che mi vengono in mente se penso ai ferraresi! Negli anni sono tornato poi tante volte a Ferrara, soprattutto per lavoro. Mi piaceva camminare per Corso Giovecca, dove avevo ricordi legati a mio zio Gualtiero Finzi, eroe della Prima Guerra, e poi infilarmi per le vie che portano fino a Piazza Trento e Trieste, e poi fino al Castello, scambiando sorrisi con i passanti che camminano in fretta senza avere l´aria di andare di fretta, e fermandomi a chiacchierare con le signore in bicicletta.
Tutte belle le donne ferraresi, di ogni età: si fermano per un saluto e poi subito via per le loro commissioni o il lavoro. Questo mi piace dei ferraresi, gente che ha sempre da fare e da lavorare, ma che non lesina mai un sorriso o un saluto, che ti sa parlare senza fronzoli e dirti anche quello che non va, ma sempre con la dolcezza dello sguardo; non si lasciano scoraggiare dai “no” e dalle avversità, e sanno sempre parlarti con un garbo che altrove, purtroppo, non ho più ritrovato. Così sono i miei amici ferraresi di oggi, il direttore del Conservatorio di Ferrara Giorgio Fabbri, e Maurizio Pagliarini, il mio editore Giuliano Antonioni e tutti gli altri amici.
Questo terremoto non abbatterà la bellissima Ferrara, ma si dovrà pensare al più presto al Teatro Comunale e agli altri monumenti danneggiati: di fronte alle tragedie di chi perde la vita, la casa o il lavoro, può sembrare poco sensibile questo mio pensiero, ma il teatro e i luoghi della cultura e della bellezza sono il cuore di una città, e del suo senso di civiltà, e sono anche posti di lavoro, una verità spesso dimenticata. Non è vero che per un attore i teatri sono tutti uguali: anche se ci fermiamo per poco tempo, l´attenzione dei cittadini verso il loro teatro fa comprendere e amare (o non amare) di più la città che ci ospita, perché ne rivela la sensibilità. Nelle città dell´Emilia così colpite dal terremoto, i teatri li ricordo tutti belli, tenuti con cura, orgoglio e amore.

La Repubblica 04.06.12

"Un Paese che cambia abitudini", di Mario Calabresi

Mentre l’Italia è prigioniera delle polemiche, della rabbia, del disfacimento del sistema politico e sembra paralizzata, gli italiani hanno messo in atto una delle più grandi trasformazioni degli ultimi decenni. Abituati ad aumentare, anno dopo anno, i nostri consumi, a rincorrere telefonini, televisori al plasma, viaggi e a riempirci le case di oggetti «assolutamente indispensabili», nei primi cinque mesi di questo 2012 abbiamo riscritto il nostro modo di vivere e di acquistare, non solo in modo più frugale, ma anche in una chiave più intelligente e sorprendente. Siamo diventati «scienziati della spesa»: diminuisce il valore dello scontrino ma nel carrello ci sono sempre lo stesso numero di pezzi. Cambiano i formati, le marche e soprattutto si assiste ad un ritorno a casa: a colazione, a cena, per festeggiare un compleanno e perfino all’ora dell’aperitivo.

Ogni direttore di supermercato, ogni responsabile degli acquisti di una grande catena, ogni proprietario di ristorante e i manager degli autogrill, dei colossi dell’elettronica e della telefonia, ognuno di loro si è trasformato in un sociologo e ha passato il tempo a scrutare dentro le nostre borse della spesa.

Ne ho incontrati molti negli ultimi mesi e ho raccolto lo stupore per una capacità di adattamento molto veloce, che ha recuperato tradizioni e comportamenti che sembravano appartenere ormai soltanto alle memorie familiari.

Perché il cambiamento più interessante da notare non è quello che porta alla rinuncia ma quello che punta sulla trasformazione: il bilancio familiare si fa quadrare non rinunciando alla carne ma cambiando il taglio, non smettendo di mangiare la torta alla domenica ma tornando a farsela nel forno della cucina, non cancellando il rito dell’aperitivo ma trasferendolo a casa.

Si è anche rimodulata la settimana: le rinunce si possono fare dal lunedì al venerdì pomeriggio ma non nel week-end.

I dati di vendita dei supermercati sono una spia perfetta di questa trasformazione: crescono a due cifre gli alcolici, perché l’happy hour si continua a fare con gli amici ma non più al bar; così la colazione la mattina che è tornata prepotentemente in cucina, come ci raccontano il boom dei frollini e delle merendine; e la voglia di pizzeria è in parte soddisfatta dalle pizze surgelate

Se lo scorso anno c’era stata un’impennata dei preparati per le torte e i budini – segno che al dolce nessuno vuole rinunciare, anche se lo si compra di meno in pasticceria – quest’anno a crescere sono addirittura gli ingredienti base: zucchero, farina, uova, cioccolato in polvere e in tavolette. Perfino il pane si ricomincia a fare in proprio, come racconta il successo di un elettrodomestico di nicchia come la macchina del pane.

Ci sono poi le tendenze che determinano la nostra dieta: è noto a tutti un calo della carne rossa in favore di quella bianca, ma le cose sono un po’ più complesse e anche qui parlano di uno spostamento più che di una trasformazione. Si mangia meno la fettina e si comprano più hamburger, si riscoprono tagli meno pregiati che non consideravamo più (la guancia, il collo, la schiena, la spalla, per spezzatini, stracotti e polpette), tanto che, per dirla con Carlin Petrini, «si rimangia tutta la mucca» magari presentata sotto forma di carpaccio. Sugli scaffali sono tornate le ali di pollo che insieme alle cosce stanno surclassando il petto, più costoso e meno richiesto.

A pagare la crisi e il cambio dei menù sono soprattutto il pesce (che cala quasi del 10 per cento), considerato troppo caro, e la frutta. Quest’ultima è vittima del fatto che non viene considerata una portata essenziale del pasto e così la si può tagliare senza avere la sensazione di aver perso qualcosa (diverso naturalmente è il discorso dietetico e di salute).

La verdura invece tiene meglio, perché gli ortaggi fanno parte del pranzo e della cena e anzi possono sostituire una portata: dal contorno spesso vengono promossi a piatto forte. Da notare che un comportamento che sembrava elitario come la riscoperta dei prodotti locali e stagionali ha preso piede in comportamenti di massa, perché è chiaro che ciò che percorre meno chilometri ed è di stagione costa meno.

E la capacità di cucinare, di inventare e di recuperare gli avanzi è tornata ad essere un’arte apprezzata, come ci racconta il fatto che è diminuito il volume della spazzatura e degli scarti di generi alimentari.

Nel fare la spesa gli italiani si stanno spostando sui primi prezzi e sulle “private label”, cioè su quei prodotti che portano il logo delle grandi catene e costano meno dei corrispettivi prodotti di marca. Anche i formati cambiano perché lo scontrino deve calare ma nella busta della spesa ci deve essere lo stesso numero di prodotti, così dopo anni di corsa verso flaconi e confezioni sempre più grandi ora si torna ad acquistare in piccole dimensioni. La spesa si fa con più frequenza, spesso più vicino a casa, e a farne le spese sono le confezioni famiglia. Un’inversione di tendenza che sta spingendo le aziende a ripensare in gran fretta le dimensioni dei contenitori.

Se si cerca di non sprecare, si cerca anche di razionalizzare eliminando quei prodotti di cui non si sente più una necessità impellente, dai deodoranti per l’ambiente ai detersivi di alto prezzo.

Il ritorno a casa significa anche «portato da casa»: basta entrare nell’atrio di un’università tra l’una e le due per notare quanti studenti mangiano panini con la frittata, paste fredde, insalate di riso o di pollo conservate nei contenitori di plastica che sono stati riempiti la mattina presto. Ogni dialetto ha il suo modo di definire la pietanziera, ma quello che gli americani chiamano «lunch box» è davvero tornato di moda, se ne sono accorti anche negli autogrill dove i camionisti entrano sempre più spesso solo per il caffè.

Lo spettro della benzina a due euro ha fatto calare le presenza sulle autostrade, ridotto i tragitti e i fine settimana (ormai da un anno lo notiamo anche guardando ai dati di vendita di questo giornale e notando che lo spostamento di copie e lettori verso il mare e la montagna nel week-end si è ridotto).

La fuga nel fine settimana dalle grandi città, che sembrava un fenomeno inarrestabile negli ultimi due decenni, segna il passo. La crisi ma anche un’offerta sempre più intensa di manifestazioni, festival, corsi e gare sportive hanno cambiato il nostro modo di vivere il tempo libero. Anche in questo caso rimanere a casa non è più vissuto come una rinuncia o un’umiliazione.

La mania per i telefonini e l’elettronica sembra invece continuare a stregare gli italiani: non si cambia più il forno, il frigo, la lavatrice, se non in caso di guasto irreparabile, ma lo smartphone quello sì, continua a vendere nonostante sia ben più caro di un semplice cellulare.

Tra gli elettrodomestici uno solo sta vivendo una stagione felice: l’aspirapolvere robot, capace di alleviare fatiche e sensi di colpa in una botta sola. Accanto sta rispuntando un oggetto di modernariato: la macchina da cucire, segno che la cultura dell’usa e getta ha perso il suo fascino e perché l’Italia di oggi ha bisogno di essere rammendata.

"La condanna delle donne in carriera più brave, ma guadagnano meno", di Concita De Gregorio e Luisa Grion

Qui non si tratta della casalinga di Voghera o della ragazza del Sud che la famiglia costringe a casa dopo la licenza media. Qui si tratta di «upper class», di gioventù ricca e colta, di ragazzi e di ragazze che possono scegliere cosa studiare e dove studiare, che provengono da famiglie ad alto reddito e che sono figli della classe «professionale, dirigente, innovativa» di una città come Milano. La punta avanzata dell´evoluzione sociale, dunque. Eppure anche lì, anche in quel contesto che dovrebbe essere immune dalle disparità di sesso, le donne guadagnano meno degli uomini. Lavorano, non stanno a casa, sono autonome nella vita come nel reddito, ma la loro busta paga è inevitabilmente più leggera di quella del partner, dell´amico o del fratello. Mediamente più leggera del 37 per cento. Anche se a scuola hanno sempre ottenuto i voti migliori, anche se si sono laureate in tempi più stretti, anche se al liceo sono risultate delle autentiche schegge in matematica e fisica. Perché non è vero che le ragazze brillano solo nelle materie letterarie: surclassano i compagni anche in quelle tecniche. Eppure niente ferma la disparità salariale fra maschi e femmine: non c´è reddito, provenienza sociale o territoriale che tenga. Il fatto nuovo è che spesso – dietro ai risultati ottenuti in questi contesti privilegiati – ci sono scelte effettuate dalle donne stesse. E´ quanto indica lo studio «Il gap salariale nella transizione tra scuola e lavoro» pubblicato dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti.
Una lettura che parte da un presupposto finora poco considerato: le donne guadagnano di meno perché al momento della scelta della facoltà, si orientano verso studi umanistico-letterari destinati a condurle verso professioni scarsamente retribuite. E lo fanno di testa loro, nonostante i brillanti risultati scolastici permetterebbero alle ragazze di «volare» anche in indirizzi considerati tipicamente maschili (e legati a professioni più redditizie) come ingegneria, economia o matematica. Una decisione non da poco, visto che l´analisi della Fondazione Debenedetti dimostra che la scelta del percorso universitario spiega per un terzo la differenza di reddito fra uomini e donne.
Lo studio – che sarà presentato nella Conferenza europea «Le diverse dimensioni della discriminazione» in calendario a Trani per il 9 giugno – considera volutamente un campione di laureati molto ben caratterizzato. Sono stati presi in considerazione i ragazzi diplomati in 13 licei classici e scientifici di Milano tra il 1985 e il 2005 che hanno poi proseguito gli studi nelle 5 Università cittadine. Trentamila brillanti giovani provenienti da brillanti famiglie, oggi già inseriti nel mercato del lavoro e immuni dai freni che stanno agendo sull´”ascensore sociale” italiano (quello che fino a poco tempo fa permetteva ai figli di raggiungere condizioni di vita, studio, reddito e lavoro migliori rispetto a quelle dei genitori). Loro sul tetto ci sono già.
Le conclusioni positive dell´indagine, va detto, sono almeno due: il sesso non pesa in termini di occupazione perché la differenza fra maschi occupati e donne occupate non va oltre il 7 per cento. Né le donne decidono come proseguire gli studi in base alle prospettive di un futuro matrimonio «ricco». Si potrebbe presumere – considera il rapporto – che gli uomini più spinti alla carriera e all´inseguimento di un alto reddito, pensino sia meglio sposare una donna che, avendo scelto studi umanistici, sia più propensa a professioni meno competitive e meno pagate e più interessata alla gestione della famiglia. Ma, almeno fra i ragazzi e le ragazze della Milano «bene», guardando ai numeri, ciò non sembra avvenire.
Ciò che avviene, invece, è che con costanza sorprendente le donne rifuggono dalle facoltà legate a lavori a più alto reddito. Lo studio le indica con chiarezza: medicina, ingegneria, economia, matematica. Medicina a parte (dove le quote femminili e maschili si eguagliano) le facoltà più «redditizie» sono state scelte dal 65 per cento dei ragazzi del campione e da solo il 20 per cento delle ragazze. Gli indirizzi legati alle professioni peggio remunerate (Scienze dell´educazione, Scienze umanistiche, Architettura e design) sono stati invece scelti dal 35 per cento delle femmine e dal 10 per cento dei maschi.
Cosa c´è dietro queste decisioni? Lo studio individua due possibili motivazioni, anche se difficilmente misurabili perché legate a caratteristiche individuali. Le donne sono meno competitive dei maschi (il livello di competitività è stimato tenendo conto della propensione ad esercitare attività sportive), sono – in genere – più attente al prossimo (attitudine rilevata in base alla partecipazione ad attività di volontariato) e comunque scarsamente votate alla ricerca di un lavoro a tutti i costi ben pagato. Pesa il ruolo che si sentono in dovere di coprire nella famiglia e quindi – ancora una volta – pesa la mancanza di infrastrutture e welfare che permettano alle donne di dedicarsi al lavoro senza preoccuparsi dei bambini e degli anziani. Pesa, probabilmente, anche un gap di autostima.
Comunque sia – precisano gli autori del rapporto – colpisce come il «gap salariale fra uomini e donne persista persino in un gruppo socio-economico relativamente benestante e istruito come quello dei licei milanesi». Se è così in quell´ambiente protetto, figuriamoci nel resto del Paese. Lì il problema sta a monte: le donne che lavorano sono ancora troppo poche e gli ultimi dati sulla disoccupazione femminile rilevati dall´Istat fanno capire che le nuove generazioni sono più penalizzate delle vecchie (al Sud è disoccupato quasi il 52 per cento delle ragazze fra i 15 e i 24 anni). Quando poi lavorano le donne italiane, a parità di ruolo e di orario guadagnano mediamente il 16,4 per cento in meno rispetto ai colleghi maschi.
Ora gli allarmi s´inseguono e s´inseguono anche le promesse: nell´ultima relazione annuale la Banca d´Italia ha ribadito che la ripresa del Paese deve necessariamente passare attraverso la soluzione della questione femminile. E il governo Monti, pochi giorni fa, si è impegnato a far sì che entro il 2016 non esista più, a parità di ruolo, alcuna disparità di stipendio.

La Repubblica 04.06.12

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È IL MOMENTO DI ALZARE LA VOCE

Che le donne siano più brave, negli studi e nei luoghi di lavoro, è una nozione elementare di cui chiunque fa quotidiana esperienza; non tutte le donne, naturalmente, ché non basta essere donna. In quanto persone – difatti – anche le donne possono come gli uomini essere avide, sciocche, interessate, servili. Però quelle brave sono più brave. A scuola, per esempio. Dice la ricerca che “ottengono mediamente risultati migliori”, nel senso che si laureano in maggior numero, con voti più alti e in meno tempo. Parliamo della “fascia alta” della società: il campione esamina diplomate nei licei e laureate nelle scuole e negli atenei di Milano. In tre mesi di meno, in media, le ragazze si laureano più numerose e con voti più alti. Poi vanno a lavorare, e guadagnano il 37 per cento in meno. Non un po´ di meno: un terzo abbondante. Anche a livelli dirigenziali gli amministratori delegati (non tutti, ma molti) si sentono in tranquillo e condiviso diritto di proporre alle donne contratti spacciati come standard che sono in verità di molto al di sotto, come reddito e garanzie, di quelli che propongono agli uomini. La domanda dunque è: perché le donne li accettano? Perché a quel livello – il livello delle competenze alte, delle eccellenze – non funziona il ricatto al ribasso, quello per cui un ricercatore precario è costretto ad accettare 400 euro al mese perché se no c´è fuori una fila lunga così di aspiranti. Quindi: perché le donne non negoziano, non fanno rete, non denunciano? Perché non sono competitive, dice la ricerca che prende a parametri le attività sportive e il volontariato: le donne in esame fanno meno sport agonistico degli uomini e molta più attività sociale non remunerata. Non sono interessate alla gara, fanno per gli altri. Anche in questo c´è un fondo di verità, soprattutto nella seconda parte. Sono competitive, certo che lo sono, ma hanno di più a cuore il bene degli altri. In generale, per l´esperienza che ne ho, considerano il potere un luogo di responsabilità e di fatica e non un privilegio. Sono in questo fastidiosissime, essendo la loro presenza la misura esatta dell´altrui deficienza: sul fronte del bene comune, del progetto condiviso, della passione civile. È molto chiaro, dunque, perché vengono – come si dice in quel linguaggio – disincentivate. Perché fanno ombra, smascherano il sistema autoimmune delle caste. Ed è anche chiaro perché fino ad oggi hanno piegato la testa alle peggiori condizioni: era l´unico modo per starci. Ora però, credo, è venuto il tempo di dire le cose come stanno: è maturo il momento. Per le eccellenze degli atenei di Milano e per i milioni di donne nei call center e nelle catene di montaggio, per le astrofisiche e le hostess ai convegni. Il riscatto, come sempre, arriverà dal rifiuto di sottostare al ricatto. Nessuno regalerà niente, bisogna pretendere. Se il momento è difficile pazienza, anzi meglio. E nei momenti difficili che le cose cambiano per tutti. Non è detto che sia in peggio, la battaglia può chiamare a raccolta forze imprevedibili. La storia insegna. L´ora di alzare la voce è adesso, insieme agli altri: perché il futuro è già qui, è solo molto mal distribuito.

La Repubblica 04.06.12

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Susanna Camusso, leader Cgil: la contrattazione si è focalizzata solo sulla difesa dei posti di lavoro. “Noi donne siamo cambiate non è più tempo di pregiudizi”, di L. GR.

Sarebbe il momento di creare infrastrutture ed asili per consentire alle donne di lavorare con più facilità. Il congedo obbligatorio dei padri? Non tutti apprezzano in tempi di crisi

È vero, mancano i soldi, ma ancor di più manca il coraggio. La crisi non aiuta la parità femminile, eppure per Susanna Camusso, leader della Cgil, le donne sono cambiate e stanno già cambiando il Paese. Ora però bisogna eliminare i pregiudizi, proporre una nuova idea della famiglia e del lavoro e – soprattutto – ammettere che il problema esiste.
Su questo punto ci siamo, ormai lo dicono tutti: senza il lavoro delle donne il Paese non cresce.
«È un passo avanti. D´altra parte non è novità: sono anni che studi di natura diversa fanno notare come il lavoro femminile spinga la crescita e come le donne abbiano maggiori capacità scolastiche e migliori capacità direttive. Peccato che poi a tali dati non corrispondano scelte e fatti».
Quanto conta la crisi e il fatto che ora il lavoro non c´è né per le donne, né per gli uomini?
«Molto, ma abbiamo bisogno di un salto di mentalità che si può fare e che va fatto. Le recenti scelte del governo in tema di lavoro dimostrano che ciò non è avvenuto».
Il governo Monti, su questo fronte, si è dimostrato uguale a quello Berlusconi?
«No, il salto positivo è evidente: fino a pochi mesi fa avevamo ancora il problema di riconquistare la dignità di essere donne e non oggetti. Non posso dimenticare quel periodo e non posso scordare come i messaggi allora lanciati abbiano influenzato la ripresa delle violenze contro le donne. Sotto questo punto di vista il cambiamento è stato enorme, ma ciò che ora colpisce è la mancanza di coraggio e di innovazione».
Dove sta sbagliando il governo Monti?
«Nel sostenere una politica fintamente egualitaria che, se applicata a soggetti colpiti da diseguaglianza non può che aumentare la diseguaglianza stessa. Non vedere le differenze e non tenerne conto è pura demagogia: penso agli interventi sull´età pensionabile e alla disparità di trattamento, in tema di tutela della maternità, fra chi ha un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e chi è un co.co.pro . Penso anche che quando si parla di sostegno al reddito si dibatte di quoziente familiare più che di necessità di creare asili e infrastrutture che facilitino il lavoro delle donne».
Eppure il ministro Fornero ha introdotto il congedo parentale obbligatorio per i padri.
«Parliamo di due giorni più uno: sembra un´operazione fatta più che altro per fregiarsi di un titolo e lanciata in un periodo in cui, vista la crisi e visto che i padri sono quelli che nella coppia guadagnano di più, la sensibilità generale potrebbe non apprezzare. Ma congedi a parte, le occasioni mancate della riforma del lavoro sono almeno due».
Quali?
«È stata innalzata la contribuzione dei co.co.pro e delle partite Iva allo stesso livello del lavoro a tempo indeterminato, ma poi le tutele della maternità sono rimaste più basse. Su questo punto la riforma Fornero non è proprio intervenuta. Sull´altro punto è invece intervenuta, ma in modo caotico: mi riferisco alla illegittimità delle dimissioni in bianco. Il divieto e il messaggio lanciato non sono chiari, il marchingegno previsto per la tutela è molto complicato».
E il sindacato sta facendo la sua parte? Domani e dopodomani la Cgil organizza l´assemblea delle donne dopo quasi tre anni di assenza.
«La crisi non aiuta l´evoluzione, spinge verso meccanismi difensivi. In questi ultimi anni la contrattazione è stata focalizzata sulla difesa dei posti di lavoro e ha trascurato la questione femminile. Però le donne sono cambiate e limiti e pregiudizi si possono superare».
Ma non hanno anche loro precise responsabilità? Uno studio della Fondazione Debenedetti sostiene che continuano a scegliere le facoltà che garantiscono lavori a basso reddito.
«Tratterei il caso con molta attenzione. Il punto centrale del problema resta l´esistenza del pregiudizio: potendo scegliere fra due ingegneri l´azienda sceglie il maschio perché non va in maternità e perché pensa che i figli costituiscano un problema».

La Repubblica 04.06.12

"La “riforma del merito” in una scuola che non riesce a incidere sulle disparità sociali", di Rosario Amato

La “riforma del merito” in una scuola che non riesce a incidere sulle disparità sociali. La sensazione, leggendo il progetto di riforma della scuola, è che chi l’ha messo a punto non abbia le idee chiarissime su come funzionano la scuola e l’università. Per esempio la norma secondo la quale ogni istituto superiore dovrà scegliere lo studente dell’anno in base al voto dell’università e alla media degli ultimi tre anni, che avrà in premio uno sconto del 30% delle tasse del primo anno d’università, risulta abbastanza inutile in un sistema universitario che, di solito, esonera gli studenti che hanno preso 100 o 100 e lode alla maturità dal pagamento delle tasse del primo anno. E spesso fornisce agli stessi studenti una borsa di studio. Certo, dipende da università a università. La norma di legge varrebbe invece su tutto il territorio dello Stato. Ma solo per uno studente a scuola, un numero di gran lunga inferiore rispetto a quello degli studenti che attualmente beneficiano dell’esonero garantito dalle varie università.

Altra obiezione che si potrebbe fare (più consona allo stile di questo blog, che si chiama percentualmente) è: c’è una logica nel reperire a fatica i fondi per una riforma non condivisa a fronte di un sistema scolastico gravemente depauperato e sostenuto in misura sempre più consistente dai genitori? Secondo un’indagine pubblicata all’interno del 44° Rapporto del Censis, il 53,1% delle scuole italiane chiede un contributo “volontario” ai genitori, che contribuiscono massicciamente (82,7%). Il contributo serve per “acquistare materiali didattici”, migliorare le dotazioni informatiche, le palestre, persino, nel 43,1% dei casi, per fornire “supporto economico agli studenti più indigenti per assicurare la loro partecipazione alle attività didattico formative”.

Quest’ultima motivazione, certo, rende perplessi. Ma non dovrebbe essere compito dello Stato supportare gli studenti indigenti per permettere loro di partecipare alle attività didattico-formative? Lasciamo stare il fatto che a troppi genitori venga chiesto di comprare la carta igienica per la scuola. Ma il supporto agli studenti indigenti non è tra i compiti della scuola, non è una delle migliori applicazioni del secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, quello che dice che la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli che impediscono l’effettiva eguaglianze tra i cittadini? Per inciso, ormai sono tanti anche i genitori che danno la tinta alle pareti. Per il Censis i genitori-operai danno il loro contributo nel 13,6% delle scuole italiane. Ci sono anche i genitori che lavano le tende, e quelli che riparano le sedie, i tavoli e gli armadi.

Infine, è giustissimo valorizzare il merito (per l’appunto, le università lo hanno sempre fatto, con l’esonero delle tasse e le borse di studio, e anche i presidi hanno cercato di fare del loro meglio, fondi permettendo), ma in un Paese come l’Italia, il Paese delle disuguaglianze, il Paese con l’ascensore sociale più bloccato d’Europa, forse la scuola dovrebbe aiutare tutti i ragazzi economicamente svantaggiati (non solo il primo della classe) a emergere, a inserirsi in una società che fa di tutto per tenerli “al loro posto”, ben fermi all’interno della classe sociale alla quale appartengono, senza poter fare neanche un passetto in avanti. Circostanza ampiamente analizzata dall’ultimo Rapporto Istat: in Italia appena il 20,3% dei figli degli operai è arrivato all’università, contro il 61,9% dei figli delle classi agiate, della generazione nata negli anni ‘80. Il 30% dei figli degli operai abbandona le scuole superiori contro appena il 6,7% dei figli di dirigenti, imprenditori, liberi professionisti. Negli altri Paesi non funziona così, anche perché in Italia la dispersione scolastica è molto più alta chee altrove, prova ne è questo grafico dell’Ocse:

tabella

Dietro di noi ci sono pochissimi Paesi: Islanda, Spagna, Portogallo, Messico e Turchia. La stessa Ocse all’inizio di quest’anno ha pubblicato uno studio dal quale emerge che “coloro che hanno la maggiore probabilità di andare male a scuola o di abbandonarla senza diplomarsi molto spesso vengono da famiglie povere o di immigrati”. Da qui l’invito a dotare le scuole di finanziamenti ad hoc per aiutarle a inserire gli studenti di famiglie povere. Suggerimento al momento ignorato.

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